lunedì 31 agosto 2020

Il partigiano Lionello Menini, protagonista della battaglia di Montegrande


La croce di vetta del Monte Grande - Fonte: Monti Liguri

Nei primi giorni di settembre 1944 nella I^ Zona Liguria i comandi partigiani avevano già predisposto tutte le loro formazioni per attaccare i principali centri della costa, come supporto ad un attacco alleato proveniente dalla Francia: questo era dato già per avvenuto da Radio Londra, che il 1 settembre trasmetteva: "truppe alleate sono già a 8 Km oltre frontiera in territorio italiano. Le prime formazioni partigiane hanno preso contatto con gli alleati..." (così in Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, ed. Amministrazione Provinciale di Imperia e patrocinio IsrecIm, Milanostampa, 1977).
Purtroppo la notizia si dimostrò falsa e i partigiani dovettero lottare per altri 8 mesi.
Le formazioni tedesche e fasciste, appurata la non veridicità della notizia appena descritta, organizzarono una ennesima operazione di rastrellamento ai danni dell'estremo ponente ligure: l'obiettivo era quello di accerchiare i partigiani attaccando dalla Val Prino e dalla Valle Argentina.
I garibaldini, venuti a conoscenza del piano d'attacco tedesco, appurarono che la forza nemica era enorme: circa 8.000 unità.
L'azione a vasto raggio coinvolse la I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano" e la IV^ Brigata "Elsio Guarrini"della II^ Divisione "Felice Cascione", che aveva la propria sede comando nel bosco di Rezzo (IM).
Il giorno 4 settembre [1944] i soldati tedeschi e fascisti, avanzando da varie direttrici, "si spingono su Borgomaro, occupano la zona di Moltedo, raggiungono il paese di Carpasio e dilagano nella vale di Triora. Da Pieve di Teco si spingono su Pornassio e su San Bernardo di Mendatica" (Francesco Biga, Op. cit.).
Alle 5 del mattino del giorno successivo iniziò l'attacco nazifascista. Il passo Teglia fu il teatro dove caddero i primi garibaldini. Conquistato anche il Monte Grande, i tedeschi obbligarono i partigiani a ripiegare.
Il comando della Divisione prese allora una decisione rischiosa ma necessaria: attaccare il Monte Grande [prossimo a San Bernardo di Conio, Frazione del comune di Borgomaro (IM)].
"Mancen" Massimo Gismondi fu prescelto per questa rischiosa azione. Accompagnato da altri 12 garibaldini, riuscì a risalire il ripido pendio e prendere alle spalle i nazisti che, colti di sorpresa, fuggirono lasciando armi e munizioni sul luogo.
L'obiettivo garibaldino era stato centrato. In questo modo si poteva procedere allo sganciamento degli uomini, all'occultamento del materiale bellico e delle salmerie, in ciò anche con l'aiuto di una situazione meteorologica favorevole.
Il giorno successivo gli 8.000 tedeschi non trovarono, pertanto, i garibaldini. Questi si erano nascosti nel territorio che conoscevano bene.
Così terminò il grande rastrellamento, che aveva tuttavia causato la perdita di dieci vite tra civili e partigiani.
Cessata la tempesta, il Comando Divisionale tornò nel bosco di Rezzo a riorganizzare le proprie fila.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

Il 4 settembre  del  44,  al  mattino  presto era arrivato dalla strada di Andagna un “prete“, cioè un  uomo vestito da prete, ed era stato fermato da tre partigiani della postazione di guardia e  accompagnato al Comando di Distaccamento, a Passo Teglia di Fenaglia, dove il comandante era Germano Belgrano (Giuda) e il Commissario era Bruno Brilla (Padoan), fratello maggiore di  Francesco. Poi  il  prete  veniva  trasferito  ulteriormente  al Comando di  brigata che si trovava a S. Bernardo di Conio sul piazzale. Lì sostavano Nino Siccardi (U Curtu), Carlo Farini (Simon), Silvio Bonfante (Cion) e il “prete” subiva uno stringente interrogatorio. Non essendo emerso nulla di compromettente, era rilasciato e riaccompagnato a Passo Teglia, quindi veniva considerato un vero prete. Nel pomeriggio  costui  essendo  sostato  a  Passo  Teglia, aveva parlato nuovamente con Bruno Brilla e gli altri partigiani di sorveglianza, potendo quindi osservare bene  dove  era  situato il  posto  di guardia del Comando di distaccamento. In realtà il prete era una spia; non scoperto, aveva informato dettagliatamente i tedeschi  della collocazione del posto di blocco a Passo Teglia. Occorre precisare che due giorni prima erano arrivati circa una quarantina di ex Sanmarchini (gruppo Menini) con  i  mortai  a  rimpinguare  il  raggruppamento  ed  una  ulteriore  ventina  di  partigiani  venivano  mandati a posizionarsi in questo distaccamento di Passo Teglia. Bruno Brilla per prudenza non ambiva dormire con i nuovi arrivati nel casone, preferiva  dormire  fuori,  all’aria  aperta  nonostante le incipienti notti fresche, riparato precariamente sotto un carro. Al mattino, alle ore cinque e trenta sentiva con stupore una breve raffica di machine pistole, armi simili non erano assolutamente in  dotazione  ai  partigiani. Infatti era accaduto che una pattuglia di tedeschi, conoscendo il luogo della postazione di guardia  (rivelata  dal  finto  prete)  erano  arrivati in pieno silenzio e avevano eliminato i tre partigiani di guardia. Padoan dava immediatamente l’allarme a tutti i ribelli presenti, che si mobilitavano rapidamente; inoltre mandava subito una staffetta a Conio al Comando Brigata per comunicare che la zona era infestata dai tedeschi. Sede ANPI di Imperia Oneglia, 31 Ottobre 2017, intervista a Francesco Brilla
Marina Siccardi, figlia di Nino Siccardi “U Curtu”, Comandante della I^ Zona partigiana Liguria. in ANPI Resistenti, ANNO XII N° 1 - aprile 2019, di ANPI Savona


