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martedì 19 agosto 2025

Dopo la battaglia di Alto due partigiani si recano ad Oneglia ad avvertire della morte di Cascione

Curenna, Frazione del comune di Vendone (SV). Fonte: Wikimedia

A Curenna [frazione di Vendone in provincia di Savona] la banda «Cascione» resta fino al 25 dicembre 1943. In questo giorno, per la ricorrenza del Natale, i partigiani vengono invitati dalle persone del posto, due per ogni casa; i partigiani portano con loro anche i prigionieri, trattandoli come se fossero loro compagni.
Frattanto è giunta notizia del bombardamento di Oneglia, avvenuto due giorni prima intorno alle ore 15.
Dopo il 25 dicembre 1943 la banda «Cascione» si sposta, passando per varie località, fra le quali di nuovo Curenna. Il 30 dicembre Cascione, Ivan e un terzo partigiano (Emiliano Mercati) si recano ad Alto [in provincia di Cuneo], per incontrarsi con esponenti di una banda di Albenga; il colloquio avviene in un'osteria del paese, e rappresentanti dei partigiani di Albenga sono Viveri (Libero Emidio Viveri) e Salimbeni Franco. Si decide che i partigiani delle due bande si riuniranno tutti nelle vicinanze di Alto, a monte del paese, per fare una manifestazione nel paese stesso, a scopo dimostrativo e di propaganda, e per fare altresì alla popolazione una distribuzione dei generi alimentari che sarebbero stati presi nei locali dell'ammasso in Nasino (la distribuzione verrà appunto fatta in questa località il 6 gennaio, giorno dell'Epifania).
Dopo gli accordi suddetti, il  6 gennaio tutta la banda, di circa una cinquantina di uomini, si sposta, suddivisa in quattro squadre, per recarsi ad Alto; e a Curenna vengono lasciati solo quattro partigiani, con i due prigionieri catturati a Montegrazie.
Lo stesso giorno la banda arriva ad Alto, sfila per le vie del paese, ricevuta dai partigiani di Albenga (comandati da «Viveri»): e nelle ore pomeridiane fa in Nasino la distribuzione annonaria alla popolazione, come sopra si è detto. 
Il giorno dopo fugge da Curenna il prigioniero Michele Dogliotti.
Un partigiano (Trucco G.B., «Titèn») si reca in fretta da Curenna ad Alto, per avvertire, affinché siano prese le necessarie precauzioni; arriva ad Alto intorno alle ore 12-13 del giorno 7. I partigiani vanno allora a Curenna a smontare il campo, e ripartono con tutto l'equipaggiamento la sera del giorno 7; durante la notte fanno sosta al Passo dell'Aquila, sulla strada di Alto, e la sera del giorno 8 arrivano alla «Madonna del Lago», sulle rocce di Alto, lungo la mulattiera Alto-Ormea, e si fermano nella località detta «Casa Fontane». Intanto la banda era stata raggiunta da altri partigiani (Vittorio Acquarone, con pochi del suo gruppo, che si era sbandato); e in «Casa Fontane» si forma un vero e proprio Comando così composto: Comandante, Felice Cascione («U megu»); Capo di Stato Maggiore, Acquarone Vittorio («Vittorio» o «Marino»); vicecapo di Stato Maggiore, Sibilla Giacomo («Ivan»).
Il giorno 8 gennaio, intorno alle ore 11, viene anche mandata una squadra di partigiani a Borgo d'Oneglia, per avvertire le famiglie di mettersi in salvo dalle accuse del milite fuggito. La squadra che viene mandata a Borgo d'Oneglia è composta di Mirko, Ivan, Emiliano Mercati o «Miliano» o «Taganov», Vittorio il Biondo, Tito.
I suddetti partigiani provvedono a fare avvertire le famiglie per mezzo di Antonio Dell'Aglio; poi ritornano in banda. In questo periodo, però, la madre di Mirko era ancora detenuta.
Frattanto, nello stesso giro di tempo, erano accaduti altri fatti: nel dicembre del 43 i fratelli Serra, Ricci Raimondo e i fratelli Todros erano stati arrestati; da parte sua, la banda «Cascione» aveva compiuto alcune azioni, fra cui l'attacco, ad Albenga, con bombe a mano, contro un gruppo di fascisti della GNR, mentre si accingevano a rientrare in caserma: all'azione avevano partecipato i partigiani Emiliano Mercati, «lo zio» (o «Terrero di Lusignano»), Rubicone Vittorio (o «Vittorio il Biondo»); i fascisti erano stati costretti a fuggire, lasciando sul terreno qualche morto e qualche ferito (15 gennaio '44).
Il 27 gennaio 1944 vi è la battaglia di Alto, in Val Pennavaira (o «Pennavaire»), presso la località «Madonna del Lago», dove è sistemata la banda «Cascione».
Giovanni  Strato, Storia della Resistenza Imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Editrice Liguria, Savona, 1976, ristampa del 2005 a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp.144-146

Due giorni dopo, il 29 gennaio 1944, un documento della Bundesarchiv Militararchiv (abbreviazione: BA - MA, RH 24 - 75/l9) un rapporto "mattinale" dell'ufficio addetto alle informazioni del LXXV Corpo d'Armata, inviato all'Armeegruppe Von Zangen, riporta quanto segue: "... Banda comunista forte di cinquanta uomini, dispersa da un'operazione della 356^ Divisione di Fanteria, 2,5 chilometri a nordovest di Alto (25 chilometri a nord di Imperia). Il capo della banda è stato ucciso. Gli alloggi della banda distrutti. Un bandito preso prigioniero. Catturate: una mitragliatrice leggera, cinque fucili, munizioni e bombe a mano...".
Come si può constatare, il rapporto nemico ci rivela che i soldati tedeschi che hanno partecipato all'azione contro la banda appartenevano alla 356^ Divisione di Fanteria. Misero risulta il bottino catturato. Ciò vuol dire che i componenti la banda, disperdendosi, non avevano abbandonato le armi. Ma, la cosa più evidente il rapporto dice che il capo è stato ucciso, ma non dice che è caduto in combattimento.
Ciò conferma quanto abbiamo riportato sulla morte di Felice.
Quando nei giorni successivi alla Liberazione, era stato nominato questore Baldo Nino Siccardi (Curto), già comandante della I Zona Operativa Liguria, negli archivi della Questura furono rinvenuti alcuni documenti ed un rapporto firmato da Pier Cristoforo Bussi, tenente colonnello e capo dell'Ufficio Politico Investigativo (UPI), del Comando della 33^ Legione della GNR, inviati ai vari Comandi di competenza, i quali rivelano che i nazifascisti erano venuti in possesso dei documenti della banda, ricuperati a Case Fontane, i quali forniscono anch'essi la versione che Cascione non è caduto in combattimento, ma è stato fucilato subito dopo la sua cattura.
Il rapporto recita: "Il 27 gennaio scorso truppe tedesche in perlustrazione nella zona di Alto, ai confini tra la provincia di Imperia e quella di Savona, e precisamente a nordest di Pieve di Teco, catturavano e fucilavano sul posto il dottore Cascione Felice, fu G.B. e di Baiardo Maria, nato il 2 maggio 1918 ad Imperia Ponente ove risiede in Via Saffi 10. Con Cascione è stato pure arrestato il carabiniere Cortellucci di Teramo, non meglio identificato, già dipendente dal Gruppo C.C. di Imperia. Seguiranno le generalità precise del Cortellucci, non appena eseguite le indagini. Il Cascione era capo di una banda di ribelli, operanti nella Provincia di Imperia: banda di un centinaio di persone ed i cui maggiori esponenti risultano dall'elenco allegato".
Francesco Biga, Felice Cascione e la sua canzone immortale, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, tip. Dominici Imperia, pp. 244,245

Come si è detto durante la battaglia di Alto era anche stato fatto prigioniero il partigiano Cortelucci. Ad Alto il Cortelucci si salva, facendo credere di essere stato preso a forza dai partigiani, e costretto a seguirli. Ricoverato in ospedale, dall'ospedale riuscirà poi a fuggire, e ritornerà nelle bande. Morrà nel dicembre del 1944 (il giorno 29), a Pantasina, uccidendosi per non cadere nelle mani dei tedeschi, che sono in procinto di catturarlo una seconda volta.
Dopo la battaglia di Alto due partigiani (Giacomo Sibilla o «Ivan» ed Eolo Castagno o «Garibaldi») si recano ad Oneglia (28-1-44), ad avvertire esponenti del movimento antifascista della morte di Felice Cascione.
Più dettagliatamente, i partigiani che erano stati presenti allo scontro, mentre si stanno ritirando e sono ancora sulle alture di Caprauna, incontrano Ivan, che tornava indietro con la sua pattuglia, essendo stato informato per mezzo di una staffetta che Cascione era rimasto ferito. Ivan precedeva gli altri, che sopraggiungono poco dopo. Subito si fa una riunione degli uomini aventi incarichi di comando, e, in seguito alle decisioni prese, Ivan ed Eolo, lasciato il gruppo, si recano all'albergo «Miramonti» in Garessio, per prendere possibilmente contatto con le formazioni partigiane di quella zona (badogliani). Qui non trovano nessuno e dietro indicazione della proprietaria dell'albergo si recano a San Bernardo di Garessio, dove dovrebbe essersi trasferito quel comando. A San Bernardo di Garessio hanno un primo colloquio intorno alla mezzanotte fra il 27 e il 28 gennaio; si decide di continuare il colloquio la mattina seguente. Ma, durante la notte, viene dato l'allarme; motivo per cui, la mattina del giorno 28, Eolo ed Ivan si recano ad Ormea, e la mattina stessa, da Ormea, con la corriera, partono per Imperia. A Pieve di Teco riescono a stento a sottrarsi al controllo di due carabinieri, che, uno per porta, invitano le persone a scendere e ad esibire i documenti (essendovi stati, il giorno prima, i fatti di Rezzo). Da Pieve di Teco proseguono a piedi (via Cenova, bosco di Rezzo, Colle San Bartolomeo, Torria, Chiusanico, Gazzelli, zona di Costa d'Oneglia) e vicino alla città si separano: Eolo va in Oneglia, ed Ivan si reca a Barcheto.
Giovanni  Strato, Op. cit., p. 151

mercoledì 23 luglio 2025

Una cartoleria centro smistamento di documenti e di materiale per i primi gruppi partigiani di Imperia

Imperia: Via Ospedale ad Oneglia

Dall'Archivio Storico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia (IsrecIm) affiorano storie straordinarie di fatti e di persone che costituiscono la Storia di questo angolo di Paese, il Ponente ligure, in un periodo particolare e determinante quale la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza, che è stato raccontato in alcune opere fondamentali tra cui la Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria).
E molte altre ne possiamo annoverare, di valenti studiosi e studiose locali, opere che hanno costituito le fonti di questo lavoro, insieme alla raccolta di testimonianze dirette.
Questo è un libro di passione, non pretende di essere esaustivo, ma è un percorso dentro la memoria locale per riprendere il filo di ideali, sentimenti, esperienze e aspettative che interessano ancora, per «orientarsi nella modernità confusa e smarrita», come dice Lidia Menapace.
Daniela Cassini, Gabriella Badano e Sarah Clarke LoiaconoProtagoniste. Storie di donne e Resistenza nel Ponente ligureIsrecIm - Regione Liguria - Fusta Editore, 2025,  p. 7

