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giovedì 9 novembre 2023

Aumentano i distaccamenti partigiani imperiesi ad aprile 1944

 

Il torrente Arroscia nei pressi di Ranzo (IM). Fonte: Wikipedia

Il distaccamento imperiese - comandante TITO (Rizzo Renato) [Rinaldo Rizzo, detto Tito] commissario GIULIO (Libero Briganti) - aveva dovuto impegnarsi in una lunga marcia forzata dalla Casa Rosa, sopra Diano Roncagli nel comune di Diano S. Pietro, dove era dislocato, sino a Caprauna (in provincia di Cuneo) per raccogliere un lancio che - secondo le notizie pervenute - gli Alleati avrebbero dovuto effettuare nei giorni dal 4 al 6 aprile [1944].
Il reparto <1 non giunse nel tempo prestabilito e si trovò ad affrontare la via del ritorno senza alcuna scorta di viveri e senza possibilità di rifornimenti <2; ciò rese particolarmente dura la marcia sino a Guardiabella (a occidente del Colle di S. Bartolomeo), da dove una pattuglia guidata da MIRKO (Angelo Setti) scese al comune di Aurigo e nella frazione di Poggialto alla ricerca di aiuti.
L'assistenza generosa di quelle popolazioni aiutò la piccola formazione a rimettersi in sesto; successivamente furono anche compiute azioni particolarmente rischiose allo scopo di prelevare vettovaglie in territorio presidiato dalle truppe germaniche, <3 ma l'esperienza aveva ormai confermato che anche il problema dei rifornimenti doveva avere una sua più organica soluzione.
Tanto più che - in meno di 20 giorni - vi fu un notevole afflusso di volontari, tale da trasformare in altrettanti distaccamenti (con circa 30 effettivi ciascuno) le tre squadre di cui inizialmente era composto il reparto.
Ai primi di maggio - comandati da CURTO [Nino Siccardi] e e dal commissario GIULIO - i distaccamenti avevano assunto le seguenti posizioni <4:
1°) comandante Tito, commissario Boris (Gustavo Berio) - dislocato presso i Tecci di Parodi sopra Pontedassio;
2°) comandante Ivan, commissario Dimitri (Bruno Nello) - dislocato al Passo della Mezzaluna;
3°) comandante Cion [Silvio Bonfante], commissario Federico (Federico Sibilla) - dislocato nel bosco di Rezzo.
Metodo piuttosto efficace ci sembra quello seguito dal comando partigiano imperiese - in modo abbastanza frequente in questo periodo - di designare per le azioni di guerra più importanti uomini scelti in egual numero da tutti e 3 i distaccamenti; tale criterio venne adottato - ad esempio - nell'attacco effettuato al posto di blocco del ponte di Ranzo; in questa occasione 6 partigiani (scelti 2 per distaccamento) volsero in fuga il presidio nemico - uccidendo un soldato germanico e catturando due G.N.R. - e si impossessarono di 2 mitragliatori, di due fucili tedeschi e di molte munizioni.
Si può anche rilevare in proposito - considerando l'armamento messo a disposizione del gruppo attaccante (su 6 effettivi, 4 fucili mitragliatori e 2 mitra) - che molto opportunamente il comando partigiano non aveva esitato ad affidare agli uomini prescelti per l'azione quasi tutte (molto probabilmente tutte, date le condizioni di allora) le armi automatiche in possesso della formazione, pur di ottenere un gruppo che unisse alla particolare agilità numerica una grande potenza di fuoco <5.
Nello stesso periodo si ebbe un ulteriore spostamento dello schieramento partigiano; il distaccamento di Tito venne stanziato a Bosco Nero, quello di Cion a Tecci di Parodi e quello di Ivan a Piani di Corte, nel comune di Triora.
Un nuovo distaccamento - anch'esso forte di circa 30 effettivi - venne costituito nella prima metà di maggio e dislocato, al comando di Mirko, in regione Castagna presso Bregalla, una località di particolare importanza strategica attraverso la quale il dispositivo partigiano della zona a levante di Imperia venne ad essere direttamente collegato con quello della zona a ponente, tramite un gruppo formatosi ai primi di marzo e comandato da MARCO (Candido Queirolo) e da TENTO.
Sempre a metà di maggio vi fu l'inquadramento definitivo del distaccamento operante nella zona di Cima Marta agli ordini di IVANO (Vittorio Guglielmo), commissario ERVEN (Mario Luppi) [invero Bruno Luppi]; questo reparto disponeva di circa 40 effettivi <6.
Anche nell'imperiese si era venuta intanto sviluppando l'azione intimidatoria delle Autorità fasciste e germaniche a seguito del bando Mussolini; dal primo al 20 maggio gli aerei avevano sorvolato le campagne lasciandovi cadere a migliaia i volantini dell'ULTIMA OCCASIONE:
"Coloro che all'Italia hanno offerto gli anni più belli della giovinezza per compiere il loro dovere di soldati e che oggi, fuorviati da una malvagia propaganda, rinnegano il loro valoroso passato di combattenti per rimanere tra le bande dei ribelli dove altro non sono che strumenti di ignobili sfruttatori che giocano sulla loro vita per guadagnarsi lo sporco denaro con cui il nemico paga i traditori, ricordino che la Patria li ha chiamati ancora a sé pronta a perdonare il loro traviamento e ad aiutarli a ritrovare la via del dovere e dell'onore.
Per volere del Duce, il Governo della Repubblica ha stabilito che chi si presenterà spontaneamente entro il 25 maggio p.v. andrà esente da qualsiasi pena e procedimento penale. È L'ULTIMA OCCASIONE. Non deve essere perduta. Dopo, per chi sarà rimasto sordo a quest'ultimo appello avverrà l'inesorabile.
Presentatevi al più presto a qualsiasi autorità civile o militare più vicina".
[NOTE]
1 Suddiviso in tre squadre: la prima comandata da IVAN (Giacomo Sibilla), la seconda da CION (Silvio Bonfante), la terza da MIRKO (Angelo Setti), per un totale di circa 30 effettivi. (Documentazione Biga).
2 Alcune testimonianze attribuiscono la perdita del lancio ad un non precisato sabotaggio.
3  La sera del 10 aprile, ad esempio, una decina di partigiani - tra i quali Cion, Mirko, Mancen (Massimo Gismondi), Carlo Siciliano - scesero, guidati da Curto, dal Colle di S. Bartolomeo sino alla prossimità di Pontedassio, celati sotto il tendone di un camion al volante del quale stava il partigiano Zò. Da lì, mentre il camion con a bordo il solo Curto compiva il percorso di fondovalle, essi raggiunsero Borgo d'Oneglia, passando per la collina, sino ad un deposito di viveri accaparrati da un grosso incettatore collaborazionista. Nella notte il camion veniva caricato dei viveri sequestrati e ripartì per la zona partigiana - con gli uomini armati occultati sotto il tendone - attraversando in pieno giorno i blocchi germanici e fascisti (ai quali Curto esibì dei falsi documenti tedeschi) posti sulla statale n. 28 di Pontedassio, Chiusavecchia, Ponte dei Grassi, Tesio, fino al Bosco di Rezzo. (Documentazione Biga).
4 Cfr. volume I° pag. 181
5 Invero l'armamento del piccolo reparto, potenziato dal considerevole bottino, impressionò favorevolmente alcuni ufficiali delle formazioni Mauri - incontrati sulla via di ritorno - i quali inutilmente proposero ai sei di entrare a far parte del nascente schieramento "Autonomi".
6 Ci viene segnalato - tra le prime azioni di questo distaccamento - il disarmo compiuto da un solo partigiano (FOLGORE) di una postazione della R.S.I. a Santa Brigida (Andagna) e la cattura di 10 soldati di presidio. (Doc. Biga, testimonianza di Angelo Setti).

Giorgio Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria - Volume II, Istituto Storico della Resistenza in Liguria, 1969, pp. 237-240

La popolazione tutta, specie quella dei paesi non sulla costa, è loro [ai partigiani] favorevole, li ospita, li nasconde e li rifornisce, nonostante che in parecchi casi si siano impossessati di bestiame e di derrate alimentari.   
La loro attività è sempre quella di scendere dai monti nei paesi, rifornirsi di viveri e tabacco, incitare i renitenti a non presentarsi e a cercare di impossessarsi di armi e munizioni assalendo caserme dei distaccamenti della G.N.R. (carabinieri), nonchè di molestare persone ritenute simpatizzanti per il Regime Fascista Repubblicano.   
A volte hanno prelevato ostaggi, fra cui qualche sottufficiale dei carabinieri, che sono stati poi rilasciati.   
Le località della Provincia più battute sono quelle confinanti con la provincia di Cuneo, in quanto tali bande si spostano dall'una all'altra provincia. Campi di azione delle bande di ribelli sono più frequentemente la vallata di Cervo, Diano Arentino, Diano Marina, Diano Roncagli, Chiusavecchia, Bestagno, Molini di Triora, Nava e Case di Nava.
Ermanno Durante, Questore di Imperia, Relazione quindicinale sulla situazione..., 16 aprile 1944, Documento in Archivio Centrale dello Stato - Roma

In questi giorni, per ben due volte, nell'abitato di Diano Marina sono stati sparati da ribelli colpi di pistola contro ufficiali dell'esercito repubblicano in divisa, che transitavano isolatamente in bicicletta, senza conseguenze.  Il reparto antiribelli della Questura di Imperia frequentemente si porta nelle località ove viene segnalata la presenza di ribelli, che sistematicamente riescono a sfuggire alle ricerche. In tali operazioni viene però proceduto al fermo di renitenti, disertori e sfaccendati, i quali ultimi vengono proposti per il lavoro in Germania.
Non infrequentemente si addiviene ad uno scontro di colpi di arma da fuoco.   
E' stata sottoposta, con provvedimento dell'apposita commissione, all'ammonizione, per un biennio, una suora del locale Istituto Nostra Signora della Misericordia, la quale, sull'insegnamento che impartiva ai bambini ed alle bambine, teneva contegno niente affatto consono al momento attuale e nettamente contrario all'opera ricostruttiva del Governo Fascista Repubblicano e del suo Capo. Difatti, detta suora, fra l'altro, nella lettura del libro di testo, faceva saltare tutte le pagine riferentisi al Duce ed al Fascismo, proibiva ai bambini di portare emblemi fascisti e di salutare romanamente.
Ermanno Durante, Questore di Imperia, Relazione settimanale sulla situazione..., 24 aprile 1944, N. di Prot. 01384, Documento in Archivio Centrale dello Stato - Roma 

martedì 9 maggio 2023

Sono ore che cammino in zona ribelle e non un partigiano, non un volto conosciuto

Dintorni di Ubaga, Frazione di Borghetto d'Arroscia (IM): Foto: gabrycaparezza su Gulliver

