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sabato 20 aprile 2024

La salma di Ivanoe Amoretti è oggi custodita nel sacello 103 del Mausoleo delle Fosse Ardeatine insieme a quelle delle altre vittime dell’eccidio

Ivanoe Amoretti. Fonte: Mausoleo Fosse Ardeatine

Ivanoe Amoretti nacque a Imperia il 12 novembre del 1920 da Augusto e Antonietta Delbecchi. Rimasto orfano di padre dall’età di quattro anni, fin da giovanissimo fu attivo membro del circolo Giac «Giosuè Borsi» di Imperia Oneglia. I compagni di associazione, in una testimonianza scritta dopo la sua morte, lo descrissero come uno dei soci più impegnati: «L’associazione Borsi di Oneglia lo ebbe tra i suoi più assidui Aspiranti. In seguito passato alla Sezione Effettivi fece parte del Gruppo Studenti di cui fu uno dei più zelanti ed assidui. Si dimostrò sempre di carattere buono e serio, aperto ed affettuoso con gli amici, i quali ne serba[ro]no gelosamente un perenne ricordo. Ebbe incarichi direttivi nell’Associazione dove temprò l’anima ed il cuore».
Dopo gli studi elementari e medi presso la città natale, si iscrisse al liceo scientifico di Genova e, ottenuto il diploma, alla Facoltà di ingegneria dell’università del capoluogo ligure. Ben presto, però, temendo che la madre non potesse sostenere la spesa per continuare i suoi studi, decise di fare domanda per essere ammesso all’accademia militare di Artiglieria e Genio di Torino. Passate brillantemente le selezioni, dopo il periodo di formazione ottenne il grado di sottotenente in servizio permanente effettivo e si vide assegnato alla 6ª divisione fanteria Isonzo con la quale partecipò alle operazioni belliche della Seconda guerra mondiale.
Nel corso del 1941 venne dapprima spedito con il suo reparto in Grecia, successivamente trasferito in Croazia per il presidio delle postazioni italiane più avanzate. Fu in questa nuova destinazione che venne raggiunto dalla notizia della firma dell’armistizio di Cassibile che, pur ponendo fine alle ostilità con gli angloamericani, lasciava drammaticamente aperto il nodo circa i rapporti da tenere con l’ex alleato germanico. In particolar modo, vista l’ambiguità degli ordini provenienti dal governo Badoglio e l’incertezza dei comandi militari sull’opportunità di resistere all’inevitabile offensiva tedesca, i reparti cominciarono a sbandarsi e diversi suoi commilitoni decisero di lasciare il loro posto per trovare una via di fuga e non rischiare la deportazione in Germania. Già il 9 settembre, infatti, la Wermacht attaccò le guarnigioni italiane presenti in Croazia e, dopo aver preso parte ai primi combattimenti ed essere stato ferito lievemente a una gamba, A. non poté che fare ritorno in patria unendosi ad altri ufficiali che avevano trovato il modo di recarsi a Roma.
Giunto nella capitale, prese immediati contatti con il movimento resistenziale che andava costituendosi. Dopo diversi colloqui con alcuni responsabili delle bande partigiane operanti nel territorio romano, decise di inserirsi tra le fila dell’organizzazione clandestina Travertino che era raccolta attorno alla figura di don Desiderio Nobels, carismatico parroco della chiesa di San Giuseppe nell’omonimo quartiere. Viste le sue capacità militari affinate durante il periodo di formazione e di servizio presso l’esercito, ad A. venne assegnato il compito di addestrare diversi nuclei di giovani volontari che si dicevano disponibili ad entrare tra le file dei partigiani, in particolar modo nei periodi successivi all’emanazione dei bandi di reclutamento fortemente voluti da Graziani. A questo, peraltro, aggiunse una delicatissima opera di informazione e contatto con le forze angloamericane che risalivano la penisola verso la capitale. Fu lo stesso don Nobels che nel dopoguerra ebbe modo di testimoniare: «Della sua attività nessuno sapeva nulla. Le preziose carte militari dei dintorni di Roma, arrotolate in una canna su cui sospendeva le cravatte, non furono scoperte. Nulla trapelò sull’organizzazione di cui faceva parte. Nulla, né a casa, né a via Tasso dove fu sottoposto a interrogatorio, né a Regina Coeli dove attendeva la fine. […] Il tenace e generoso Amoretti portò il suo segreto con fedeltà nel cupo silenzio delle fosse Ardeatine e vi fu sepolto con lui».
Il 12 febbraio del 1944 ebbe l’incarico di accertare gli effetti di un bombardamento effettuato dagli Alleati alla Cecchignola e di fornire notizie precise al fine di rettificare il lancio delle bombe per ottenere un risultato di maggior rilievo. Probabilmente a causa di una delazione, mentre era occupato in questo compito venne raggiunto da un manipolo di militi tedeschi che lo bloccarono e lo posero in stato di arresto. Condotto nelle carceri di via Tasso, A. fu duramente interrogato, percosso e torturato per diversi giorni, allo scopo di indurlo a confessare i nominativi dei responsabili del movimento resistenziale capitolino e le informazioni che attraverso la sua attività aveva recapitato al nemico. Trincerato dietro un ostinato silenzio, i suoi aguzzini dovettero infine arrendersi all’impossibilità di estorcergli rivelazioni e decisero di condurlo al carcere di Regina Coeli.
Il 23 marzo del 1944, a seguito di un’azione condotta da un Gap della capitale in via Rasella, in cui trovarono la morte trentatré militi della forza d’occupazione tedesca appartenenti alla XI Compagnia del III Battaglione Polizeiregiment Bozen, P. fu tra i 330, poi divenuti 335, nomi che vennero designati per la rappresaglia decisa dal comando nazista che scelse di condannare a morte dieci italiani per ogni tedesco morto nell’operazione gappista. Il giovane, dopo essere stato prelevato dalla sua cella, venne dunque condotto alle Fosse Ardeatine e trucidato insieme agli altri prigionieri designati. La salma di A. è oggi custodita nel sacello 103 del Mausoleo delle Fosse Ardeatine insieme a quelle delle altre vittime dell’eccidio.
Nel 1995 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli conferì la medaglia di bronzo al valor militare alla memoria con la qualifica di tenente in servizio permanente effettivo e la seguente motivazione: «Subito dopo l’8 settembre 1943, rientrato dalla Croazia, prese parte ad alcune operazioni nelle montagne di Imperia. Recatosi a Roma nel novembre del 1943, entrò nell’associazione clandestina “Traversito” [sic]; fra l’altro ebbe l’incarico di fare sopralluoghi per il servizio segreto di informazioni alle dipendenze della 5a armata americana. Durante una difficile missione, 12 febbraio 1944, venne arrestato dalle SS tedesche; incarcerato e seviziato non tradì mai la causa. Fu barbaramente trucidato il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine».
Redazione, Ivanoe Amoretti, Biografie Resistenti

Ivanoe Amoretti nacque ad Imperia il dodici Novembre del 1920, figlio di Augusto ed Antonietta Delbecchi.
Entrato nell’esercito combatté durante la seconda guerra mondiale soprattutto nei Balcani: l’armistizio di Cassibile, l’otto Settembre del 1943, che segnò il termine delle ostilità tra italiani ed anglo-americani lo colse con il suo battaglione in Croazia, allora stato fantoccio guidato dal premier fascista Ante Pavelic. Riuscì fortunosamente a rientrare in Patria dove si unì alla pari di altri ufficiali e sottufficiali dell’armata italiana allo sbando ai partigiani.
Condusse la guerra di liberazione nel Lazio alle porte di Roma ed all’interno della città stessa. Fu inquadrato nella banda partigiana dell’Arco di Travertino, periferia sud- orientale di Roma, nata attorno alla figura del parroco belga della chiesa di San Giuseppe nell’omonimo quartiere, monsignor Desiderio Nobels. L’intento della banda, organizzata su volere degli anglo-americani, era quello di fornire il maggior numero di informazioni ai nuovi alleati proprio nel momento in cui essi stavano compiendo il maggior sforzo per liberare la capitale dall’oppressione nazi-fascista.
Amoretti fu un elemento molto prezioso di quella banda ma forse un tradimento da parte di una spia germanica ne decretò l’arresto. Candidato ad essere condannato a morte, Amoretti fu condotto nella tristemente nota pensione “Oltremare” di Via Principe Amedeo all’Esquilino e qui orrendamente torturato dagli sgherri della Gestapo. Fu tra i primi ad essere inserito, da Kappler, nell’elenco dei trucidandi alle Fosse Ardeatine.
Nel 1995 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli conferì la medaglia di bronzo al valor militare alla memoria.  
Redazione, Ivanoe Amoretti, Infinita memoria 

venerdì 23 febbraio 2024

Il risultato fu che chi si presentò nelle 48 ore prestabilite venne inviato in Germania

Lingueglietta, Frazione di Cipressa (IM)

In un mattino nebbioso del 17 gennaio 1945 un numeroso gruppo di fascisti perlustrava le campagne di Prelà. Secondo alcune fonti si sarebbe trattato di Cacciatori degli Appennini, secondo altre della compagnia operativa della G.N.R. del tenente Ferraris. Probabilmente l’azione fu condotta da entrambi i reparti. In due casoni posti ad una certa distanza avevano trovato ristoro per la notte alcuni uomini della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione "Felice Cascione". In un casone sopra Canneto, di fronte a Tavole, si stavano riposando Carlo Montagna Milan, comandante della Brigata [nato a Voghera il 16 agosto 1911, protagonista di numerose azioni, fra le quali spicca quella del 19 luglio 1944, la liberazione dei detenuti politici dal carcere di Imperia Oneglia], Gaetano Sibilla Ivan, Angelo Perrone Bancarà o Vinicio, vicecomandante della brigata, Sebastiano Acquarone Alpino e Ferrero Staffetta Gambadilegno. In un altro casone più in basso sostavano Mario Bruna Falco, commissario della Brigata, Luigi Peruzzi Luigi ed altri uomini. I fascisti intravvidero nella nebbiolina un uomo armato, che sembrava stesse facendo la sentinella. Spararono senza avvertimento e colpirono, uccidendolo, Angelo Perrone. Gli altri partigiani, intese le raffiche, fuggirono in direzione della cresta della montagna, che però era già stata occupata dai nemici. Ritornarono allora sui propri passi infilando il Vallone di Villatalla dove trovarono altri repubblichini in agguato che al loro avvicinarsi spararono. Montagna e Acquarone vennero colpiti a morte. Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed, in pr., 2020