Come già detto, accanto all'organizzazione Gruppi di Difesa della Donna, abbiamo un'infinità di donne che hanno sopportato una serie ben lunga di sacrifici.
Non erano forse donne della Resistenza tutte le madri, le spose e le sorelle dei patrioti? Non erano esse stesse partecipi dei rischi e dei tormenti dei loro cari? Quante preghiere venivano pronunciate nelle case o nelle chiese per la salvezza dei propri congiunti!
Nei casoni e nei fienili, impropriamente chiamati ospedaletti da campo partigiani, in ogni ora del giorno e della notte le donne erano pronte ad accogliere feriti e malati per curarli, sfamarli e rincuorarli. E tra esse, le suore negli ospedali hanno offerto esempi di dedizione infinita, sopportabile da chi è retto da una fede trascendente che fornisce il duplice dono del sacrificio e del coraggio nell'affrontare la morte stessa con una serenità d'animo eccezionale e consapevole.
Il servizio staffette nelle formazioni molte volte veniva svolto da ragazze che, attraverso sentieri mozzafiato, si recavano in zone distanti anche alcuni chilometri per portare circolari, notizie o segnalazioni.
E in banda la donna con il fucile in mano rivestiva il ruolo, tipicamente maschile, del guerriero in lotta. Sparava come l'uomo nell'impeto della battaglia, e della delicatezza della sua figura e del disagio tra quegli spari nulla doveva affiorare, perché in certe situazioni non poteva esistere debolezza o privilegio.
Quanti ruoli la donna abbia sostenuto nella Resistenza è difficile dire, perché se si possono descrivere fatti accaduti, mi pare non sia possibile penetrarne lo spirito, l'ispirazione, i moventi autentici per cui scatta l'azione. Ho cercato, comunque, di chiarire come la partecipazione della donna nella Resistenza italiana, perciò anche in quella imperiese, sia costituita da una vasta gamma di impegni ed abbia origine da svariate direzioni.
E mi rammarico per l'impossibilità di ricordare l'interminabile serie di interventi di donne nella lotta, perché una ricerca seria presenterebbe problemi pressoché insolubili ed un impegno gravoso anche per il fatto che tante protagoniste, veramente modeste ed aliene da riconoscimenti ed onori, non intendono fornire notizie sulla loro attività resistenziale, mentre altre, purtroppo, sono invecchiate, malate o scomparse. Ed ancora, come ho già accennato in altra parte, occorrerebbe per ognuno dei tanti argomenti, una singola pertinente pubblicazione.
In appendice a questo capitolo è riportato l'elenco delle donne partigiane, patriote e collaboratrici del movimento organizzato di Liberazione nella nostra provincia. Ma, prima dell'elenco finale, mi siano permesse alcune citazioni e qualche breve commento.
Pietro Roggerone, nel corso di un rastrellamento, viene arrestato e condotto a Sanremo con una decina di prigionieri in ostaggio; una ragazza, Anna Lanteri, riesce a far fuggire tutto il gruppo (1). Risulta inoltre che la coraggiosa ragazza abbia salvato addirittura una cinquantina di civili incappati in un rastrellamento. Successivamente sarà arrestata.
Le SAP non sono un'organizzazione prettamente maschile. Anche le donne sanno combattere: «Nei primi mesi dei 1945 i sapisti della III Brigata riuscivano a disarmare una quindicina di militari italiani e tedeschi. Azioni rischiose nelle quali si distinsero per il coraggio dimostrato anche le giovanissime sapiste Palma Bianca e Daolio Nanda, seguite da un folto gruppo di donne, quali Elena Caterina, Robino Carolina, Garibaldi Geromina, Trevia Elisabetta, Agnese Teresa, Bestoso Emilia, Piana Gilda, Verda Lucia, Vittoria Giobbia (Sanjacopo), ed altre della Val Steria che si adoperarono instancabilmente per la lotta di Liberazione...» (2).
La professoressa Vittoria Giobbia (Sanjacopo), donna eccezionale il cui antifascismo è radicato ed autentico dirige le SAP femminili in Diano Marina. Organizzatrice abile e coraggiosa, lancia alla gioventù studentesca il suo appello alla lotta. Costituisce otto nuclei resistenziali: a Cervo, San Bartolomeo, Tovo Faraldi, Villa Faraldi e quattro a Diano Marina.
Verso la metà dell'ottobre 1944 è ricercata dalle SS perché la sua abitazione in Diano Marina (al n° 1 di via Genova) viene riconosciuta come centro dell'attività clandestina. Fugge, ma non si rassegna. Riprende i contatti con l'organizzazione femminile di Imperia e, naturalmente, con quella di Diano Marina. Ritorna alla guida del movimento femminile ed è preziosa collaboratrice del CLN locale con i collaterali movimenti maschili della Resistenza. Donna di cultura, incaricata dei corsi di traduzione della Facoltà di lettere dell'Accademia di Digione, già dal sorgere del fascismo in Italia si era rivelata come una delle più acerrime nemiche della dittatura (3).
Alba Rizzo di Camporondo (Diano Borganzo) è la staffetta che informa giornalmente i patrioti locali di stanza nei pressi di Diano Roncagli. Verso le 15 del 1O gennaio 1945 un gruppo di Tedeschi, guidato da una spia mascherata, irrompe all'improvviso nella zona e minaccia di sorprendere l'accampamento dei garibaldini di «Stalin»; anche da altre due direzioni giungono colonne nemiche. La ragazza intuisce il pericolo, percorre la salita a perdifiato ed avvisa i partigiani che riescono a mettersi in salvo occultando il materiale. Alba è stremata: al giungere dei Tedeschi si butta a terra e si salva fingendosi morta (4).
Analogamente, il 2 agosto 1944, un'altra ragazza, Lucia Ardissone, dopo un'estenuante corsa riesce ad avvisare una decina di giovani di Roncagli che dormono in una baita in località denominata «Piano della Chiesa», salvandoli perciò dalla morte (5).
Il 29 gennaio 1945 durante un rastrellamento Francesco Camiglia tenta la fuga attraverso i tetti, ma è ferito e chiede un disperato aiuto alla madre. Viene catturato e trascinato verso un albero di pero per essere impiccato. Gli passano il cappio intorno al collo. La madre, presa dalla disperazione raccoglie tutte le forze e si scaglia con un urlo straziante contro i Tedeschi che la respingono (6).
Povera madre, la Resistenza è fatta anche di te. Il popolo ti deve gratitudine, come gratitudine deve alla madre del sapista Augusto Vignola che, per tanti giorni, paziente e trepida di speranza, si avvia alle carceri di Oneglia con il pacchetto contenente il cibo per il figlio prigioniero. Patetica madre, tuo figlio è stato assassinato da alcuni giorni. Anche tua è la Resistenza.
Mi disse un giorno Vera Belgrano (Pia): «Nel capitolo dedicato alle donne della Resistenza Imperiese non dimenticarti di Liliana e di Maria, che avevano sposato i fratelli Quaglia, noti pollivendoli di Oneglia, un triste giorno i due giovani con il camioncino per il trasporto del pollame passarono su una mina posta dai partigiani sulla via Aurelia per far saltare automezzi nemici in transito. Sfortunatamente il camioncino saltò in aria ed i due fratelli morirono. Erano due bravi giovani antifascisti e le loro mogli collaboravano con noi del GDD. Un mattino, dopo il triste fatto mi recai in casa di una delle vedove e la trovai nell'atto di pregare davanti alla fotografia del marito vicino al lumino. Assistere a tanto dolore, dignitoso e composto mi si restrinse il cuore di commozione...». Eppure, comprendendo la fatalità, dell'accaduto, le due donne continuarono la lotta contro il fascismo portando documenti della Resistenza, anche a rischio della loro vita (7).
La stessa Vera Belgrano passa momenti drammatici. Nel corso di un rastrellamento i Tedeschi perquisiscono la sua casa a Costa di Oneglia: buttano tutto sotto sopra, ma fortunatamente non trovano la macchina da scrivere ed i documenti del FdG e dei GDD.
«Forse - dice Vera - i Tedeschi erano troppo impegnati a cercare denaro ed oggetti preziosi, che trovarono ed asportarono; ma ho benedetto quel furto che mi ha salvato la vita!».
Giovanna e Nina sono le sorelle di Giacomo Amoretti (Menicco). Che dire di loro? Sono della famiglia Amoretti e non mi sembra il caso di enumerarne i continui pericoli sopportati con quella cartoleria all'inizio di via Ospedale, diventata centro smistamento di documenti e di materiale per i primi gruppi partigiani.
Tra i miei ricordi, Velia Amadeo, mia cugina. Ero piccolo e, malgrado il gran numero di anni passati, mi rivedo alla finestra dell'abitazione di mia nonna, al primo piano di piazza San Francesco, dove è situata l'attuale Camera del Lavoro. Assisto agli ultimi sprazzi di quel carnevale del 1930. È la sera del 3 marzo e vedo le scene di allegria popolare di quell'epoca. Rivedo sulla piazza i miei zii Alessandro (Pepen) e Raffelina, spontanei ed allegri come era possibile allora. Ma qualche centinaio di metri distante, dal porto di Oneglia scivola silenziosa sull'acqua una barca di pescatori sulla quale c'è la loro figlia Velia con tre antifascisti. Vogliono espatriare, fuggire lontano dalla nostra terra oppressa, per continuare all'estero la loro battaglia. Il mattino seguente, la notizia della fuga tramuta quella gioia spontanea in cupa disperazione. Velia non ritornerà più nella sua casa, ingoiata con i compagni dai gorghi del mare.
Ed Anna, madre di Wladimiro, è la sorella di Giacomo Seccatore, sempre perseguitato dal fascismo. Anche lui morirà presto, vittima delle sue idee e della lotta per la libertà. Anna Seccatore abita sullo stesso pianerottolo della mia famiglia. Le porte dei due appartamenti sono affiancate, in quel corridoio di piazza San Francesco, nel portone adiacente a quello già ricordato di mia nonna. Wladimiro ed io siamo piccoli ed amici; dalle parole carpite dai miei genitori sento che la madre di lui vive anni di tormento per il fratello imprigionato, confinato e perseguitato.
[NOTE] 
(1) Cfr. F. Biga. Diano e Cervo nella Resistenza, op. cit., pag. 100. 
(2) Ibidem, pag. 186.
(3) Ibidem, pag. 236.
(4) Ibidem, pag. 195.
(5) Ibidem, pag. 114.
(6) Ibidem, pag. 200.
(7) Testimonianza orale di Vera Belgrano (Pia).

Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 1992, pp. 582-585

19 Ottobre [1944]. 
Qualche giorno fa un gruppo di patrioti uccisero un milite che si trovava a giocare alle bocce al "Borgo". Per questo fatto, presero la signorina B., sorella di un "fuorilegge" appartenente a una distinta famiglia di commercianti della città e, tradottala non si sa dove, i militi della G.N.R. gliene fecero passare d'ogni qualità. Una ragazza giovanissima tra le mani di quella gente chissà che cosa deve aver provato: sofferenze atroci, tanto che ora si trova in uno stato pietosissimo in una clinica sotto la cura di diversi professori, i quali fecero una denuncia al Comando della G.N.R. dimostrando come stanno le cose. I colpevoli, tre o quattro, sono stati arrestati e ora si attende il processo che dovrà esserci in questa settimana.
[n.d.r.: dal diario di una ragazza rimasta ignota, figlia di albergatori di Sanremo]
Renato Tavanti, Sanremo. "Nido di vipere". Piccola cronaca di guerra. Volume terzo, Atene Edizioni, 2006, p. 20

28 febbraio 1945 - Dai Gruppi Difesa della Donna della provincia di Imperia al Comitato regionale del Fronte della Gioventù e dei Gruppi Difesa della Donna - Relazione sull'attività del mese di febbraio, da cui si evince che i gruppi erano organizzati e retti da un triumvirato femminile, composto da un'operaia e da due intellettuali; che la citata operaia si stava adoperando per creare nuovi comitati; che le donne intellettuali curavano la stampa e la propaganda tra le giovani nella scuola e nelle fabbriche; che erano stati riallacciati i contatti con le vallate e con l'organizzazione del Fronte della Gioventù; che il servizio di spionaggio era già in funzione e che alcune impiegate delle Poste avevano già fornito notizie utili a salvare la vita a diversi partigiani.
Documento IsrecIm  in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)- Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

giovedì 3 luglio 2025

I partigiani sostarono temporaneamente nella tana dei disertori, celata da una piccola cascata

Pietrabruna (IM)

Il gruppo [n.d.r.: appartenente alla IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione Garibaldi "Felice Cascione"], in buona parte ricomposto, procedeva in fila indiana, il terreno ora arido e selvaggio saliva rapidamente e, malgrado l'attenzione posta, dei sassi si staccavano dal suolo rotolando verso il basso con pericolo continuo per coloro che seguivano; ciò nonostante, all'apparire d'un melo selvatico non esitai a chinarmi per raccoglierne i frutti caduti che infilai nella camicia, bene o male qualcosa sarebbe entrato nello stomaco; il canalone ora, per le aumentate difficoltà del terreno, si restringeva in una fenditura che a prima vista sembrava precludere la possibilità di proseguire o nascondersi, ma l'apparire improvviso d'una piccola cascata venne accolto con gioia da buona parte del gruppo; con stupore, vidi i primi continuare il cammino e penetrare sotto la volta scrosciante, scomparendo; l'acqua, che diventava ruscello su lucide rocce, non conservava alcuna traccia. Il nascondiglio era chiamato «la tana dei disertori» ed era servito nel tempo a fuggiaschi di varie epoche; all'interno lo spazio era sufficientemente ampio, e con sorpresa vi trovammmo un gruppetto di contadini, prontamente rifugiatisi al rumore del combattimento appena conclusosi; un paio di lanternini ad olio, in un gioco di luci ed ombre illuminava parzialmente il fondo della caverna, mentre nella parte antistante la luce filtrava a sufficienza attraverso la parete d'acqua. I due gruppi  immediatamente si fusero, agricoltori e partigiani, in uno scambio di saluti e informazioni, volti lucidi di sudore e sguardi lesi in un parlottio sommesso, sovrastato a tratti dalle ultime raffiche dei Majerling tedeschi che sparavano nel folto della vegetazione, ultimo sfogo di uno scontro subito.
E finalmente il silenzio, prima dubbioso, nel timore di un probabile ulteriore pericolo, poi sereno, tutti i rumori imprecisi e confusi del bosco ritornarono vivi, chiaro il canto degli uccelli risuonò allegro tutto d'intorno ricreando un'atmosfera di tranquilla sicurezza, e nella poca luce di quella strana dimora i contadini estrassero delle vecchie gavette, dividendone la pastasciutta in esse contenuta con gli affamati giovani del nostro distaccamento. Poco dopo mi permisi di ricambiare la gentilezza con l'offerta di qualche mela, non certo di prima scelta; un saluto e forti strette di mano conclusero la gradita sosta. In colonna frazionata, attenti e silenziosi ci si incamminò verso Pietrabruna, capoluogo della valle omonima, non ancora frequentato dalle nostre formazioni per la facile accessibilità allo stesso da parte dei reparti motorizzati tedeschi e fascisti che in un'ora all'incirca vi giungevano dal mare; in avanscoperta erano stati inviati due garibaldini, buoni conoscitori della zona, e quando quasi vicino ci apparve il campanile del paese circondato da bruni tetti immersi nel verde degli ulivi, trovammo ad attenderci uno dei due, tranquillamente seduto sul ciglio del sentiero. «Il paese e la valle sono calmi» disse, «i nostri informatori e i contadini rientrati dai prati assicurano che i tedeschi proseguono verso il nord, per collegarsi ad altri reparti provenienti da direttrici diverse (l'attacco tedesco si concluse con la battaglia di Montegrande del 5 settembre 1944); questa valle è saltata, vi si può rimanere con tutta tranquillità». E per la prima volta, una cinquantina di uomini invasero le strette viuzze del paese, pittoresco insieme di giovani e meno giovani, volti imberbi e volti barbuti dal grigio colore del tempo, con moderne armi e vecchi fucili, ma tutti con un eguale sorriso; sosta obbligata, Petran, la vecchia e unica trattoria del luogo, posta in prossimità della piazzetta delle corriere. Ci si dispose all'interno e all'esterno, nelle viuzze adiacenti e nel lavatoio, attorniati da paesani gentili e curiosi di sapere, e nell'attesa della mangiata ordinata da Danko [Giovanni Gatti] si parlò e si raccontò, ridendo come ragazzi alla loro prima festa; due ragazzine, con le lunghe trecce e gli occhi della primavera, mi si avvicinarono per avere conferma se proprio io avevo sparato col Majerling, al loro ingenuo ma femminile sorriso sentii di essere quasi un uomo.
Un'allegra confusione regnava nel locale più grande della trattoria, che a malapena ci accolse tutti; di fronte a ciascuno, un fumante piatto colmo di carne e un colorito bicchiere di vino; un'animazione fuori dell'ordinario, si continuava a parlare ancora del combattimento, era un meccanismo che seguitava a ruotare e ripetersi, per la maggior parte di noi era stata la prima volta ed era pienamente comprensivo lo stato di euforia collettivo. La tensione però tendeva ad allentarsi col passar delle ore, il vino ed il pranzo ingerito, inoltre, cominciarono a produrre i loro effetti e una strana, benefica stanchezza mi prese, ma durò per poco: dal di fuori un grido «i tedeschi» e fu come se possenti molle ci scagliassero all'esterno; pochi attimi e si era tutti all'aperto con le armi in pugno, ma non avevo dimenticato di portare un morbido cosciotto di arrosto, pregiata preda che tenevo saldamente stretta nella mano libera. Confusione e incertezza generale, fortunatamente l'allarme si rivelò fasullo, alcuni di noi intendevano ritornare a tavola, ma la maggioranza, di contrario avviso, preferì allontanarsi, incamminandosi verso la nuova base prima che le ombre della sera rendessero più difficile il rientro. E sulla strada del passo della Follia, in colonna si affrontò la ripida salita, mentre dalle ultime case di Pietrabruna i paesani ancora numerosi salutavano a larghi gesti. La lunga giornata volgeva al termine, il sole quasi furtivameme scivolava oltre l'orizzonte, per la stanchezza, il peso dell'arma sulle spalle sembrava raddoppiato, e quando ancora una volta mi trovai a guardare verso Santa Brigida, mi ritornò alla mente N. la ragazza dell'appuntamento, i fatti del giorno l'avevano cancellata, la poesia di un tramonto la fecero riapparire, ma solo nel ricordo; N. non la incontrai più.
Il primo rastrellamento da noi subito s'era concluso, l'originale trappola architettata dai nazisti e realizzata con un grosso spiegamento di forze aveva raggiunto solo parzialmente lo scopo, arrecando ad alcuni reparti soltanto delle perdite contenute, ma altri contingenti, fra i quali il nostro, forse più fortunati, ne erano usciti completamente indenni riuscendo inoltre ad impegnare l'avversario ed arrecargli sensibili perdite. Il nostro infatti, seppure di recente formazione e costituito in parte con elementi di scarsa preparazione militare, aveva superato brillantemente l'esame, determinando all'interno dello stesso una maggior stima reciproca, che rinsaldò ulteriormente la coesione del gruppo.
Renato Faggian (Gaston), I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza Imperiese. Diario partigiano 1944-45, Ed. Cav. A. Dominici, Imperia, 1984,  pp. 53-55

venerdì 20 giugno 2025

Il gruppo continuò a stampare proclami per la popolazione, incitandola a combattere fascisti e Tedeschi

Ventimiglia (IM): Via Cavour

Nell'intento di chiarire un punto che appare all'inizio della trascrizione che qui segue, ci si permette di affermare in premessa che ben difficilmente il tipografo Riccardo Parodi stampasse in funzione antifascista pezzi di propaganda e documenti falsi a Ventimiglia "all'insaputa del proprietario", il patriota Pietro Giacometti, il quale, anzi, con tutta probabilità, fu da subito il vero responsabile di tali azioni. Confermano tale aspetto - da quella ditta ubicata in Via Cavour a Ventimiglia "usciva ed uscì tutta la stampa clandestina antifascista del Ponente ligure" - i ricordi della figlia di Giacometti, Emilia, in cui vi è la traccia di tutta la faticosa ed intensa attività resistenziale del padre, ricordi pubblicati di recente nel libro di Daniela Cassini, Gabriella Badano e Sarah Clarke Loiacono, Protagoniste. Storie di donne e Resistenza nel Ponente ligure (Isrecim - Regione Liguria - Fusta Editore, 2025). E rafforza il ruolo di Giacometti un memoriale di Giuseppe Porcheddu, che lo colloca tra i collaboratori dei primi organizzatori della Resistenza nella zona di Baiardo e non solo. Va sottolineato, invero, che sia il diario di Emilia Giacometti che gli appunti di Porcheddu erano inediti alla data di uscita dell'opera di Francesco Biga, cui qui ci si riferisce. In ogni caso, quella di Pietro Giacometti risulta ancora oggi una figura trascurata dalla storiografia.
Adriano Maini