Nel pomeriggio del 4 marzo [1945] il Comando divisione [Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] da Poggiobottaro invia a Gazzo una lettera a Ramon [Raymond Rosso], il Capo di Stato Maggiore. La via normale delle staffette di Ginestro non è seguita: il messaggio è urgente e segreto. La lettera la porto io che, venendo dalla valle di Cervo, mi ero fermato a pranzare a Poggiobottaro.
Lasciato il Comando mi inerpico fino alla cresta dove so di trovare un sentiero di boscaioli che, attraverso rovi e castani, scende in Val Lerrone. Tra le bande della I Brigata in Val d'Andora e quelle delle altre brigate in Val d'Arroscia c'è da tempo la terra di nessuno: i tedeschi battono in Val Lerrone e da Cesio o Garlenda possono per Casanova e Degna spingersi fino a Poggiobottaro senza che un colpo di fucile dia l'allarme. Questo mi è noto e, per quanto posso, evito carrozzabili e mulattiere seguendo dei sentieri che spero siano ignorati dal nemico. Raggiunta la cresta vedo durante la discesa davanti a me la carrozzabile Casanova-Vellego che spicca sull'altro versante tra gli ulivi. E' deserta perché anche i contadini evitano di servirsene da quando è battuta dalla pattuglia tedesca in bicicletta. Era passata la prima volta il 22 febbraio rapida ed improvvisa e da allora la minaccia si è mantenuta costante.
Raggiunto il fondovalle perdo il controllo della carrozzabile, prendo una mulattiera che sale ripida tra gli ulivi e mi conduce fino a Degna. In paese raggiungo la carrozzabile, la seguo per un tratto tenendomi al margine, pronto a gettarmi tra gli alberi, poi trovo un ripido sentiero e salgo verso la cresta. Ora devo procedere per istinto perché di solito i partigiani, ed anch'io, seguivamo la mulattiera ad oriente di Degna. Oggi invece debbo cambiare strada se voglio arrivare a Gazzo prima di notte. Il sentiero sfiora il Santuario della Madonna di Degna. E' domenica ed una campana chiama i fedeli a raccolta. Tra gli alberi sento le voci dei giovani sulla piazzetta davanti alla chiesa. E' qui che in settembre avvenne lo scontro con i San Marco che costò la vita di sette dei nostri. Do un'occhiata al famoso santuario? E' il pensiero di un istante, poi ricordo che non devo né indugiare, né farmi notare. Ancora su, più lento, col fiato più corto. Il sentiero si perde, ma gli alberi sono radi ed il resto è a prato, posso camminare egualmente. Raggiungo la nuova cresta: di là è la Val d'Arroscia, provo un senso di calore, di conforto: è zona partigiana. Decido di passare tra Ubaga ed Ubaghetta; non so se vi sia sentiero, ma è la via più breve. Devo raggiungere la strada Ubaga-Borghetto. Scendo a caso tra i castani per dieci, venti minuti, poi cominciano i rovi. Ecco un pastore, gli chiedo se vi sia il sentiero che mi aveva promesso la carta topografica: «No, il sentiero non c'è più. Una volta c'era ma è tanto che non ci passa più nessuno, ora è invaso dai rovi. Bisogna scendere fino ad Ubaghetta». L'uomo mi indica la direzione col bastone, dà ancora qualche consiglio, lo ringrazio e poi giù verso il paese.
Il sentiero invaso dai rovi... quanti sono in Liguria i sentieri, le mulattiere segnati sulle carte che abbiamo trovato ormai impraticabili? Quanti i ruderi di cascine, di frantoi, di case nei paesi crollati ormai per l'abbandono e lo spopolamento? «La strada da Ubaghetta a Degna l'avete resa praticabile voi passandoci con i muli». Ci dicevano i contadini ed infatti molti sentieri e mulattiere erano battuti solo dai partigiani.
Con qualche fatica raggiungo Ubaghetta, e avessi saputo prima che dovevo passarvi avrei fatto più presto a tenere la strada consueta. Ci dovrebbero essere tre dell'intendenza, ma rinuncio a cercarli: so che in tutto il paese nessuno li avrà visti, nessuno ne saprà niente perché i contadini non si fidano più né di partigiani né di borghesi temendo in ogni volto non conosciuto un nemico.
Ecco dov'era l'intendenza: tre muri anneriti ed un cumulo di cenere. Fortuna che i sacchi di riso e di pasta erano al sicuro presso famiglie amiche. Ecco la casa dove si erano appostati i Cacciatori degli Appennini per tendere l'agguato a Pantera che scendeva verso il paese coi fuggiaschi del Garbagnati dopo lo scontro di Ginestro. Ecco il cimitero dove è seppellito Miscioscia, caduto a poca distanza nell'ultimo rastrellamento.
«Quando la guerra sarà finita metterò su una sartoria». Mi aveva detto una sera ad Ubaga quando venivamo dal Piemonte. «Conosco il mestiere discretamente, potrò prendere dei lavoranti. Se uno ci sa fare può guadagnar bene e far conoscenze nei migliori ambienti».
Aveva avuto i piedi congelati nella guerra di Grecia, ciò nonostante era venuto con noi. Era di carattere buono e disciplinato e tutti gli volevamo bene. Di lui mi rimangono un paio di copriguanti per neve ed un passamontagna che mi aveva fatto a Fontane.
Pensai a lui, a Redeval [Germano Cardoletti, Redaval], ferito e fucilato a Borghetto, a Tom ed a Boriello trascinati chissà dove. Saranno ancora vivi?
Da Ubaghetta scendo in fondo ad un vallone, risalgo oltre un torrente e l'opposto versante. Per orti ed ulivi raggiungo Ubaga. Un sentiero da Ubaghetta mi avrebbe potuto condurre direttamente a Merlo sulla carrozzabile tra Ranzo e Borghetto, ma ho preferito allungare il percorso piuttosto che camminare per quel tratto di stradone che, con rocce a picco sui due lati, è particolarmente pericoloso.
Ubaga: qui in agosto era la banda di Pantera [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione Bonfante] quando noi con la Matteotti eravamo a Montecalvo. Quanto siamo cambiati da allora.
Ubaga è libera: un gruppo di giovani sulla piazza del paese guarda il partigiano che passa. Cosa penseranno? Li guardo negli occhi ma non intuisco niente.
Ecco la carrozzabile che abbiamo fatto in novembre col Comando: fino a Borghetto è sempre discesa. Uno snello ponte di pietra mi porta al di là dell'Arroscia sullo stradone presso Borghetto. In pochi minuti sono sulla carrozzabile che mi porterà a Gazzo, la mia mèta. Ma come troverò Ramon? Sono ore che cammino in zona ribelle e non un partigiano, non un volto conosciuto. Ecco finalmente due dell'intendenza: Germano e Terribile. Una sosta di qualche minuto e poi li convinco a salire con me: la strada sarà più lieve in compagnia. I due intendenti hanno enormi pistole a tamburo: la Glisenti dei carabinieri. «Per questa è morto Tito in dicembre», mi dice Germano. Infatti, un partigiano di nome Tito era stato arrestato da noi sotto accusa di tradimento e, prima del processo, era stato ucciso da Germano mentre cercava di fuggire.
«Peccato che invece Carletto e Bol!».
«Già... di Bol non ne sappiamo più niente... Carletto invece è ad Albenga... Abbiamo incaricato quei del S.I.M. e le S.A.P. di fargli la pelle, ma sarà difficile».
Carletto verrà ucciso più tardi dal comandante della Brigata Nera di Albenga al quale aveva insidiato la fidanzata, tale almeno sarà la versione sulla sua fine che si diffonderà fra noi». (*)
«Ed ora dove dormite?». Era la domanda tradizionale che rivolgevamo ai compagni al tramonto del sole sperando di avere ospitalità od indicazione di un rifugio sicuro.
«Così... Ci si arrangia... In un fienile fin verso le tre, poi svegli. Di giorno poi pisoliano qua e là dove ci capita, in due od in tre mentre uno monta la guardia... Siculo invece sta per conto suo e dorme in un albero vuoto. Vi rimase quasi tutto il tempo del rastrellamento. Si cala da un buco tra i rami, dice che ha imparato a dormire in piedi». Poi racconti di rastrellamenti e puntate narrati così, alla buona, cercando in tutto il lato allegro.
«Sì, in dicembre eravamo rimasti a Fontane con l'Intendenza... Il rastrellamento? Ho assistito solo alla prima parte e ne ho avuto abbastanza... Come ne siamo usciti? Fortuna... Camminando e dormendo nella neve senza mangiare. E' il colmo per un intendente che maneggia quintali di viveri aver fame! Eppur mi è capitato! E che letto soffice la neve fresca! Quando hai camminato e sei caldo non senti il freddo e puoi dormire perfino mezz'ora. Poi salti per tre quarti d'ora e quando sei di nuovo ben caldo fai un altro riposino... Ramon? E' a Gazzo, ma nessuno sa di preciso dove. Quando i tedeschi hanno preso il russo dell'intendenza si sono fatti condurre in paese ed hanno rovistato tutto senza trovarlo. Pareva un buon ragazzo il russo ed invece ci ha tradito. Credo che lo abbiano costretto. Assieme a lui hanno preso Alpino, dicono che lo abbiano fucilato... Sì, è successo l'altro giorno ad Alto... Quanti erano? Nessuno è stato a contarli. Certo erano parecchie centinaia e venivano da tutte le parti».
Arriviamo a Gazzo. E' ormai buio, gli intendenti mi portano dalla maestra: « E' in contatto con Ramon... E' l'unico mezzo di avvisarlo che sei qui».
Alttendono un po' con me, poi se ne vanno. La maestra era già uscita, appena aveva saputo chi cercavo. Rimango solo nella piccola cucina accanto alla stufa a guardar la fiamma, unico punto luminoso nella penombra.
La porta si apre, mi volto di scatto: è Ramon. «Tieni, c'è una lettera del Comando».
Ramon apre la busta, legge rapidamente. Lo guardo attentamente: il suo volto non rivela nessuna emozione. Chissà cosa c'è scritto in questa lettera così importante! Non è da lui che lo saprò. Avevo sempre ammirato il Capo di Stato Maggiore della Bonfante, Rossi Raymond, alias Ramon, cittadino svizzero. Il partigiano inafferrabile, la cui vita era misteriosa, il cui rifugio era ignoto ad amici e nemici. Cercato dai tedeschi, sfuggito al tradimento di Carletto e del russo, unico capobanda apolitico della Bonfante, riusciva a vivere autonomo e libero da ogni legge, avvertito di ogni mossa del nemico da informatori personali. Troppo forte ed abile per essere umiliato, pur privato della banda che aveva creato e potenziato, come Capo di Stato Maggiore faceva sentire l'influenza delle sue idee e dei suoi metodi sulle bande della II e della III Brigata.
ln ogni paese, in ogni vallata i simboli del passato regime e le lapidi a ricordo delle sanzioni erano scomparsi sotto la furia antifascista di Ramon. I ponti in tutta la Val d'Arroscia erano stati del pari distrutti per opera sua che poi, con tenacia costante, aveva frustrato ogni tentativo nemico di riattare la strada. Ecco Ramon: un completo grigio con giacca e calzoni, un panciotto di lana bianca grezza, un cappello da città. E' difficile ricordare in lui il capo della banda dell'Alluminio che, in giacca di telo da tenda e pantaloni tedeschi, interrogava a Piaggia i prigionieri tedeschi dopo aver fatto saltare il ponte di Borghetto alle spalle del nemico impegnato a Vessalico.
Pure questo distinto signore è ancora il terrore della Val d'Arroscia e di Albenga; alla sua scuola si sono formati Cimitero, Meazza e molti dei migliori uomini della Bonfante. Dalla primavera scorsa molti partigiani di Martinengo che, dopo l'incorporazione tra i partigiani di parte del presidio fascista dei Forti di Nava, non vollero vivere a fianco di simili compagni, erano passati con Ramon che, senza avere i rossi ideali del Cion [Silvio Bonfante], attaccava i tedeschi con fortuna ed audacia.
Ramon ha letto: «Hai cenato?» mi chiede. «No». «Allora vieni». Se spero di conoscere qualcosa della vita di Ramon sono presto deluso. Vengo condotto alla trattoria, quella stessa dove sostai col Comando al ritorno dal Piemonte.
«Segnate sul mio conto il pranzo di questo partigiano». Subito dopo mi conduce in una strada, scosta lo strame di fondo, apre una botola: «Qui potrai dormire questa notte... La famiglia di fronte ti darà una coperta». Ramon mi saluta e scompare, io torno in trattoria a cenare: uova e patate fritte.
La lettera che avevo portato quella sera conteneva a grandi linee i piani dell'operazione L. 1 che veniva affidata in gran parte a Ramon. Il primo lancio alleato di rifornimenti per la Divisione Bonfante veniva denominato L. 1. Sarebbe avvenuto in Val Pennavaira, nella zona di Caprauna prescelta per la scarsità dei paesi che avrebbe aiutato la segretezza, per i roccioni e la mancanza di carrozzabile che avrebbe agevolato la difesa.
(*) Seppi poi da Ramon che Carletto si sposò nella chiesa del Sacro Cuore in Albenga. Qualche tempo dopo andò col capo delle Brigate Nere di Albenga (Luciano Luberti) a casa del suocero per ucciderlo. Sulla via del ritorno tra Coasco ed Albenga, Luberti uccise Carletto e lo gettò giù dalla strada.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 182-186