Faceva parte del distaccamento nemico, responsabile dell'informazione, il sergente Zeffiro Zara, che era anche membro della Guardia Nazionale Repubblicana di Sanremo. Le cause non si conoscono ma dopo alcuni giorni, lo stesso veniva arrestato, tradotto nel carcere di Imperia, quindi processato come traditore della Repubblica Sociale. Verrà fucilato nella Caserma "Asclepia Gandolfo" il 27 gennaio 1945 perché, "pur continuando a militare nella GNR era capo di una formazione di ribelli". Anche il garibaldino Guglielmo Bosco, catturato verrà fucilato, come vedremo, su Capo Berta il 31 gennaio 1945. Sulla morte dei garibaldini sopra menzionati veniva aperta una inchiesta per constatare se l'ex brigadiere Gastone Lunardi, comandante del Distaccamento "Folgore" della IV Brigata, avesse preso qualche iniziativa sbagliata nel campo della sicurezza. A livello politico, del triste episodio si interessava anche l'ispettore della I Zona Operativa Liguria, Carlo Farini (Simon) <6.
Quello che è accaduto nella Caserma Ettore Muti a Porto Maurizio (Piazza del Duomo), dove era di stanza una parte della Brigata Nera "Antonio Padoan", tra il 15 ed il 31 gennaio, ce lo racconta uno degli arrestati, Giovanni Piana, di Oneglia, il quale ci spiega che in quel tempo la costruzione adibita a caserma aveva tutte le caratteristiche deteriori di una spelonca:
"... Tutto vi era in disordine e brutti ceffi presidiavano e volgari sghignazzate e canzonette da lupanare giungevano alle due fetide celle del pianterreno dove rimanevano sprangati i vigilati. Il grosso dei nostri arresti avvenne tra il 15 ed il 31 gennaio del 1945. Le azioni di rastrellamento erano state compiute quasi tutte alla periferia della città, dove ci aveva sospinto lo sfollamento, con improvviso e numeroso impiego di brigatisti neri che penetravano nelle nostre case lasciandovi i segni di una educazione che le nostre famiglie, più di noi stessi, tuttora ricordano. Poi ci intruppavano, preferibilmente di notte, e ci conducevano alla caserma cantando con la sguaiatezza degli avvinazzati i "gloriosi inni del regime", e ci buttavano nelle celle come sacchi di palate. Non dico come ci dovessimo aggiustare in ognuna di esse dove lo spazio bastava appena a contenerci e la umidità che da quelle sporche mura trasudava e l'umiliazione a cui eravamo costretti per i nostri bisogni corporali, e la bestialità del trattamento di cui erano capaci gli aguzzini nelle loro truculenti visite e come la scabbia diventò un tormento della nostra cute cui finimmo per abituarci. Ricordo ancora molti dei compagni di clausura: Armando Filié che un "eroico" tenente non cessava di definire provocatore; Pietro Gazzano, il capitano, che avevo conosciuto tanti anni prima nell'organizzazione dei giovani socialisti e che si spense qualche anno dopo nella natia Coldirodi. Raffaelluccio Languasco di frequente in fase di malinconia pensando alla moglie ed al piccolo Giustino. Rinaldo Torelli arrestato in cambio del fratello Gigetto, riuscito ad allontanarsi per tempo. Ernesto Carli contro il quale si era dato peso allla sciocca accusa di un ragazzo deficiente che egli aveva sempre beneficato. Carlo Dellepiane prelevato una brutta mattina di buonora e condotto alla fucilazione sulla strada a mare verso Diano. Piero Panico sempre irrequieto e pensoso. E poi ancora Giuseppe Maccanò sospettato di tenere nascoste armi partigiane nel recinto del cimitero. Carlo Marvaldi, il più giovane di noi, dal morale alto e fermo. Dominici, il vecchio carrettiere che non sapeva nulla di nulla e temeva che gli capitasse qualche brutto imprevisto. E poi Francesco Sasso di Porto, e Novello, piombatoci addosso a suon di nerbate repubblichine poiché si trincerava in ostinati dinieghi sotto l'incalzare delle domande rivoltegli. Fernandez e Roncetti, due graduati della amministrazione carceraria, denunciati dalla famosa "Donna Velata" (Maria Zucco). In un'altra cella c'erano Faustino Zanchi, Salvatore Costa, Vincenzino Di Leo, Tomaso Dominici ed altri. Fino alla Liberazione altri entreranno ancora in queste carceri, altri ne usciranno per essere fucilati. La terribile atmosfera svanirà soltanto il giorno della Liberazione" <7.
[NOTE]
6 Isrecim, Archivi, Sezione II, cartelle, serie T; Sezione I, cartella 36. Vedasi pure Sezione III, cartella 20.
7 Dal giornale "Il Lavoro" del 12 febbraio 1955.

Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV. Da Gennaio 1945 alla Liberazione, 2005, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 86,87

Durante un rastrellamento nelle campagne di Prelà del 17 gennaio effettuato dalla compagnia operativa della GNR di Imperia comandata dal tenente Ferraris, che costò la vita a Carlo Montagna e Sebastiano Acquarone, venne catturato il partigiano Ferrero (Tom o Staffetta Gambadilegno), il quale sottoposto a torture fu costretto a confessare dove si trovava acquartierato il X distaccamento Walter Berio della IV brigata "Elsio Guarrini". Gli uomini di questa formazione, già pesantemente provata dalle perdite subite nelle settimane precedenti, si erano rintanati in un rifugio ritenuto sicuro. Si trattava di un piccolo gruppo, undici uomini in tutto, con a capo “Dimitri”, Vittorio Aliprandi, e “Merlo”, Nello Bruno, si era portato in una località tra Pantasina e Villatalla, in un fondovalle presso un ruscello incassato tra pendii scoscesi, rivestiti di boschi, dove era stata adattata una caverna a rifugio. Il luogo sembrava sicuro: un muro a secco era stato eretto all'entrata della tana. I rastrellatori di Ferraris si avvicinarono al rifugio, sicuri che i partigiani fossero in quel punto. Dopo aver ispezionato palmo a palmo il terreno circostante iniziarono a togliere alcune pietre che celavano il rifugio e buttarono dentro alcune bombe a mano. Ormai i partigiani erano in trappola: Vittorio Aliprandi e Nello Bruno si tolsero la vita per non cadere nelle mani del nemico, gli altri nove uscirono dal rifugio con le mani alzate e vennero fucilati in momenti diversi: tra questi Luigi Guareschi (Camillo) il 9 febbraio 1945, Vincenzo Faralli (Camogli) il 9 febbraio 1945, Carletti Doriano (Misar) il 15 febbraio 1945, Giuseppe De Lauro (Venezia) il 15 febbraio 1945. Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed, in pr., 2020

Dopo la prima quindicina del mese di gennaio 1945 gradatamente formazioni della Divisione nemica "Cacciatori degli Appennini" si trasferiscono verso l'estremo ponente ligure. Abbiamo già visto come durante un rastrellamento colpissero gravemente il Comando della IV Brigata "E. Guarini" nel vallone di Villa Talla. Nell'occasione del trasferimento affiggono un avviso che abbiamo ritenuto riportare integralmente poiché ci dà un quadro abbastanza preciso della situazione nella quale vennero a trovarsi i giovani che avevano disertato le chiamate nemiche, abitanti dei nostri paesi del retroterra.
Ecco il testo dell'avviso: "Gruppo Cacciatori degli Appennini. Si avverte la popolazione che il III Battaglione Cacciatori degli Appennini, desideroso di portare la tranquillità e la normalità nella zona, è disposto a venire incontro a tutti coloro che, avendo obblighi militari, hanno seguito consigli di elementi prezzolati del nemico e si sono dati alla macchia. A coloro che si costituiranno entro 48 ore dalla data del'affissione del presente avviso, si garantisce l'incolumità della vita. Contro quelli, invece, che, non avendo accolto questo appello, venissero catturati nel corso di operazioni militari, verrà applicata la legge di guerra. Z.O. 24 gennaio 1945, ore 8 del mattino. Il comandante del Battaglione maggiore Mario Rosa <1.
Il risultato fu che chi si presentò nelle 48 ore prestabilite venne inviato in Germania. Chi fu catturato dopo il termine dell'ultimatum venne passato per le armi.
Consultando ancora il memoriale del Polacchini, di cui abbiamo già parlato, risulta in modo evidente in che situazione si venissero a trovare i partigiani della IV Brigata. I giorni drammatici che ttrascorrono per il I Battaglione sono uguali a quelli del II e del III.
Scrive Polacchini nel suo memoriale: "... Alle prime luci dell'alba del 24 gennaio 1945 saliamo in vetta alla collina, al passo di Lingueglietta. La stagione è primaverile. Ci laviamo con l'acqua di un serbatoio usato per l'irrigazione. Tocca a me e a Renato Faggian (Gaston) andare in cerca di viveri. Decidiamo per Cipressa, ma partiamo imprudentemente in pieno giorno. Nei pressi di un caposaldo due Tedeschi stanno facendo legna in un boschetto. Hanno le armi a portata di mano. Quando ci vedono smettono di lavorare, ci osservano, parlano tra di loro, ma non ci fermano. Non abbiamo armi in vista, ma sotto la giacca le nostre pistole e, in un zainetto, quattro bombe a mano. Noi facciamo finta di niente e non succede nulla. Facciamo ritorno nel pomeriggio con pane, farina bianca, un fiasco d'olio d'oliva ed una vecchia pentola di alluminio. Tutta roba fornita da un tale del CLN. Dopo l'unico pasto quotidiano andiamo a dormire due a due in piccole costruzioni tra i rovi. Siamo visti da gente di Cipressa venuta a raccogliere le olive per cui decidiamo di cambiare ancora luogo di sosta. Ci portiamo sopra Torre Paponi, paese quasi completamente distrutto dai fascisti nel dicembre 1944. Passiamo la notte in una piccola costruzione tra gli ulivi. Al mattino presto io e Giuseppe Conio (Zabù) andiamo a Pietrabruna anche per avere qualche notizia fresca. Apprendiamo dell'avanzata sovietica in territorio tedesco (Prussia e Slesia), così ci rianimiamo un poco al pensiero che la guerra va verso la fine. Torniamo con pane, formaggio e sapone. Facciamo conoscenza con il nostro padrone di 'casa', è un agricoltore di Lingueglietta il quale ci offre del vino...".
Il 25 gennaio, il partigiano Ferrero (Tom o Staffetta Gamba di legno), del X Distaccamento "Walter Berio", catturato dal nemico il giorno 17 (come abbiamo già ricordato) e rimasto ferito, viene medicato, sottoposto a duri interrogatori, tradisce i compagni poiché conduce i fascisti nella tana che nascondeva il Distaccamento e che lui stesso aveva aiutato a costruire. Così cadono in mano al nemico ben undici garibaldini, tra cui il comandante Vittorio Aliprandi (Dimitri) e il commissario Nello Bruno (Merlo), i quali preferiscono togliersi la vita piuttosto di arrendersi <2. Sette di loro saranno fucilati ad Oneglia e due a Torretta di Vasia.
[NOTE]
1 Isrecim, Archivio, Sezione I, cartella 96.
2 Dal giornale "La Verità" del 2 gennaio 1946.

Francesco Biga, Op. cit., pp. 88,89

venerdì 16 febbraio 2024

La Resistenza narrata dall'imperiese Osvaldo Contestabile

Illustrazione di Marisa Contestabile. Fonte: Osvaldo Contestabile, Scarpe Rotte Libertà, op. cit. infra