Uno dei più noti protagonisti della stampa della Resistenza Imperiese fu il tipografo Riccardo Parodi. Prima dell'8 settembre 1943 lavorava nella tipografia «Giacometti» di Ventimiglia ed era in contatto coi compagni Castagneto e Ricci. All'insaputa del proprietario il Parodi stampava volantini e manifesti, talvolta anche a mano, e carte d'identità false per gli antifascisti ricercati.
Quando l'8.9.1943 fu proclamato l'armistizio, stampò pure, a mano, il famoso manifesto intitolato «Fuori i Tedeschi dall'Italia», ma, rimastevi sopra le sue impronte digitali, le copie già affisse furono fatte strappare nella notte da squadre di attivisti.
Ritirava i volantini stampati nella tipografia di Ventimiglia la moglie del geometra Ricci che ne curava la distribuzione in collaborazione col compagno Boccadoro. Quest'ultimo, che venne arrestato, morì tubercolotico a Parigi per le sofferenze patite.
A fine settembre 1943 le prime copie dell'organo del P.C.I. «L'Unità», edizione imperiese, uscivano dattiloscritte, compilate clandestinamente in una stanza di salita San Leonardo, curate dal segretario G. Castagneto.
Giunti ad Imperia il 12-13 settembre 1943, i Tedeschi prendevano possesso della città, ma l'organizzazione del P.C.I. continuò a funzionare. I collegamenti con Genova, Alassio, Albenga, Diano Marina, San Remo e Ventimiglia, venivano ripristinati. Ripresa la distribuzione del materiale di propaganda e l'affissione dei manifesti provenienti dal «Centro» di Genova.
In casa del rag. G. Castagneto, in via del Monastero, si continuò a produrre del materiale di propaganda; il Castagneto dattilografava i manifestini, Riccardo Parodi e Giovanni Ericario, sistemati i caratteri su tamponi a mano, li stampavano.
Nel dicembre 1943 veniva ristrutturata la tipografia clandestina, sempre a Porto Maurizio, a pochi passi e nella stessa via dove aveva sede la squadra politica fascista.
Un artigiano falegname aveva preparato due cassette in legno che rappresentavano due rudimentali ciclostili. La seta necessaria per i rulli era stata recuperata nel pastificio Agnesi.
Uno dei ciclostili, completo di tutto, fu inviato a San Remo; con l'altro, il gruppo continuò a stampare proclami per la popolazione, incitandola a combattere fascisti e Tedeschi.
Si stampavano pure giornaletti formati da due o tre pagine, che riportavano articoli di fondo compilati da Giacomo Amoretti (Menicco), notizie dai fronti, appelli, ecc.
Gli addetti lavoravano di notte perché col ciclostile non si faceva rumore; i clichés, invece, erano preparati di giorno con la macchina da scrivere.
Sempre nella notte, appositi sacchetti pieni di volantini, portati in un luogo prestabilito lontano dalla tipografia, venivano ritirati dalle staffette Paolo Ligi (Litto), Pietro Benvenuti (Petrin Scintilla), Adolfo Stenca (Rino) ed altri, che li portavano a destinazione.
Il materiale, comprendente la macchina da scrivere, il ciclostile, riserve di carta ecd inchiostri, quando non si adoperava era tenuto accuratamente nascosto in una vecchia cisterna di un caseggiato, col fondo coperto da un buon metro e mezzo di acqua. La cisterna aveva una sola botola con un'apertura di cm. 40x40, che serviva per attingere l'acqua piovana con un secchio.
Chiunque si fosse affacciato avrebbe scorto soltanto il liquido poiché il materiale tipografico era posato su un ponte di legno costruito di lato, del tutto invisibile a causa dell'oscurità. Si scendeva al ponte in legno tramite una scala a chiodi infissi nella parete della cisterna.
Al dicembre del 1943 risale il servizio stampa clandestina quando, per ordine del C.L.N. imperiese, si ebbero i primi contatti con i partigiani di Albenga («il Barbiere», «u Ghighillu», «Enrico», ecc.) con i quali si stampavano volantini a ciclostile.
Importanti manifesti furono stampati a Porto Maurizio in occasione degli scioperi antifascisti proclamati il 18.2.1944 e l'1.3.1944, non solo per Imperia, ma anche per Alassio e per Albenga.
Di notte le staffette Pietro Benvenuti (Petrin Scintilla) e Vittorio Ardissone (Victoir) di Diano Borganzo, portavano nel Dianese i volantini stampati ad Imperia.
Nei primi giorni del 1944 era stato trasportalo da San Remo a Taggia un ciclostile, inviato da Farina e Ferraroni, col quale si iniziò a stampare un foglio intitolato: «Il Comunista Ligure», che riportava notizie di cronaca tratte dai notiziari di radio Londra e di radio Mosca, articoli di propaganda e sulla resistenza armata.
Il ciclostile era stato sistemato in una botola sotto la bottega del barbiere Mario Cichero, all'angolo delle vie «Vittorio Emanuele» (oggi «Candido Queirolo») e «San Giuseppe». Con Bruno Luppi collaboravano alla stampa i cospiratori Mario Cichero, Mario Siri, Candido Queirolo, Mario Guerzoni ed altri.
Nel maggio 1944 il tipografo Riccardo Parodi (Ramingo), che lavorava ancora a Ventimiglia, sospettato, riuscì a sottrarsi alla cattura perché era stato segnalato col nome di Frontero, quando il vero Frontero Tommaso, con Renacci e tutti gli altri, il 23 era già stato arrestato. Come vedremo, trasferitosi ad Oneglia, il Parodi salirà in montagna alla fine di giugno.
Nella primavera altri volantini venivano dattiloscritti in casa del compagno Giovanni Ericario in via Domenico Acquarone, a Porto Maurizio.
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, IsrecIm, Milanostampa Editore - Farigliano, 1977, pp. 248-250

lunedì 9 giugno 2025

Curto si qualificò come comunista, responsabile delle formazioni partigiane che agivano nella zona

Rezzo (IM). Fonte: mapio.net

In quel periodo ero venuto a conoscenza di uno scontro di ribelli imperiesi a Montegrazie; a Rezzo erano stati disarmati i Carabinieri. Ma non riuscii a sapere niente di più delle forze partigiane che erano state protagoniste dei due episodi. Perciò a febbraio [1944] decisi di recarmi in Provincia di Cuneo con l'obiettivo di arruolarmi nelle formazioni G.L. Messomi in cammino al mattino presto, mi trovavo già nei pressi di San Bernardo di Conio, sul versante di Rezzo e scendevo di buon passo, quando incontrai un uomo che salutai col buongiorno, senza fermarmi: era Curto [n.d.r.: Nino Siccardi, futuro comandante della I^ Zona Operativa Liguria], che io ancora non conoscevo. Lui, con una voce pacata e lenta, disse qualcosa sul mio passo spedito, io gli risposi che ero nativo di Cipressa e che dove andavo a lui certo non doveva interessare. Sempre parlando in dialetto, mi rispose: «Io sono di Artallo, ma mi farebbe piacere sapere dove vai». 
Ero armato di una pistola Beretta calibro 9 corto e di due bombe a mano Breda; non avevo ancora 23 anni e avevo detto il nome del mio Paese quasi come un atto di sfida; ma adesso, se volevo rispondere sinceramente, lui sapeva dove trovare la mia famiglia: chissà chi era e come la pensava; perciò decisi di andarci cauto e gli dissi: «Vedete, brav'uomo, se non vi avessi risposto sinceramente sul paese dove sono nato, potrei dirvi anche dove vado, ma a casa ho lasciato mia madre e mio fratello più giovane di me; mio padre è morto il mese scorso e non voglio che abbiano altri guai». Nel dir questo avevo messo la mia mano nella tasca del giubbotto e tolto la sicura della Beretta. Lui aveva certamente notato il mio gesto, ma non disse niente, e iniziò a parlare dicendo che, dato che io ero più giovane, sarebbe stato giusto che mi spiegassi per primo, ma che capiva la mia situazione e che si sarebbe fidato di me. Tolsi la mano dalla tasca del giubbotto.
Si qualificò come comunista, responsabile delle formazioni partigiane che agivano nella zona. Io gli raccontai le mie brevi esperienze di ribelle e la mia intenzione di raggiungere le formazioni G.L. nel cuneese. Si informò sulla mia vita militare, sulle mie esperienze sui vari fronti e mi disse, con la più grande naturalezza: «Invece di andare nelle formazioni G.L. sarebbe meglio che tu ti presentassi alla «milizia fascista» per arruolarti; con le tue campagne di guerra ti accoglierebbero a braccia aperte». Era intenzione di Curto sfruttare la mia esperienza inviandomi come infiltrato per poter organizzare un colpo di mano per rifornirci di armi e munizioni. «Dopo che ti sarai ambientato, ti faremo avvicinare da un nostro uomo col quale studierete il modo migliore per fare un colpo di mano nella caserma, per impadronirvi delle armi. Abbiamo bisogno di armi e munizioni!»
«Non posso farlo» gli dissi «prima di tutto perché esporrei mia madre e mio fratello alle rappresaglie dei fascisti e poi anche perché non mi sento di indossare la camicia nera, neanche per fare il doppio gioco». Allora mi disse: «Torna a casa, ti farò sapere se intendiamo affidarti un incarico a Imperia, con una copertura adeguata per il servizio in città. Oppure, se quanto ti verrà proposto non fosse di tuo gradimento, potrai sempre andare nelle G.L. come era nelle tue intenzioni, o in un nostro Distaccamento».
Gli dissi che mi sarei fermato a Carpasio, presso un conoscente (Paolo Gallo detto Paulò), e lì avrei aspettalosue notizie. Ritornammo a San Bernardo di Conio insieme; l'uomo mi piaceva e mi pareva convincente anche la sua fede comunista; il comunismo avrebbe risolto tutti i problemi del mondo, ne era certo, di una certezza matematica che mi affascinava. Ci separammo: lui scese verso Conio, io salii verso Colle d'Oggia a Carpasio.
Lo incontrai ancora alcuni giorni dopo; la proposta era accettabile, mi sarei dovuto presentare al Comando dei Vigili del Fuoco, dove avevano bisogno di autisti, e sarei stato arruolato immediatamente. Il mio nome era già stato segnalato: in seguito sarei stato avvicinato da un rappresentante del P.C.I. Mi diede le istruzioni per il riconoscimento. Accettai: unica mia condizione fu di avere un solo contatto. Certo: mi disse che era giusto e prudente comportarsi così.
Mi presentai al Comando dei Vigili del Fuoco e fui arruolato immediatamente. Per alcuni mesi feci tutto quanto mi venne ordinato. Avevo una fifa da matti; chiesi ripetutamente di lasciare l'incarico per tornare in montagna, ma per un motivo o per l'altro la autorizzazione non arrivava mai. Allora un giorno, piantai tutto e mi presentai a Makallé, un Comandante di Distaccamento, nativo di Costa di Carpasio.
Il Distaccamento era di base in alta Val Prino. Poco tempo dopo venni eletto capo squadra. Il nostro raggio d'azione era la Via Aurelia: dal Prino ad Arma di Taggia-Taggia (il mio nome di battaglia era Negro). Ci spostavamo sulla via Aurelia dopo una marcia di tre e anche di quattro ore: il che naturalmente voleva dire altrettanto tempo per il ritorno. Avevamo un mitragliatore Saint'Etienne: lo adoperava in maniera perfetta Giacò, col quale avevo fatto le prime esperienze da ribelle nel gruppo di giovani e meno giovani del mio paese.
I pochi mesi di tensione continua che avevo passato nei Vigili del Fuoco, col pensiero fisso alle torture che mi avrebbero inflitto i fascisti se mi avessero catturato per farmi parlare, avevano creato in me uno stato di bisogno d'agire che si calmava soltanto durante l'azione. 
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo) *, Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 74-76