 

4 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 161, al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Comunicava che il comando di Divisione era in attesa di conoscere la data dell'aviolancio alleato nella zona di cui aveva già inviato una cartina topografica.
4 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 162, al capo di Stato Maggiore ["Ramon", Raymond Rosso] della Divisione - Comunicava che dal giorno 10 Radio Londra avrebbe in ogni momento potuto trasmettere il messaggio "la pioggia bagna", segnale di effettuazione del [primo] lancio di materiale da parte degli alleati; che si prescriveva l'ascolto dei messaggi di Radio Londra in italiano; che i fuochi di riconoscimento per l'effettuazione degli aviolanci dovevano "essere disposti a forma di 'T' rivolta contro vento"; che non si dovevano fare segnalazioni se il vento avesse superato le 20 miglia orarie; che occorreva disporre i fuochi in buche profonde 2 metri per impedirne l'avvistamento da parte del nemico; che i paracadute per la prevista operazione sarebbero stati 5, fatti cadere alla distanza di 60 metri uno dall'altro; che bisognava comunicare se nella zona si trovavano ostacoli naturali.
4 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 170, al capo di Stato Maggiore della Divisione - Comunicava che la I^ e la III^ Brigata passavano sotto il controllo del comando di Divisione e la II^ alle dipendenze del capo di Stato Maggiore; che "Fra Diavolo" doveva continuare, anche se in disaccordo con "Martinengo", la sua opera in Val Tanaro; che la zona in cui operava la II^ Divisione era in quel periodo soggetta a molti rastrellamenti.
4 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 171, al comando del Distaccamento "Mario Longhi" - Il comandante "Fra Diavolo" veniva invitato a continuare nelle sue azioni in Val Tanaro, ad appoggiarsi alla II^ Brigata "Nino Berio" e a "Ramon", ad inviare relazioni sul lavoro svolto e sulle difficoltà incontrate.
5 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 174, al commissario "Osvaldo" [Osvaldo Contestabile] - Gli si comunicava che non era ancora giunto il momento del suo rientro dalla malattia e lo si informava dell'attesa di un aviolancio alleato "che si spera cambi la sorte dei garibaldini".
5 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 175, al comando della II^ Brigata "Nino Berio" - Ordinava di compiere azioni di disturbo lungo la strada Albenga-Garessio; di recuperare ogni possibile esplosivo; di controllare se c'erano riserve di munizioni per St. Etienne, nascoste dal partigiano "Falco"; di stimolare i Distaccamenti ad inviare regolarmente relazioni.
5 marzo 1945 - Dal capo di Stato Maggiore [Raymond Rosso] della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della Divisione - Informava che i tedeschi, guidati da "Carletto", avevano eseguito una puntata su Nasino per sorprendere il Distaccamento "Giannino Bortolotti" della II^ Brigata "Nino Berio" ma senza causare perdite tra i partigiani; che tedeschi provenienti da Nava avevano fatto prigionieri due uomini dell'intendenza garibaldina; che "Turbine", fuggito nell'occasione citata, abbandonando uomini e materiale, era stato arrestato, poiché non aveva fornito plausibili giustificazioni.

da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

domenica 19 marzo 2023

Pare che in prossimità di Cesio i partigiani abbiano iniziato un'azione contro i Muti

Cesio (IM). Fonte: mapio.net

Per ritorsione e per vendicare i compagni caduti, il 4 ottobre 1944 attaccammo il caposaldo nemico di Cesio.
Insieme ad alcuni altri, il mio compito era quello di trasportare a spalle una mitragliatrice pesante con relative munizioni. Camminammo da Colle San Bartolomeo fin quasi al paese di Caravonica da dove era possibile battere il presidio nemico di guardia ad un ponte minato. Ma il nemico era ben protetto e il nostro attacco ebbe scarso successo.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998  