Altro più interessante esempio dei nuovi modi per narrare la Resistenza è lo scritto di Osvaldo Contestabile. Questa volta, si resta nell’ambito della memorialistica. Contestabile ha partecipato alla guerra di Liberazione sulle montagne liguri piemontesi: è stato commissario politico della IV Brigata Garibaldi “D. Arnera”. Laureato in lettere, dopo la Liberazione è stato professore di istituto tecnico, preside di un liceo linguistico, segretario dell’Istituto storico della Resistenza di Imperia e assessore al comune; ha poi collaborato con numerosi quotidiani locali. La realizzazione narrativa della Resistenza fatta da Contestabile diventa interessante se messa in relazione con il suo status di laureato, professore di italiano e giornalista. Tutte queste qualifiche indicano nell’autore una cultura medio-alta, e quindi la padronanza dell’italiano e della scrittura narrativa. Il testo, al contrario, cozza con questa preparazione letteraria di partenza, sin dalle prime pagine.
Si veda come Contestabile descrive il 25 luglio, e l’arrivo del fascismo nelle sue zone: "Il crollo del regime sopraggiunse implacabile quando la cagnara del 25 luglio colse la gente all’improvviso, con coprifuoco di Badoglio che soffocò sul nascere gli entusiasmi. Ma tutto precipitò ancora più presto nella baraonda quarantacinque giorni dopo, coi generali latitanti i fascisti impauriti i tedeschi occupanti e i treni piombati per i lager. Anche inizialmente però l’origine del fascismo qui da noi era stata così, una ventata grigia senza vicende straordinarie, proprio all’usanza locale. Poco prima della marcia qualche giardiniere pigro nella siesta, aveva visto De Bono e De Vecchi quadrumviri tutti pieni di patacche, che in privato rendevano omaggio alla regina madre ormai vecchiotta e un po’ svanita. Era un pomeriggio mite tra le palme e le strelizie di Bordighera dalle parti di Sant’Ampelio dove frange la risacca. Poi, col solito fracasso come dappertutto, eccoti prepotenze voci grosse olio di ricino e manganellate […]. Ma propriamente alla Marcia su Roma - giovinezza giovinezza - i fascisti nostrani col fez e le giberne non c’erano tutti per bene allineati in colonna come quelli della valpadana. Loro se ne rimasero in emergenza in retrovia prendendosela col prefetto poveraccio confinato nel suo appartamento: se ne stesse lì buono buono agli ordini del fascio, guai a reagire". <289
Si nota qui uno stile che salta continuamente dalla retorica spicciola, rubata al bagaglio espressivo della poesia («dove frange la risacca»), all’espressione popolare («la cagnara», «se ne stesse lì buono buono»).
Contestabile usa un linguaggio espressamente basso. Quando vuole essere magniloquente - per esempio, nelle descrizioni di paesaggi e ambienti - sceglie espressioni appositamente stonate. Egli adotta questa tecnica poiché vuole mostrare come parlerebbe un uomo del popolo degli anni ’40, digiuno di cultura.
Se si volesse esprimere in un italiano “corretto” egli ricalcherebbe la vetusta retorica risorgimentale, riproposta come lingua di cultura dal regime fascista, che cozza con l’italiano basso della quotidianità, predominante nel resto del racconto.
Contestabile mantiene uno stile popolare anche al di fuori di queste parti volutamente pesanti poiché il punto di vista e il linguaggio con cui racconta la Resistenza è quello delle persone comuni. Egli interpreta i pensieri della gente di fronte ai primi partigiani: "Eccola lì dunque sta buriana maledetta che adesso è arrivata tutta intera fin nei paesi delle montagne, e ancora più in su. È arrivata fin nelle gole con pietrame pulito dal vento, dove prima si sentivano soltanto i versi dei corvi i tocchi dei campanacci e il belare degli armenti. Adesso in queste vallate lo sanno tutti grandi e piccini che una buriana così non se la schiva più nessuno, perché è una fatalità: nemmeno più i furbastri facendo i ruffiani come al solito coi loro giochi di prestigio riescono a scansarla, perché anch’essi ci sono per la pelle e devono scegliere per forza. O sei di qua o sei di là, non ci puoi stare più in nessun modo in mezzo facendo finta da imboscato; ma in genere, con tutto che c’è sta maledizione in tutti i posti dove vai, la gente si mette subito di qua al posto giusto, e ci resta. Di là si mettono soltanto gli altri che sono diversi, ma non contano niente perché gli altri non sono la gente. Loro sono diversi perché sono contro la gente e tutti lo sanno come sono, punto e basta". <290
Il protagonista predominante in questa parte iniziale del testo è il popolo, che affronta gli eventi del 25 luglio. L’autore ha scelto espressamente questo stile perché è la veste narrativa che permette alla componente popolare della Resistenza di emergere. Contestabile descrive una Resistenza che è stata soprattutto grande movimento di popolo, a cui tutti hanno partecipato, anche se con modi e tempi diversi. Lo afferma proprio in questa pagina: prima o poi tutta la «gente» ha saputo attivarsi e scegliere la parte giusta, cioè lo schieramento partigiano. Chi ha preferito la Rsi è un diverso, uno «contro la gente», «punto e basta». È questa grande coesione popolare che deve colpire il lettore.
Nella prima parte del racconto, la figura di Contestabile non emerge. Solo in alcune parti si coglie tra le righe la presenza del narratore quale protagonista attivo del racconto. Questo avviene quando l’autore si rivolge ad un destinatario imprecisato con un «tu» diretto. In quei passaggi egli non sta interpellando il lettore, come può sembrare: con quel pronome Contestabile parla al se stesso di quegli anni. Nello stralcio precedente si ha un esempio di questa tecnica narrativa: quel «non puoi più stare in nessun modo in mezzo facendo finta da imboscato» non è riferito ad un qualsiasi giovane degli anni ’40. Nonostante il protagonista del suo scritto sia principalmente il popolo, egli racconta la propria esperienza personale adottando una tecnica che gli permette di parlare di sé evitando l’intromissione diretta nella narrazione. Ecco un altro esempio: "Piantala di spiare dalle fessure come un vagabondo la brace nella cenere dei focolari; vattene finché puoi per la campagna pestando la neve; lo sai che tanto non hai più tempo per fermarti da nessuna parte, neve o non neve; ma sta tranquillo che quando non ne puoi proprio più, te lo trovi ancora un posto da buttartici dentro, e ti ci slargherai tra l’erica e i rovi con la coperta; forse di lì non ci passeranno. Adesso la notte è calma e va bene; ma è inutile che te la prendi se verso Ginestro si fatica a camminare con la ramaglia spessa fino al ginocchio; tu devi guardarti davanti se finalmente trovi del pulito per fermarti e fartici un posto da accucciarti con la coperta, ma fermo, sennò guai; devi vedere se tra gli sterpi puoi fartici un posto per riposarti un po’, il resto non conta". <291
Ovviamente, le parti riconducibili alla figura e alle riflessioni del narratore aumentano sempre più man mano che ci si addentra nella dimensione della guerriglia, e si fanno più radi i contatti con la realtà quotidiana e popolare del paese. Anche le riflessioni più personali e profonde - riguardanti la maturazione del protagonista attraverso gli eventi - mantengono la finzione del dialogomonologo tra l’Osvaldo giovane e quello maturo: "Adesso succede che ti guardi intorno e non sai più cosa dire, nemmeno se ti sforzi […]; ma poi ti accorgi chissà perché, come se fosse la prima volta in questa stagione così diversa con le sparatorie ormai inutili, che tu sei cambiato da quello che eri prima di cominciare. Però, adesso non metterti lì a pensare mentre ste cose succedono una sull’altra, tanto è lo stesso: se proprio lo vuoi sapere, te lo dico io cosa t’è successo col passare dei giorni, e tu non te ne sei accorto. È il crescere che ti è capitato tutt’assieme diventando grande da un giorno all’altro, quando subito ti parve un gioco o invece fu incoscienza; o ti ci trovasti impegolato: va a sapere com’è stato in questo modo veloce, con le sparatorie che non finivano mai. Crescendo in tutta la confusione che ti sei trovato, in questo scapolartela che ti pareva impossibile, tu sei diventato grande tutt’assieme, passando dai giorni spensierati ai giorni della guerra; tu sei cresciuto alla svelta andandotene da una parte all’altra, sbattuto di qua e di là, nei boschi o fuori dei boschi, dentro i paesi o fuori dei paesi; peggio delle bestie". <292
Lo scarto tra il protagonista, giovane e incosciente, e l’Osvaldo maturo, che ha avuto la possibilità di riflettere sulle vicende resistenziali alla luce dei risvolti contemporanei, si coglie soprattutto nel finale del testo. Il narratore invita, ironicamente, il giovane ribelle a smettere i panni del partigiano per lasciare la gestione della situazione ad altri. Con questo suggerimento fittizio, Contestabile tocca tutti i temi caldi del dibattito sulla Resistenza, sempre con l’ironia e il taglio colloquiale che contraddistinguono tutto il testo: "Devi sapere, partigiano, che questa è la liberazione nazionale di tutta quanta la gente oppressa, che costa fatica; bisogna farla precisa, senza distrazioni, con la sacrosanta cèrnita e punizione dei responsabili, altro che balle; eppoi, ci sono tutte le altre cose che ci vogliono subito per la gente sinistrata: amlire amnistie booge wooge off limits, e scatolette in distribuzione gratuita. Adesso, partigiano, non complicare le cose con le tue faccende personali, e vattene a casa; quando in seguito avremo più tempo, faremo qualcosa anche per te […]. D’ora in poi, però, tu personalmente tieniti per te nella memoria, soltanto questa parola resistenza, che ti hanno regalato; epperciò adoperala come vuoi, dove ti capita, anche parlando. Non vedi che ogni tanto la usano in commozione anche quelli che non dovrebbero, nei loro discorsi […]? Ma tu, ci mancherebbe altro, non offenderti: ormai sei cresciuto. Questa parola resistenza devi sapere che adesso la mettono anche nei libri di storia; ma non ci riescono a spiegarla bene, come sarebbe giusto, per raccontarla precisa, com’è successa in pratica […]. Ma cosa vuoi ancora di più, o partigiano, dopo tutte ste celebrazioni e le parole e le baldorie del 25 aprile? Tanto è assolutamente inutile, perché tu lo sai che quando rimani da solo, è diverso, e ti succede sempre così; ti succede di ripensarci sempre con la tristezza, altro che i festeggiamenti le fanfare e il fracasso del porco mondo, che se lo porti via". <293
Per concludere l’analisi, questo testo è l’esempio di come a distanza di anni e in un momento di relativa tranquillità riguardo al dibattito sulle tematiche resistenziali i memorialisti cerchino nuovi modi per raccontare la guerra partigiana vissuta e metterne in luce caratteristiche ancora non affrontate. Il taglio semplice, colloquiale che Contestabile dà al suo stile gli permette di mostrare che della Resistenza tanto si è detto e scritto che si è perso il contatto diretto con essa, e con la sua matrice popolare. Si è trattato fondamentalmente di una lotta di popolo, improvvisata con i mezzi a disposizione. I partigiani stessi non erano eroi, ma semplicemente i figli di quelle masse popolari obbligate dagli eventi ad entrare nel gioco, a scrivere un pezzo di storia. Forse, ne avrebbero fatto volentieri a meno, sembra dire Contestabile.
[NOTE]
289 OSVALDO CONTESTABILE, Scarpe rotte libertà: storia partigiana, presentazione di Sandro Pertini, Bologna, Cappelli, 1982, p. 9.
290 Ivi, pp. 22-23.
291 Ivi, p. 152.
292 Ivi, pp. 235-236.
Sara Lorenzetti, Ricordare e raccontare. Memorialistica e Resistenza in Val d’Ossola, Tesi di Laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro" - Vercelli, Anno accademico 2008-2009