[...] Dice Wan Stiller [Primo Cei, già commissario di squadra della I^ Brigata "Silvano Belgrano della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"]: "alla prima raffica eravamo rotolati giù, lungo il pendio, ma Cion (Silvio Bonfante) in piedi, aveva individuato sul Monte Grande i tedeschi, quindi aveva iniziato a sparare e li aveva impegnati subito con raffiche continue. Nel frattempo aveva chiamato Lionello Menini (Menini), comandante (1) dei mortaisti (erano degli ex Sanmarchini) che Cion aveva reclutato soltanto due giorni prima a Chiappa e a Molino Nuovo (Andora). Li aveva convinti a passare dalla  nostra  parte, questi ex  marò avevano due  mortai da 81 in dotazione. Cion interpellava il comandante degli ex soldati dicendo: fammi vedere cosa hai imparato durante l’addestramento in Germania! Menini aveva due  squadre, una di tre e una di  quattro militi che utilizzava per piazzare i due mortai nel declivio della collina. Sopra la collina c’era e c’è tutt’ora una chiesetta. I mortai dovevano essere piazzati in  posizione asimmetrica, uno sottostante all’altro, ma non sulla stessa verticale perché le vibrazioni del primo avrebbero disturbato la stabilità del secondo. Il terreno era scosceso, umido e scivoloso, ma Menini, da provetto esperto riusciva a creare con la zappa due  piattaforme piane, rinforzate verso valle con sassi e terra;  il bipiede del mortaio aveva una staffa con l’incastro per bloccare il mortaio quando rinculava. Venivano apprestati due gradini, uno sopra e uno sotto. Quello inferiore più avanti per non far scendere l’arma. I mortai erano privi del telemetro e si avvalevano di due bastoncini alti 1 metro, (le cosi dette paline) dipinti con anelli bianchi e rossi per traguardare l’oggetto  da  colpire. Il proiettile doveva essere sparato in linea retta tra la prima e la seconda palina. Menini per la prima prova aveva messo una carica supplementare per evitare errori e per valutare eventuali modifiche  da  apportare.  Eseguivauna  prova  supplementare  per i due mortai e iniziava a sparare sul nemico contemporaneamente al fuoco di Cion. Quattro partigiani erano dedicati ad un mortaio e quattro all’altro. Menini aveva magistralmente stabilito l’esatta in-clinazione della canna del mortaio,  poi ordinava: Spara!  Spara!  Si  avvertiva  così  uno  sparo  dopo  l’altro, sia del primo che del secondo mortaio in sequenza.  Quindi  nell’aria  potevano  esserci  contemporaneamente anche due o tre proiettili a seconda dell’aumento della carica. I tedeschi sorpresi  dagli scoppi  arretravano subito,  quindi bisognava aumentare potenza e gettata per allungare il tiro. Menini controllava sempre con i binocoli  la  lunghezza  e  le conseguenze del  tiro.  I tedeschi erano sconcertati, sbigottiti perché non immaginavano che  i  partigiani  potessero avere due mortai in dotazione e che fossero così precisi nei colpi sparati. Tutto avveniva in brevissimo tempo, e vista la situazione favorevole Cion pro-nunciava risolutamente la frase: ragazzi bisogna andare lassù... [...] Gli impavidi componenti delle squadre erano: Giobatta Acquarone (Fulmine), Attilio Alquati (Alquati),  Giuseppe Bergamelli (Gnek), Mario Longhi (Brescia), Primo Cei (Wan Stiller), Carlo Cerrina (Cigrè), Felice Ciccione (Felì), Bartolomeo Dulbecco (Cristo), Alfredo Giovagnoli (Alfredo il toscano), Calogero Madonia (Carlo siciliano) e Silvio Paloni Ruman). Non dovevano intralciarsi o rischiare di spararsi addosso pur essendo oggetto di tiro nemico dall’alto: se si saliva troppo velocemente c’era anche il rischio di essere colpiti dalla mitragliatrice e dai  mortai,  che  a  loro  volta  sparavano  sulla  cima. Quindi le due squadre di assalitori potevano in caso di sfortuna essere colpite dal basso (fuoco amico), ma Cion e Menini calcolavano bene e prudentemente il dislivello tra i partigiani in basso e il nemico in alto. Tenevano anche conto dei rapidi spostamenti partigiani che balzavano verso l’alto, inoltre le due squadre di 6 e 7 uomini si alternavano nella corsa anche di traverso. Quindi si incrociavano, anche se in tempi diversi, sulla  stessa  porzione  di monte: avevano perciò un occhio rivolto verso il nemico e contemporaneamente un occhio all’amico. I tedeschi sparavano verso il basso e solo verso i partigiani arrembanti. Conta delle armi dei partigiani nell’episodio: due mortai di Menini, Machine Gaver di Alquati, Machine Gaver di Brescia (che morirà a Ginestro vicino a Testico nel gennaio 1945). Presente alla lotta partigiana in un altro distaccamento, vi era anche il comandante Umberto Bonomini  (Brescia), che non va confuso con questo Brescia, cioè Mario Longhi. La battaglia durava più di due ore, con il risultato positivo di nessun ferito fra i partigiani. Menini con i mortai aveva fatto una sola prova, poi col binocolo vedeva i tedeschi che si allontanavano terrorizzati, allora aumentava la carica supplementare per il prolungamento del tiro. Forse aumentava anche il peso della carica. Tutto avveniva molto velocemente, come arma ulteriore Alfredo il toscano utilizzava un mitragliatore Saint Etienne. I partigiani salivano a zig-zag contro il sole. Gli ufficiali tedeschi venivano dalla scuola militare e  comandavano dei soldati ben addestrati. I partigiani si capivano con gli sguardi; Franco Bianchi (Stalin) e Massimo Gismondi (Mancen) avevano due mitra, fucili semiautomatici catturati ai tedeschi. Silvio Bonfante (Cion) era stato un seminarista ad Albenga, Stalin [Franco Bianchi] infermiere marinaio, Brescia soldato, Alquati soldato, Wan Stiller studente, Mancen camallo ad Oneglia. Anche un partigiano, forse Giuseppe Cortellucci (Carabinè), girava a Ruggiu, al passo della  Mezzaluna vestito da carabiniere; se lo prendevano lo uccidevano subito. La grande vittoria con la fuga dei tedeschi era maturata per la notevole bravura di Menini e dei suoi uomini; altresì grande era stata la fiducia, non gli  ordini  di Cion,  ma complici risolutivi solo gli sguardi. [...]
Questa è stata la testimonianza di Wan Stiller che io ho avuto l’occasione di raccogliere. Diano Marina 30 Ottobre 2017.
Marina Siccardi, figlia di Nino Siccardi “U Curtu”, Comandante della I^ Zona partigiana Liguria, in ANPI i resistenti, ANNO XII N° 1 - aprile 2019, di ANPI Savona
 
3 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione sul rastrellamento effettuato ad Armo e a Pieve di Teco il 30 dicembre 1944, durante il quale era avvenuto l'arresto di Lionello Menini (1).
3 gennaio 1945 - Tribunale Militare tedesco - Copia della sentenza di condanna a morte (1) per i garibaldini Lionello Menini, Ezio Badano, G.B. Valdora e Lorenzo Gracco.
da documenti Isrecim in Rocco Fava, Op. cit., Tomo II 

(1) Lionello Menini, nato a Chatillon (AO) il 25 ottobre 1922 (nella sentenza di morte del comando tedesco Lionello Menini risulterebbe essere nato a Siena il 25 ottobre 1919), figlio di un capostazione di Torino; è arruolato e mandato in Germania per l’addestramento. Terminato il periodo, è destinato con i suoi commilitoni in Liguria, a Laigueglia. In terra tedesca aveva appreso il vero volto del fascismo; appena rientra in Italia, come molte altre giovani reclute, ipotizza di unirsi alle formazioni partigiane. Ai primi di giugno è avvicinato dai fratelli Scarati, già attivi nella Resistenza, collegati alla “Volante” di Massimo Gismondi “Mancen” e di Silvio Bonfante “Cion”. Intravvista la possibilità di abbandonare le forze fasciste, abbraccia la lotta resistenziale. A luglio 1944 è nella squadra d’assalto del Distaccamento “Viani”, e, dopo aver partecipato a numerose azioni, tra cui la battaglia di Pievetta (CN), viene promosso capo distaccamento.
Il 17 agosto 1944 è protagonista di un conflitto a fuoco ad Ormea contro i blindati tedeschi; il 5 settembre è a Montegrande nel distaccamento “Bacigalupo”, laddove l’azione dei mortaisti di cui è a capo, è determinante per aprire un varco tra le file nazifasciste, da cui defluiscono i partigiani. A fine dicembre Menini, ammalato, è ad Armo, in Alta Valle Arroscia, dove è dislocato un nucleo partigiano dell’Intendenza Divisionale.
Su indicazione di una spia il mattino del 31 dicembre un centinaio di tedeschi provenienti da Pieve di Teco investono la zona. Alcuni garibaldini sfuggono al rastrellamento, altri (tra cui tre austriaci disertori) cadono prigionieri. Menini riesce a far fuggire due suoi uomini, esponendosi all’arresto. Portato al comando di Pieve di Teco è riconosciuto come capo partigiano. Dopo tre giorni di percosse e un processo farsa in cui confessa di essere partigiano, è emessa per lui e per altri tre partigiani della II^ Brigata d’assalto “Sambolino” Divisione Garibaldi “Gin Bevilacqua” operante nella II^ Zona ligure (due savonesi: G.B. Valdora “Ferroviere” e Ezio Badano “Zio”, e un veneto Lorenzo Gracco) la sentenza di morte. Prima di morire riesce ad inviare un biglietto al suo Commissario, Giuseppe Cognein, per informarlo che gli austriaci avevano parlato e che non era dispiaciuto di morire per una causa giusta. L’esecuzione ha luogo il 3 gennaio 1945 al Prato San Giovanni.
Lionello Menini va incontro alla fucilazione cantando la canzone “La guardia rossa”. A lui viene intitolato un Battaglione della Brigata “Nino Berio” - Divisione d’assalto Garibaldi “Silvio Bonfante”.
Proposta alla memoria di Lionello Menini  la medaglia di bronzo con la seguente motivazione: “Fatto prigioniero dai Tedeschi durante un colpo di mano contro l’Intendenza Divisionale, essendosi attardato sino all’ultimo a dare ordini, si comportava sino alla sua ultima ora con la serenità dei forti, non smentendo la sua condotta da partigiano che lo aveva elevato a stima di tutti. Oltraggiato e seviziato, non mancò mai di incoraggiare i suoi compagni di sventura. Portato al luogo dell’estremo supplizio, attraversava la via di Pieve di Teco con la testa fieramente eretta, cantando le nostre canzoni. Avvicinato nella prigionia da elementi fidati, inviava informazioni utilissime. Lo stesso nemico ne elogiò la condotta. Pieve di Teco (Imperia) 30-12-1945"
Redazione, Arrivano i Partigiani. Inserto 2. "Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I Resistenti, ANPI Savona, numero speciale, 2011

mercoledì 26 agosto 2020

Febbraio 1945 iniziò con la morte di due bambini a causa dello scoppio di una bomba tedesca