Bisognerà muoversi, tenere moralmente i distaccamenti in efficienza bellica e, oltretutto, vendicare nel modo più efficace i compagni caduti nell'imboscata di Pieve di Teco.
Il 2 ottobre 1944, presa la decisione di attaccare il presidio nemico di Cesio composto da circa quaranta uomini, brigate nere del battaglione «Muti», uccisori dei compagni di Nino Berio, viene studiato nei minimi particolari il piano di annientamento (per spazzare quel triste covo), partendo dalla considerazione che il presidio in avamposto, molto isolato, distava all'incirca sette chilometri da quello più vicino di Chiusavecchia.
Appostata una squadra a sud di Cesio sulla statale 28 per bloccare eventuali rinforzi nemici proveniente da Chiusavecchia, altre squadre avrebbero portato un attacco concentrico al paese, supponendo che in esso e alla periferia fossero dislocate le postazioni nemiche. A forze pari il fattore sorpresa avrebbe dovuto giocare a favore dei partigiani, scelti tra i più coraggiosi della brigata.
Lasciata Piaggia alle ore 8, trentasei garibaldini del distaccamento d'assalto «G. Garbagnati» e una squadra del battaglione «Nino Berio» unitamente al vice comandante di divisione «Cion» [Silvio Bonfante], al vice comandante di brigata «Mancen» [Massimo Gismondi] ed al commissario «Mario» [Carlo De Lucis], giungono a Pieve di Teco nella mattinata del 3 ove procedono ad una retata di spie e pernottano nel paese.
Però la spia annidata nel Comando partigiano riesce ad informare del prossimo attacco i fascisti di Cesio che nel corso della notte raddoppiano gli effettivi. Conosciuto il fatto e la fallita sorpresa, «Cion» decide di attaccare ugualmente: è nel suo stile.
Prima dell'alba del giorno 4 i garibaldini partono verso Cesio. La marcia di avvicinamento si compie senza ostacoli ma termina con alquanto ritardo sul previsto.
Ormai è già chiaro ad oriente quando i partigiani si accingono, col fiato grosso per la marcia affrettata, ad appostarsi.
Dal colle San Bartolomeo si staccano due squadre: una di cinque uomini con una mitragliatrice pesante va a piazzarsi a sud del paese per stroncare un eventuale invio di rinforzi da Chiusavecchia e per battere contemporaneamente, con più ampio respiro, tutta la zona. L'altro nucleo cala su Cesio bloccandone la periferia. Nel contempo il grosso delle forze, raggiunto il passo omonimo e divisosi in tre squadre, piomba dai tre lati sopra il ponte rotto.
«Cion» urla (altra sua romantica qualità di guerrigliero latino): "Fascisti... siamo i compagni di Nino... siamo venuti a vendicarlo... difendetevi ...fuoco!" <1.
L'azione ha inizio con una mitragliatrice pesante «Breda», tre «Machinen-Gravers», due «Saint-Etienne», tre lanciagranate ed alcune armi automatiche individuali.
Sono le 7,30 precise; all'urlo di «Cion» i fascisti, che stanno facendo colazione e l'alza bandiera, capiscono e riescono a dileguarsi tra gli alberi di ulivo. Il fuoco inizia violentissimo, i garibaldini scendono all'attacco benché la conformazione della vallata impedisca loro di battere con precisione l'accampamento nemico ove regna panico e disorientamento.
In un primo tempo il fuggi fuggi tra i fascisti, che lasciano sul terreno un morto ed un ferito grave (il comandante del presidio ten. Lo Faro), é generale <2.
I loro baraccamenti sono crivellati e sconvolti dalle raffiche dei mitragliatori, dalle bombe a mano e dai colpi ben piazzati dei lancia granate.
Frattanto, raggiunte a fatica le loro vantaggiose posizioni, i «Muti» aprono un fuoco intenso con due mitragliatrici pesanti «Fiat», alcuni mitragliatori, fucili e mortai da 45 mm.
La lotta dura circa due ore; tra gli spari si odono gli ordini e le invettive dei comandanti nemici: "Raggiungi il «Sant-Etienne»". "Non posso, signor tenente, mi tirano addosso", poi le vecchie canzoni di lotta «Fiamma Nera» e «Giovinezza», echeggiano nella vallata tra gli ulivi e le raffiche di mitragliatrice, poi ancora insulti ed invettive: "Tirate meglio... fatevi sotto, fatevi vedere se avete del fegato" <3.                                                                              
Il nemico, convinto di essere circondato da forze preponderanti, resiste con tutta la sua disperazione, consapevole della sorte che l'attenderebbe se venisse sopraffatto.
È una lotta mortale; i garibaldini sparano con cieco furore, il pensiero dominante é vendicare Nino e gli altri compagni.
Però venuta a mancare per le ragioni suddette la sorpresa, il fuoco incrociato delle armi del nemico rende problematico e oltremodo temerario un assalto. Sarebbe follia e morte certa, tanto più che non si conosce con precisione l'esatta ubicazione delle postazioni nemiche. Nonostante ciò qualcuno vorrebbe tentarlo. Però non resta che la determinazione di continuare un violento duello di logoramento col nemico.
In questa fase dello scontro vengono uccisi alcuni brigatisti neri compreso un borghese delatore, alcuni altri rimangono feriti. Nessuna perdita da parte garibaldina <4.
Intanto richiamati dagli spari, giungono rinforzi autocarrati al nemico da Chiusavecchia.
Le squadre partigiane data l'esiguità delle loro forze, ritenendo foriera di perdite la tattica di snidare i «Muti» dalle loro munite e difficili postazioni, risalgono a Cesio ove compiono pulizia di tutto ciò che é segno di collaborazione e aiuto ai fascisti <5.
Viene sequestrato, tra l'altro, il materiale di cucina che serviva per l'alimentazione dei «Muti» (marmitte, pentole, viveri ecc.) e completamente requisita o resa inutilizzabile la dotazione di un albergo che usava ospitare i fascisti e i loro famigliari (materassi, coperte, effetti, ecc.).
I fascisti giunti di rinforzo riescono a tagliare fuori del grosso una squadra del distaccamento «Marco Agnese» comandata da «Trucco» che, però, infiltratasi tra le maglie nemiche, miracolosamente raggiunge i compagni oltre il colle San Bartolomeo.
Il tenente Lo Faro, ferito, ordina ai suoi uomini di andare in paese per prelevare alcuni ostaggi da fucilare; la sentenza non viene eseguita ma sono fatte saltare alcune case e fienili ed é catturato un giovane presunto partigiano. L'azione non ha dato i risultati sperati. Il gruppo, ad eccezione del comandante «Boscia» <6 che con otto garibaldini rimane a Pieve di Teco per ragioni di servizio, nel tardo pomeriggio raggiunge Mendatica ed il giorno 5 perviene a Piaggia, mentre il distaccamento «F. Airaldi» riprende posizione nella casermetta del Tanarello.
Intanto il 5 di ottobre «Simon» [Carlo Farini] aveva avuto un colloquio con Giovanni Parodi (Michele) membro del Triunvirato Insurrezionale per la Liguria delle brigate Garibaldi, e con Baldini (Matteo) segretario della federazione del P.C.I. di Imperia e addetto ai collegamenti con la città, in cui si era discusso sulla formazione delle Giunte Popolari, presenti i candidati Sindaci di quasi tutti i Comuni della valle Impero.
Il 6 di ottobre riuniva in due casoni posti di fronte a Carpasio il Comando della IV brigata e tutti i comandanti e i commissari di distaccamento per discutere le cause che avevano determinato i precedenti sbandamenti garibaldini in seguito ai rastrellamenti nemici ed il ripiegamento in alta montagna (Piaggia) della I brigata.
Nel contempo emanava direttive per una maggiore disciplina ed un più stretto contatto tra i distaccamenti ed il comando e disponeva che la IV brigata rimanesse sulle sue posizioni (funzioni di collegamento tra la costa e l'alta montagna).
Nel pomeriggio il vice commissario della I brigata Osvaldo Contestabile (Osvaldo) era nominato commissario della V brigata ed il garibaldino Beniamino Miliani (Miliano) assumeva l'incarico lasciato libero da «Osvaldo».
Finite le riunioni, «Simon» rientrava al Comando divisione a Piaggia incalzato dalle notizie del rastrellamento tedesco iniziato nella valle Argentina e a Pigna contro la V brigata e del ripiegamento di questa sulle posizioni della I. A causa di questi precipitosi spostamenti a piedi o a dorso di mulo, «Simon» si ammalava di broncopolmonite. Il 12 di ottobre sembrava segnare un inizio di miglioramento, ma era mera illusione.
[NOTE]
1 Dal diario di Gino Glorio (Magnesia).
2 Dal diario di Luigi Massabò (Pantera).  
3 Dal diario di Gino Glorio (Magnesia).
2 Dal diario di Luigi Massabò (Pantera).                                            
4 Le perdite inflitte al nemico risultano nella relazione n. 330 di protocollo, del 4.10.1944, inviata dallo Stato Maggiore al Comando divisionale nel pomeriggio stesso della giornata dello scontro.
5 Nelle postazioni «Muti» di Cesio si trovava tutto il marciume della gioventù fascista e filotedesca della riviera, da Oneglia a Ventimiglia. Da lì partivano le rappresaglie contro i civili, le azioni di disturbo ed i rastrellamenti effettuati nelle zone adiacenti.
6 Il comandante Franco Bianchi (Stalin) aveva anche il nome di battaglia «Boscia».

Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. La Resistenza nella provincia di Imperia da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio dell'Istituto Storico della Resistenza di Imperia, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977, pp. 141-144 

3 ottobre 1944
Questa notte forti contingenti di partigiani, provenienti dai pressi di Acquetico, sono transitati per Pieve di Teco, diretti versi il Colle S. Bartolomeo.
A quanto si vocifera, pare che in prossimità di Cesio i partigiani abbiano iniziato un'azione contro i Muti. Intanto è da ieri che Pieve è bloccata dalla parte di Imperia.
Questa mattina, con una macchina da turismo proveniente da Albenga, sono giunti sei o sette tedeschi per la misurazione dei ponti demoliti.
Sono le 18 e non si sa ancora niente di preciso circa ciò che sia accaduto verso Cesio.
Sono le 5 e si lancia «la grida» che, per ordine del Commissario Prefettizio, il coprifuoco è stabilito dalle ore 8 di stasera alle 5 di domani; il lanciatore proclama: «Le pattuglie spareranno su tutti quelli che dopo le ore 8 si troveranno fuori di casa».
Queste pattuglie sono formate da patrioti e tale grida l'hanno fatta lanciare per loro maggiore sicurezza.
Questi partigiani a Cesio hanno combattuto dall'albafino alle ore 10.
- All'una erano già a Pieve.
4 ottobre 1944
Si dice che nel combattimento svoltosi ieri a Cesio i repubblichini abbiano avuto perdite assai gravi e che in parte sono state danneggiate dal fuoco parecchie case - Però sono sempre notizie incerte. Mentre scrivo parecchi di questi partigiani vanno in cerca di uomini per farli andare alla Paperera al di là del ponte rotto ove, trovandosi un camion con un carico di viveri, vorrebbero farlo trasbordare per Pieve.
E tutto per non lasciarlo proseguire per Vessalico ove sono una quarantina di tedeschi al lavoro per la ricostruzione di quel ponte.
Questa notte io e mia moglie abbiamo pernottato nel Barcheto nella villa.
Questa decisione fu consigliata dallo strano caso delle cose incombenti e per assicurare tranquillità a mia moglie che vive sempre sotto l'incubo della drammatica notte del mio arresto.
5 ottobre 1944
L'azione a Cesio ha effettivamente dato luogo a rappresaglie da parte tedesca.
Si dice che in Vessalico siano giunti altri tedeschi di rinforzo per affrettare la riparazione del ponte.
6 ottobre 1944
Giornata d'acqua a dirotto - L'Arroscia è in piena e tutti si augurano che cresca maggiormente onde ostacolare ai tedeschi le riparazioni ai ponti - Si nota fin da stamattina un'insolita attività di patrioti: ve ne è una vera invasione.
L'acqua ha diminuito di intensità, ma piove sempre.
Manca totalmente la farina - Oggi si è ancora distribuito un etto e mezzo di pane procapite, ma si dice che domani non sarà più possibile alcuna distribuzione.
Nino Barli, Vicende di guerra partigiana. Diario 1943-1945, Valli Arroscia e Tanaro, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, tip. Dominici Imperia, 1994,  pp. 123,124

lunedì 6 febbraio 2023

Il Segretario della Casa del Fascio di Diano Marina cadde in un agguato tesogli da tre partigiani

Diano Marina (IM). Fonte: Mapio.net

La mattina del 4 ottobre 1944 i partigiani eliminano in via Ca’ Rossa (località Giaiette) di Diano Marina il maggiore Enrico Papone, segretario politico del fascio della cittadina, e il maresciallo Jarranca dell’UPI nei pressi della vecchia fornace di Diano Calderina [Frazione di Diano Marina]. Quello stesso pomeriggio i militi della B.N. prelevano dalle carceri di Oneglia Natale Rainisio, Giovanni Bonsignorio e Giuseppe Marro e li fucilano.
È una rappresaglia contro un’azione di veri partigiani, ma ci sono anche formazioni false di ribelli composte in maggioranza da ufficiali e sottufficiali fascisti che portano al collo fazzoletti rossi e la scritta CION, i quali entrano nelle botteghe e nelle trattorie, asportano merce e mangiano e bevono senza pagare.
Ricciotti Lazzero, Le Brigate Nere, Rizzoli, 1983
 
Dal 20 al 25 agosto 1944 Enrico Papone del distaccamento di Diano Marina della XXXII^ Brigata Nera “Antonio Padoan”, nonché segretario della “Casa del Fascio” di Diano Marina, in accordo con il locale comando della compagnia “San Marco” e tramite il Commissario Prefettizio, ordinava la requisizione di oltre 150 radio nei Comuni di Diano Marina, Diano Castello e Diano San Pietro, perché non si potessero ascoltare le trasmissioni alleate in lingua italiana sulle sconfitte dei nazifascisti. In particolare “Radio Londra”, dalla quale parlava il colonnello Stevens, inglese di nascita ma che da giovane aveva abitato a Diano Marina.
In relazione a ciò ed a molte altre tristi iniziative, il 4 ottobre 1944, alle ore 12, Papone cadeva in un agguato tesogli da tre partigiani di un distaccamento della I^ Brigata e veniva ucciso in Via Casa Rossa, regione “Giaiette” (Diano Marina).
Nel tardo pomeriggio, il Comando delle Brigate Nere di Oneglia (Imperia), venuto a conoscenza del fatto, ordinava la rappresaglia. Una decina di emergenti fascisti con tre ostaggi prelevati dalle carceri di Oneglia giungevano su un camion a Diano Marina. Facevano un giro per la cittadina, emettendo urla bestiali e sparando raffiche di mitra; poi sulla piazza del Municipio i tre ostaggi venivano fatti scendere dal camion, addossati al muro del palazzo a levante della piazza, e massacrati.
I cadaveri dei tre giovani, Natale Rainisio, Giovanni Bonsignorio e Giuseppe Marro, rimasero tre giorni consecutivi bocconi sul marciapiede, per ordine dei fascisti, sotto la pioggia autunnale, mentre l'acqua arrossata dal sangue scorreva lenta nel canale di scolo.
Il terzo giorno il parroco Don Vento, disubbidendo alle disposizioni, facava ritirare i tre corpi nell'androne del Palazzo comunale e dare poi sepoltura nel cimitero di Diano Marina.
Notizie tratte da “Dalle valli al mare Diano e Cervo nella Resistenza” di Francesco Biga - pag. 138 - e da “Antologia della Resistenza Dianese” di Francesco Biga - pagg. 46 e 47 -.
Sabina Giribaldi, Episodio di Diano Marina, 04.10.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia
 