giovedì 28 dicembre 2023

I partigiani proseguono la battaglia dei ponti

Ormea (CN). Foto: Mauro Marchiani

Alle tre del mattino del 2 agosto 1944 la cresta della montagna che si estende dal Pizzo d'Evigno al Pizzo della Ceresa, ancora in ombra, emerge netta sullo sfondo del cielo chiaro e stellato. Ad un tratto, un bisbiglio di pronuncia straniera giunge all'orecchi di Biga Albino della banda di Roncagli, accovacciato in un cumulo di fieno nei prati di "Scornabò". Alzata la testa ancora piena di sonno e volto lo sguardo verso la cresta, ad una ventina di metri scorge le ombre di una lunga fila di uomini sagomate contro il cielo, che gesticolano verso il fondo valle. I Tedeschi, pensa. Ma no! Non può essere, altrimenti i partigiani accampati ai "Fussai" lo saprebbero; il SIM li avrebbe informati di un probabile rastrellamento. Saranno i disertori polacchi unitisi ai partigiani, che stanno per trasferirsi in Valle Arroscia. Infatti, il giorno precedente gli uomini di "Mancen" a Borello, a Borganzo, a Roncagli, ad Arentino, ed a Evigno, avevano preso in prestito dai contadini una trentina di muli per il trasporto degli equipaggiamenti.
Albino, che nella penombra osserva ancora, ad un tratto intuisce che le ombre sono veramente soldati Tedeschi che stanno per iniziare il rastrellamento.
Con movimenti impercettibili riesce a raggiungere l'oscurità del bosco sottostante. Scivola rapido tra gli sterpi ed i cespugli di un ruscello, si avvicina, giù in basso, al casone dei "Fussai" dove sono accampati e dormono i partigiani della "Volantina"; della presenza tedesca avvisa la sentinella che attizza il fuoco sotto la marmitta del caffè e che, disgraziatamente non crede alla notizia, poi scende rapidamente le scogliere del "Negaesso" e si rifugia in inaccessibili tane insieme ad alcuni compagni. Altri contadini che, in piena fienagione, stavano dormendo per i prati, sono protagonisti dello stesso episodio, tra cui la ragazza Lucia Ardissone che, dopo una corsa di qualche chilometro per la montagna, riesce a mettere in allarme una decina di giovani di Roncagli che stavano riposando in una baita in località "Pian della Chiesa". Appena vi giunge, tutta la vallata già rimbomba di scoppi di bombe a mano, colpi di fucile, raffiche di mitragliatrice. I soldati Tedeschi giunti nella notte dalla Valle Impero, dalla Valle di Andora, dalla Valle Steria, dal Passo della Colla, dal Monte Ceresa, dal Colle del Lago e dal Monte delle Chiappe, scendono a valle. Alle sette del mattino i borghi di Evigno, Arentino, Roncagli e Borgoranzo vengono investiti e saccheggiati. Con qualche masserizia e col bestiame, gli abitanti fuggono disperati per tentare di nascondersi nei rifugi della campagna. Intanto i grandi stormi di fortezze volanti americane attraversano il cielo lasciando lunghe strisce bianche, il rumore assordante prodotto dai motori degli aerei fa vibrare il terreno, in modo insopportabile si ripercuote nelle tane costruite nelle fasce ulivate.
Ogni cespuglio del torrente Evigno viene battuto da raffiche di mitra e bombe a mano. Chi vi si trova nascosto prova momenti di indescrivibile terrore.
L'attacco del 2 agosto alla “Volantina” nella valle di Diano Marina, con il rastrellamento tra il Merula e l'Impero, e la marcia della colonna nazifascista, che pervenuta da Garessio si arresta ad Ormea, vanno intese come operazioni preliminari al vasto rastrellamento vero e proprio.
Il piano del Comando tedesco prevede le azioni su un territorio molto ampio, infatti i contingenti militari partono da direzioni notevolmente distanti l'una dall'altra: Garessio-Ormea, Albenga, colle San Bartolomeo. Sono toccate ben tre province (Cuneo, Savona, Imperia) e due regioni (Piemonte e Liguria).
L'obbiettivo è importante ma, nell'agosto, il fine si presenta più limitato rispetto al precedente mese di luglio, risultando ormai ben difficile l'eliminazione totale dei garibaldini della I Zona Liguria.
Perciò, il grande schieramento di forze è rivolto ad ottenere il controllo di alcune vie di comunicazione. I Tedeschi, dopo aver operato le marce di spostamento ed essersi assicurati il controllo della Statale n. 28 per il tratto che va dal litorale al colle San Bartolomeo, iniziano il giorno 9 o il 10 (a seconda della provenienza delle diverse colonne) le operazioni di rastrellamento.
L'epicentro dell'azione è Caprauna, paesello ubicato nel cuore del territorio  da accerchiare su cui convergono da ogni direzione, a raggiera, numerose vie di comunicazione; ma il primo obbiettivo nazista è l'occupazione di Pieve di Teco. Su questa località si dirigono le tre principali colonne accerchianti. La prima parte da Ormea, dove era giunta per mezzo di un treno che era stato attaccato dai partigiani appostati sulla riva destra del Tanaro (nel corso dell'operazione erano state divelte in parte le rotaie della strada ferrata, ma le carrozze ferroviarie non si erano rovesciate); da Ormea si avvia per la statale a Case di Nava e scende a Pieve di Teco. La seconda proviene da Albenga, percorre la carrozzabile, ed a sua volta si ramifica in due colonne: una raggiunge Nasino, Alto e punta su Caprauna; l'altra prosegue lungo la strada per Borghetto di Arroscia e si inoltra a Pieve di Teco. La terza infine, proveniente dal litorale, parte da colle San Bartolomeo e procedelentamente e molta guardinga per il timore di imboscate lungo la Statale n. 28 fino a Pieve di Teco e, verso mezzogiorno, entra nel paese, malgrado la resistenza opposta dal distaccamento di “Orano” presso villa Baraucola. Durante il percorso il grosso della truppa è preceduto da pattuglia di avanguardia che, passando, provocano vasti incendi che sprigionano alte colonne di fumo. Il Comando tedesco ha ormai racchiuso il territorio della I Brigata in una grande sacca e si appresta a sferrare l'attacco decisivo per eliminare i partigiani circondati.
Il comando garibaldino, però, essendo già stato informato dal giorno 5 del prospettato rastrellamento nazista, pur senza conoscerne la data esatta, aveva provveduto ad avvertire le formazioni dipendenti del pericolo, prendendo misure di immediata difesa, sicché era venuto a mancare ai Tedeschi il vantaggio del fattore sorpresa. La sede del comando della I Brigata, con perfetta scelta di tempo, dopo l'occultamento del materiale e dei documenti delle formazione, si era trasferita da Pieve di Teco a Moano (in Valle dei Fanchi). Anche l'ospedale civile era stato evacuato, mettendo in salvo i partigiani malati. La “Matteotti”, che da Lovegno seguiva i movimenti dei Tedeschi, invia staffette per avvisare le altri formazioni del pericolo imminente.
Nella notte tra il 9 e il 10 di agosto “Cion” [Silvio Bonfante] attacca i Tedeschi a Pieve di Teco; poi si sposta verso Madonna della Neve dove poco tempo prima si era portato “Pantera” con i suoi uomini e, sulla dominante vetta del Frascianello, aveva trovato la Matteotti. “Pantera” prima dell'arrivo di “Cion”, aveva rivelato alla “Matteotti” i suoi propositi di forzare l'accerchiamento nemico per cercare la salvezza nel bosco di Rezzo, ed a tal proposito aveva chiesto l'autorizzazione del Comando, ma gli era giunto l'ordine di non muoversi, di restare a presidio del luogo e di mandare pattuglie di sorveglianza sulla carrozzabile Pieve di Teco-Moano. Non si sa se l'ordine fosse impartito senza un'esatta cognizione della vastità del rastrellamento o se si intendesse effettuare l'attacco in un unico punto dell'accerchiamento nemico, dal quale passare tutti insieme dopo aver evitato dispersione di forze, maggiori rischi e perdite di vite umane. Successivamente per mezzo di staffette “Cion” ordina a tutti i distaccamenti di portarsi immediatamente verso Case di Nava. Oltre al Comando della I Brigata ed ai distaccamenti “Volantina” e “Matteotti”, si trovano nella zona le formazioni comandate da “Pantera”, “Orano”, “Renzo”, “Vittorio”, “Battaglia” e “Domatore”.
All'alba del 10 di agosto i Tedeschi chiudono la sacca addentrandosi nel centro del territorio. La colonna nazista dell'Alta Val Tanaro scende in direzione quasi parallela alla statale; altre due, partite da un unico punto dalla medesima strada equidistante da Ormea e da Case di Nava, si inoltrano anch'esse verso sud, nel cuore del territorio della I Brigata; una colonna da Armo punta a nord; una da Ranzo tende a Gavenola; un'altra ancora da Pieve di Teco oltrepassa Lovegno; ed infine una da Vessalico punta su Lenzari e si avvia a Madonna della Neve. Nel pomeriggio del 10 vi è tutto un dilagare di Tedeschi, in ogni direzione, in ogni paese e frazione e anche presso case sparse e sulle mulattiere.
I luoghi che poche ore prima erano stati le sedi dei garibaldini, ora sono investiti dall'ondata nemica. I partigiani per vie dirupate e sentieri da capre, attraverso boschi e crinali, devono operare complicate deviazioni per sganciarsi dal nemico. “Cion” da Madonna della Neve giunge a Case di Nava con altri distaccamenti, attacca decisamente i Tedeschi di presidio (circa una trentina), li disperde e riesce in tal modo ad aprire un varco nell'accerchiamento. La “Matteotti”, invece, dopo una lunga marcia, riuscirà ad oltrepassare il Tanaro presso Eca Nasagò. Ma non tutte le formazioni fanno in tempo a sganciarsi: quella di “Battaglia” resta ferma, o quasi, tra Gavenola e Leverone, mentre quella di “Renzo” si occulta nei boschi dell'alta Val Pennavaire. Il giorno seguente, 11 agosto, prosegue ancora il rastrellamento poi verso sera si estingue. Le perdite garibaldine non sono lievi: alcuni partigiani sono stati catturati ed uccisi, tra cui il comandante Giuseppe Arrigo (Orano). I Tedeschi non hanno conseguito risultati di grande rilievo. Hanno commesso gravi errori nel corso dell'operazione. Primo fra tutti, l'aver rinforzato eccessivamente le colonne rastrellanti a scapito di quelle d'accerchiamento. Altri gravi errori sono stati lo sgombero notturno di paesi e passi e l'aver presidiato tutti i ponti sul Tanaro il giorno 11 anziché il 10. La disposizione del presidio di Case di Nava ed il passaggio della “Matteotti” attraverso il ponte sul Tanaro rivelano infatti l'imperfetta riuscita dell'accerchiamento e la precarietà della sorveglianza notturna. Il vantaggio ottenuto è il controllo della Statale n. 28, d'altronde quasi impraticabile per i ponti distrutti dai partigiani. Questi, infatti, per la ragione opposta che ha spinto i Tedeschi alle azioni militari per il controllo delle vie di comunicazione, proseguono la battaglia dei ponti per impedire il libero transito ai nazifascisti. L'opera di ricostruzione o riparazione, lunga e non agevole, sarà continuamente ostacolata e ritardata dal sabotaggio dei partigiani. Dal resto, ormai la Resistenza è diventata esperta nella guerriglia e sa parare ogni colpo, affrontare ogni mezzo nemico, sfuggire un attimo prima, passare un attimo dopo il passaggio del nemico; i distaccamenti possono frazionarsi in squadre e nuclei ed in singoli uomini e, in seguito, ricostituirsi in breve tempo, come per magia. Il partigiano, ora, sa occultare il materiale salvandolo dalla furia dei nazifascisti, prevedere l'immediato futuro, dosarsi le forze per tutte le stragrandi difficoltà dei momenti peggiori. Egli sa tendere ad un luogo di salvezza valutando gli eventuali pericoli che potrà incontrare lungo la via, sa vegliare tutta la notte, digiunare a lungo e camminare senza posa, riposarsi due ore per riprendere il cammino; conosce la necessità del sangue freddo nelle occasioni più difficili e pericolose, sceglie il momento adatto per rispondere al fuoco dalla posizione migliore; è più veloce, agile e spedito dei Tedeschi incolonnati e timorosi dell'agguato, carichi d'armamento pesante, guidati dalle carte ma ignari dei sentieri, delle curve, della presenza partigiana. I patrioti procedono per luoghi impervi, informati dalla gente della presenza o vicinanza nemica o del viottolo che offre salvezza.
Immancabilmente, poco tempo dopo ogni grande battaglia o rastrellamento, le formazioni garibaldine ritornano nella zona occasionalmente abbandonata.
Gino Glorio "Magnesia", Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - I parte, Genova, Nuova Editrice Genovese, 1979

lunedì 4 dicembre 2023

Era Stalin con i suoi partigiani e quando giunsero il paese si animò d'improvviso