Una vista da Cervo su Diano Marina
 
1° febbraio 1945 - Giunge notizia che in Diano Marina per lo scoppio di una bomba tedesca sulla Piazza della Chiesa Parrocchiale sono rimasti uccisi i due figli di Lino Trucco, pievese, ma colà residente, ove esercita commercio di mobilio. Tale sciagura, veramente straziante, è accaduta mentre la truppa tedesca faceva esercitazione di tiro e sarebbe dipesa, pare, da un errore di calcolo - così il Comando tedesco ha cercato di giustificare il tragico episodio. I due bambini vennero trasportati in Pieve [di Teco (IM)] e deposti nella tomba di famiglia.
2 febbraio 1945 - Il tenente Dexeimer tedesco, comandante la Piazza di Pieve, ormai da due mesi e mezzo alloggiato nella villa del defunto Comm. Gandolfo e oggi del genero Rissone, ha lasciato questa residenza. Anche il terribile maresciallo Grot tedesco è partito. Si dice che sia andato in Francia.
Nino Barli, Vicende di guerra partigiana. Diario 1943-1945, Valli Arroscia e Tanaro, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, tip. Dominici Imperia, 1994
 
Nella notte fummo svegliati dal solito aereo solitario, soprannominato "Pippetto", il quale sganciò una bomba (forse per colpire i tedeschi del "Ciapasso") molto vicino a noi. Ci venne da pensare che non solo avevamo contro i nazifascisti, ma anche gli alleati angloamericani.
Il giorno successivo sentimmo dei colpi di mortaio che i tedeschi sparavano dal "Ciapasso"; un colpo finì davanti alla Chiesa di Diano Marina uccidendo tre bambini e ferendo alcune persone.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

Il 2 di febbraio un manipolo di fascisti al comando del capitano Borro dopo aver girovagato per la campagna alle ore undici giunge nella borgata Novelli (Tavole) [Tavole è Frazione del comune di Prelà (IM)] [...] Nel pomeriggio i militi prelevano Carlo Oreggia, panettiere, detto "Ristorante". Caricandolo di botte lo portano con loro. Giunti in località "Vigne" presso il cimitero di Valloria [altra Frazione del comune di Prelà (IM)] è freddato con alcune raffiche e gettato nella scarpata sottostante. Gli tolgono le scarpe e il portafoglio. Per fargli un vile scherno gli ficcano la pipa in bocca e gli mettono una pagnottella in mano. Era accusato di fornire pane ai partigiani.
Francesco Biga  (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. IV. Da Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Grafiche Amadeo, 2005

Ai primi di febbraio le Brigate Nere effettuarono un rastrellamento nella zona di Baiardo (IM) che portò all'arresto di alcuni uomini. Solo per l'intervento del tenente del presidio dei bersaglieri del paese le case non subirono danni.
Il comando della II^ Divisione "Felice Cascione" comunicò a quello della I^ Zona l'uccisione di 7 garibaldini avvenuta il 2 febbraio presso Villa Verrone a Sanremo. Di questi, 4 rimasero ignoti, mentre degli altri 3 si fornirono le seguenti notizie: "uno è un toscano ferito ad una gamba, sposato a Pompeiana, di circa 30 anni, con un figlio. Un certo Modena di circa 30 anni che si era presentato alla guardia repubblicana di San Remo. Uno di Pompeiana che aveva perso un braccio per lo scoppio di una bomba a mano".
Sempre il 2 febbraio  gli uomini del presidio nemico di Borgo di Ranzo [comune di Ranzo (IM)] "effettuano un rastrellamento nella zona di Gazzo-Gavenola [Frazioni di Borghetto d'Arroscia (IM)] ed Aquila [Aquila di Arroscia (IM)] per rapinare bestiame e viveri alla popolazione".
Nella notte successiva "Ramon" (Raymond Rosso), capo di Stato Maggiore della Divisione "Silvio Bonfante", accompagnato da un garibaldino attaccò "due carri tedeschi accompagnati da 8 militari. Quattro cavalli uccisi, un soldato ucciso ed alcuni feriti più o meno gravi".
Il giorno 3 il commissario prefettizio di Albenga (SV), su ordine della Feldgendarmerie ordinò ai podestà dei comuni limitrofi di far affluire alla locale Brigata Nera tutti i giovani che già si erano presentati ai comandi tedeschi.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

2 febbraio 1945 - Dal comando [comandante "Gori", Domenico Simi] del III° Battaglione "Candido Queirolo" al comando della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione "Felice Cascione" - Comunicava che il traffico sulla strada Sanremo-Poggio-Ceriana era limitato al transito dei carriaggi per viveri e della "solita motocicletta" o vettura del presidio nemico di Ceriana (IM).
3 febbraio 1945 - Da "Mercurio" [Bruno Moro?] alla Sezione S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] del CLN di Sanremo - Comunicava che era stato visto partire per Genova su di un camion tedesco "Grigua".
3 febbraio 1945 - Da "Nilo" [Quanito De Benedetti] al CLN di Sanremo - Comunicava che a Baiardo erano stati uccisi la moglie ed il figlio di "Bacucco" e che il rastrellamento nemico in corso stava continuando.
3 febbraio 1945 - Da "Amerigo" [Adalgiso Rovelli] al CLN di Sanremo - Comunicava che alle ore 8.30 era stata vista un'automobile delle SS tedesche fermarsi davanti alla casa dell'avvocato Buzzi in Via Lamarmora; che erano scesi l'avvocato e due individui in borghese che una volta entrati dopo 10 minuti erano usciti con una valigia di medie dimensioni.
3 febbraio 1945 - Dalla Sezione SIM del CLN di Sanremo alla Sezione SIM della V^ Brigata - Segnalava che il membro del Comitato di espressione del Partito d'Azione era stato arrestato e che il 2 febbraio erano stati arrestati 10 giovani, forse appartenenti alla banda dell'avvocato Buzzi.
3 febbraio 1945 - Dal commissario prefettizio di Albenga (SV) ai podestà di Ortovero, Villanova d'Albenga, Casanova Lerrone, Vendone, Nasino, Castelbianco, Castelvecchio, Zuccarello, Cisano sul Neva e Garlenda - Trasmetteva l'ordine della Feldgendarmerie di fare rientrare nella Brigata Nera di Albenga le giovani reclute che, appena arrivate all'arruolamento, si erano allontanate dalla caserma, perché passibili di fucilazione come "banditi".
da documenti Isrecim in Rocco Fava, Op. cit. - Tomo II

martedì 18 agosto 2020

L'eccidio di Testico del 15 aprile 1945

Testico (SV) - Fonte: Wikipedia
 
Con l'aiuto di spie i tedeschi, venuti a conoscenza del rientro da San Gregorio a Poggio Bottaro (in valle Andora) [comune di Testico (SV)] del Comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", il mattino del 15 aprile 1945 tentano di sorprenderlo e catturarlo al completo. Nella notte tra il 14 e il 15 aprile il commissario divisionale Carlo De Lucis (Mario) insieme ad alcuni compagni va a dormire nel rifugio sotterraneo del Comando Divisione, uno dei numerosi scavati nella terra durante l'inverno in base alle istruzioni emanate con la circolare n. 23 del 24 novembre 1944 emessa dal comandante delle Zone 1^ e 2^ Liguria, Carlo Farini (Simon). Gli altri componenti del Comando, invece, confidando nella sorveglianza delle sentinelle dei Distaccamenti dislocati nei dintorni del passo di San Damiano, decidono di dormire nel casone della sede amministrativa del Comando stesso. Solo per fortuito caso ciò non risulta loro fatale.
Francesco Biga  (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. IV. Da Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Grafiche Amadeo, 2005