Il 4 ottobre 1944, alle ore 12, Enrico Papone, Segretario della Casa del Fascio di Diano Marina, cadde in un agguato tesogli da tre partigiani di un distaccamento della I^ Brigata e venne ucciso in Via Casa Rossa, regione Giaiette, a Diano Marina. Il Comando delle Brigate Nere di Oneglia, venuto a conoscenza del fatto, ordinò la rappresaglia. Tre ostaggi, in carcere a Imperia per motivi non precisati, forse semplici renitenti la leva, vennero prelevati e portati a Diano Marina dove furono fucilati. Erano Natale Rainisio, Giovanni Bonsignorio e Giuseppe Marro. Nel corso di un interrogatorio del 1° settembre 1945 il milite delle Brigate Nere di Imperia Giovanni Moraschi indicava quali componenti il plotone di esecuzione i due legionari Lorenzi, padre (maresciallo B.N. Lorenzi Giovanni Battista, nato a Torri di Ventimiglia il 17/7/1890) e figlio, ed il legionario Dean, il quale, dopo il fatto, ritornò al suo corpo di provenienza (Arditi). Nel corso dell’interrogatorio del 17/1/45, G.B. Lorenzi negava di aver preso parte all’esecuzione.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I Caduti della Lotta di Liberazione nella I^ Zona Operativa Liguria, ed. in pr., 2020 
 
[ n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]

dalla Liguria
Imperia
Il 3 corrente in località "Le Giaiette" nel comune di Diano Marina veniva assassinato dai banditi a colpi di arma da fuoco il segretario del P.F.R. Enrico Papone.
Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del 21 ottobre 1944, p. 14. Fonte: Fondazione Luigi Micheletti      

Moraschi Giovanni, nato a Torrazza (IM) il 7 aprile 1928, squadrista della Brigata Nera “Padoan” ad Imperia.
Interrogatorio dell’1.9.1945: Nel gennaio del 1944, allorché frequentavo il I° Istituto Tecnico Superiore, allettato dalle promesse di presunte preferenze, mi iscrissi alle organizzazioni giovanili del PFR. Nell’agosto dello stesso anno venni invitato a presentarmi in federazione e quivi il commissario federale Massina mi indusse ad arruolarmi nella brigata nera in formazione.
[...] Nego di aver partecipato al plotone di esecuzione allorché vennero fucilati tre partigiani in Diano Marina, ma so che a tale plotone parteciparono i due legionari Lorenzi, padre e figlio, ed il legionario Dean che dopo ritornò al suo corpo di provenienza (Arditi).
[...]
Lorenzi Giovanni Battista, nato a Ventimiglia il 17 luglio 1890, maresciallo della Brigata Nera “Padoan” ad Imperia.
Interrogatorio del 17.11.1945: Sono stato iscritto al PNF fin dall’epoca precedente alla marcia su Roma. Nell’ottobre 1944 sfollato a Torri a causa degli eventi bellici mi arruolai volontario nella brigata nera in qualità di semplice legionario.
[...] Ho prestato servizio nella guerra 15/18 con il grado di soldato semplice. Nella brigata nera venni arruolato come soldato semplice ma quando mi trovavo in servizio al posto di blocco di Cervo San Bartolomeo venni promosso a maresciallo per meriti di anzianità fascista.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 

Francesco Agnese (Socrate).
Nato a Diano Marina il 29 luglio 1923. Il 25 marzo 1944 di ritorno da Genova viene arrestato alla stazione di Diano Marina da un reparto di fascisti della famigerata compagnia O.P. del capitano Ferraris; prima dell’arresto riesce a consegnare al fratello Mario un rotolo di volantini “Stella Rossa”. Trascinato al comando fascista di Diano Marina, quindi alla caserma Muti di Porto Maurizio, infine intorno al 4 aprile è rinchiuso nelle carceri di Oneglia subendo numerosi interrogatori e bastonature. Avendo lui ed altri prigionieri la possibilità di evadere, grazie all’azione di un tenente fascista (in contatto con i partigiani), non approfitta dell’occasione, per timore di rappresaglie nei confronti dei parenti. Uscirà dal carcere a fine maggio. Nel luglio 1944 prende contatto con Giuseppe Saguato “Bill” e concorre a formare uno dei primi distaccamenti garibaldini nella vallata di Diano Marina che, raggiunto il numero di ottanta unità, andrà a costituire la “Volantina” di “Mancen”. “Socrate” è molto intraprendente: con Saguato disarma due carabinieri e partecipa agli assalti alle caserme per il recupero di armi; con il suo distaccamento partecipa alle battaglie di Cesio (mettendo in fuga i tedeschi); di Rezzo, combattendo per sei ore e conquistando Monte Alto. E’ in missione a Diano Marina, liberando la città dalla presenza del brigatista nero Enrico Papone. Rientrato al comando è promosso Commissario di battaglione e passa con Germano Tronville “Germano” presso Upega, in Val Tanaro. Il 17 ottobre è tra coloro che tentano di sottrarre “Cion” (immobilizzato perché ferito a Vessalico l’8 ottobre) al fuoco tedesco, trasportandolo in barella. E’ colpito da una raffica, cade, e muore dissanguato nel bosco.
A Francesco Agnese è intitolato un Distaccamento della Brigata “Silvano Belgrano” - Divisione d’assalto Garibaldi “Silvio Bonfante”.
Redazione, Arrivano i Partigiani. Inserto 2. "Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I Resistenti, ANPI Savona, numero speciale, 2011