Aquila d'Arroscia (IM). Fonte: Wikipedia

Molti erano come Basco [n.d.r.: Giacomo Ardissone, vice comandante della II^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Nino Berio" della Divisione "Silvio Bonfante"], tutti anzi vivevano giorno per giorno senza chiedersi più se quello che facevano era bene o male o perché lo facevano. Avevano deciso una volta, quando erano venuti sui monti. Avevano meditato ancora sul da farsi quando la situazione era mutata, seguendo un impulso interno dettato più dai sentimenti che da ragionamento. Continuavano la lotta perché era ormai una seconda natura. Quali erano i sentimenti inespressi che covavano nell'inconscio di quei giovani che li avevano sostenuti, nei momenti di scoramento, quando l'abitudine non bastava più? Alcuni avevano sentito la necessità di riscattare il passato dell'Italia, di riconquistarle la libertà dall'oppressione con la forza non intendendola come un dono del più forte. Per i comunisti era la speranza di fondare un mondo nuovo, di gettare le basi per una società più giusta. E per gli altri? E' difficile dirlo perché ne parlavamo poco. Forse erano stati sufficienti i sentimenti che covavano in tutti: l'astio per il nemico, il desiderio di vendicare i compagni morti, i paesi bruciati, gli ostaggi fucilati, anche a costo di nuovi lutti; la speranza di prendersi una sanguinosa rivincita per tutto quello che avevamo sofferto; l'orgoglio di non piegarsi, di poter scendere alla costa a testa alta, il desiderio di non confondersi con la massa dei deboli, di quelli che sono vissuti nel terrore del nemico; la coscienza magari indistinta di essere tra gli attori del grande dramma, di una pagina di storia, di aver afferrato da forti una occasione unica che basterà a riempire di ricordi o di orgoglio tutta una vita per aver sfidato il nemico temuto da tutti e per non aver piegato quando i più l'avevano fatto.
"Una volta in Croazia" - raccontava Basco - " ero in postazione fuori paese quando avvistammo su una collina di fronte degli uomini in pantaloncini bianchi che scendevano con cautela. Era inverno e ci pareva strana una divisa di quel genere. Venivano verso di noi e non erano armati. Quando furono vicini ci accorgemmo che erano scalzi ed in mutande. Il nostro capitano uscì dalle linee, uno di loro scattò sull'attenti e si presentò, diede il nome del reparto e poi concluse: 'Catturati dai ribelli e poi liberati'. Il capitano esaminò il tenente da capo a piedi: 'Andate giù in paese a rivestirvi!'. Mentre scendevano per la mulattiera vedemmo che sul retro delle mutande avevano scritto con pittura rossa e azzurra VINCERE. Come erano stati presi? Lo seppi il giorno dopo da uno di loro che trovai in paese. Erano andati in perlustrazione fin quando avevano avvistato una sentinella partigiana; si erano buttati al riparo delle rocce, poi il tenente impugnando la pistola: 'Ragazzi, si attacca! Savoia!'. Gli altri risposero: 'Savoia!' ma poiché il tenente restava con la testa dietro al sasso, nessuno si mosse. Qualche minuto di attesa, poi di nuovo 'Savoia!' e di nuovo tutti fermi. Infine dopo aver gridato Savoia cinque o sei volte vennero i ribelli e li catturarono".
Il discorso fu interrotto dall'entrata di un partigiano: "C'è gente in cresta dalla parte di Aquila [Aquila d'Arroscia]". Uscimmo in due o tre: sulla mulattiera che scendeva dalla cappella di S. Cosimo scendeva una ventina di armati. "Forse son quelli della I che vengono per le armi. Fra poco li vedremo meglio". Era Stalin [Franco Bianchi, comandante del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"] con i suoi e quando giunsero il paese si animò d'improvviso.
Pranzammo e poi dividemmo le armi. C'era anche Giorgio [Giorgio Olivero, comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] con Boris [Gustavo Berio, vice commissario della Divisione Bonfante], c'era un capobanda della Divisione di Savona cacciato in Val Pennavaira da un attacco tedesco. Anche sopra Savona avevano avuto un lancio: ci promise munizioni per mitraglie che avevano ricevuto in abbondanza mentre a noi mancavano ancora.
"Da oggi ha inizio la campagna di primavera", disse Giorgio, mentre gli uomini riempivano i caricatori dei mitra con i colpi per gli Sten. "Si riprendono gli attacchi, si abbandona la tattica cospirativa: piena libertà di azione per ogni banda, attaccate come e quando volete, non occorre più l'autorizzazione del Comando. Ragazzi, distruggete la scatola delle munizioni, in paese non deve restare traccia del lancio".
L'armamento della Divisione era finalmente aumentato, venne esaminata la situazione di ogni banda sotto l'aspetto delle armi automatiche in dotazione: col nuovo materiale era possibile creare un maggiore equilibrio. L'esplosivo, la miccia, tutto il materiale da sabotaggio che ci era piovuto dal cielo venne consegnato direttamente ai comandi brigata: sarebbe finalmente finita la ricerca snervante nei campi minati.
In quelle ore giunse notizia che una colonna nemica scendeva su Caprauna, l'annuncio sollevò l'entusiasmo: finalmente avremmo affrontato il nemico ad armi pari. La notizia era errata e l'eccitazione si spense, era però buon segno che i partigiani anelassero di nuovo ad incontrarsi col nemico.
La banda di Stalin col Comando divisionale lasciò la valle di Alto, lo schieramento protettivo venne sciolto, la situazione tornò normale. L'operazione L 1 si era conclusa con un successo.
La campagna di primavera
L'inizio della campagna di primavera annunciata da Giorgio al distaccamento «G. Garbagnati» e ripetuto lo stesso giorno [16 marzo 1945] agli uomini di Cimitero coincise con una forte ripresa offensiva solo nella zona costiera.
La I Brigata preparava in collaborazione col S.I.M. la distruzione del posto di blocco fascista di Cervo progettando di far saltare la casa dove era trincerato con esplosivo collocato nella cantina. Al progetto si oppose il C.L.N. di Cervo del quale faceva parte Semeria che, salvatosi in ottobre dal disastro di Upega, collaborava ora con Batè (Cotta) nelle S.A.P. e nel C.L.N. Semeria era entrato in contatto coi fascisti del posto di blocco avendone la garanzia che, oltre a non molestare nessuno, avrebbero dato informazioni sul traffico di persone e reparti. Il posto di blocco era messo in posizione errata, poiché controllava solo la Via Aurelia e chi non voleva farsi notare poteva evitarlo passando per il paese. Gli argomenti erano buoni ed i partigiani rinunciarono consolandosi con l'intensificazione delle imboscate. Nelle zone più interne l'iniziativa rimaneva ai tedeschi che intensificavano le puntate.
Era a conoscenza il nemico del lancio avvenuto? Taluni indizi ce lo facevano supporre; era però poco probabile che fosse al corrente del punto preciso.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 209-211

19 marzo 1945 - Dal CLN mandamentale di Diano Marina al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Chiedeva di desistere da un'azione prevista contro il posto di blocco nemico di Cervo, del resto pericolosa perché sussisteva già allarme tra i soldati e la popolazione stessa, anche per evitare una rappresaglia contro i civili, e sottolineava che questo assunto era stato già sollevato in un incontro, alla presenza di un delegato del CLN provinciale, con il commissario "Federico" [della I^ Brigata "Silvano Belgrano", Federico Sibilla] e con il comandante "Mancen" [della I^ Brigata "Silvano Belgrano", Massimo Gismondi]
da documento IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999 

lunedì 20 novembre 2023

Però sarebbe bello, fatti fuori i tedeschi, mandar via anche gli inglesi...

Alto (CN). Fonte: Wikimedia

Il giorno 16 giunsi ad Alto. Là terminava la carrozzabile che saliva da Albenga per Castelbianco e Nasino. Inerpicato su un ripido pendio il paesino di Alto in quel marzo 1945 assomigliava stranamnente a Fontane in novembre. Castani spogli, cielo grigio piombo, viuzze fangose, cime e creste brulle ed a pascolo chiudevano a semicerchio la valle mascherando il varco che lasciava passare la mulattiera per Capraùna.
Alto; strano che Cascione avesse scelto per culla del movimento un luogo così cupo che, pur essendo ancora in Liguria, aveva già l'aspetto dei paesini d'alta montagna, dove la neve si fermava più a lungo, il clima era più freddo. Inesperienza? Motivi di sicurezza? Chi sa! Il fatto che la carrozzabile finisse ad Alto e quindi gli automezzi nemici potessero attaccare da una sola direzione e dopo una dura salita, la lontananza da altri paesi, quindi un maggiore controllo sugli abitanti e sullo spionaggio nemico possono aver fatto cadere la scelta su Alto. Ne dedussi anche che la banda di Cascione, dopo lo scontro di Montegrazie, dovette avere un atteggiamento difensivo analogo più o meno a quello adottato da noi nel periodo di stasi e depressione che ci colpì all'inizio del secondo inverno.
L'aspetto di Alto il 16 marzo era normale, nulla indicava che un lancio avesse luogo nelle vicinanze o che vi fossero concentramenti inconsueti di partigiani.
Che differenza con Garessio in luglio o Piaggia in ottobre. Allora una decina di partigiani riempiva un paese. Parevano migliaia e dopo un po' ti accorgevi che erano sempre le stesse facce. Ora invece pare che abbiano l'arte di scomparire.
Trovai Germano sulla piazza del paese; mi indicò la casa di Turbine [n.d.r.: Alfredo Coppola, capo squadra in seno alla II^ Brigata "Nino Berio" della Divisione Garibaldi "Silvio Bonfante"], uno degli incaricati del lancio. "Sta con la moglie" mi disse. Infatti anche Turbine nei giorni si scorsi si era sposato. Entrai: Basco [Giacomo Ardissone, vice comandante della II^ Brigata], Turbine, Trentadue e qualche altro erano intorno a piatti di castagne e di latte.
"Sempre la solita cagnara" -  diceva Basco - "chi si alza prima comanda. Nessuno di noi conosce il messaggio speciale, né i comandanti di brigata, né i capibanda ed è giusto. Poi ti trovi tra i piedi uno del S.I.M. che ascolta la radio con te e si mette a gridare: «Ecco il messaggio, stasera c'è di nuovo il lancio!» - e tu ci fai la figura dello scemo. Il Comando ti garantisce che di lancio ne fanno uno solo perché la zona è pericolosa e così ti fa perdere il secondo. Ma perdere è poco, ti fa scannare a correre nel buio e tutto per niente. Poi ti fa aspettare tre giorni i signori della I Brigata ["Silvano Belgrano"] che vengano con comodo a ritirare la loro parte. Adesso la zona non è più rischiosa secondo il Comando...".
Ricordavo il Basco dello scorso luglio caposquadra della Matteotti: "Questa volta ci hanno fregato: siamo al buio in una zona che non conosciamo, ma domani non ci stiamo più".
Il capobanda del distaccamento "I. Rainis" aveva conservato lo spirito ribelle di allora. "Ci fanno i lanci adesso i signori inglesi. Sperano che diamo loro una mano quando verranno avanti. Quando avevamo bisogno di armi per difenderci, per vivere, allora niente".
"A Mauri i lanci; noi, che siamo comunisti, più moriamo meglio è. Ma i primi inglesi che vedo... Ma siamo in pochi e finirebbe come in Grecia. Però sarebbe bello, fatti fuori i tedeschi, mandar via anche gli inglesi... Naturalmente i signori del Comando non la penseranno così. L'anno scorso quando speravamo di scendere avevano abolito le stelle rosse, i fazzoletti, le bandiere, tutto quello che c'era di rosso, come se gli inglesi non ci conoscessero. Quelli del Comando stavano al centro a decidere e noi sui passi intorno a far la guardia, a difendere quelli che decidevano. Quando abbiamo capito che la nostra vita valeva la loro e abbiamo cercato un posto meno rischioso, il Comando è sparito, è diventato clandestino. Adesso che viene il buon tempo verranno di nuovo fuori, pianteranno gli uffici in un paese e diranno a noi delle bande di schierarci a difenderli, ma stavolta non ci riusciranno".
"Guardate Boris [Gustavo Berio, vice commissario della Divisione Bonfante]: non ha preso mai un rastrellamento. Che furbo! Prima era al S.I.M. e quando le notizie eran brutte cambiava aria. Adesso è commissario e fa i comodi suoi. A Nasino ha un rifugio che è impossibile trovarlo. I poveri diavoli siamo noi che dobbiamo salvare gli uomini, il materiale e poi noi, se avanza il tempo".
"L'altro giorno trova un contadino che ha un permesso del Comando tedesco sotto il nastro del cappello, lo interroga e poi ci dà ordine di fucilarlo. Come se la vita degli altri non contasse niente! Noi abbiamo detto di sì e poi lo abbiamo lasciato andare. E' difficile giudicare uno ed è terribile condannarlo se non confessa. E' capitato a me con un S. Marco. Lo abbiamo interrogato per un giorno intero, ha sempre negato. Pure eravamo sicuri che era una spia.
Dovevo essere io a giudicarlo e vi assicuro che non ho chiuso occhio quella notte. Il giorno dopo era scappato. L'abbiamo ripreso per un miracolo ed allora ha confessato: era venuto su per tradirci. Ma se non avesse parlato non avrei avuto forse il coraggio di ucciderlo, neanche dopo la fuga".
Il tempo passava intorno alla stufa, qualcuno entrava, altri uscivano. Lungo il muro i sacchi del lancio erano comodi sedili, nella stanza più interna Trentadue aveva dormito immerso nei paracadute. Basco raccontava del tempo in cui era in Croazia come paracadutista: un giorno aveva aiutato i contadini a spegnere un incendio appiccato dagli alpini. Avevano avuto come compenso chili di miele. Un'altra volta avevano appostato una staffetta partigiana che passava di solito in uno stesso punto. L'avevano attesa a lungo, poi, appena avvistatala: una raffica e la staffetta era caduta: "Ci avvicinammo cautamente, quando fummo a pochi metri lo slavo fece scoppiare una bomba a mano. Si uccise ma distrusse i documenti che portava".
Episodi ed episodi, raccontati con naturalezza ed indifferenza. Ora si combatte da una parte, allora dall'altra. Ora si è rastrellati, allora si rastrellava. Si era mai chiesto Basco se vi era contraddizione fra le due guerre, se allora o ora si era nel giusto?
Allora il governo comandava di fare quello ed era naturale farlo, nessuno pensava a disubbidire apertamente. Ora i tedeschi non sono più sulle ali della vittoria, l'opinione pubblica è contro di loro e così è naturale esser partigiani. Cosa ha sostenuto questi giovani nel duro inverno? Il gusto dell'avventura? Il rancore per gli anni di guerra passati e subiti? Chissà...!
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 206-209