15 aprile 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al comando della VI^ Divisione - Avvisava che in quella mattinata si erano sentite, provenienti da Testico (SV), alcune raffiche di mitra; che il comandante ["Mancen", Massimo Gismondi] era subito partito con una squadra del Distaccamento "Angiolino Viani" per "portare aiuto in caso di necessità"; che i garibaldini si erano disposti nel seguente modo: una squadra del Distaccamento "Angiolino Viani" sotto il cimitero di San Gregorio per fermare i tedeschi in caso di fuga, il Distaccamento "Franco Piacentini" a difesa del Passo del Merlo e del Passo dei Pali, il Distaccamento "Francesco Agnese" rimaneva a San Damiano; che l'azione dei tedeschi era durata 2 ore.
senza data - Testimonianza sull'eccidio di Ginestro, frazione di Testico (SV) - Relazionava che "i tedeschi, a seguito di una delazione, tentarono di sorprendere nella notte tra il 14 ed il 15 aprile 1945 il comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante". Il commissario 'Mario' [Carlo De Lucis] diede ordine di dormire nel rifugio sotterraneo del comando. Al mattino del 15 i tedeschi da Cesio attaccarono Testico e Poggio Bottaro [Frazione del comune di Testico (SV)], ma il comando della VI^ Divisione riuscì a fuggire nei boschi. I tedeschi per rappresaglia catturarono 10 civili a Ginestro ed altri a Poggio Bottaro. Il medico austriaco Jakob Unkelbach (Antonio), che era entrato nelle fila partigiane il 18-02-45, ritornando al nemico l'11-04-45, guidò i tedeschi presso le case dei contadini che avevano aiutato i partigiani. I nazisti, avendo fretta, presero gli ostaggi a caso. Intervenne 'Mancen' [Massimo Gismondi, comandante della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione] in aiuto del comando della VI^ Divisione. I tedeschi si fecero scudo con i 30 ostaggi. I tedeschi dissero ai prigionieri di andare via, ma poi li uccisero con scariche di mitra alle spalle". 
da documenti Isrecim  in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998 - 1999

15 aprile
Un reparto di 200 SS tedesche opera un vasto rastrellamento nella zona di Testico-Ginestro-Poggio Bottaro. Fallito il loro obiettivo di aggiarare e annientare il Comando della Divisione Bonfante, i nazisti catturano 37 civili i quali saranno successivamente trucidati...
Augusto Miroglio, La Liberazione in Liguria, Forni, Bologna, 1970 
 
[...] Poco prima della Liberazione, il 15 aprile 1945, l’eccidio in assoluto più cruento, a Testico, nel quale perdono la vita 27 persone. All'alba di domenica due colonne tedesche giungono a Ginestro, frazione di Testico (SV), per dare inizio a un rastrellamento: i militari catturano una ventina di civili, uomini e donne sorpresi nelle loro case, e li legano con corde. Poi, proseguendo la marcia, uccidono senza apparente ragione un contadino al lavoro. Alle 8.00, arrivati nei pressi della chiesa, irrompono nell'edificio, catturano altre persone e pongono tutti gli ostaggi lungo un muro sotto la sorveglianza di un soldato. Il resto della truppa, in parte, prosegue con il rastrellamento che porterà alla cattura di altri ostaggi; in parte si dirige verso Poggio Bottaro. Intorno alle 9.00 un gruppo di partigiani, dalla vicina frazione di Santa Maria di Stellanello, spara sui tedeschi permettendo a 3 degli ostaggi di fuggire. In risposta, i tedeschi tornano verso la chiesa, si appostano presso l’osteria del paese e catturano altri 3 contadini di Torria. Infine, la colonna riparte con i prigionieri al seguito. Durante la marcia, si arresta presso la frazione Zerbini per catturare altri ostaggi. L’ultima tappa è Costa Binella ove avviene la selezione dei progionieri. Vengono rilasciati 3 giovani di Ginestro, 4 donne e 4 ragazze. Queste ultime verranno poi condotte al carcere di Imperia, sottoposte a interrogatori e paestaggi e rilasciate almeno una dozzina di giorni dopo. Restano in mano ai tedeschi 27 persone: 25 uomini e 2 donne che vengono separate dagli altri prigionieri, seviziate e uccise a colpi di baionetta. I 25 uomini, legati 2 a 2 col fil di ferro, sono falciati a colpi di mitragliatrice. Dopo il massacro, i corpi risultano irriconoscibili [...] 
Andrea Chiovelli, Quando i tedeschi massacravano i savonesi: ecco le 49 stragi che insanguinarono la provincia, IVG.it, 11 aprile 2016

Funesta ironia della sorte volle che il massacro dei prigionieri... fosse favorito da un tale Jacob Unkelbach, un austriaco finto disertore, accolto [dai partigiani] sotto il nome di Antonio e accudito per diversi mesi proprio dalla popolazione di Testico, Poggio Bottaro, Ginestro e dintorni. In realtà, secondo la testimonianza dell'ex sapista Bernardo Augeri (Pio), in banda con Franco Bianchi (Stalin), l'austriaco era stato catturato e interrogato da Ramon [Raimondo Rosso, capo di Stato Maggiore della VI^ Divisione]. L'esito dell'interrogatorio non aveva del tutto convinto il comandante svizzero [Rosso era in effetti nato il 13/03/1913 a Naters nella Confederazione Elvetica e più propriamente di nome faceva Raymond], che parlava correntemente il tedesco. Purtroppo, per una somma di circostanze più o meno casuali all'austriaco era stata risparmiata la vita soprattutto per via della solerzia e della perizia dimostrate nella medicazione di alcuni partigiani feriti, comportamento, forse calcolato, che aveva destato simpatia e comprensione un po' in tutto l'ambiente della banda.  
Francesco Biga e Ferruccio Iebole (a cura di Vittorio Detassis), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), vol. V, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2016

... il tradimento dell'ex-garibaldino austriaco Jakob Unkelbach * che fu tra le cause dell'eccidio di Testico-Poggio Bottaro del 15 aprile 1945...  
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I
* 18 febbraio 1945 - Dal comando del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che era stato inquadrato nel Distaccamento come infermiere il sergente sanitario dell'esercito tedesco Jakob Wonkelbach  (Antonio), che aveva disertato e che era stato accolto tra i partigiani in base alle notizie rassicuranti fornite dalla popolazione di Villa Faraldi (IM).
da documento Isrecim  in Rocco Fava, Op. cit. - Tomo II   

Anche nelle formazioni della provincia di Imperia, alle dipendenze del comando operativo I zona-Liguria, è segnalata la presenza di partigiani stranieri, tra cui anche disertori tedeschi e austriaci, nella brigate sottoposte alla 2ª divisione garibaldina “Felice Cascione” e alla 6ª, “Silvio Bonfante” (468).
Francesco Corniani, "Sarete accolti con il massimo rispetto": disertori dell'esercito tedesco in Italia (1943-1945), Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2016-2017
(468) Francesco Biga, Storia della Resistenza imperiese (I zona Liguria), edizioni Isrecim, Farigliano, 1978, vol. III, pp. 495-507. A pp. 506-507 l'autore scrive anche che a seguito dell'eccidio di Testico causato sembra dalla delazione di un disertore tedesco che si era aggregato al distaccamento partigiano G. Garbagnati, il comando I^ Zona Liguria aveva dato ordine a tutte le brigate di fucilare i soldati tedeschi presenti nelle formazioni che fossero in qualche modo sospetti.