* [n.d.r.: Garibaldi fu il comandante della Brigata "Val Tanaro", la quale nell'ultimo mese di guerra divenne la IV^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Domenico Arnera", sempre della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"]

domenica 11 maggio 2025

Il comando tedesco preparava da Taggia l'attacco a Pigna

Taggia (IM): una vista su Castellaro

Il 6 [ottobre 1944] il garibaldino «Pablos», a Civezza in missione, venuto a conoscenza che un Tedesco era salito in paese, lo affronta per disarmarlo; avviene una sparatoria e il Tedesco rimane ucciso; tra quelli sopraggiunti in aiuto al camerata uno rimane gravemente ferito, mentre il garibaldino riesce a ritirarsi incolume.
Un'altra squadra del 4° distaccamento tende un'imboscata presso la «strada rotta» ad una quindicina di Tedeschi che si erano recati a Borgomaro per prelevare fieno. Cadono tre nemici (un morto e due feriti gravi) mentre i superstiti riescono a fuggire attraverso un canneto sottraendosi così alla cattura. La squadra rientra al completo alla base.
Per rappresaglia i Tedeschi uccidono un giovane e bruciano alcune case presso San Lazzaro Reale.
Presso Taggia due garibaldini del 2° ballaglione fanno fuoco contro i Tedeschi che perdono un uomo; per rappresaglia rastrellano Riva Santo Stefano e imprigionano il parroco don Pistola Luigi, l'ex sindaco Gatti Pietro ed il Direttore didattico.
Nella prima settimana di ottobre i Tedeschi presidiano la strada statale n. 28 da Oneglia a Chiusavecchia con le seguenti forze: reparto tedesco di trenta uomini con mortai a Castelvecchio; un cannone da 75 ai piedi del ponte vecchio e un altro suIla pista da ballo di San Giacomo a Barcheto, puntati in direzione di Pontedassio, presidiati da trenta soldati; alla cabina elettrica: sei Tedeschi di guardia pronti a farla saltare; in località Lalena: trenta uomini di presidio alla strada minata; a cava Rossa: cannone piazzato oltre le case della cava e mitragliatrice sul ponte con venti uomini; in località Libaghi: infermeria e personale vario; a Pontedassio: nel giardino sotto il carradore piazzati cinque cannoni da 105 mm., duecento Tedeschi in paese; a Monteminato: montagna minata con accensione a miccia e non più a corrente elettrica, posto di guardia composto da una diecina di Tedeschi; a Chiusavecchia: fortino in pietra all'ingresso del paese e un altro ove risiede il Comando della «Muti»; a Garzi: due fortini, uno di fronte all'altro, ai lati del ponte.
Tutti questi preparativi sono rivolti verso nord, ossia verso i monti dove si suppone che i Tedeschi attendano gli eventi.
Frattanto s'insedia a Taggia il Quartiere Generale del Comando tedesco incaricato di organizzare e dirigere il prossimo rastrellamento che scatterà da Pigna nella mattinata dell'8 di ottobre.
Vi giunge un generale d'armata che predispone lo sfollamento delle case in località Seru du Bon per allestirvi un deposito di munizioni e  carburante e alloggiarvi un battaglione di SS tedesche; di altre case di Arma e di Taggia, necessarie a numerose truppe che incessantemente affluiscono, con l'ordine di risalire, in fase di rastrellamento, la valle Argentina e raggiungere i forti di Nava.
Altri attacchi contro il nemico vengono condotti con accanimento nei giorni successivi. Una pattuglia del 10° distaccamento «W. Berio», comandata da Angelo Setti (Mirko) ed operante sulla 28, sorpreso nel pomeriggio del 7 un plotone di quaranta militi fascisti presso San Lazzaro, lo sottopone ad un intenso fuoco di mitragliatori e lo sbaraglia causandogli otto morti compreso un ufficiale.
Il 10 una squadra del 7° distaccamento comandata dal caposquadra «Romolo», in agguato sulla via Aurelia, mitraglia un autocarro e provoca la morte di due Tedeschi ed il ferimento di altri quattro. Segue un forte rastrellamento su tutto il territorio del Comune di Taggia con prelievo di civili (quattordici persone tra cui Lasagna Angelo trattenuto per molto tempo).
A San Lorenzo al Mare vengono prelevati in ostaggio i civili don Mariano Clerici, Ricca Francesco, Belgrano Vincenzo e portati alla caserma «G.B. Revelli» ad Arma; saranno seviziati per tre mesi. Solo il parroco viene liberato il giorno 28.
L'11 di ottobre sette uomini del 5° distaccamento col comandante Giovanni Arrigo (Romolo), tesa un'imboscata nella zona di Cesio a ottanta fascisti e Tedeschi, li sbandano con raffiche di mitragliatore: dieci morti e undici feriti nemici rimangono sul terreno. L'azione viene completata con la distruzione del nuovo ponte ricostruito dai Tedeschi tra San Lazzaro e Caravonica. Nessuna perdita garibaldina.
Il 12 un'altra pattuglia del 7° distaccamento assalta tre camion tedeschi che transitano sulla via Aurelia tra il capo di Santo Stefano e la torre Aregai; apre il fuoco alla distanza di una diecina di metri con «Mayerling», mitra, machinen-pistole e bombe a mano di fabbricazione greca; le perdite del nemico assommano ad un elevato numero di morti e feriti, un autocarro rimane incendiato al lato della strada.
Il giorno 13, garibaldini del 2° distaccamento prelevano a Piani d'Imperia due agenti fascisti di Pubblica Sicurezza ivi recatisi per informazioni e il 14 una spia a Caramagna.
Dal settembre all'ottobre Ville San Pietro fu sede del Comando della IV brigata e dell'ospedaletto da campo partigiano.
La 5^ compagnia della brigata nera occupa Ceriana il 15 di ottobre.
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, IsrecIm, Milanostampa Editore - Farigliano, 1977, pp. 163-164


 

venerdì 11 aprile 2025

Donne imperiesi dall'antifascismo alla Resistenza

Imperia: nei pressi del ponte stradale sul torrente Impero

A Imperia, la giovane Velia Amadeo, ai primi di marzo del 1930, nell'accompagnare in una barca il fidanzato, il giovane comunista Vincenzo Bottino, nel tentativo di espatriare nella vicina Francia, periva con lui.
Ancora più significativo il caso di Ornella Musso, di Oneglia, che seguì in Spagna il padre Felice espatriato per motivi politici. Ivi la solidarietà familiare divenne un preciso e autonomo impegno politico, in quanto la Musso collaborò a Radio Barcellona durante il periodo della guerra civile.
Sempre nella provincia di Imperia, a partire dalla fine degli anni trenta, spuntava un vivace antifascismo tra gli intellettuali, tra cui alcune donne. Così la prof. Antonello-Brusco fu minacciata, redarguita e molestata: il movimento si fece più intenso dopo lo scoppio dello seconda guerra mondiale, quando alcune professoresse e intellettuali parteciparono addirittura a gruppi di chiaro stampo antifascista: la prof. Vittoria Giobbia, la prof. Costanza Costantino, Letizia Venturini, traduttrice del libro di Rauschnig, "Hitler m'a dit", la prof. Adelina Biglia, che fu addirittura arrestata per avere confidato ad un'occasionale conoscente che era tempo di porre fine alla guerra.
Sempre a Imperia Fede Amoretti assorbì l'antifascismo dall'ambiente familiare influenzato dallo zio Giacinto Menotti Serrati già dirigente nazionale del partito socialista, e Uliana Zanetta dal padre che durante il ventennio era costantemente sorvegliato speciale perché comunista. Anche Alba Berio, costretta ad emigrare durante il fascismo per le angherie subite, fu iniziata all'antifascismo dall'ambiente familiare, e così Maria Ricci, proveniente da famiglia di vecchi socialisti.  
Teresa Agnese di Albenga fa risalire il suo sentimento viscerale contro i fascisti alle minacce di bastonature e di purghe che i fascisti fecero contro la sua famiglia. Bianca Calvi di Imperia, più che dall'ambiente familiare, trasse alimento al suo antifascismo dall'ambiente di lavoro, l'oleificio Agnesi, dove i pochi operai e le poche operaie fasciste erano isolati e guardati con sospetto.
Assunta Berro Bianchi di Imperia imparò l'antifascismo dal padre più volte arrestato durante il regime. Padre e marito di Maria Terrone di Valloria erano anch'essi antifascisti, tanto che l'intera famiglia fu costretta ad emigrare per un certo periodo in Francia. Tebe Demonte di Imperia maturò il suo antifascismo sia dall'ambiente di lavoro "molto duro", sia dal marito Adolfo Stenca iscritto al PCI, e anche Olinda Aicardi, operaia di Imperia, assimilò l'antifascismo dall'ambiente familiare (suo padre era un vecchio socialista) e da quello di lavoro.
Nella famiglia di Anna Bonfante si tenevano riunioni antifasciste con distribuzione di volantini e scambio di notize già prima del 1943, e anche la famiglia di Gilda Piana di Diano era antifascista. Anche Aurelia Rebecco di Pairola, madre di un partigiano fucilato [n.d.r.: Alberto Lorenzi], maturò il suo antifascismo attraverso il marito. Maria Lanteri di Triora dichiara di aver ricevuto l'antifascismo "in casa". Per Milena Massa di Diano Marina la tradizione antifascista e socialista di casa sua le rese poi, secondo le sue parole, "la scelta facile"; anche Giulia Negro di Imperia, moglie di un antifascista, fu iniziata all'antifascismo dal marito, mentre Andreina Rondelli imparò l'antifascismo dalle esperienze e dalle angherie subite dal padre. Angela Carbone di Sanremo, trasse ispirazione al suo antifascismo dal padre socialista. Maria Scotti di Pigna, levatrice, assorbì l'antifascismo dall'ambiente familiare cattolico, e così Emma Borgogno di Perinaldo ereditò l'antifascismo dall'ambiente familiare socialista, allo stesso modo di Giorgina Ascheri di Dolcedo.
Danilo Veneruso, La donna dall'antifascismo alla Resistenza in (a cura di) Aa.Vv., La donna nella Resistenza in Liguria, Consiglio Regionale della Liguria - La Nuova Italia Editrice (Firenze), 1979

Felice Musso, ex sindaco socialista di Castelvecchio, all’avvento del fascismo dovette lasciare il paese perché perseguitato e si rifugiò nella vicina Nizza, come tanti compaesani. La famiglia lo raggiunse piuttosto tardi, nel 1930, la moglie Giuseppina, la figlia Ornella e il figlio Lorenzo, il quale si inserì subito nell’organizzazione socialista al fianco del padre e dei vecchi compagni imperiesi <335.
Giuseppe Amoretti, il “Moretto” comunista di Oneglia, lasciò Imperia anch’egli dopo il dissesto finanziario della sua attività di commercio in olio, e grazie alla dote della moglie poté rilevare un negozio di commestibili nel cuore della Vieille Ville, intrico di vicoli dove dal secolo precedente gli italiani si erano installati con le loro botteghe, alimentari, ristoranti. Egli si inserì dapprima nel movimento comunista italiano a Nizza, ottenendo ruoli di responsabilità, in stretto contatto con Felice Musso e i compagni imperiesi, poi si integrò sempre più nelle organizzazioni del Pcf, mantenendo rapporti con l’emigrazione antifascista e con la sinistra locale <336.
[NOTE]
335. AIsrecIm: IID4: f. Lorenzo Musso.
336. Cpc: b. 105, f. Giuseppe Amoretti.
Emanuela Miniati, La Migrazione Antifascista dalla Liguria alla Francia tra le due guerre. Famiglie e soggettività attraverso le fonti private, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova in cotutela con Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, anno accademico 2014-2015