martedì 4 ottobre 2022

A Fontane subimmo un piccolo attacco tedesco che ci sfiorò appena

Vessalico (IM). Fonte: Mapio.net

Per ritorsione e per vendicare i compagni caduti, il 4 ottobre 1944 attaccammo il caposaldo nemico di Cesio.
Insieme ad alcuni altri, il mio compito era quello di trasportare a spalle una mitragliatrice pesante con relative munizioni. Camminammo da Colle San Bartolomeo fin quasi al paese di Caravonica da dove era possibile battere il presidio nemico di guardia ad un ponte minato. Ma il nemico era ben protetto e il nostro attacco ebbe scarso successo.
Per continuare l'azione punitiva, alcuni garibaldini fecero saltare il ponte di Borgo di Ranzo, interrompendo i rifornimenti al nemico dislocato nella bassa valle.
Il giorno successivo, l'8, squadre d'assalto attaccavano il presidio nemico di Vessalico.
Dopo una precedente azione, una squadra al comando di "Cion" [Silvio Bonfante] investiva i tedeschi che cercavano di riattivare il ponte di Vessalico, anch'esso andato distrutto a causa di un'azione garibaldina. Lo scontro diventò accanito perché i tedeschi resistevano. Ad un certo punto parve che si dovessero arrendere, dato che da una finestra fecero sventolare una bandiera bianca. Allora "Cion" e Sandro Nuti ("Scrivan") uscirono un poco allo scoperto. Fu in quel momento che i due garibaldini vennero colpiti da diverse raffiche nemiche provenienti da un'altra finestra. Probabilmente non tutti i tedeschi erano d'accordo di arrendersi. Il primo ebbe una gamba squarciata, il secondo un gomito spappolato. Anche il garibaldino Calogero Madonia ("Carlo Siciliano") rimase gravemente ferito. l tedeschi persero una decina di uomini tra morti e feriti. Inoltre una mezza dozzina di loro, presi prigionieri, furono condotti al Comando in Piaggia, insieme ai nostri feriti. Sistemato nell'albergo Pastorelli, "Cion" rischiò la cancrena. Da Albenga giunse il famoso chirurgo, professor Abbo, per visitarlo. Dopo qualche giorno però, il pericolo della cancrena era passato.
Il nemico intanto aveva ideato un piano per distruggere la V^ Brigata a ponente e la I^ a levante, sul territorio della provincia imperiese. L'8 ottobre con ingenti forze attaccò la V^ a Pigna. Dopo alcuni giorni di resistenza estrema, quest'ultima dovette iniziare una ritirata per le montagne verso levante, attraversando Carmo Langan e altri passi, finché giunse a Viozene. Anche la I^, lasciando Piaggia, giungeva a Viozene la sera del 16, mentre i feriti, su ordine del Comando, venivano raggruppati nel paese di Upega poiché si pensava che la località rimanesse a ridosso del rastrellamento, e quindi protetta.
Mentre le due brigate evitavano il passo delle Fascette a levante di Upega, per giungere a Viozene, attraversando il Lagaré per una via più agevole, noi del Comando, all'imbrunire del 16, ci inoltrammo, appunto, per il passo delle Fascette per giungere a Carnino.
Il passo delle Fascette era l'unico passaggio che congiungeva Upega a Viozene (nel dopoguerra fu costruita la strada carrozzabile). Era già problematico attraversarlo di giorno, ma noi lo attraversammo di notte e fu una impresa terribile. Sopra i precipizi vi erano delle corde alle quali chi attraversava il passo doveva tenersi con le mani, e bisognava mettere i piedi in nicchie scavate nella roccia per non scivolare. Questa attraversata non la dimenticherò mai più. Giunti all'altro capo del passo, ci sentimmo stanchissimi, e cercammo di dormire. Nessuno di noi conosceva la strada per Carnino: ce l'insegnò poi la partigiana Anita Boeri ("Candacca"). All'alba del 17 ottobre ci preparammo per trasferirci a Carnino a congiungerci con altri partigiani. Facevamo delle corsette per scrollarci il freddo notturno che sentivamo nelle ossa, quando sentimmo delle raffiche di mitraglia provenienti dalla vallata di Upega. Immaginammo che i tedeschi avessero attaccato il paese, e, sapendo che colà erano rimasti i feriti con qualche altro partigiano, insieme a "Curto" [n.d.r.: Nino Siccardi, in quel periodo ancora comandante della II^ Divisione "Felice Cascione", da cui dipendevano le brigate qui citate, poco tempo dopo comandante della I^ Zona Operativa Liguria], a Libero Briganti ("Giulio"), commissario della divisione "Felice Cascione", e al medico De Marchi, fummo portati a pensare il peggio.
Non ci sbagliammo: dopo un'impari lotta i garibaldini al comando di "Curto" e di "Giulio" si sbandarono, e  fu in quel momento che Giulio fu colpito da una pallottola che gli attraversò il ventre. A Curto non rimase altra scelta che portare sulle spalle fuori tiro il compagno, fin sopra il passo delle Fascette. Quando lo depose a terra era quasi morente; all'imbrunire esalò l'ultimo respiro. Allora Curto cercò di passare oltre per raggiungere le due brigate a Viozene. A Upega caddero il dottor De Marchi e altri partigiani, tra cui Lorenzo Acquarone, Francesco Agnese e Francesco Gazzelli, in totale quasi una ventina. Il Cion, già rimasto ferito a Vessalico, mentre lo stavano trasportando sopra una barella verso un rifugio, quando vide i compagni che lo attorniavano falciati da una raffica, per non cadere vivo in mano al nemico si uccise con un colpo al cuore davanti alla madre e alla sorella che lo accompagnavano. Si salvarono Vittorio Rubicone ("Vittorio il Biondo"), Lazzaro Calcagno ("Mimmo") infermiere, Sandro Nuti [Scrivan/Scrivano], "Carlo Siciliano" [Calogero Madonia] e qualcun altro. Sei partigiani fatti prigionieri (Giovanni Giribaldi, Lorenzo Alberti, Domenico Moriano, Carlo Pagliari, Francesco Caselli e Michele Bentivoglio) dal nemico furono portati a Fontan Saorge e fucilati [n.d.r.: su questo ultimo tragico eccidio vedere a questo link].
Raggiunto Carnino, noi ci mettemmo nuovamente in marcia per raggiungere le due brigate che si erano spostate in Pian Rosso, a monte di Viozene.
Quando ivi giungemmo, cercammo qualche cosa da mangiare. Notammo una grande confusione. Tutti dicevano la loro: chi affermava che si doveva andare a Fontane [nd.r.: Frazione di Frabosa Soprana (CN)] in Piemonte, chi invece voleva andare nella valle di Albenga. Ma sul far della sera giunse l'ordine perentorio di mettersi in marcia verso il Mongioje, per raggiungere Fontane attraverso il passo del Bochin d'Azeo. Molti obiettavano che non si poteva attraversare il passo di notte con le armi pesanti per il fatto che vi era molta neve. Altri facevano presente che, se fossimo rimasti nei dintorni di Viozene, probabilmente il nemico ci avrebbe circondati e massacrati tutti. Informazioni in tal senso portavano a questa conclusione. Non avemmo altra scelta, piano piano, in salita, ci avviammo verso il passo a circa duemila metri di altezza, ed era già notte fonda. Cominciammo a pestare neve fresca che cresceva in altezza man mano che si saliva.
Quando giungemmo al passo trovammo la neve ghiacciata, e ancora più ghiacciata la trovammo quando incominciammo la discesa del versante opposto. Nel buio profondo bisognava stare attenti dove mettere i piedi per evitare scivoloni che  potevano rivelarsi mortali.
Fu una marcia tremenda anche per noi, inservienti del Comando, benché l'unico peso che avessimo fosse quello del fucile e di qualche caricatore. Ma fu cosa ancora più tremenda per coloro che avevano muli, armi pesanti (mortai e mitragliatrici), cassette di munizioni e simili.
Ad un certo momento per loro la situazione divenne impossibile per cui dovettero abbandonare tutto. Noi che stavamo in retroguardia per evitare qualche sorpresa, col cuore sofferente dovemmo subire il triste spettacolo, conseguenza della disastrosa ritirata delle due brigate, la I^ e la V^.
La partigiana "Candacca" fu più sfortunata di noi: finì in un laghetto, che non vide, dalla superficie ghiacciata. Tutta bagnata, tremava terribilmente per il freddo, mentre piangeva con disperazione, come una bambina. Per fortuna, però, si giunse in una baita diroccata che era nei pressi, dove potè spogliarsi e asciugarsi presso un fuoco che avevamo acceso bruciando grossi pezzi di legno.
Finalmente venne giorno e fu più facile portarsi in fondovalle, giungendo, dopo diverse ore a Fontane in val Corsaglia. Mangiammo qualche cosa che qualcuno aveva preparato e ci buttammo a dormire nei vicini fienili.
Dopo due giorni mandammo una dozzina di muli verso il Mongioje per recuperare gli armamenti e i materiali abbandonati durante la ritirata.
In quella notte (una sola per noi) compresi quanto avevano sofferto i  nostri soldati durante la ritirata di Russia.
A Fontane facemmo le solite cose, qualche attacco sulla strada Savona-Cuneo, subimmo un piccolo attacco tedesco che ci sfiorò appena. Iniziammo a mangiare in modo regolare (si trovava molta pasta, però mancava completamente il sale e, dati i tempi che correvano, non protestavamo). Dopo qualche giorno io e "Jacopo" ricevemmo l'ordine di recarci a Corsaglia, dove il nostro Comando aveva stabilito un incontro con il CLN di Mondovì.
Giungemmo puntuali all'appuntamento che era fissato per il pomeriggio presso un albergo del luogo, mentre tardarono quelli del CLN, che dovevano portarci del denaro.
Ligi al dovere, attendemmo ed intanto cenammo nell'albergo, seduti ad un tavolo pulito, serviti come signori, e di ciò ci meravigliammo molto, abituati come eravamo ad una vita randagia, carichi di fame, di sonno e di fatica.
Dovendo ancora attendere, ci accolse una camera riscaldata con lenzuola candide, coperte e cuscini; ci sentimmo dei grandi signori benché fossimo preoccupati di non avere sentinelle di guardia.
Finimmo per dormire comodamente e  profondamente.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998 
 
Trucco Carlo, "Girasole", nato ad Imperia il 22.12.1925
Di famiglia antifascista, è militante del P.C.I. clandestino dal marzo 1943.
Dopo il 25 Luglio partecipa a tutte le manifestazioni antifasciste che si svolgono a Oneglia.
Continua l'attività antifascista clandestina fino al marzo 1944 quando entra nel distaccamento partigiano "Inafferrabile" comandato da Giacomo Sibilla "Ivan", che opera intorno al Monte Grande.
Fra Luglio ed Ottobre 1944 partecipa all'organizzazione dell'ospedale partigiano di Valcona (Mendatica).
Durante il rastrellamento di Upega fa parte della squadra che porta in salvo l'Ispettore "Simon" (Carlo Farini), che giace in barella malato di broncopolmonite.
Vittorio Detassis

E' stato accertato che le bande di fuori legge, già dislocate sui monti verso il confine italo-francese, in seguito all'affluenza dei reparti germanici che si schierano sulla linea di frontiera, si sono ritirate in altre zone.
Continuano le azioni di piccoli gruppi di banditi, i quali compiono aggressioni e rapine.
La popolazione in generale è sempre favorevole ai banditi.
Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana [GNR] del giorno 22 ottobre 1944, p. 4,  Fondazione Luigi Micheletti   

Il movimento partigiano nelle località controllate è pressoché negativo, mentre nelle altre le manifestazioni criminose tendono ad elevarsi: parecchi i prelievi di persone - alcune rilasciate - non per i loro sentimenti fascisti o simpatizzanti o sospette di non condividere i sistemi instaurati di brigantaggio, molteplici i reati contro la proprietà, qualche delitto di sangue.
Reparti della G.N.R. di questo Capoluogo in collaborazione con la Polizia germanica e con il reparto speciale antiribelli di questa Questura hanno effettuato azioni di rastrellamento in alcune località della provincia con proficui risultati, alcuni ribelli sono stati catturati e passati per le armi, altri morti in combattimento, discreto il numero delle armi sequestrate.
Un sottufficiale, una guardia scelta ed una guardia di P.S., mentre svolgevano accertamenti di polizia giudiziaria in località periferica di questo Capoluogo, da elementi armati venivano prelevati e si sconosce la loro sorte.
Giovanni Sergiacomi, Questore di Imperia, Al capo della Polizia, Relazione mensile sulla situazione economica e politica della Provincia di Imperia (mese di ottobre 1944), Imperia, 1 novembre 1944

martedì 8 giugno 2021

Questi rastrellamenti uno dopo l'altro, che così a questo modo non ci sono mai stati


Le prime avvisaglie del poderoso rastrellamento, che durera' quattro giorni, incominciano a manifestarsi il mattino del 4 settembre 1944.
La massa d'urto nemica raggiungerà nello scontro il suo momento critico e decisivo dopo il mezzogiorno del 5, quando una squadra d'assalto garibaldina, conquistata la vetta del Monte Grande, riuscirà a bloccare l'accerchiamento che oramai stava per chiudersi su più di un migliaio di combattenti partigiani del ponente ligure. 

La sera prima, l'agente “argentino” (anziano ragioniere di Borgoratto [Lucinasco (IM)]), che riusciva ad avere notizie sul nemico quasi sempre esatte, invia una staffetta munita del piano tedesco di attacco, che prevede un impiego di circa 8000 uomini, a Giacomo Sibilla (Ivan), comandante del II° battaglione (IV^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Elsio Guarrini" della II^ Divisione d'Assalto "Felice Cascione"), dislocato alla Cappelletta del Monte Acquarone [Lucinasco (IM)], con i Distaccamenti 5° e 6°.

Conscio dell'importanza della notizia Ivan corre a Villatalla [Frazione di Prelà (IM)] dove è gia' installato il comando della divisione e l'ispettorato di zona. Consegna a Curto [Nino Siccardi, comandante della II^ Divisione] il foglio dei piani su cui tra l'altro è scritto: “... pare che 8000 tedeschi abbiano intenzione di circondare a attaccare i partigiani imperiesi...”

Curto rimane incredulo. 
Ivan ritorna indietro per raggiungere il suo battaglione e marciare su Oneglia. In fondo alla scala dove è  installato il comando, incontra pure l'ispettore Simon [Carlo Farini, Ispettore Generale del Comando militare Unificato Ligure] a cui spiega quanto ha saputo.
È proprio in quel momento che giunge una donna ansante per la corsa fatta, portando la notizia che i tedeschi sono già ai Molini di Prelà. Allora Ivan risalito alla Cappelletta e raccolti i suoi uomini con una marcia forzata si trasferisce a Prati Piani, mentre il 7° Distaccamento “Romolo” si sposta da Ville San Pietro a San Bernardo di Conio [Frazione  di Borgomaro (IM)].

In giornata, la V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione è la prima a percepire quanto sta accadendo e riesce a sganciarsi in tempo senza subire perdite.

Invece la IV^ Brigata, che nelle prime ore del mattino del 4 era scattata all'attacco verso la costa, e che aveva scorto da Collabassa, tra Pontedassio (IM) e Montegrande [località di San Bernardo di Conio], lungo le strade procedenti verso il nord, colonne tedesche con mezzi motorizzati, in serata e nella notte tra il 4 e il 5 disorientata e schiacciata da più parti, è obbligata a ritirarsi dalla Val Prino.