Altra tragica ironia della sorte, Luigi Pantera Massabò, vicecomandante della Divisione "Silvio Bonfante" - autore di Cronistoria militare della VI^ Divisione “Silvio Bonfante” (diario inedito nel 1999, conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, studiato anche da Rocco Fava per Op. cit.)- aveva disposto misure preventive, quali "Per le 4 <del 15 aprile 1945> il Distaccamento "Garbagnati" si trovi a Testico in posizione favorevole con la mitragliatrice pesante e controlli il movimento a Cesio e Casanova... Al fine di non causare disgrazie, ogni movimento fatto di propria iniziativa e contrario agli ordini impartiti, sarà punito severamente, ritenendone direttamente responsabile il comandante di Distaccamento che l’eseguirà..." 
Adriano Maini

18 aprile 1945 - Dall'ispettorato [ispettore "Giulio", anche "Mario", Carlo Paoletti] del Comando Operativo della I^ Zona Liguria alla Delegazione Regionale Ligure delle Brigate d'Assalto Garibaldi - Comunicava che... l'ultimo atto barbarico compiuto dai tedeschi era avvenuto a Ginestro-Testico-Poggio Bottaro con l'uccisione di 37 civili prelevati nelle case e in chiesa...
da documento Isrecim  in Rocco Fava, Op. cit. - Tomo II 
 
Il giorno della strage, avvenuta il 15 aprile del 1945, si annuncia come una domenica particolarmente tranquilla. Nei giorni precedenti non si è infatti dato alcun episodio allarmante, né la presenza di tedeschi o fascisti ha inquietato i paesani: segni, questi, di un lento ma inesorabile processo di esaurimento delle forze degli occupanti e del regime repubblicano.
Tuttavia, fin dalle sei del mattino, due colonne di soldati tedeschi muovono da Cesio e Vellego, località che distano rispettivamente poco più di 4 e di 7 km da Ginestro, la frazione di Testico presso cui, alle sette, si arrestano per dare inizio a un rastrellamento.
Catturano circa una ventina fra uomini e donne, i più sorpresi nel sonno, legandoli con corde.
Poi proseguono la marcia. Un giovane contadino (Costante Vairo) intravede la colonna e corre verso la
chiesa per avvertire del pericolo i compaesani riuniti per la messa. La sua azione risulta però inefficace.
Alle otto i tedeschi, dopo aver ucciso senza apparente motivo un anziano contadino che sta innestando un castagno, circondano la chiesa e alcuni vi fanno irruzione catturando diversi fedeli. Il parroco, don Mantello, seguito da qualche chierichetto, si mette in salvo salendo sul campanile e dando ordine al sacrestano, non appena i tedeschi si sono allontanati, di chiudere a chiave la porta della chiesa. Gli ostaggi sono allineati lungo il muro che circonda la piazza e posti sotto la sorveglianza di un soldato armato di mitra, mentre il resto della colonna in parte prosegue nell’azione di rastrellamento presso le abitazioni vicine, in parte si dirige verso Poggio Bottaro. Poco prima delle nove un gruppo di partigiani spara alcuni colpi di fucile dalla frazione di Santa Maria di Stellanello dov’è stanziato, permettendo a tre ostaggi (fra cui il Vairo) di fuggire. I tedeschi ritornano verso la chiesa e, secondo una testimonianza, per rispondere ai colpi dei partigiani improvvisano una postazione dall’osteria del paese. Quando la sparatoria ha termine, catturano tre contadini di Torria e tornano a vigilare sugli ostaggi. Ma uno di loro entra nuovamente nel locale per farsi dare del cibo. L’oste glielo porge e poi fugge via spaventato. Il tedesco non reagisce e lo lascia scappare. Analoga sorte tocca a Giobatta Vairo.
Costui, nascostosi nella cantina, uscendo si trova di fronte al soldato tedesco e teme per la sua vita.
Questi però si limita a indicargli un sentiero e a incitarlo a correre via il più velocemente possibile. Pronuncia quindi un’espressione-chiave, specie alla luce di quanto sta per accadere: “Stasera, kaputt!” La colonna, diretta verso Ginestro (o forse Cesio), si arresta nella frazione Zerbini per imprigionare altre persone.
Si accende un’improvvisa discussione fra i tedeschi, che i testimoni presumono riguardi la sorte da riservare agli ostaggi. L’ultima tappa è Costa Binella, raggiunta tramite una mulattiera. Qui la colonna si ferma e avviene la selezione dei prigionieri. In un primo momento vengono liberati tre giovani di Ginestro, che si allontanano rapidamente; poi è la volta di quattro donne e, infine, di quattro ragazze, in
seguito condotte al carcere di Imperia e sottoposte a interrogatori e pestaggi per essere da ultimo liberate dopo una dozzina di giorni. Restano 26 persone: 24 uomini e 2 donne, che sono legati a due a due, schiena contro schiena, con del fil di ferro. Le donne, appartate sul lato sinistro della mulattiera, subiscono violenze e sevizie e vengono poi uccise con le baionette.
Gli uomini, posizionati sul lato destro, sono trucidati a colpi di mitraglia. Dopo il massacro, i corpi degli ostaggi sono così sfigurati da risultare irriconoscibili.
Nel pomeriggio della domenica e il lunedì seguente, quando i compaesani raggiungono Costa Binella, per identificare le vittime dovranno fare appello a particolari legati al loro abbigliamento. Armando Zerbone e Leonardo Arduino ricorderanno infatti di aver riconosciuto i loro padri “solo dalle scarpe”. Lunedì 16 aprile i corpi delle vittime sono caricati su carri trainati da buoi e, su suggerimento di don Mantello, portati nell’oratorio, dove vengono adagiati sulla paglia e coperti per essere poi, in parte, seppelliti in una fossa comune, in parte, posizionati entro bare improvvisate e condotti così presso le famiglie d’origine.
La strage di Testico, ricostruita tramite la memoria dei sopravvissuti, lascia a tuttora parecchi punti oscuri: fra questi, il principale è senz’altro il fine per il quale avvenne. Viene allora da chiedersi chi fosse realmente Jacob Unkelbach e se e quali informazioni su di lui siano state raccolte. Certo, la strage di Testico per anni è stata circondata da uno strano silenzio. Ma, poiché questo punto merita particolare attenzione, per chiarirlo è opportuno ricorrere alla memoria scritta, ossia alla ricostruzione che è possibile effettuare tramite il ricco materiale documentario sulle azioni dei partigiani della I zona Liguria conservato presso l’IsrecIm.
Dagli archivi sulla Resistenza risulta che nei giorni immediatamente precedenti la strage 15, e in particolare sabato 14, nell’area compresa fra Pogli, Garlenda e Albenga i Distaccamenti della zona mettono in atto numerosi attacchi alle postazioni nazifasciste causando fughe, danni ai materiali e alcuni morti. In risposta, gli occupanti effettuano rastrellamenti lungo la statale tra Imperia e Garessio per impedire che i partigiani creino difficoltà ai reparti che, prevedendo la ritirata strategica, si stanno muovendo verso nord. Luigi Massabò, detto “Pantera”, vicecomandante della Divisione d’assalto Garibaldi intitolata a “Silvio Bonfante”, nel diario militare riporta che: “Dato l’arrivo improvviso di truppe nazifasciste al ponte del Molino Nuovo di Andora, si prevede un attacco domattina all’alba, per cui i Distaccamenti devono così disporsi”. Seguono puntuali indicazioni e, nello specifico, che: “Per le 4 il Distaccamento ‘G. Garbagnati’ si trovi a Testico in posizione favorevole con la mitragliatrice pesante e controlli il movimento a Cesio e Casanova”. Conclude il comunicato sottolineando che: “Al fine di non causare disgrazie, ogni movimento fatto di propria iniziativa e contrario agli ordini impartiti, sarà punito severamente, ritenendone direttamente responsabile il comandante di Distaccamento che l’eseguirà”.
Così, come previsto, all’alba del 15 aprile duecento SS tedesche danno inizio a un impegnativo rastrellamento fra Testico, Ginestro e Poggio Bottaro. Tramite l’ausilio di spie, gli occupanti hanno infatti notizia che il Comando della Divisione “Bonfante” è rientrato da San Gregorio a Poggio Bottaro; per questo, muovendosi da Cesio prima dell’alba, puntano sui partigiani con ampio dispiego di mezzi per sorprenderli e catturarli. Ma il Comando della “Bonfante”, pur con difficoltà, si sottrae all’accerchiamento e si pone in salvo fra gli ulivi. I tedeschi allora ripiegano su Ginestro e poi Testico trattendo diversi ostaggi.
Il Distaccamento “Garbagnati” e Massimo Gismondi, detto “Mancen”, comandante della I Brigata “Silvano Belgrano”, in posizione logistica vantaggiosa, attaccano i tedeschi che, non riuscendo a rispondere ai colpi dei partigiani e non avendone catturato alcuno, si accaniscono allora contro i civili. Ne imprigionano almeno 10 a Ginestro, altri a Testico, sulla piazza della chiesa, altri ancora a Poggio Bottaro.
Il rastrellamento prosegue, casa per casa, soprattutto grazie all’intervento di un medico tedesco, Jacob Unkelbach, soprannominato “Antonio”. Costui si era rifugiato presso il Distaccamento “Garbagnati” dichiarando di aver disertato dalla Wehrmacht dove lavorava in qualità di sergente sanitario. Nella relazione del 18 febbraio del ’45 sull’incorporazione di Unkelbach al Distaccamento, il comandante Franco Bianchi (“Stalin”) riporta che Jacob aveva disertato “per non servire un padrone che lotta per una causa ingiusta” e che su di lui le informazioni fornite dagli abitanti di Tovo e di Villa Faraldi erano buone. I tedeschi in realtà cercano “Mancen” che, per mantenere la promessa fatta al comandante della “Bonfante” d’intervenire in caso di attacco nemico, entra in Testico con i compagni. I tedeschi riescono però a sfuggire proteggendosi la ritirata grazie agli ostaggi che fungono loro da scudo. Così “Mancen” e i suoi, per non colpire i civili, sospendono il fuoco. Allora i tedeschi, che hanno raggiunto il loro scopo, una volta arrivati al valico di Ginestro, non traendo più vantaggio dai prigionieri catturati, se ne liberano massacrandoli.
Dalle relazioni dei partigiani risulta che le vittime siano una quarantina e non 26 come viene riportato sulla lapide del passo del Ginestro, né 27 come si evince dall’elenco dei caduti. Confrontando i nomi delle vittime riportati sulla lapide con i nomi citati da Francesco Biga, si dà corrispondenza nel caso delle vittime di Ginestro (in tutto 10), di Testico (11), di Alassio (1), di Torria/Chiusanico (3) e di Cesio (1).
Dall’elenco di Biga risultano altri 18 nominativi su cui occorerebbe raccogliere altre informazioni.
Secondo la testimonianza di “Stalin”, in seguito a questo spaventoso massacro, il Comando operativo della I Zona emanò l’ordine di fucilare, all’interno delle formazioni che ne avessero accolto anche uno soltanto nelle lora fila, tutti i tedeschi disertori come Jacob (“Antonio”). Ciò avvenne in quasi tutti i casi: si salvò soltanto un tedesco da molti mesi in montagna come gregario nella V Brigata “L. Nuvoloni” che aveva dato prova di sincera fedeltà.
Ci troviamo dunque di fronte a due ricostruzioni della strage: l’una, quella orale, è affidata alla testimonianza dei sopravvissuti; l’altra, scritta, riguarda le vicende narrate attraverso le relazioni dei partigiani.
Dal confronto, i fatti nella sostanza si confermano; ciò che cambia è piuttosto il punto di vista che configura le due memorie. In primo luogo i sopravvissuti, che non hanno conoscenza della strategia bellica dei partigiani e degli occupanti, ricordano i giorni che hanno preceduto la strage come “particolarmente tranquilli”, senza che attacchi di ribelli o repressioni nazifasciste si siano abbattuti sulla comunità.
Esaminando i documenti dei partigiani, invece, si prende atto che proprio in quei giorni l’attività di lotta è frenetica e che gli scontri fra le parti si intensificano a misura che il “vento della Liberazione” si fa più prossimo. Evidentemente, quasi al termine del conflitto, sono in gioco due prospettive opposte: i paesani interpretano la strage più alla luce dell’imminente liberazione, quindi con la “memoria del poi”, dei giorni successivi al 25 aprile e del ritorno alla normalità, che in relazione al loro presente storico.
I partigiani, al contrario, guardano esattamente al momento in cui l’evento accade. Il loro è lo sguardo di chi combatte attivamente ed è perciò preparato a ogni evenienza. Per questo il termine che ricorre più
spesso nello scarno lessico delle realzioni è “prevedere”. In questo senso, i giorni che precedono la strage si intrecciano strettamente alle imprese già compiute e a quelle ancora da venire, in rimandi che sembrano tutt’altro che casuali. Chi combatte la guerra rispetto a chi, come i civili, è costretto a subirla, trova la sua forza tanto nell’uso delle armi quanto nell’attenzione al presente, alle concatenazioni di fatti da cui esso proviene e verso cui, nella ratio militare, tende a dirigersi. Così, da un lato le formazioni partigiane (ma questo vale anche per i tedeschi) anticipano con precisione l’accadere; dall’altro i civili fanno i conti con l’imprevedibile, con la fatalità che la strage rende assoluta e inspiegabile. In secondo luogo, nel racconto dei sopravvissuti i partigiani, benché presenti in carne e ossa nell’azione scenica, appaiono tuttavia “lontani”, quasi sfuggenti. Si muovono sulle alture, compaiono fugacemente fra gli ulivi, si fanno sentire per via dei colpi di fucile sparati ma, di fatto, risultano quasi sempre altrove, come fossero “invisibili” e “disincarnati”, e le loro operazioni non sono discernibili. Al contrario i tedeschi, sia per l’estraneità delle loro figure (la divisa, i corpi slanciati, il portamento altero, i tratti somatici segnati dall’algida durezza) sia per la brutalità che si associa alle loro azioni e sia pure anche per certi incomprensibili gesti di pietà a cui può capitare che diano luogo, sono invece visibilissimi e carnali. C’è infine un punto in cui le due versioni si incontrano: penso alla figura di Jacob/Antonio. Il disertore che ha vissuto tanto fra i tedeschi, nelle vesti del sergente sanitario Unkelbach, quanto fra i partigiani, che lo ricordano come “u megu”, forse inviso ormai a entrambe le parti, costituisce tuttavia il trait d’union fra le due memorie.