17 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - "... il giorno 13 u.s. si è effettuata l'operazione lancio nella località convenuta [Piano dell'Armetta nei pressi di Alto (CN)]; sono stati lanciati 33 colli di cui 28 recuperati nella serata ed i restanti 5 nella successiva mattinata. Non è stato possibile per il disturbo alle stazioni radio ricevere il messaggio per il lancio del giorno successivo. Tutte le tracce del lancio sono state cancellate anche grazie alla popolazione, di modo che i tedeschi non hanno trovato nulla. Data l'esperienza si consiglia di potenziare l'ascolto messaggi mediante l'aumento delle apparecchiature sulle tre linee, visto che si è ordinata la revisione dell'impianto di Nasino. È da evitare inoltre il lancio in giorni consecutivi, poiché vi è un'unica via di deflusso rappresentata da una mulattiera ed è, quindi, impossibile creare una colonna eccessivamente grande di muli, perché desterebbe sospetti ed in quanto l'occultamento del materiale va eseguito a spalla. Il luogo si è mostrato idoneo allo scopo, per cui per il prossimo lancio si richiedono 150-180 colli. Non servono fucili, ma armi automatiche, mortati leggeri, bombe anti-carro. Il collo indirizzato a 'Roberta' [capitano del SOE britannico Robert Bentley, ufficiale di collegamento degli alleati con il comando della I^ Zona Operativa Liguria] contiene 2 R.T. [radiotrasmittenti]: si prega di inviare degli uomini a prelevarle. Il giorno 11 u.s. è stata bombardata Ormea ed è stata colpita la sede del generale. Alcuni garibaldini hanno requisito in detto comando vario materiale, tra cui una lettera di cui si invia traduzione circa gli spostamenti delle truppe tedesche. Sopra Ormea i tedeschi accendono fuochi per ingannare gli aerei alleati".
17 marzo 1945 - Da "Dario" [Ottavio Cepollini] al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che "... il quartier generale tedesco si è trasferito nella palazzina Faravelli a Nava. I tedeschi, portandosi dietro il russo catturato ad Alto, hanno fatto una puntata a Gazzo e a Gavenola per arrestare 'Ramon' [Raymond Rosso, capo di Stato Maggiore della Divisione "Silvio Bonfante"] e gli altri, ma, fortunatamente, il russo si è dimostrato leale e ha reso vana la puntata".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999  

giovedì 2 novembre 2023

Non è facile agganciarsi dopo che la statale n. 28 è diventata ormai invalicabile per la presenza continua di truppe tedesche in movimento

Prelà (IM). Fonte: Wikipedia

Terminate le ispezioni ai distaccamenti della I brigata, il 18 [novembre 1944] «Curto» [n.d.r.: Nino Siccardi, sino a quei giorni comandante della II^ Divisione d'Assalto Garibaldi "Felice Cascione", dal 23 novembre comandante della I^ Zona Operativa Liguria] si trasferisce in val Prino per rendersi conto della situazione militare e politica della IV brigata «E. Guarrini» e concertarsi con il vicecomandante divisionale «Giorgio» [Giorgio Olivero] e con il responsabile S.I.M. «Boris» [Gustavo Berio] sugli ultimi avvenimenti.
Appresa la notizia della presenza in zona dell'ispettore «Simon» [Carlo Farini], considerato disperso fino a quel momento, decide un immediato abboccamento per concordare direttive e disposizioni.
Si prepara, così, la famosa riunione di Prelà del 23 novembre in cui tra l'altro verrà deciso di stendere le circolari n. 22 e n. 23 (24), di costituire il Comando della I^ Zona Liguria (comprensiva del territorio da Loano a Ventimiglia) e di creare la divisione d'assalto Garibaldi "Silvio Bonfante", tappe fondamentali della Resistenza imperiese che illustreremo in seguito.
«Curto» e il vice comandante «Giorgio» esaminano concretamente lo schieramento che dovrà assumere la IV brigata dopo il rientro delle altre due.
Non è facile agganciarsi dopo che la statale n. 28 è diventata ormai invalicabile per la presenza continua di truppe tedesche in movimento.
Questo problema, insoluto per il momento, sarà risolto con il distacco della I brigata dalla divisione «F. Cascione» per elevarla a divisione (la «S. Bonfante»), con zona di operazione a est della valle Impero. Per lo schieramento della IV brigata è tenuta in maggiore considerazione la possibilità del suo agganciamento con la V e la I. Di conseguenza, il 1° battaglione viene scaglionato nella val Prino col 1° distaccamento dislocato nella zona di Fontana Fredda per il controllo del passo della Pistona, il 2° nella zona del Grillo per il controllo del passo della Verna, il 3° nella zona superiore di Villa Talla per il controllo del passo omonimo.
I distaccamenti del 2° battaglione attuano uno schieramento del tutto diverso: il 4° è utilizzato per il controllo dei passi del Maro e di colla d'Oggia, il 5° dislocato nella zona di Carpasio sorveglia i passi di Teglia e di colla d'Oggia, il 6° dislocato nel1a zona di Pantasina sorveglia i passi di Corda e di Colletti.
Il 3° battaglione rimane nella valle Argentina, con il 7° distaccamento nella zona di Badalucco a sinistra della valle, l'8° nella stessa zona ma a destra, il 9° distaccamento viene dislocato nei pressi di Pietrabruna (25).
Scelto, come prima sua sede, il paese di Aurigo, in seguito il Comando divisionale si sposta nella zona di Carpasio presso il Comando della IV brigata il cui nuovo schieramento viene comunicato il 27 novembre al Comando della V perché si adegui a sua volta nello schieramento per una vicendevole protezione nella guardia ai passi montani. E' particolarmente curato un agganciamento col distaccamento di Carpasio per prevenire ogni eventuale sorpresa proveniente da Triora. In tal modo si crea una continuità nello schieramento garibaldino che garantisce una certa sicurezza nei collegamenti e costituisce anche un fattore di sicurezza per ogni evenienza.
Il Comando della V, sistemato a Bregalla, troppo fuori mano rispetto alla dislocazione dei distaccamenti ed eccessivamente distante per ricevere tempestivamente le informazioni del servizio S.I.M., su consiglio di «Curto» si sposta nei pressi di Beusi (Taggia), essendo questa località più comoda per il contatto coi distaccamenti e per ricevere rapidamente le informazioni dalla città.
L'ispettore «Simon» pone la sua sede nella canonica di Prelà alla metà di novembre con la magnanima compiacenza di don Prospero Balestra e l'abbandonerà il 5 gennaio 1945 dopo l'incendio della tipografia clandestina del C.L.N. provinciale a Pianavia e dopo l'arresto dell'ex intendente dell'ospedale partigiano di Valcona Bartolomeo Ramoino (Lalen-Renard) avvenuto a Sarola. Il luogo d'occultamento era diventato pericolosissimo perché il prigioniero, se sottoposto a tortura, avrebbe potuto svelarne l'ubicazione a lui nota.
Monta a guardia preventiva dell'Ispettorato di zona il 10° distaccamento «Walter Berio» nella zona di Canneto, per la sorveglianza delle strade che salgono dalla costa e dalla zona di Pantasina, presso Corda e Colletti.
[NOTE]
24 Testimonianza di don Nino Martini, cappellano della divisione [II^ "Felice Cascione"], relativa alla riunione di Prelà alla quale fu presente:"... l'ispettore «Simon», con Eugenio dott. Martini (Serpente) e col cappellano rimase circa due mesi a Prelà; anche qui incontriamo persone generosissime e fra queste la madre e il fratello di «Serpente» don Nino, Moraglia Antonio, Rambaldi Giuseppe, le suore di Vasia e don Prospero Balestra, parroco di Prelà. Appena sistemato, l'ispettore «Simon» prende contatto con il fondo valle e Adolfo Stenca (Rino), la futura vittima della «Donna Velata», «Mario», i C.L.N. d'Imperia e di Genova che subito rispondono. Prende contatto con il Comando della riordinata divisione «F. Cascione», reduce dal Piemonte, e il comandante «Curto» subito risponde; con il comandante della IV brigata Carlo Montagna (Milan), eroe coraggioso e generoso; con Angelo Perrone (Bancarà) l'eroe che porta una fiamma siciliana nelle nostre file, e «Kimi», che subito rispondono. Notte del 23 novembre 1944, prima grande riunione. E suggestiva: arrivano, protetti dalle tenebre, con mosse caute e rapide, «Curto , «Sumi», «Kimi», «Milan», «Giorgio», «Boris» ed altri. Ci rivediamo dopo tante fatiche, dopo tanti dolori, dopo tante perdite, e commossi, in silenzio, ci abbracciamo. Le ombre dei nostri caduti ritornano. In queste adunanze ed in altre simili con i C.L.N., le parole: Italia, lotta, libertà, non si pronunciano senza un tremito nella voce e un sussulto nei cuori. Da queste riunioni nascono le circolari n. 22 e n. 23. Non sono solo documenti chiari e precisi del modo di riordinare la vita cospirativa tra il freddo e le nevi invernali, ma sono anche documenti di vedute alte e umanitarie..."
25 Da relazione del Comando Il divisione "F. Cascione" al Comando della V brigata (Prot. N° 217/P/14 del 27/11/1944).
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio Isrecim, Milanostampa Editore - Farigliano, 1977, pp. 325-327