Uniformandosi all'ordine ricevuto dal Comando a mezzogiorno, ripiega in pessime condizioni di visibilita' sulla I^ Brigata ["Silvano Belgrano"] a San Bernardo di Conio. Però è necessario trattenere i tedeschi per qualche ora sotto il paese di Villatalla per dar modo alla Brigata di ritirarsi completamente, evitando di essere agganciata. 
Per questo compito non facile si prestano Curto, Giulio [Libero Remo Briganti, commissario della II^ Divisione], Simon e altri uomini del Comando, per la posizione che occupavano in quel momento, dominante le due strade di accesso al paese (mulattiera e carrozzabile) le cui conformazioni rendevano il movimento dei tedeschi lento e circospetto. 
Nel pomeriggio questi comandanti, quando non restava loro altro da fare che ritirarsi e raggiungere le formazioni, riescono a sganciarsi e ripiegare. 

Prevedendo un inseguimento immediato e con lo scopo di coprire alcune forze esaurite della IV^, la I^ Brigata si schiera su posizioni difensive nei pressi delle colline intorno a Montegrande.
Invece il Comando della Divisione, quelli delle Brigate I e IV e il Distaccamento d'Assalto "Giovanni Garbagnati", comandato da Massimo Gismondi (Mancen) prendono posizione presso San Bernardo di Conio e il Battaglione Lupi, comandato da Eraldo Pelazza, prende posizione presso il passo della Mezzaluna.
Partigiani dei distaccamenti della IV^ Brigata, ritiratisi dalla Val Prino, giungono a San Bernardo di Conio al tramonto, portando drammatiche notizie: colonne di tedeschi avanzano da tutte le direzioni, incendiando i casolari che incontrano. Si stenta a credere a tutto ciò. 

Mentre gli alleati avanzano da Ventimiglia lungo la riviera, come possono gli avversari perdere tempo in rastrellamenti? 
Curto, Cion [Silvio Bonfante, vice comandante della II^ Divisione], Giulio, Simon non riescono a rendersi conto della situazione. 
Ma vedendo quelli della IV^ Brigata affluire ininterrottamente sulle posizioni della I^, sono seriamente preoccupati. Ma la notte trascorrerà senza che si verifichino gravi episodi.

I tedeschi si spingono su Borgomaro, occupano la zona di Moltedo, raggiungono il paese di Carpasio e dilagano nella Valle di Triora. Da Pieve di Teco si spingono su Pornassio e su San Bernardo di Mendatica. 

La trappola è pronta; scatterà il mattino successivo.

Chiara, la moglie di Curto, infermiera nell'ospedale partigiano di Valcona, informata della terribile minaccia che incombe sulle formazioni comandate dal marito, parte in cerca del comandante Martinengo [Eraldo Hanau, del Gruppo Divisioni Alpine del comandante Mauri] che ha nelle bande complessivamente duecento uomini rimasti fuori dall'accerchiamento.
Incontrato il comandante alle Navette, Chiara non riesce a convincerlo a portare aiuto agli accerchiati.  
Martinengo non osa rischiare l'incolumità dei suoi uomini nell'impresa disperata di tentare di aprire un varco ad una massa di uomini già sbandati, non preparati a un simile intervento e che, di conseguenza, non avrebbero appoggiato l'azione dall'interno del cerchio. Martinengo conclude il suo discorso dicendo che Curto, in qualche modo, se la sarebbe cavata ugualmente.

All'alba del 5 Settembre i nazifascisti iniziano l'attacco generale per stroncare definitivamente la resistenza imperiese.

Danno la sveglia le prime raffiche di mitra verso le 5 del mattino.
L'avamposto garibaldino al passo della Teglia, investito da forti pattuglie di avanguardia nemiche che con i bengala illuminano a giorno il teatro della battaglia, mette in allarme i Distaccamenti circostanti.
Sfondata la difesa partigiana in direzione del crinale che da nord ovest conduce alla vetta del Montegrande, i Tedeschi occupano quest'ultima piazzandovi i propri mitragliatori.

Regnano l'ansia e il fermento nei casoni dove sono dislocati i Comandi. Tutto viene disposto per il combattimento ravvicinato poichè, per quanto informano le staffette che giungono da ogni parte, i tedeschi si trovano vicinissimi. Hanno investito in pieno la zona da Colla d'Oggia, da Monte Grande, dal bosco e non c'è via d'uscita. Hanno occupato anche il passo della Mezzaluna e tutta la cresta montuosa che circonda il bosco di Rezzo a nord e a ovest, fino a Prearba.
Dalle posizioni di Montegrande il nemico è in grado di controllare e di battere il raggruppamento partigiano a San Bernardo di Conio.
Col fuoco intenso delle mitragliatrici pesanti può colpire le colonne di muli, disorganizzare ogni resistenza, ogni tentativo di sganciamento o di difesa.

Curto raduna Giulio, Simon, Cion, Giorgio [Giorgio Olivero, tre mesi dopo comandante della neo-costituita Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] e gli altri componenti il comando divisionale, viene tenuto un consiglio d'urgenza per esaminare la situazione profilatasi in tutta la sua gravità e, anche se può sembrare disperata, viene presa la decisione di attaccare Montegrande per conquistarlo e così dominare dall'alto tutta la zona e quindi spingere a destra per aprire un varco ai circondati verso nord ovest; oppure (ed è quello che si verificherà), bloccare il nemico sulle posizioni raggiunte per dar tempo ai garibaldini di disperdersi nei monti della Giara e altrove possibile, prima di rimanere agganciati in un mortale combattimento.

Mentre due mortai partigiani prendono sotto il fuoco la cima del Montegrande, Mancen con tredici volontari inizia la scalata del monte per conquistare la posizione tedesca. Non solo questi uomini sono carichi di armi, ma anche di ansia tremenda perché sanno bene a cosa vanno incontro, però al di sopra dei loro stati d'animo sta la decisione, consci della responsabilità di avere nelle proprie mani la vita di centinaia di uomini. Quasi alla cima del monte, i volontari, sviluppando un fuoco intenso, attaccano la posizione tedesca e la conquistano. Il nemico si ritira abbandonando armi, materiale ed un mulo carico con due casse di cottura. I garibaldini, catturato un tedesco, corrono oltre, inseguendo il nemico fin quasi al passo della Fenaira.
Si creano così le condizioni per guadagnare molto tempo, dato che il nemico, disorientato dall'azione partigiana, blocca i suoi movimenti. L'esercito scalzo può salvarsi perchè l'obiettivo strategico prefissato dal comando è stato raggiunto. I distaccamenti possono iniziare lo sganciamento e disperdersi nei boschi, al coperto dall'offensiva nemica, verso basi più sicure.
La dispersione delle brigate I^ e IV^ occupa tutto il pomeriggio del giorno 5 e la notte successiva. Il tempo peggiora, scrosci di pioggia e banchi di nebbia investono le cime dei monti, un uniforme grigiore avvolge ogni cosa. Nella notte i muli vengono disseminati per le stalle di Rezzo e per le località vicine.
Il Battaglione Lupi riesce a spostarsi verso nord incolume.
Curto e il comando - scrive il partigiano Gino Glorio [Magnesia] in un suo diario - vedono e comprendono che è impossibile pretendere ancora forza dal morale e dal fisico dei combattenti. Sarebbe necessario dare loro un poco di cibo, ma i magazzini di Case Rosse sono andati perduti e la pioggia impedisce di accendere il fuoco. Parecchi distaccamenti, che avevano trascorso il giorno in tre marce continue, sono senza cibo da 48 ore, nella notte del 5 i partigiani accerchiati non possono andare a dormire nei casoni che il nemico in rastrellamento può incendiare... intuiscono che bisogna aprofittare del buio per uscire dall'accerchiamento. Con questo intento le formazioni si sciolgono, con la prospettiva di riunirsi altrove, cessato l'accerchiamento. Così avviene. La mattina del 6 i tedeschi, ricevuti ulteriori rinforzi, iniziano la terza fase del rastrellamento, occupano borghi e punti strategici, cercano di chiudere il sacco, ma ad un certo momento si accorgono che il sacco è vuoto. I partigiani, dopo una drammatica ma brillante ritirata strategica basata sull'individuale, riescono a mettersi in salvo. I tedeschi, durante i loro movimenti, incendiano tutte le baite che incontrano, da ogni parte si innalzano colonne di fumo. Tre partigiani, catturati nei dintorni, vengono fucilati a San Bernardo di Conio.
Gli unici uomini ancora nella zona del rastrellamento sono Curto e gli appartenenti al comando della Divisione, rimasti fino all'ultimo per cercare di controllare l'esecuzione dello sganciamento. Vengono sorpresi all'alba. Riescono a rifugiarsi in un casone ubicato cinquecento metri sopra la chiesetta della Madonna della Neve di Rezzo.
Il loro numero ridotto (sessanta uomini, comprese tutte le staffette dei vari distaccamenti e squadre), permette loro di occultarsi, evitare la cattura e l'annientamento.
Però solo per un caso fortuito non vengono scoperti.
Come previsto, le colonne nemiche frugano i fienili, le baite, i casoni. San Bernardo di Conio è dato alle fiamme, da ogni parte del bosco si innalzano colonne di fumo. Ad un certo momento sette Tedeschi si dirigono verso il casone dove è occultato il comando divisione. Quando sono scorti è troppo tardi per fuggire. Che fare? Si può sperare non entrino? No, perché essi avanzano proprio verso il casone. E allora? Allora il garibaldino Francesco Alberti (Monte), maniscalco di Conio, si offre, andrà lui, vedrà se potrà convincerli e fermarli. E' un poco anziano, quarantacinque anni, vestito da contadino, lascerà le armi nel casone.
La partita è disperata, se i Tedeschi si accorgono dell’inganno, la sua fine sarà atroce, e come potrà lui ingannarli se conosce a stento la lingua italiana?
Ma i compagni, prima di essere presi, spareranno e i loro colpi gli eviteranno una fine penosa.
Il volontario esce, richiude la porta, scende pochi metri, si ferma presso una vigna a sfogliarla.
I compagni, con il fiato sospeso, osservano attraverso le fessure della porta.
I tedeschi scendono, si fermano, chiamano con le loro voci gutturali.
Il partigiano si alza, viene circondato, discute, dal casone non si afferrano le parole.
I tedeschi gesticolano, indicano ripetutamente la casa, poi il gruppo si avvicina: non c’è dubbio, vengono.
I partigiani si schierano a semicerchio intorno alla porta, puntano un mitragliatore.
Se quelli entrano, una raffica e si balza fuori, qualcuno forse potrà salvarsi.
Quanto impiegheranno a giungere fin qui?
Un minuto forse, ma può darsi che prima circondino la casa o che piazzino una mitraglia contro la porta o che attendano rinforzi, o che brucino il casone senza entrarci.
I minuti passano eterni, che sarà successo?
I partigiani si accostano all’uscio: i tedeschi sono sempre lì fuori, ridono, parlano, che fanno?
Si guarda tra una tavola e l’altra: sono sempre lì a pochi metri che mangiano mele selvatiche, alcuni raccolgono frutti sugli alberi di mele che crescono presso il casone, gli altri sono seduti sull’erba.
Si potrebbe far loro una sorpresa balzando fuori all’improvviso: i tedeschi non sarebbero in grado di reagire perché, è evidente, non pensano di essere osservati.
L’idea è buona, se ne potrebbero uccidere parecchi, per poi disperdersi nel bosco.
È buona, ma non si può: i tedeschi che sono un poco più in basso hanno un ostaggio prezioso, il compagno che ha rischiato per tutti, più di tutti.
Il tempo passa e il nemico è sempre lì fuori. E se qualcuno vuole provare ad entrare?
Riposatisi, i tedeschi si alzano prendendo in mezzo il partigiano che era uscito dalla casa e se ne vanno verso Rezzo.
Lui aveva detto loro di essere un contadino che era in quel momento uscito dal suo casone, quindi a Rezzo i tedeschi chiesero agli abitanti se lo conoscevano, se era un bandito o realmente un contadino del luogo.
La gente confermò le parole del prigioniero: i tedeschi lo trattennero per qualche ora, poi lo rilasciarono... 
Francesco Biga, U Cürtu. Vita e battaglie del partigiano Mario Baldo Nino Siccardi, Comandante della I^ Zona Operativa Liguria, Dominici editore, Imperia, 2011