Giosiana Carrara, Stragi nazifasciste di civili nella provincia di Savona in Savona in guerra. Militari e vittime della provincia di Savona caduti durante il secondo conflitto mondiale (1940-'43/1943-'45), ISREC Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Savona, 21 gennaio 2013 

Tornando sui loro passi i Tedeschi si fermano davanti alla chiesa di Ginestro. Qui, minacciano di fucilare tutti e probabilmente qui doveva avvenire l’esecuzione. Nasce però una discussione tra gli stessi soldati Tedeschi che degenera in una lite (non sappiamo esattamente tra chi) ma alla fine l’esecuzione viene rimandata. Questa discussione era probabilmente tra chi voleva liberarsi dei contadini e compiere subito il massacro e chi, non sentendosi ancora sicuro, voleva tenerli come scudo e garanzia contro eventuali attacchi. La colonna dunque, riprende il cammino verso Cesio, ma al poggio di Costa Binella i prigionieri vengono fermati e fatti sedere. Qualcosa succede e i Tedeschi prendono le loro decisioni. Tre giovani di Ginestro vengono liberati e fatti allontanare; con loro anche quattro donne e altre quattro ragazze vengono mandate al carcere di Imperia per essere interrogate. Gli altri vengono legati a due a due con il filo di ferro schiena contro schiena. Difficile comprendere il motivo di queste scelte, a meno che le indicazioni su chi interrogare, chi liberare e chi uccidere non venissero da quel “megu” che ormai ben conosceva uomini e cose di quel territorio. E così vengono uccisi tutti quelli rimasti a Costa Binella. Gli uomini con raffiche di mitra da distanza ravvicinata sul lato destro del sentiero (oggi poco distante dalla provinciale). Sul lato sinistro le donne vengono seviziate e poi uccise a colpi di baionetta. La strage è dunque compiuta e i Tedeschi tornano a Cesio mentre gli abitanti del paese rimangono alcune ore nell’incertezza e nella speranza finché qualcuno prende coraggio e decide di andare a cercare i compaesani. Fatta la terribile scoperta, arrivano altri dal paese. Molti dei fucilati sono talmente massacrati che i paesani hanno difficoltà a riconoscere i loro cari. E’ per alcuni una altalena di speranza e dolore. Arrivano poi i carri tirati da buoi e i corpi sono caricati e trasportati in paese. Qui vengono sistemati nell’oratorio, distesi su della paglia e sommariamente coperti. Una parte dei caduti verrà provvisoriamente interrata in una fossa comune. Sono state trucidate ventinove persone in tutto. Venticinque di Testico e delle sue frazioni, tre di Chiusanico, frazione di Torria, e una di Alassio, in un paese che conta poco più di trecento abitanti. Tutto ciò conferisce all’azione il chiaro carattere di una rappresaglia in tutto tristemente simile alle centinaia di massacri di civili compiuti dai nazifascisti negli ultimi mesi di guerra. Quasi ogni famiglia è colpita dal lutto: la follia di quelle poche ore ha distrutto e ha gettato nel dolore un intero paese per molti anni. La storia dell’eccidio è stata ricostruita facendo parlare alcuni testimoni diretti, altri che hanno partecipato all’evento e parenti e conoscenti delle vittime. Questa forma ha il pregio di essere diretta e di rendere la terribile esperienza umana di quelle persone. Per chiudere mi pare che la più chiara descrizione del senso tragico dell’evento sia riassunto nelle parole di Armando Zerbone: “Quando sono andato il giorno dopo sul posto ho potuto riconoscere mio padre solo dalle scarpe, lo avevano massacrato.”
Riccardo Aicardi, 15 aprile 1945: l'eccidio di Testico in “Storia e Memoria”, anno XVII, n. 2, 2008, Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

giovedì 13 agosto 2020

Attacco partigiano a Baiardo con l'intervento dell'aviazione alleata

Baiardo (IM) visto da Perinaldo
 
Il 10 marzo 1945, programmata già un mese prima, avvenne l'unica azione combinata tra aerei alleati e forze garibaldine. Il luogo prescelto fu il presidio nemico di Baiardo. Il segnale di inizio, annunciato da Radio Londra, era "la neve cade sui monti".
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