Pietrabruna (IM): colline a nord-est del paese

Rientrato
in Liguria prima delle formazioni garibaldine, il comandante «Curto» va ad ispezionare la IV brigata (nelle zone di Villa Talla-Pietrabruna) e quindi prende nuovamente contatto con l'ispettore «Simon» [Carlo Farini] a Prelà, giuntovi in  precedenza ammalato (vedi capitoli XXV e XXVI).
Il Comando Operativo della I Zona Liguria, costituitosi il 19 dicembre 1944 e composto da «Simon», da «Curto» e «Sumi» [Lorenzo Musso, commissario politico] s'insedia in casa di Mario De Carolis in Prelà, dove rimane fino all'uccisione di quest'ultimo durante il rastrellamento del 28 dicembre. Allora i componenti e gli addetti sono obbligati a spostarsi a Pianavia presso la tipografia del C.L.N. provinciale che, da Villa Talla ivi trasferita, era stata montata qualche giorno prima dal tipografo Giovanni Acquarone (Barba), in un sottofondo della casa di Giovanni Calzamiglia (Bacì).
Francesco Biga, Op. cit., p. 526

sabato 14 ottobre 2023

Contabilità partigiana nei giorni dei primi aviolanci alleati

Nasino (SV). Fonte: mapio.net

Il 14 [marzo 1945] passa nell'ansia di una possibile reazione nemica. Il materiale [n.d.r.: derivante da un aviolancio degli Alleati] viene inventariato: sono una ventina di Sten, fucili 91 modello Africa orientale con canne arabescate senza cinghia che vengono dati alla banda locale di Alto, una delle poche sopravvissute. Ci sono munizioni calibro 9 lungo, buone per mitra, pistole, Sten, ci sono anche liquori e cioccolata che non superano la notte del lancio. C'è anche qualche coperta, accolta piuttosto male ora che l'inverno sta per finire.
Ci sono poi sigarette, le Woodbine, tabacco Virginia, in lattine da cinquanta. I partigiani, che da mesi fumavano le più strane misture non le gradirono. Giorgio [Giorgio Olivero, comandante della Divisione Garibaldi "Silvio Bonfante"] deciderà di darle al S.I.M. [Servizio Informazione Militare dei patrioti] perché le diffondesse tra i civili della costa per dimostrare l'abbondanza che regnava sui monti dopo i lanci alleati.
La distribuzione del materiale è provvisoria perché si attendono le bande della I^ Brigata [n.d.r.: Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"] che verranno a ritirare la loro parte, poi lo schieramento di sicurezza verrà sciolto. Ad Alto resteranno pochi incaricati, perché, se la zona resterà tranquilla, richiederemo un altro lancio.
La sera del 14 i partigiani ascoltano la radio: è la trasmissione delle 20,30: è in corso la prima fase della battaglia del Reno: sulla testa di ponte di Remagen si combatte la battaglia decisiva. Citrato [n.d.r.: Angelo Ghiron, vice responsabile S.I.M. della "Silvio Bonfante"] ed un altro del Comando hanno un gesto di disappunto: di nuovo il messaggio speciale: gli alleati ripetono il lancio questa notte, malgrado gli accordi presi. Vengono raggruppati i pochi partigiani che sono in paese e, via di corsa. Niente schieramento di sicurezza, sarà molto se arriveremo in tempo ad accendere i fuochi perché ci vogliono due ore buone per le mulattiere buie per arrivare al campo di lancio, e lassù, non c'è niente di pronto. Questa volta il lancio fallisce: i partigiani sentono il ronzìo dell'aereo vibrare nel buio mentre arrancano sudati. Quando arrivano al campo è ormai troppo tardi.
La sera del 15 giunsi anch'io in Val Pennavaira, la valle del lancio, ma per altro motivo. Ero passato per Menezo, una frazione tra Onzo [piccolo comune in provincia di Savona] e Costa Bacelega [Frazione del comune di Ranzo in provincia di Imperia]. Vi cercavo il commissario Gigi [n.d.r.: Giuseppe Alberti, commissario della II^ Brigata "Nino Berio" della "Silvio Bonfante"] perché vi era una differenza tra la contabilità sua e quella di una banda dipendente da lui. Trovai con lui Osvaldo [n.d.r.: Osvaldo Contestabile, in quel momento ancora convalescente, di lì a breve di nuovo commissario di una formazione partigiana, più precisamente della IV^ Brigata della "Silvio Bonfante"]: "Vai nella zona degli Sten nuovi", mi disse. Appresi così che il lancio era riuscito. Osvaldo si teneva informato della situazione, vedevo che soffriva di non poter riprendere la vita di prima, di star con Gigi e Natascia. Pareva a vederlo che stesse bene, ma aveva ogni tanto ancora qualche disturbo. Pranzai con loro, esaminai con Gigi i conti della II^ Brigata: perché Gigi aveva segnate come consegnate ad una banda 15.000 lire che la banda non segnava di entrata? Gigi ci restò male, pensò, guardò, poi concluse che la Brigata aveva chiuso la contabilità a fine mese mentre la banda l'aveva chiusa il 27. Esaminando i conti di mano avrei trovato la somma perché la consegna era avvenuta a fine febbraio. Così fu.
Lasciato Menezo andai verso la cresta che separava la Val d'Arroscia dalla Val Pennavaira. Si camminava bene in Liguria nel mese di marzo. Niente neve ormai, qualche albero in fiore e nell'aria un tepore primaverile: la campagna invernale era finita, il lancio sarebbe stato per noi il segnale della ripresa.
Trovai un contadino che esaminava due ciliegi. Gli chiesi la strada: "Vada su per i prati e poi, quando è in cresta, vada a sinistra per il sentiero fino alla cappellina... Vede quei maledetti... durante il rastrellamento mi hanno crivellato di colpi questi alberi. Che gusto ci avranno trovato?!". "Meglio gli alberi che i cristiani", gli risposi. "Già, questo lavoro lo hanno fatto gli alpini perché i tedeschi ad Onzo hanno ucciso una famiglia intera. Perché? Nessuno lo sa. Hanno ammazzato tutti, compresi due estranei che per combinazione erano in casa. Sembra che prima abbiano voluto che quei poveretti preparassero loro il pranzo: hanno mangiato e poi li hanno uccisi. Prima di andar via hanno dato fuoco a tutto. Dicono che avessero trovato in casa una macchina fotografica, ma di preciso nessuno sa niente perché di quella famiglia l'unica salva è una donna che quel giorno era andata in un altro paese".
"Tedeschi... Noi li conosciamo da mesi. Fortuna che non durerà più molto".
Non durerà più molto. Infatti non ci sarà più un altro inverno di guerra, forse nemmeno un'altra estate; questa volta la Germania è presa alla gola ed in Italia il primo balzo porterà gli alleati sul Po. Contento? Sì... eppure... ho una punta di nostalgia: è tutto un ambiente, tutto un mondo che finisce. Fosse finito allora, in ottobre quando eravamo stremati. Ma allora no, allora avanti, nella neve, nel fango, sempre più pochi. Titolo di onore sarà per noi la campagna invernale e che poco più di trecento sono i partigiani della Bonfante che hanno resistito. Ora che l'inverno sanguinoso è passato, che più forti e più armati potremmo affrontare il nemico da pari a pari, la grande avventura avrà termine. Mai più tornerà l'ambiente di luglio, i tempi della Volante, delle folli audace, le corse sui camion rombanti, i bivacchi sulle cime, le marce sotto la luna cantando. Ricordo i pascoli verdi di Pian del Latte, le malghe di Tanarello, l'odore del formaggio, del fieno, delle stalle; i campanacci delle mucche nella nebbia, il belato dei greggi, le lunghe ore passate sui prati ad osservare il tramonto... Tutta una vita!
Dalla strada in cresta si stacca un sentiero che scende in Val Pennavaira. Non sono ancora alla cappellina, ma a me preme scendere a fondo valle prima di notte. Devo trovare Gapon [Felice Scotto], ora commissario della III^ [Brigata "Ettore Bacigalupo" della Divisione "Silvio Bonfante"], la cui contabilità è piuttosto saltuaria.
Il sentiero con una ripida discesa di un'oretta tra sterpi e castani mi conduce tra Alto e Nasino. Sullo stradone un carro sale lentamente: sopra cinque o sei partigiani con le gambe penzoloni mi guardano indifferenti in silenzio.
"Sapete dove è Gapon?" chiedo loro. "A Nasino, se non è andato via". Avrei preferito ad Alto per aver notizie del lancio, ma in compenso a Nasino non c'era da salire. Dopo accurate ricerche, trovo Gapon all'osteria: avrei dovuto ricordare che quella era la sua base preferita. 
"Stasera ti offro uno spettacolo interessante", mi dice quando mi vede. "Vedrai perché noi della III possiamo fare anche a meno dei soldi della Divisione". Ero incuriosito. Infatti, quando la contabilità non era regolare, sospendevo l'invio dei fondi.
Con la III^ però il provvedimento non era stato efficace e venivo proprio a cercarne il motivo. Appena cenato lo spettacolo comincia. In un'altra stanza della stessa trattoria ci aspettano due contadini. Dietro ad un tavolo sediamo Gapon ed io; in piedi, con un fascio di carte in mano, Megu [Ugo Rosso], uno studente di medicina con barba e baffi vigorosi. Sono così riuniti commissario e capo di Stato Maggiore della III Brigata, nonché l'amministratore [n.d.r.: l'autore di questo memoriale, Gino Glorio] della Bonfante. Come cariche non c'è male. Megu inizia: "Da informazioni prese ci risulta che il signore..." e legge il nome dando una rapida occhiata alle carte. "Siete voi? Benissimo... Ha partecipato nel '36 come volontario alla guerra d'Africa. E il signore... ", anche qui un rapido sguardo alle carte, "alla guerra di Spagna contro il governo repubblicano. E' vero?". I due assentono assieme aggiungendo vivacemente qualche frase a discolpa. "Benissimo", continua Megu, "voi eravate disoccupato e voi avevate litigato con vostro padre. A parte il fatto che rimane da dimostrare che nel '36 non si trovasse altra occupazione più onesta ed onorevole che andare ad ammazzare negri che difendevano la loro terra o che l'aver litigato col padre possa autorizzare uno ad andar a cambiar governo in un altro paese, ho qui un documento che vi smentisce ampiamente e che è il principale capo di accusa... Dov'è?... Ah, ecco!". Ed estrae dal fascio un gruppo di fogli. "Salto le parole che non interessano... Ecco: è il verbale di un tribunale speciale, che voi ben conoscete, costituito nelle persone dei camerati...". E qui legge parecchi nomi. "Tutta brava gente" - mi dice sotto voce Gapon - " che a tempo debito sborserà fior di quattrini di multa se non avrà di peggio". "Constata su parere del medico legale camerata... la piena idoneità del signore... a sopportare il confino di polizia...". "Ti guardano in faccia ed anche se sei tubercolotico agli estremi ti trovano sempre in buona salute", commenta Gapon a bassa voce.
"Risultando provato che il signor... in un pubblico locale il giorno... affermava che i camerati... e..., e siete voi due... avrebbero partecipato rispettivamente alla guerra d'Africa e di Spagna non già, per compiere il loro dovere di italiani e di fascisti, ma per motivi privati. Su istanza dei suddetti camerati, che dalle affermazioni dell'imputato sentono gravemente offesa la loro fede fascista e menomata la loro fedeltà incondizionata al regime, condanniamo il signor... a due anni di confino di polizia. Contenti? E noi adesso multiamo voi di lire centomila e voi di quarantamila".
Segue un breve silenzio, poi i due contadini cominciano a scusarsi, a smentire, a dichiararsi impossibilitati a pagare.
"Niente paura, siamo informati anche a questo riguardo", replica Megu tirando fuori altre carte. "E' uno specialista", commenta Gapon compiaciuto. "E' andato apposta a Castelbianco per avere un estratto catastale con le terre ed i beni di questi due".
"Ci risulta che voi avete terreni che attualmente valgono un milione, se volete posso elencarli... Cosa avete detto? Non sono vostri, ma della buon'anima di vostro padre? Come scusa non vale perché non avete fratelli e siete l'unico erede. Quanto a voi abbiamo fatto un po' meno perché terre ne avete poche... Non avete quarantamila lire liquide! Non importa, avete una sorella, fatevele anticipare, ipotecate le terre, fate un debito, ma vi conviene pagare". Megu posa le carte. Poi prosegue. "Sentite, non sono scherzi, abbiamo bisogno di soldi per condurre la lotta. I partigiani non vivono d'aria ed han bisogno di vestirsi. L'ordine di arrestarvi non è partito di qui; è venuto dall'alto, ma per un insieme di circostanze gli alti comandi hanno altro da pensare e forse si sono scordati di voi. Per il vostro bene, se fermate la cosa qui, siete liberi, altrimenti domani vi mandiamo al tribunale divisionale ed allora non posso garantire per la vostra vita. Non dimenticate, non sono più i tempi in cui Cascione curava i fascisti feriti e prigionieri. Son passati due inverni e troppe ne abbiamo passate per avere il cuore tenero con i servi fedeli del regime".
I due parevano annientati.
"Avete una notte per pensarci. Domani mattina ci darete una risposta".
"Ti è piaciuto?" dice Gapon uscendo. "Li mandiamo a dormire in una cappellina con una squadra partigiana. Dormire per modo di dire, che non chiuderanno occhio senza coperte e con i pensieri che hanno. Domattina saranno maturi. Se pagheranno? Oh, altroché! Hanno sempre pagato tutti finora! Anche il macellaio di Caprauna multato per aver venduto in paese la carne troppo cara. Appena possibile mandiamo a mungere un seniore della milizia che vive tranquillo a Marmoreo ed un altro che ha fatto la guerra di Spagna. Il terreno è fertile se si sa farlo rendere".
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 202-206