[...] Dilanda Silvestri che aiuta il padre Michele (Milano) nella sua opera a favore della Resistenza; Iolanda Zunino (Spavalda) non ha congiunti da coadiuvare, ma si impegna in prima persona in qualità di staffetta dei distaccamenti cittadini; Gea Gualandri è un'attiva collaboratrice; Cesira Lanteri ospita i partigiani nella sua casa nella zona di Langan ed i Tedeschi, scoperta l'attività, incendiano l'abitazione; la professoressa Adelina Biglia è arrestata nel maggio 1943; la professoressa Letizia Venturini è nei gruppi antifascisti già prima del periodo resistenziale e traduce scritti da diffondere clandestinamente; la professoressa Costanza Costantini di Torino è pure lei nel gruppo antifascista.
Né si debbono dimenticare Jose Pila, collaboratrice nella zona di Costa d'Oneglia; le sorelle Evelina e Giuliana Cristel, già citate nel capitolo dedicato al FdG; Teresa Vespa Siffredi, internata nel campo di concentramento di Fossoli; Iside Corradini, uccisa sulla via Aurelia e buttata nella scarpata sottostante per non aver consegnato la bicicletta ai Tedeschi.
[...] Tra le fotografie riportate alla fine di questo capitolo figura l'interessante nota della direzione delle carceri giudiziarie di Sanremo che, in data 29 marzo 1945, dà notizia della detenuta Anna Maria Borgogno, ricoverata presso l'ospedale civile, sorvegliata dalla GNR e da consegnare successivamente al Comando tedesco per l'inevitabile fucilazione. Con lei è una altra donna, Bianca Pasteris (Luciana), ferita e catturata a Beusi, destinata ad analoga sorte.
Di Ada Pilastri (Sascia) si deve ricordare il bellissimo racconto della marcia sulla neve per procurare farina e viveri alle nostre formazioni. Rina Moraldo nel marzo 1945 salva il Comando garibaldino: di buon mattino, mentre si reca a Gerbonte per assistere alla Santa Messa, scorge i Tedeschi intenti a piazzare mitraglie a Loreto ed a Creppo, perciò ritorna sui suoi passi ed avverte tutti i partigiani.
E Pierina Boeri (Anita) è una partigiana vissuta soltanto di coraggio e di esempi sul campo di battaglia.
Nel capitolo concernente la Sanità partigiana sono ricordate benemerite suore ed infermiere: Angela Roncallo (Fernanda) nel suo diario alterna la pateticità alla disperazione. Ida Rossi (Natascia), diciannovenne, bionda e graziosa, si trova a Upega in quel tristissimo 17 ottobre 1944; è infagottata in una divisa da soldato tedesco, ma ciò non le consente di sfuggire alla cattura anche se poi, facendo tesoro delle risorse inesauribili della personalità femminile, riuscirà a sfuggire alla morte. A Triora, Antonietta Bracco è tuttora un esempio di dignità e di entusiasmo per la missione compiuta. E Ornella Musso passa di battaglia in battaglia contro il fascismo, dall'Italia alla Spagna, e ancora in Italia per la battaglia finale.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, Imperia, 1992

Ad Imperia Uliana Zanetta si era messa in contatto con Anna Airaldi e Bianca Novaro e insieme avevano formato l'embrione dei Gruppi di difesa della donna, che avrebbero poi svolto la loro attività nella zona. L'Airaldi, che lavorava nella fabbrica Renzetti, si occupava del lavoro tra le operaie, la Zanetta di quello tra le studentesse, nel tentativo di convolgere il maggiore numero di donne appartenenti a strati sociali diversi nell'opera di aiuto ai partigiani. Dopo un lavoro capillare, andando casa per casa a parlare con tutte le ragazze di loro conoscenza, erano riuscite a creare una vera e propria organizzazione.
Giuseppe Benelli, La Resistenza femminile in città in (a cura di) Aa.Vv., La donna nella Resistenza in Liguria, Consiglio Regionale della Liguria - La Nuova Italia Editrice (Firenze), 1979 

mercoledì 26 marzo 2025

A Pontedassio la forza nemica variava da 70 a 150 tedeschi

Pontedassio (IM)

Pontedassio
(ab. 1807, cens. 1951)    
(con le frazioni Bestagno, Borgata Monti, Villa Guardia e Villa Viani)

L'8 settembre 1943, giorno dell'armistizio, era di presidio sul territorio del Comune un Battaglione di artiglieria del Regio Esercito, che si disperse all'arrivo dei tedeschi. Pochi giomi dopo, una ventina di giovani di Pontedassio si portavano in località Monti dove rimanevano circa due mesi, quindi si sbandavano: alcuni ritornavano a casa, altri raggiungevano i partigiani in Piemonte, altri ancora entravano a far parte della Divisione Garibaldi "F. Cascione".
Considerata la località strategicamente importante, i tedeschi organizzavano a Pontedassio un presidio, prima di un centinaio, poi di alcune centinaia di soldati con il Platzkommandantur agli ordini dell'ufficiale Schmidt. Piazzarono batterie antiaeree nel capoluogo, a Villa Guardia e a Bestagno, dove costruirono fortificazioni e trinceramenti. Circa cinquanta tedeschi occuparono Villa Viani e insediarono nei pressi di Pontedassio un grande autoparco dove custodire i numerosi mezzi che avevano in dotazione.
A fine dicembre 1943 si aggregava ai tedeschi una squadra di una ventina di fascisti di "Ordine Pubblico" al comando di Armando Carassale. Nel gennaio 1944 giungeva nel Comune un'altra formazione della Repubblica Sociale, detta "Battaglione Genio Italiano N.1" e comandata daI tenente colonnello Gisulfo.
Il 25 luglio i soldati della III Compagnia alpina tedesca compivano un grande rastrellamento nella zona, infierendo sulla popolazione di Villa Guardia e Villa Viani e rapinando bestiame, pollame, vino, biciclette, radio e così via. Furono anche prelevati venti ostaggi poi trasferiti ad Arma di Taggia, sottoposti a maltrattamenti e rilasciati dopo quarantacinquegiorni.
Nell'agosto 1944 la Piazza di Pontedassio era comandata dall'ufficiale Schmidt.
I tedeschi occupavano le scuole ed il Comune, dove istituivano una prigione. Altro duro rastrellamento il 25 agosto successivo, durante il quale venivano uccisi i civili Felice Dani e Valente Marvaldi. Nove militari del Capoluogo, quattro di Bestagno e due delle Ville subivano la deportazione nei campi di concentramento in Germania. Gravi danni causava il nemico alla popolazione: rapine nelle abitazioni, tre case distrutte, una dozzina di casoni di campagna incendiati, quindici muli e una ventina di bovini, nonché tutti gli animali da cortile, depredati.
Nonostante la forte pressione degli occupanti sul paese, la popolazione manifestò sempre a suo modo e con vari mezzi più o meno clandestini il suo appoggio alla Resistenza. Solo nel settembre 1944, tuttavia, poté costituirsi un vero CLN, composto da Carlo Pansieri (PSIUP), presidente, Leonardo Pansieri (indipente), Napoleone Zerbone (PCI) e Carlo Risso (Partito Repubblicano), i quali, pur nella precarietà della situazione, si impegnarono a fondo nell'aiuto ai partigiani combattenti e nella difesa della popolazione dalle misure vessatorie del nemico.
Continuarono invece ad agire al di fuori del CLN gli antifascisti Nino Verda, Albino Quarti, Francesco Aicardi ed altri, tra i quali il tenente colonnello Alberto Varusio, che tenne collegamenti con il Corpo Italiano di Liberazione operante al fianco delle armate alleate.
Alla Liberazione Pontedassio veniva occupato da partigiani del II Battaglione della IV Brigata "Elsio Guarrini". La Giunta della Liberazione risultò così composta: Francesco Aicardi, sindaco, con Nicola Anselmi e Albino Quarti, assessori.
Tredici i cittadini di Pontedassio, ivi compresi una donna ed il solo caduto [Armando Gerini (Armando)], riconosciuti partigiani combattenti. Felice Scotto (Gapon) fu commissario politico della IlI Brigata "E. Bacigalupo" (VI Divisione d'assalto Garibaldi "Silvio Bonfante).
Francesco Biga e Ferruccio Iebole (a cura di Vittorio Detassis), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. V, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2016, pp. 124,125

Il 10 febbraio 1945 iniziarono a concentrarsi nella zona Pontedassio-Chiusavecchia truppe nemiche, principalmente uomini appartenenti alle Brigate Nere: una parte di questi partecipò ad un rastrellamento di quattro giorni dopo.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999  

Moro Pietro: nato a Pigna il 15 gennaio 1916, squadrista della Brigata nera “Padoan”
Interrogatorio del 13.7.45: [...] Rimessomi dalla ferita, alla fine del febbraio 1945, venni inviato a Pontedassio, in servizio all’UNSA, per il controllo del conferimento all’ammasso dell’olio dove rimasi fino a pochi giorni prima della liberazione.
[...] Lorenzi Giovanbattista: nato a Ventimiglia il 17 luglio 1890, maresciallo della Brigata Nera “Padoan” ad Imperia.
Interrogatorio del 17.11.1945: [...] Verso i primi di febbraio venni inviato al distaccamento di Cervo Ligure, in servizio al posto di blocco dove rimasi per più di un mese, dopodiché venni trasferito a Pontedassio, presso quel distaccamento, con l’incarico di controllo ai frantoi per il conferimento dell’olio agli ammassi. A Pontedassio sono rimasto fino alla vigilia della liberazione, in quanto venni rilevato con un camion e seguii la sorte dell’autocolonna dei fascisti fuggitivi. [...] Allorché mi trovavo in forza al distaccamento di Pontedassio presi parte all’azione di rappresaglia avvenuta in S. Lazzaro, poiché in detta località era stato prelevato dai partigiani un milite. Nel suddetto paese venne incendiata una casa e precisamente la prima a destra entrando in paese. L’azione di rappresaglia avvenne pochi giorni prima del nostro esodo dalla Liguria.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione. Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019

20 gennaio 1945 - Dal comando della I^ Brigata al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Riferiva che una squadra del Distaccamento "Francesco Agnese" al comando di Moschin [Carlo Mosca] aveva attaccato ed ucciso 3 tedeschi il 9 gennaio sulla strada statale 28 nel tratto Pontedassio-Frantoio Biscialla.
10 febbraio 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni", prot. n° 279, al comando della II^ Divisione "Felice Cascione" - Segnalava che negli ultimi giorni in ... Pontedassio e Chiusavecchia si erano concentrati molti nemici; che a Pontedassio vi erano 10 cannoni di grosso calibro, 1500 soldati nemici, 500 cavalli, 2 stazioni radio-trasmittenti...
14 febbraio 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" al comando della Divisione "Silvio Bonfante"  - Relazione sull'attività svolta a gennaio dai Distaccamenti dipendenti dalla Brigata, nella quale si riferiva che il 9 gennaio 1945 una squadra sulla strada 28 nei pressi di Pontedassio aveva attaccato una pattuglia tedesca, uccidendo 3 soldati e ferendone 2...
21 febbraio 1945 - Dalla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 1/65, al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - ... Aggiungeva la notizia che a Pontedassio si stavano concentrando molti soldati nemici con una motivazione, quella di effettuare delle esercitazioni, che poteva in realtà celare la preparazione di un rastrellamento a danno delle formazioni partigiane.
1 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Riferiva che ... il 28 febbraio erano transitati circa 400 tedeschi provenienti da Ventimiglia e diretti a Pontedassio, tutti giovani appartenenti alla FLAC...
12 marzo 1945 - Da un informatore non individuabile alla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che a Pontedassio la forza nemica variava da 70 a 150 tedeschi...
17 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della Divisione "Silvio Bonfante" ['Livio' Ugo Vitali, responsabile], prot. n° 1/96, al comando della Divisione "Silvio Bonfante" ['Giorgio' Giorgio Olivero, comandante] - Riportava le notizie ricevute il 12 aprile da un informatore ed aggiungeva che il maresciallo Grot, addetto al controspionaggio tedesco, era stato trasferito da Pieve di Teco a Pontedassio...
20 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM Fondo Valle della II^ Divisione "Felice Cascione" al comando della I^ Zona Operativa Liguria, alla Sezione SIM della II^ Divisione, alla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che... sulla strada n° 28 il movimento nemico era aumentato, ma limitato a spostamenti da un presidio ad un altro. Che in particolare i soldati si sposatvano verso Pontedassio e Pieve di Teco, dove continuava la preparazione di costruzioni difensive.
24 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 109, al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Riferiva che ... da Nava giungevano una volta a settimana a Pontedassio (IM) circa 10 carri che, dopo un pernottamento, ripartivano per il Piemonte con viveri procurati sulla costa, formando una colonna priva di scorta, mentre gli uomini addetti a quel trasporto erano quasi tutti polacchi, serbi, sloveni, russi.
24 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 110, al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Riportava quanto già reso noto con proprio documento prot. n° 1/85 del 10 marzo 1945 per quanto riguardava le forze tedesche che presidiavano la zona. Ribadiva il contenuto della segnalazione sulle Brigate Nere fatta con prot. n°1/91 del 13 marzo 1945. ... a Pontedassio 60 tedeschi con il compito di sorvegliare i magazzini viveri...
26 marzo 1945 - Dal comando della VI Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 248, al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" - Segnalava, come riferito da informatori, che ogni settimana arrivava a Pontedassio una colonna di carri nemici per caricare viveri da portare in Piemonte via Col di Nava...
13 aprile 1945 - Dalla Sezione SIM della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 133, al comando della VI^ Divisione - Comunicava che... a Pontedassio erano rientrati i tedeschi che il 2 aprile avevano abbandonato quel presidio.
da documenti IsrecIm  in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999  