Bajardo era un caposaldo fascista. In paese, infatti, si trovavano i bersaglieri, comandati dal tenente Franco Buratti, che costituivano un pericolo costante per le formazioni partigiane operanti nella zona [...] Vittò [anche "Ivano", Giuseppe Vittorio Guglielmo, comandante della II^ Divisione "Felice Cascione"] ritenne opportuno non far partecipare i suoi uomini alla battaglia di Bajardo; troppi rischi di perdere vite in proporzione alla difficoltà di riuscire a conquistare il caposaldo nemico [...] non era convinto del piano prospettatogli dal capitano inglese della missione alleata, Robert Bentley. In base a quanto dichiarato da quest'ultimo per conquistare Bajardo sarebbe dovuta intervenire l'aviazione inglese mediante l'impiego di quattro aerei, che si sarebbero limitati a iniziare la battaglia con un mitragliamento e poi se ne sarebbero andati, lasciando ai partigiani il compito di entrare in paese e assalire la fortezza dei bersaglieri.
Romano Lupi, VITTO'. Vita del comandante partigiano Vittorio Guglielmo, Quaderni sanremesi, Sanremo, 2011 

Ecco ciò che dice "Gino" (Gino Napolitano) [vice comandante della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione]: "Dopo i tremendi rastrellamenti subiti in gennaio e febbraio le nostre brigate si riformavano. [...] La stazione trasmittente sotto il controllo del capitano Robert Bentley aveva riallacciato i collegamenti con la Francia.  Venne pertanto stabilito dal comando operativo di zona un primo attacco combinato fra le nostre forze e l'aviazione nemica contro un caposaldo avversario quale esperimento. Venne fissata la segnalazione da Radio Londra per la coordinazione dell'attacco: 'la neve cade sui monti', stabilito il luogo, Baiardo, il giorno, 17 marzo [invece, l'attacco partigiano ebbe luogo il 10 marzo 1945], e l'ora, le 7 del mattino.  [...] Baiardo appollaiata sulla cima del monte a 900 metri di altezza, era difesa da oltre 150 tedeschi e bersaglieri, armati di cannoni e mortai. I nostri partirono dalla base di Ciabaudo: circa 120 uomini al comando di Gino Napolitano (Gino). Con essi erano Curto [Nino Siccardi, comandante della I^ Zona Operativa Liguria], Sumi (Lorenzo Musso) [Commissario Politico al Comando Operativo della I^ Zona Operativa Liguria]  ed il capitano Bentley, che avrebbero presenziato all'azione".
Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia

Il comandante della II^ Divisione "Felice Cascione", "Vittò", espresse le sue perplessità circa tale azione, in quanto il mitragliamento degli aerei avrebbe portato scarsi vantaggi poiché "(1) bastava [ai nemici] essere coperti da un tetto qualunque per evitare ogni ogni danno. Di contro il comandante della II^ Divisione "Felice Cascione" aveva proposto " (2) di lanciare nei dintorni del paese quattro o cinque bombe, in modo che venisse nei bersaglieri il timore di essere attaccati dagli aerei. Si sarebbero rintanati nelle cantine e noi avremmo potuto entrare in paese senza tanti morti. Il solo mitragliamento era un avviso che noi entravamo in azione e metteva i bersaglieri nella perfetta attesa di difesa e di attacco insieme"
Rocco Fava, Op. cit.
(1) (2) don Ermando Micheletto, Op. cit. infra, pp. 263-264

Non era dello stesso parere il Curto che vedeva nell'azione una mirabile rivincita su quel distaccamento nazifascista che aveva sempre resistito agli attacchi partigiani. Gino era del parere del Curto ed anche altri comandanti di distaccamenti. Forse pensavano certa l'azione degli aerei, repressiva e sicura la paura dei bersaglieri. Continua Vitò: "Il Comandante di Zona Curto invece voleva attaccare. Prese il comando dei miei distaccamenti e partì con essi. Io non ci sono andato. Avevo il presentimento di un attacco inutile e dannoso per noi. Quella presenza degli aerei con mitragliamento impediva a noi la sorpresa dell'attacco ed avvisava i nemici di mettersi in difesa..."
don Ermando Micheletto *, La V^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni” (Dal Diario di Domino nero Ermando Micheletto), Edizioni Micheletto, Taggia (IM), 1975
* ... Don Micheletto per tutta la guerra si adoperò per i partigiani, generalmente in contatto con i gruppi di Vitò, che accompagnò spesso nei loro spostamenti. Esplicherà la sua attività specialmente nell'assistenza e per captare messaggi radio. Giovanni Strato, Storia della Resistenza Imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Editrice Liguria, Savona, 1976, ristampa del 2005 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia

"Alle 4 del mattino la marcia veloce e silenziosa ebbe inizio. I nostri erano discretamente armati, grazie specialmente ai rifornimenti giunti nelle ultime settimane in montagna via mare. Si marciava in fila indiana sotto il cielo che impallidiva, esilarati dalla sottile aria di montana che già odorava di primavera. Alle 6 il distaccamento giunse nei pressi del paese: i nostri si distesero a catena, si scalzarono perché il rumore delle scarpe ferrate non allarmasse il nemico e salirono lentamente, Gino in testa, fino al cimitero del paese. [...] Al di sopra dei nostri, a forse duemila metri di altezza, sei aeroplani volavano dritti sul paese. Immediatamente alcune pattuglie di arditi vengono staccate in direzione dell'abitato mentre tutti gli altri, sempre al coperto, si spostano sino a 200 metri dalle prime case. Alle 7,10 gli apparecchi sono sull'obiettivo. Si vedono ruotare, abbassarsi, risollevarsi. Il paese è in subbuglio: si ode la gente correre. Improvvisamente gli aeroplani si allontanano ed un lungo getto di vapore bianco si disegna dietro uno degli apparecchi. È il segnale? Ma i nostri non hanno udito alcun rumore di esplosioni, soltanto sembra loro di aver percepito, fra tanti suoni confusi, il ticchettio di un mitragliamento. [...] Si decise allora di tentare senza indugio un'azione subitanea sperando di cogliere il presidio di sorpresa. Alle 7,20 scattammo all'attacco da tutte le parti, in piccoli gruppi. La popolazione era asserragliata nelle case, ma il nemico, evidentemente avvertito, era pronto.  Le strade erano battute da un fuoco incessante che veniva dalle finestre e dai tetti e che le spazzava da un capo all'altro. I nostri avanzavano lungo i muri verso il cuore del paese: avevano però soltanto armi automatiche leggere perché si attendevano di essere appoggiate dal bombardamento aereo, e contro le mitragliatrici pesanti, protette dalle case trasformate in fortezze, l'attacco si mostrava impotente. Gino con una quindicina di uomini raggiunse il centro del paese e vi rimase per oltre mezzora fulminando le finestre degli edifici da cui partiva l'incessante fuoco nemico. I bersaglieri ed i tedeschi, il cui grosso era sulla piazza, escono improvvisamente al contrattacco, tentando di infiltrarsi tra i nostri gruppi. I nostri convergono su di essi da tutti i lati, li prendono d'infilata e li respingono costringendoli a ritirarsi precipitosamente nelle loro tane, lasciando sul terreno morti e feriti. Alle 9 le munizioni dei nostri uomini erano quasi esaurite, mentre il nemico sembrava ne possedesse una riserva inesauribile. I garibaldini erano stanchi e prolungare l'azione sarebbe stata una follia. Curto impartisce l'ordine di ritirata. Gli uomini escono lentamente dal paese sempre combattendo, mentre Gino protegge la retroguardia con un tiro continuo di sbarramento. Alle 9,30 il distaccamento in perfetta formazione marciava sulla strada del ritorno verso la base. L'azione, sebbene non avesse ottenuto il successo completo, era stata brillantissima e per la sua concezione e per i risultati ottenuti: i nostri avevano violato uno dei più forti baluardi nemici infliggendogli perdite gravissime. Da parte nostra due morti in combattimento, Vitale e Lazzari, e alcuni feriti. Il garibaldino Nino, ferito e catturato dal nemico, venne passato per le armi sul posto. Ma l'iniziativa passava nelle nostre mani e non doveva più sfuggirci".
Mario Mascia, Op. cit.