Montegrande - Fonte: Mapio.net

Riproduzione in un Notiziario - Fonte: Fondazione Luigi Micheletti - della G.N.R. di un documento interno dei garibaldini, ma caduto in mani repubblichine

San Bernardo di Conio, Frazione di Borgomaro (IM): memoriale della battaglia partigiana di Montegrande del 5 settembre 1944 - Foto: Mauro Marchiani


Qui in Liguria invece, schiacciati su terreno poco e gramo di confine, le armi bisogna sgraffignarle ad una ad una, con dei colpi di mano; qui è un'altra guerriglia che dura più accainata, a raspare sempre nei gerbi di tutti i giorni uguali.
Ma a pensarci o no è lo stesso, perché tanto non si può sapere com'è la faccenda o come si metteranno le cose andando avanti col tempo che passa: voglio dire se si può cambiare sta faccenda sì o no; si sa soltanto che ogni giorno è peggio, e avanti così.
Bisognerebbe sapere invece, come la mettono laggiù al quartier generale angloamericano, per potersi regolare suppergiù; epperciò si rimane sempre così nell'incerto, con tutti sti bruttezzi che andando gli dicono dietro.
La radio la sentono al comando, ma quando funziona la dinamo solo di tanto in tanto: va bene lo sfondamento di Cassino l'occupazione di Roma lo sbarco in Normandia e proprio lì in Provenza a due passi, che quasi quasi manco te lo credi; ma non te lo dicono sti merdosi che adesso qui è ancora peggio, con più raffiche di prima.
Non te lo dicono perdio, di questi rastrellamenti uno dopo l'altro, che così a questo modo non ci sono mai stati.
E allora, anche se di là è finita, non te ne frega proprio un tubo di saperlo sì o no; dunque non serve a un piffero nemmeno sta menata della radio, che un po' la senti e un po' non la senti più per via della dinamo, perché è solo una grande fregatura; ed è inutile perdere il tempo a lamentarsi; eppoi chissà perché sono sempre lì a sfrugugliarti, un accidenti che se li porti via.
Fanno presto loro coi ponti caserme ferrovie impianti centrali depositi e tutto il bataclan da far saltare, mettendoci l'esplosivo al posto giusto; fanno presto a dirlo per radio, dicendoti anche forza patrioti sabotate ancora di più, che saranno lì a momenti i liberatori: ma invece non è vero, macché.
Sono a Mentone dice radio Algeri; Italia combatte dice a Ventimiglia; radio Londra addirittura che passeggiano già coi partigiani, tra Bordighera e Sanremo. Tu adesso li senti sul serio ste carogne che te lo dicono e ti tocchi se ci sei, se è prnprio vero o se sei scemo; ma loro sì, o lo fanno apposta o sono propriamente ciucchi, perché è vero che te lo dicono e te lo ripetono, proprio come se fosse vero.
Eppure, va a sapere com'è, anche il comando però dice chissà, forse sarà vero; e così anche questi qui, ci fanno la figura dei fessi proprio uguale, e tutti insieme. Eppertanto, danno subito l'ordine incredibile, tutti giù nel bosco di  Rezzo; tutti insieme senza discutere e con la roba per fare più presto.
Una trappola così precisa fatta apposta, i partigiani non l'avevano mai vista da nessuna parte; non l'avevano mai vista né sentita dire.
Quella volta, c'erano tutti concentrati sotto il tiro dei tedeschi nei cespugli carichi di brina prima dello spuntar del sole; al mattino presto, su tutte le creste intorno ben bene all'ingiro, c'erano già in agguato fascisti e tedeschi da tutto l'universo.
Colonne motorizzate, durante la notte, si erano già messe in postazione collegandosi ai valichi; poi fu rastrellamento all'ingrande, completamente circondati in cresta e in fondovalle.
Qui adesso è così mondocane, e chissà com'è successa questa porca bidonata a più di mille uomini tutti insieme concentrati in questa trappola; sì che lo diranno in parecchi modi dopo, con la radio e senza: ma adesso è così e basta, e non serve dirlo in un modo più che in un altro, com'è.
44. Adesso serve soltanto non girarti in questa trappola della malora, perché tirano incrociati sui passi.
Con le mitraglie puntate, sbarrano dal Colle d'Oggia al Montegrande, per collegarsi con la Mezzaluna e il Prearba, chiudendoti nel cerchio che così non ci scappi più; non fai manco in tempo a capire come succede, che già ti sparano addosso precisi rastrellando il bosco passo passo alla tedesca, con tutto l'occorrente.
Ecco perché dunque, anziché star lì fermo, ti devi muovere a tutti i costi; anche se ti sparano addosso e non capisci; ma se allora devi rigirarti così incastrato sotto tiro, ecco che tanto vale buttarti a casaccio la va come la va, sennò fai la fine del topo.
Se non vuoi farla, chiudi gli occhi e vattene a ramengo te con tutti i tuoi stracci, che più fottuto di così non si può assolutamente; cosa te ne fai adesso di sapere come sarà dopo andando; adesso non ti serve manco più sapere com'è sul momento, tanto ci vedi benissimo che ci sei proprio incastrato.
Te lo dico io adesso com'è: è che tu te ne vai imprecando, sotto le raffiche più che puoi, come ti viene in gola con tutta la rabbia che hai dentro, rigirandoti col pericolo che c'è; tu te ne vai con tutta questa rabbia della trappola di morte e non te la spieghi, quando invece credevi di scendertene al mare cantando, avendo finito di fare la guerra.
Così, loro sparano e anche tu spari tutto più che puoi, con tutta la scalogna che ti capita, in questo andartene balordo sotto le raffiche; alé, ten e vai dritto, tanto è lo stesso in salita o no, al Montegrande; perché loro sono già lassù e tu li devi stanare, altro che balle.
Tutte ste cose che dici adesso però, standotene seduto comodo a raccontarle dopo tanto tempo, allora non le pensavi nemmeno, mancandoti il fiato; allora te ne andavi sotto le raffiche e basta, non essendoci assolutameme il tempo, con tutti quegli spari sempre di più da tutte le parti.
Ma ecco che sempre più balordo, in mezzo al putiferio, ti accorgi finalmente dei sanmarchini che sparano da forsennati; per la miseria se te ne accorgi che ci sono anch'essi, coi mortai puntati sul Montegrande: a sparare come capita capita, e non ti sembra vero.
Tu non lo capisci come fanno a trafficare con sti mortai, anche senza i congegni di puntamento, soltanto col filo a piombo; il fatto sta però, che li sparano in riga tutti giusti, sti colpi sui tedeschi l'un dopo l'altro, sempre di più.
Così, tutti insieme, quelli del Mancen che erano già partiti, con gli altri a sparare; tutti si arrampicano in tutti i modi col fiato grosso al Montegrande, e intanto coi mortai aprono il varco.
I sanmarchini mortaisti al coperto o sul pulito, anch'essi salgono di prepotenza tra i cespugli, e  tutti  insieme  alla  fine occupano  la  cima  del  Momcgrandc, ripulendola ben bene all'ingiro.
Cosicché quella volta, di lassù, i tedeschi contro i partigiani non ci sparano più, mentre quelli del Mancen gridano - bona né.
Poi siccome gli angloamericani, quella volta glielo hanno fatto capire ai partigiani di strafottersene, prendendoli anche in giro; da soli nel bosco adagio, dopo quell'assalto, gli sbandati ritornano ai posti di prima come se niente fosse: però da quella volta, i garibaldini e i sammarchini si capiscono di più; i tedeschi invece, mollano la presa perché non ce l'hanno fatta manco stavolta; eppure gli era capitata l'occasione eccezionale.
Epperciò, i partigiani ricominciano dal principio; ma senza più stare a sentire via radio, cosa dicono dal sud quei capatazzi del cavolo; e d'ora in poi la guerra se la fanno in proprio da sbandati che tanto è lo stesso, mondocane.
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, pp. 67-69

Ettore Bacigalupo. Nato a Chiavari (GE) il 13 luglio 1924; allievo meccanico; vice comandante del Distaccamento "Angiolino Viani". All’alba del 5 settembre 1944 i tedeschi e i fascisti iniziano l’attacco generale per stroncare definitivamente la Resistenza imperiese. Il pronto intervento dei garibaldini sorprende il nemico e permette al comandante Belgrano di organizzare la difesa e, valutata la situazione, ordina alle altre squadre di arretrare su posizioni migliori. Nel tentativo di recuperare un mitragliatore abbandonato cade il caposquadra Ettore Bacigalupo. Il 15 settembre 1944 il Comando divisionale propone il conferimento alla memoria della medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione: "Avvertito che una postazione attaccata dai Tedeschi aveva perduto il mitragliatore, si slanciava al seguito del comandante di distaccamento al contrattacco per recuperare l’arma. Accolti nel tentativo dalla violenta reazione del nemico ormai attestato sulla posizione perduta, i garibaldini persistevano sinché, visto inutile ogni tentativo, iniziavano il ripiegamento. Ettore Bacigalupo, con le lacrime agli occhi per la perdita di quel mitragliatore tedesco da lui conquistato alcuni giorni prima, non volle desistere dall’impresa. Riportatosi sotto la postazione nemica l’attaccava nuovamente con l’audacia dei forti. Lanciatosi improvvisamente contro i Tedeschi dal riparo che aveva raggiunto, imbracciando un mitragliatore “Octis”, riusciva a far tacere la mitragliatrice nemica, ma, colpito da una raffica di machinenpistole, cadeva esamine. Il suo corpo fu poi ritrovato deturpato dalla rabbia nazista. Monte Grande (Rezzo-Imperia) - 5.9.1944"
Redazione, Arrivano i Partigiani, inserto "2. Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I RESISTENTI, ANPI Savona, 2011