[Franco Ghiglia] Era entrato giovanissimo nel Distaccamento "Walter Berio" della 4a Brigata Garibaldi della II Divisione "Felice Cascione". Le sue imprese gli valsero il nome di battaglia di "Gigante", ma una di queste (avvenuta l'8 gennaio 1945), gli fu fatale. "Gigante" e i suoi si erano scontrati con i nazifascisti nelle vicinanze di Costa d'Oneglia. Due tedeschi erano rimasti sul terreno e i partigiani, prima di allontanarsi, avevano sepolto i due caduti. A quello scontro seguì, dopo una settimana, un massiccio rastrellamento nella zona. Franco Ghiglia e i suoi riuscirono a sganciarsi, ma "Gigante" era stato raggiunto da un proiettile ad una gamba. Costretto all'immobilità e riparato con altri quattro patrioti in un fienile, il 7 marzo il giovane vi fu sorpreso dalle SS. Qualcuno si lasciò sfuggire dell'episodio di due mesi prima e per Ghiglia fu l'inizio tormentoso della fine [...]
Redazione, Franco Ghiglia, ANPI, 25 luglio 2010

6 aprile 1945 - Dalla Sezione S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] della II^ Divisione "Felice Cascione" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria ed al comando della II^ Divisione "Felice Cascione" - Segnalava che il giorno prima era stato impiccato a Pontedassio dai tedeschi il garibaldino "Gigante" [Franco Ghiglia]...
da documento IsrecIm  in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

domenica 23 febbraio 2025

I più dei suoi paesani credono che l'inizio del suo essere perseguitato sia stata la notte in cui di cattiva voglia recò il bottino partigiano della B.2

Andagna, Frazione di Molini di Triora (IM). Fonte: Pro Loco di Andagna

L'uomo Saluzzo e la sua odissea
Uomo dal comportamento fiero, dall'incedere solenne, quando lo conobbi era carico di anni; alquanto curvo, portava un logoro capello nero: era amico di mio padre Francesco ma freddo verso di noi. Ancora oggi sono alla ricerca di ricordare un suo gesto grazioso o un frutto donato. Facoltoso a non dirsi per i tempi che correvano, fratello del vecchio parroco defunto don Saluzzo e del padre Scolopio Francesco, cantore assiduo nella parrocchiale. Coltivava le terre - buona la vigna -, e frequentava le fiere. In vallata aveva fama di attento sensale ma, nel contempo, di uomo dal giudizio facile e pretenzioso. Con il tempo mi convincerò che origine delle sue disavventure sia stata la troppa avidità nel chiedere e l'avarizia nel dare.
Alcuni lo chiamavano l'ebreo, altri Pepin u Brugu - nomignolo a camicia - poiché il brugo è un virgulto che si spezza ma non si piega. La sua vita si spezzò quando volle il Buon Dio: morì nel suo letto all'annosa età di anni novantatre e mesi cinque. Vide per anni ancora i falliti carnefici; forse rise loro in volto.
I più dei suoi paesani credono che l'inizio del suo essere perseguitato sia stata la notte in cui di cattiva voglia recò il bottino della B.2 [n.d.r.: i partigiani avevano prelevato un mitragliatore, sei moschetti, casse di munizioni, dinamite, viveri, una macchina da scrivere nella santa barbara repubblichina, sita nelle vicinanze di Andagna e denominata B.2] ad ignota destinazione; altri perché era egli il padre di un ispettore di Dogana in Genova e ufficiale della milizia in Torino poi. Perché non indagare per trovare il vero, alla ricerca di qualche sgarro fatto dal Saluzzo con deliberata volontà in Triora o in Molini nel suo contrattare?
Quella notte, per strade impervie e ricercate deviazioni, giunse a destinazione; scaricato il bottino, armi sotto il naso, ricevette l'avvertimento per un silenzio tombale o fossa sicura. Fece ritorno per sentieri insoliti; giunto al paese si chiuse in volontario ritiro nella sua casa. Solamente Bianca, la moglie, usciva per le necessarie commissioni.
Un giorno lo colsi nel vano dell'uscio. Lo salutai e quasi in brontolio mi disse: "Nino! Attenzione nella vita. I figli dei tuoi più cari amici possono tradirci". Alcuni anni dopo mi confesssò che, in tanto frangente, in quella notte, aveva conosciuto Ivano [Giuseppe Vittorio Guglielmo] di Loreto della famiglia dei Bacciali e due lontani suoi parenti di Triora della famiglia Saluzzo.
Ho conosciuto il Saluzzo nel bene e nel male. Bollarlo di vigliaccheria o di tradimento sarebbe indegna cosa. Né dubito che sapesse (la mia famiglia aveva casa affiancata alla sua) che mio fratello Marcello si era dato alla macchia poche ore prima di una perquisizione da parte dei Tedeschi; e, come lui, altri cinque giovani avevano scelto la strada dei monti.
Era consapevole anche del mio categorico diniego di lasciare gli studi ecclesiastici all'offerta di suo figlio che mi avrebbe avviato ad una certa e brillante carriera nella ricostituita milizia. E non era forse in un secondo tempo a conoscenza della mia attività di staffetta e del mio essere amico di Vitò [Giuseppe Vittorio Guglielmo], di Moscone [Basilio Mosconi, comandante di un Distaccamento, poco tempo dopo comandante del II° Battaglione "Marco Dino Rossi", della V^ Brigata, II^ Divisione d'Assalto Garibaldi "Felice Cascione"] e di Figaro [Vincenzo Orengo, in seguito comandante del I° Battaglione "Mario Bini" della V^ Brigata]?
Nel mese di luglio del 1944, tempo della fienagione ai campi in regione Sciorella, una mattina lungo il percorso mi unii al Saluzzo che, cavalcando una mula dal pelo lucido, si recava nella masseria della Sciorella Superiore per smontare un pagliaio di fieno e deporlo nel fienile. Era la sua una masseria di un certo valore, tenuta in ordine: due casolari, una fresca fontanella, due alberi di ciliegi. Nelle tre fasce sottostanti l'abitato, segala e piantagione di patate. Poco lontano il Passo della Mezzaluna e, più oltre, tra ombrosi faggi, un bivacco e distaccamento di partigiani giunti da Imperia.
Giunto alla fontana dei Confursi salutai il Saluzzo; con breve e svelto percorso giunsi all'ovile. Mio padre era con il gregge nel bosco della Faea. Depositati nella madia i sali e fatta raccolta di alcuni formaggi e pani di ricotta, feci ritorno al paese.
II giorno seguente, erano le tre di un accaldato pomeriggio, con la cugina Francesca e amiche si blaterava del più e del meno all'ombra del portico del Pegiunrin quando sbucò dalla strada della Costa, barcollante, il Saluzzo. Era un'ombra, diafana. Privo di scarpe, con la mano sollevata pressava una straccio rossastro sull'orecchio sinistro.
Feci atto di soccorso. Sfuggì al mio tentativo e brontolando frasi incomprensibili si chiuse la porta di casa alle spalle.
Restò uccello di gabbia per una settimana. Sceso al paese il pastore Emilio Porta, suo vicino alla montagna, narrerà dell'accorso. Erano le otto del mattino quando, fattosi il Porta sulla sponda della piazzola dell'ovile, udì forti parole; vide il Saluzzo che con gesto minaccioso inveiva contro due partigiani venuti dalla Mezzaluna a chiedere olio e sale. Farlo prigioniero e togliergli le scarpe fu un tutt'uno.
Iniziarono ad andare verso l'accampamento. Giunto alle Rocce, svelto come lince il Saluzzo si buttò sotto strada e si rotolò a riccio nel rirano accompagnato da una lunga raffica di sten. Viene ferito all'orecchio sinistro. Ferito sanguinante, scalzo ma in vita. Mai avrebbe pensato essere questa avventura seme di ben altra avventura.
Erano trascorsi solo due mesi che una notte cinque partigiani provenienti dalla Goletta, alle due, bussarono alla porca del Saluzzo. Inutile fu il chiedersi per quale ragione ancora il Saluzzo. Fortuna fu che fosse ancora sveglio e al primo sferragliare alla porta, intuito il pericolo, salito sul vicino tetto, divelta una rete, penetrò nella camera dei miei genitori. Vi rimase muto e pietrificato per tutto il tempo che gli improvvisati visitatori rivoltarono la casa in cerca di denaro. Fu una ricerca infruttuosa. Uno dei cinque partigiani racconterà che, abbattuto un muro di apparente fresca costruzione, si trovò in una piccola stanza ricca all'apparenza di ogni bene: vesti da suora e sogole, libri di preghiere e un grosso malloppo tintinnante, e piccoli quadri di santi, eccetera. Aperto il malloppo, a giorno pieno, un numero di medaglie con l'effigie di Santa Rita e Santa Brigida. Nella foga si era portato fuori campo. Cose che accadono allorché si opera in fretta e al buio in casa non propria.
La moglie del Saluzzo, Bianca, quella notte era rimasta in casa. Non una molestia né una minaccia usarono gli invasori. Era la Bianca, da sempre, moglie e donna silenziosa. Richiesta della chiave della stalla e della cantina, fu premurosa ad indicarla appesa al chiodo della vicina parete. Due partigiani si recano nella sottostante stalla; staccano la mucca Bianchina. Si cerca la strada del ritorno. Docile, silenziosa, la Bianchina li segue, ignara del suo destino. Il suo manto a chiazze bianche e marrone sarà trovato penzolante da una quercia nel torrente sotto Realdo. Il manto della Bianchina sarà oggetto di serrate inquisizioni, di pericolosa prigionia e di percosse.
"Mi spezzo ma non mi piego"
Tre fascisti, in pattuglia verso le ore undici, terminata l'ispezione al bivio delle Ferriere, percepiscono un lamento di uomo e un chiedere aiuto. Accosciato al riparo di un parapetto un uomo dal volto insanguinato tende una mano. È il Saluzzo: individuo a loro ben noto. Implora di essere condotto in Molini al Comando.
Narrerà al Capitano Cristin [n.d.r.: Francesco Christin dei Granatieri Repubblichini (1)] , che verbalizzerà, come, prelevato dai ribelli in campagna e condotto bendato in regione Gratino prima e ai Fontanin poi, venisse percosso, accusato di spionaggio, processato e condannato alla morte.
Giunto sul luogo con l'arma puntata alla schiena fu costretto a scavarsi la fossa, e a metà lavoro gli fu esploso, all'improvviso, un colpo di rivoltella alla nuca. Afflosciatosi sull'orlo della fossa fu creduto morto, e il carnefice si allontanò alla ricerca di aiuto per coprire il cadavere.
Fu miracolo che il proiettile penetrasse a lato nella mascella, spappolasse due denti e, perforando la guancia, ne fuoriuscisse al lato destro. Non fu ferita mortale. Passarono minuti, forse una mezz'ora. Il Saluzzo prese conoscenza, sanguinante si lanciò verso la carrozzabile. Alla Ferriera, indebolito, si accasciò...
Rimase in infermeria militare un mese e, quando la ferita iniziò a cicatrizzare, chiese d'essere inviato a Torino presso il figlio. Un plotone di Camicie Nere gli fece scorta nel percorso di avvicinamento, portandolo incolume sino alla ferrovia di Ceva in Piemonte.
La permanenza nella città di Torino, alle Molinette, fu lunga e protetta. Disfatte la bende, uccello redivivo, si reca a Taggia presso la Colonia agricola di don Truffa. Lavora in attesa che si plachino i venti. Farà rientro ad Andagna. Lo ghermirà la morte alla bella età di novantatre anni e mesi cinque.
Don Nino Allaria Olivieri, Seconda parte: Andagna - Fatti e Misfatti (1944-1945), in Aa.Vv., Memorie. Diari 1940-1945 , Alzani Editore, 2011, pp. 71-74