lunedì 18 settembre 2023

Lo sapete che Cipressa è circondata dai Mongoli che cercano i partigiani casa per casa?

Cipressa (IM): una vista sino alla zona di Sanremo

Un giorno, sul finire di giugno [1944], i tedeschi e i fascisti salirono da Montalto Ligure e Makallé mi disse di portarmi in cresta sopra la ripida mulattiera che portava al passo di Vena. Loro avrebbero nascosto i viveri e cancellato le tracce della nostra permanenza al Casone della «Scià Maria». Io, con la mia squadra, potevo prendere le decisioni che mi sarebbero parse opportune: l'importante era tenere la squadra unita. Arrivati in prossimità del passo notammo che questo era già occupato dai fascisti. Non ci restò altro da fare che disturbarli con qualche raffica, per renderli un po' più guardinghi, e quindi più lenti. Rìtornammo al casone e, dopo esserci consultati, decidemmo di andare a rifugiarci sulla costa, vicino al mare, e ci avviammo lungo la strada. Quasi subito sentimmo una nutrita sparatoria sopra Pietrabruna: chiesi ad un uomo, che stava salendo dal paese, se sapeva cosa stava succedendo e questi mi rispose: «è la banda di Tito che ha attaccato i tedeschi». Era una spia? O era un poveraccio che non sapeva cosa diceva? Noi, comunque, ci precipitammo a dare una mano a Tito. Quando vedemmo ì tedeschi, capii la mia stupidità; allora dissi a Giacò: «Tu con tre uomini cerca di fermarli, tanto da darci tempo di andare ad appostarci su quel costone là dietro; quando siamo arrivati ti ritiri e noi ti copriamo». Così fecero, ma prima di arrivare nel luogo dove avevo pensato di coprire Giacò, ecco farsi incontro uno strano tipo, che correva verso di noi. Gli chiesi chi era e dove andava; lui mi rispose: «Sono un comunista e un partigiano diretto al Comando, quando ho sentito sparare, e sono venuto a darvi una mano». Io gli dissi: «Bravo, non hai neanche un fucile, ma in compenso hai del fegato». Era Milan; sarebbe poi diventato il Comandante della IV Brigata della Cascione. Coprimmo Giacò e gli altri, finché non ci raggiunsero, allora gli dissi: «Ritirati finché non trovi un posto adatto per coprirmi coi fucili; adesso lo prendo io il mitragliatore». «Non ti conosce», mi rispose, «conosce soltanto me e allora è meglio che resti io: l'importante è che tu mi copra». Così facemmo e lo facemmo tanto bene che i tedeschi rallentarono il loro inseguimento e la distanza fra loro e noi aumentò. Quando raggiungemmo la «Casa del sergente», situata in mezzo a una vigna, sotto il passo di San Salvatore, i tedeschi non si vedevano più. Chiesi al vecchio sergente se aveva qualche cosa da mangiare: lui entrò in casa e ne uscì con due grossi pani, «adesso vado a prendervi da bere». Nel tempo della sosta mi era sembrato di udire degli spari dalla parte di Pompeiana, li avevano sentiti anche gli altri, tanto che tutti fecero silenzio: eravamo presi fra due fuochi; prendemmo i fiaschi di vino che frattanto il sergente aveva portato e, al coperto della vigna, entrammo nel vicino bosco di querce. Numerosi tedeschi erano sulla cresta del Passo di San Salvatore; gli altri salivano lentamente verso di loro.
Il boschetto di piccole querce, dove ci eravamo rifugiati, non dava molte possibilità di sopravvivenza in caso di rastrellamento. La cosa migliore da farsi era di cercare un riparo occasionale. Lo trovammo nella curva di un ruscello: l'acqua aveva allargato il letto del corso d'acqua e i bordi servivano da trincea. L'importante per noi era di non lasciare avvicinare gli inseguitori con il lancio di bombe a mano, sperando nell'oscurità della sera per sganciarci dalla nostra critica situazione. Il boschetto era fatto segno a continue raffiche di mitraglia e a colpi di mortaio che iniziarono al calare del sole. Buon per noi che i mortai non erano con l'avanguardia delle forze di rastrellamento. Pensai che, dopo aver martellato con i mortai, il nemico avrebbe cercato di farci uscire allo scoperto, approfittando delle ultime luci del giorno; pertanto decidemmo che appena i mortai avessero smesso ci saremmo ritirati. Così facemmo: noi uscimmo dal nostro riparo proprio mentre il nemico si addentrava nel boschetto. Ripiegammo verso Cipressa passando prima da una campagna dove speravamo di trovare pesche mature: ne trovammo poche e acerbe, ma furono gradite ugualmente da tutti.
Andammo a dormire a Cipressa, in un fienile di mio zio, in Vico Martini. Sapevo che in quel periodo gli zii non dormivano in paese, ma in una casetta in campagna vicino al mare. Tutte le mattine però mio zio saliva in Paese con l'asina carica d'erba per i conigli e le galline e, dopo aver scaricato la bestia, la faceva entrare nella stalla che si trovava proprio sotto il fienile. Al suo arrivo scesi nella stalla e, quando aprì la porta ed ebbe fatto entrare la bestia, mi vide. Non riuscì a parlare per lo stupore o per lo spavento? Allora gli dissi di chiudere la porta e di venire di sopra, che gli avrei spiegato; e mi allontanai su per la scala del rustico. Mi raggiunse immediatamente e quando vide tutti quei giovani sconosciuti e con le armi esclamò: «Siamo perduti» (Mi ricordava sempre queste due parole il partigiano di Piani di Imperia «Ninchi», ora defunto, tutte le volte che lo incontravo).
Gli risposi: «Senti «barba» (zio), abbiamo una fame da lupi, vai da Ernesto il panettiere (Ernesto Velio), digli che sono qui con una ventina di ribelli e fatti dare tutto il pane che può; prendi l'asina e ritorna da dove sei venuto». Mi rispose: «Va bene per Ernesto, ci si può fidare, ma lo sapete che il paese è circondato dai Mongoli che cercano i partigiani casa per casa?». «Stai tranquillo», gli dissi, «i Mongoli sono come i tedeschi, i partigiani li cercano solo nelle case dove vive la gente, dove si può rubare qualche oggetto di valore e, per male che vada, qualche cosa da bere».
Mio zio partì ed io risalii nel fienile. L'idea di rifugiarci in quel fienile era stata la mia, ma nessuno mi fece neanche lontanamente capire di volermene per quello che poteva essere un grosso sbaglio. Spiegai la situazione e anche a loro dissi che, per la mia esperienza, escludevo che i mongoli avrebbero setacciato anche i fienili e le case diroccate (lo erano ancora a causa del terremoto della fine dell'ottocento) e pertanto ero tranquillo. «è più probabile», dissi, «che incendino il paese, e allora certamente inizieranno da un fienile, in questo caso ci divideremo in due squadre; una la guiderà Giacò e l'altra io. Ci sono tre vie di uscita: una dalla porta della stalla, l'altra dalla porta del fienile e l'altra dai tetti, da dove ci si può allontanare per tutto il borgo».
Ogni tanto si sentiva una raffica in lontananza, ma niente altro. Arrivò infine anche mio zio con un sacchetto di panini e un paiolo di risotto. Ernesto aveva fornito una decina di chili di pane, ma aveva anche pensato che probabilmente eravamo senza fumare, e così ci aveva mandato pure alcuni pacchetti di «trinciato forte», le cartine ed i fiammiferi. Prima di partire mio zio fu pregato da Mauro Caprile e da Luciano, un altro ragazzo di Porto Maurizio, di avvisare le loro famiglie che erano in salvo e che stavano bene. Mio zio caricò l'asina e partì, assicurandoci che avrebbe pregato per noi. Nel pomeriggio arrivarono i mongoli: dopo aver sostato brevemente dinanzi alla stalla e rimosso la porta, proseguirono per fermarsi davanti all'abitazione di Giacomo Martini, a pochi metri da noi; entrarono e, per un bel po' di tempo, cercarono quanto loro interessava in quella casa. Da una piccola finestra li vedemmo entrare e uscire, ma nessuno di noi ne fu apparentemente impressionato. Il giorno dopo tornò mio zio, informò Luciano e Mauro che sua moglie, mia zia, era andata ad avvisare le loro due famiglie e ci informò sull'opera dei mongoli. Avevano visto due uomini far legna nella pineta, e avevano sparato su quei poveretti, uccidendo il Morscio di Costa Rainera; e ferito Paolo Velio il figlio di Ernesto il panettiere, (Lo avevano colpito alla schiena; riuscì a salvarsi, ma rimase con le gambe paralizzate per tutta la vita).
Lo zio mi disse: «Non mi sento di chiedergli ancora del pane dopo quello che è successo al figlio; gli chiederò di anticiparci il pane della tessera annonaria mia e della zia, e noi in qualche modo ci aggiusteremo». Poco dopo ritornò dicendoci che Ernesto era andato ad Imperia, ma aveva lasciato detto alla moglie di darci tutto il pane che ci serviva.
Questo era lo spirito della nostra gente. Cosa avremmo potuto fare noi senza la loro totale collaborazione? Nulla; i veri protagonisti della lotta di liberazione sono stati loro. Non bisogna mai dimenticarcene. Ancora oggi godo dell'amicizia di molti di loro, che incontro talvolta peregrinando dalla Valle Impero alla Val Prino, dalla Valle Argentina alla Valle d'Arroscia, dall'Alta Val Tanaro alla Valle Pennavaire, ad Alto ed a Nasino.
Con questo non voglio dire di aver avuto sempre riconoscenza per loro e di essermi sempre comportato bene nei loro confronti; certamente avrò sbagliato più di una volta, ma sempre in buona fede e mi scuso ancora se a qualcuno ho mancato di rispetto, oppure se qualche volta ho abusato del mio potere nei loro confronti.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 77-80