(1) Ironia tragica della storia, Christin aveva combattuto il 10 settembre 1943 a Porta San Paolo di Roma. A quanto pare non ebbe rimorsi per le efferate azioni da lui comandate come ufficiale repubblichino nel ponente ligure. Francesco Christin scrisse un libro, Con gli alamari nella RSI. Storia del 1° Battaglione Granatieri di Sardegna 1943/45 (Edizioni Settimo Sigillo), recensito in seguito sulla rivista Il Granatiere (organo ufficiale della presidenza dell'Associazione Granatieri di Sardegna), nel n° 3 del 2017, con un articolo che riporta anche la seguente considerazione dell'autore: "Il tempo trascorso per noi, gli avvenimenti succedutisi nella storia della nostra Patria, hanno smussato, nel ricordo, l’asprezza degli episodi di allora. Su tutto sembra essersi steso un velo che, pur non facendoci dimenticare nulla di quanto abbiamo patito e gioito, ha creato come un alone di leggenda attorno ai fatti allora accaduti e dei quali siamo stati valorosi e tenaci protagonisti". Qui di seguito altre frasi estrapolate dall'articolo in questione: "L’autore era il Comandante di quel battaglione. Mi aspettavo un maggiore ricorso alla retorica fascista, invece da ogni parola si percepisce l’orgoglio delle proprie idee e la dignità per un dovere compiuto con onestà e grande senso di responsabilità. Il reparto dei Granatieri della RSI era una unità militare non politica. Come tale si comportò in ogni circostanza evitando gli eccessi tipici della spietata guerra civile. I racconti sono legati a quel tipo di conflitto, di guerriglia e controguerriglia, con pause prolungate e violenti e improvvisi scontri a fuoco. Un aspetto che mi ha colpito è che i molti Ufficiali dei Granatieri, spesso provenienti dai Corsi dell’Accademia Militare, mantennero i loro gradi per la maggior parte del periodo [...] Il Capitano Christin comandava il battaglione pur non essendo un Ufficiale superiore. I partigiani sono descritti come guerriglieri “mordi e fuggi” ma senza giudizi di disprezzo o odio. Erano italiani che militavano nella parte avversaria. L’epilogo è storia. Il 4 maggio 1945 il battaglione si arrese ai partigiani piemontesi. Non ci furono rappresaglie ai danni dei Granatieri, segno che non potevano essere accusati di violenze o comportamenti fuori dalle leggi di guerra. Furono portati in vari campi di prigionia per repubblichini per poi venire liberati nell’autunno del 1945. Tutti si integrarono nel nuovo Stato e contribuirono alla ricostruzione e rinascita dell’amata Patria. Il Tenente Chiti venne riammesso nell’Esercito Italiano fino a divenire Generale per poi farsi frate francescano [...] Ne consiglio la lettura". Sin qui la rivista Il Granatiere. Ma altro - e di altro tenore - si era già scritto sul Christin. "[...] Il Cristini, latitante, ha trovato dalla sua il tribunale che l'ha assolto. E' rimasto insoluto e da svelare il mistero di quel bando emesso, proprio dall'allora presidio repubblichino di Molini, di cui era comandante l'assolto capitano Cristini. In quel bando, dopo aver resa pubblica l'avvenuta esecuzione dei fucilati, si minacciava di uguale castigo tutti coloro che non si fossero presentati a servire la repubblichetta di Salò, estendendo la minaccia ai familiari dei contravventori e la confisca dei loro beni. Nonostante le richieste del P.M. per una condanna a trenta anni il processo si è concluso in una assoluzione per insufficienza di prove. Perché non si è sentito il parroco di Molini, che, a detta dei testimoni escussi, doveva essere il più importante testimone? Misteri della legge!": così scriveva l'Unità, organo del Partito comunista italiano, il 21 marzo 1947, riportando la notizia - "Francesco Cristini assolto" - che il Tribunale di Sanremo aveva prosciolto il capitano Christin, il cui cognome il giornalista aveva italianizzato - chissà perché - in Cristini. Adriano Maini

venerdì 10 gennaio 2025

Azioni partigiane a Badalucco, Pizzo d'Evigno, Caramagna, Carpenosa

Badalucco (IM)

Determinanti ai fini dell'inquadramento e della elaborazione tattica della Brigata [n.d.r.: IX Brigata "Felice Cascione"] furono i rapporti con il Comando della Delegazione Ligure delle Brigate Garibaldi e con il Comando Unificato Militare Ligure, rappresentati in zona dall'Ispettore Simon [n.d.r.: Carlo Farini].
Tra le prime iniziative riguardanti l'organico della Brigata il Comando stabilì - con circolare in data 13-6-'44 - che la forza degli effettivi di ogni distaccamento doveva essere fissata in 4 squadre di 10 uomini ciascuna più un capo squadra, due staffette e due infermieri, oltre al comandante e al commissario del reparto; ogni squadra venne suddivisa in due nuclei di 5 uomini.
Questo consentì anche lo snellimento di alcuni distaccamenti, la costituzione di nuovi e il completamento di altri.
Il comando curò anche la nomina di un Tribunale Militare di Brigata e la impostazione di un corso di addestramento per capisquadra, comandanti e commissari.
L'adozione di queste misure organizzative - come di altre a carattere disciplinare - era resa pressante soprattutto dal costante arrivo di nuovi volontari che particolarmente dalla seconda metà del mese di giugno [1944] avevano cominciato ad affluire numerosi presso i reparti della formazione appesantendone l'organico e creando sempre nuovi problemi pratici, come è possibile documentare:
Distaccamento n. 1 (Volante)
lì, 18/6/44
Impossibile preparare servizio giornaliero. Continuamente affluiscono uomini di tutte le classi.
Distaccamento al completo, possibilmente formarne altri da queste parti (attendiamo ordini). Formate 3 bande locali a nostra disposizione.
Totale uomini 20 a Pairola, Riva Faraldi, Testico.
Attualmente presenti a questo distaccamento 80 uomini.
Azione Santa Croce rimandata perché rinforzata. Facilmente lunedì o martedì.
F.to Commissario Politico «Federico» [n.d.r.: Federico Sibilla].
Esaminando la relazione inviata il 10-6-'44 al Comando delle Brigate d'Assalto Garibaldi (Liguria) dal Comando della IX Brigata possiamo inoltre rilevare come l'impostazione data all'inquadramento e alla preparazione degli effettivi fosse -    almeno in teoria - nettamente conseguente alle esigenze poste dal rapido sviluppo della formazione e alle condizioni belliche in cui la formazione stessa operava.
Le soluzioni adottate sono - a nostro giudizio - le uniche possibili del momento e coincidono, del resto, con le esperienze riscontrate nelle altre zone della regione:
1°) far partecipare uomini di tutti i reparti alle azioni di guerriglia (ne abbiamo già sottolineato la validità)
2°) proporzionare il numero e la portata degli attacchi alla preparazione degli effettivi
3°) data l'urgenza di disporre di ufficiali e graduati, orientare le nomine - in mancanza di elementi sufficienti di giudizio - sugli effettivi che dimostrino maggior decisione e coraggio nelle azioni, riservandosi ogni cambiamento
indicato da successive esperienze.
Azioni a pieno ritmo
L'attività bellica dei volontari imperiesi assunse conseguentemente un ritmo più veloce ed impegnato.
Un resoconto abbastanza organico delle azioni compiute dai reparti dipendenti dalla IX Brigata nei mesi estivi si trova nella relazione Rubaudo e nei documenti forniti dall'on. Carlo Farini.
Dal suddetto materiale si è potuto ricavare - per quanto riguarda le fasi più salienti della attività militare della formazione nei mesi di giugno, luglio e agosto [1944] - una cronaca sufficientemente particolareggiata che viene presentata a parte. Vi si può trovare la conferma al nostro giudizio circa la spinta combattiva presente fin dall'inizio nei reparti imperiesi, in misura notevole e spesso determinante, anche se ad essa non sempre corrispose un adeguato senso tattico.
Ciò può essere particolarmente accertato dall'esame degli scontri più rilevanti con le forze nemiche dei quali furono protagonisti - in questo stesso periodo - i distaccamenti della IX Brigata a Badalucco, Pizzo d'Evigno, Caramagna, Carpenosa e Sgureo [Sgorreto].
L'attacco al presidio germanico e fascista di Badalucco venne deciso dal Comando della formazione allo scopo di liberare un gruppo di giovani dello stesso paese che vi erano stati imprigionati quali ostaggi da fucilare per rappresaglia dopo un tentativo - effettuato il 31 maggio da uomini della banda locale appoggiati da una squadra del VI distacc. - di impadronirsi di un ingente quantitativo di armi depositate nella locale Chiesa degli Angeli.
Il dispositivo per l'operazione di Badalucco e la liberazione degli ostaggi prevedeva molto semplicemente l'impiego simultaneo e concentrico di quattro distaccamenti: il 3° e il 6° sarebbero entrati in azione ad est del paese (lato valle di Porto Maurizio); il quarto e il quinto ad ovest, mentre la banda locale avrebbe controllato la strada proveniente da Arma di Taggia per segnalare e contrastare l'eventuale arrivo di rinforzi nemici.
La scelta della data e dell'ora stabilite per l'attacco (l'11 giugno) non tenne però evidentememe conto della distanza che separava alcuni distaccamenti dalla zona di operazione: infatti, appena ricevuto l'ordine, il terzo e il 6° dovettero impegnarsi in una marcia forzata per raggiungere in tempo le posizioni loro assegnate, e per procedere più speditamente furono costretti a lasciare indietro il trasporto col mortaio da 45 mm.; intanto i distaccamenti 4° e 5°, per motivi diversi, trovavano difficoltà a raggiungere le loro posizioni.
Cosicché al momento dell'attacco i soldati tedeschi del presidio - che disponeva di postazioni ben munite e sopraelevate, fin sul campanile della chiesa - dovettero fronteggiare l'avanzata partigiana da un solo lato e, pur subendo perdite, la respinsero dopo poche ore di combattimento accanito nel corso del quale vennero feriti alcuni volontari tra cui lo stesso Mirko [n.d.r.: Angelo Setti], comandante del 6° distaccamento.
È evidente, nello stesso svolgimento di questa azione, il contrasto tra lo slancio combattivo degli ufficiali e degli effettivi partigiani e l'insufficiente coordinamento dei reparti impiegati.
Giorgio Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria - Volume II, Istituto Storico della Resistenza in Liguria, 1969, pp. 247-251