Dopo circa tre ore di attesa, e precisamente alle ore 7,55, si avvistava una squadriglia di sei apparecchi da caccia che, dopo aver descritto un ampio cerchio tra Monte Bignone e Monte Ceppo, subito dopo iniziavano un'azione di mitragliamento, senza però sganciare alcuna bomba. Dopo dieci o quindici minuti il mitragliamento cessava e la squadriglia si allontanava. Dopo un’iniziale esitazione, dovuta al mancato lancio di fumogeni da parte degli aerei, come era convenuto, sotto la direzione del vice comandante della V^ Brigata e del comandante del I° Battaglione Vincenzo Orengo (Figaro), ebbe inizio l'assalto al paese. I garibaldini raggiunsero la piazza del paese, a circa quindici metri dalla caserma dei Bersaglieri, i quali, asserragliati, rispondevano al fuoco dalle finestre. Il sopraggiungere di rinforzi provenienti da Ceriana e da Sanremo obbligò i partigiani a desistere e ritirarsi nei boschi. Nell'attacco cadevano il commissario Riccardo Vitale (Cardù), Gaetano Cervetto (Nino) e Vitaliano Lazzari (Lazzari).
Giorgio Caudano
 
Cardù

Si mise disteso sulla paglia trita; sì, che se la sentì pungere dappertutto come le altre volte rivoltandosi di qua e di là, ma adesso con la stanchezza addosso a quel modo, gli pareva di essere più al sicuro.
Col vento che soffiava dovunque, però, non ci riuscì per niente a dormire; si sentiva maggiormente le gambe rotte, e tutti quei ricordi se li sentiva sempre di più a premergli nella testa da fargli male.
Il partigiano anziano adesso gli era venuto vicino continuando il suo discorso e lo guardava fisso come per farsi sentire meglio nel parlare; ma lui macché, non ce la faceva più a seguire quel discorso, seguitando invece a pensare per conto suo.
Così, quando il partigiano anziano finì di parlare, e uscì per guardare fuori al di là del casone, manco se ne accorse: difatti, era già da un pezzo che gli era venuto in mente di quella volta a Baiardo, quando attaccarono i bersaglieri.
Fu quella volta della sparatoria contro i bersaglieri, quando col distaccamento al completo, ci andarono proprio sotto di sorpresa: ci andarono fin sono le finestre, dentro il paese, dove erano accampati i fascisti con le sentinelle da tutte le parti da picchiarci dentro; ed eccolì, quella volta perdio, anche lui aveva visto Cardù da morto.
Ma l'aveva visto soltanto dopo il gran fracasso della sparatoria, che l'aveva ancora forte nelle orecchie: Cardù era lì sulla strada rovesciato per terra, tutto sfracellato come quelli sulla neve al di là del forte Centrale, che aveva detto il partigiano anziano.
Fu quella volta famosa dell'attacco di Baiardo, quando ci andarono tutti spensierati, e lui non se lo scordava più come successe a quel modo così in fretta: eppure, nemmeno adesso gli pareva ancora vero che quella volta se lo fosse trovato morto, proprio lì davanti, il suo compagno Cardù; dopo tutti i discorsi insieme che avevano fatto prima.
Voglio dire a quel modo comese proprio, quasi quasi, stessero ancora per finire il discorso appena incominciato; difatti, lì per terra tutto sporco di polvere e di sangue, pareva che gli fosse rimasta ancora la bocca aperta, come per parlare. Ma poi, lui gli era andato vicino a Cardù; e chissà perché, gli era venuta subito quella paura fredda della morte, vedendolo così rigido e fracassato; ecco com'è: è la paura di quando lo capisci bene che se uno è diventato rigido nella morte, è diventato un altro; ma è diventato tanto un altro, che ti mette perfino soggezione; non puoi manco più toccarlo, siccome te lo senti distante e assolutamente estraneo; così ti succede che uno, anche se ti è stato compagno, eccome, non te lo senti più propriamente compagno come prima quando ci parlavi insieme da vivo; te lo senti soltanto come un estraneo: e dentro ci senti una gran pietà un gran dolore e una gran rabbia per lui per te e per tutti quanti; mentre è così che vorresti metterti a gridare forte forte, stringendo i pugni. 
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, p. 180
 
Coloro invece, che avevano voluto l'attacco, asserivano che fu proprio l'attacco inatteso a decidere i tedeschi alla ritirata dalla zona. La conclusione la si può derivare dai fatti come si sono svolti, dalle vittime, che ci sono state, e dalla impossibilità di conquistare Baiardo. Si era in guerra e nessuna azione, secondo alcuni, si doveva tralasciare per combattere i tedeschi. Concludeva Vitò: "Il mio parere negativo sulla battaglia di Baiardo era motivato dalla mia conoscenza diretta e sperimentata dell'armamento dei bersaglieri. Era ancora vivo nella mia mente l'esperimento fatto in altra battaglia precedente".
don Ermando Micheletto, Op. cit.

12 marzo 1945 - Dal comando della II^ Divisione "Felice Cascione" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Inviava il resoconto del comando della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" sull'attacco partigiano effettuato a Baiardo (IM) nella notte tra il 9 ed il 10 marzo, resoconto in cui si riportava che, dopo aver predisposto gli uomini per l'attacco al presidio fascista in previsione dell'intervento di aerei alleati, tutte le vie d'accesso, anche con la collaborazione di reparti della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione "Felice Cascione", erano state bloccate; che verso le 8 del 10 marzo erano passati 6 caccia alleati, che avevano effettuato parecchie raffiche di mitra senza colpire, tuttavia, nessuno dei 45 bersaglieri repubblichini; che, al segnale, tutti i garibaldini erano usciti dal bosco attaccando i fascisti; che questi ultimi rispondevano al fuoco; che il combattimento era durato per circa 30 minuti, in quanto, arrivati rinforzi nemici da Ceriana e terminate le munizioni, i partigiani si ritiravano, dopo aver lasciato sul terreno 2 uomini caduti in combattimento ed avere perso un altro garibaldino, catturato dal nemico e subito fucilato; che si poteva giudicare che l'azione alleata era stata inefficace, perché non era stato effettuato nessun bombardamento e che, per giunta, dagli aerei non era giunto il segnale concordato, cosicché i partigiani non erano potuti intervenire in modo simultaneo agli apparecchi.
14 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM della V^ Brigata al comando della I^ Zona Operativa Liguria, al comando della II^ Divisione, alla Sezione SIM della II^ Divisione ed al comando della V^ Brigata - Informazioni militari: "...  Il presidio di Baiardo dopo l'attacco effettuato il 10 c.m., è stato rinforzato da forze naziste. Durante detta azione rimanevano feriti 4 bersaglieri e l'ufficiale comandante il presidio. Quest'ultimo è stato ricoverato all'ospedale di S.Remo...."
da documenti  Isrecim in Rocco Fava, Op. cit., Tomo II
 
A seguito dell'attacco a Baiardo (9-10  marzo  1945) da  parte  di  Distaccamenti  della  V^  Brigata  si scatena furiosa la reazione nemica. Vittò, Curto, Armando Fragola Doria Izzo, il capitano inglese Robert Bentley, il suo radiotelegrafista Mc Dougall, Guido Arnaldi, Felice Miroglio, Alfredo Maiano  Lupo, ed  altri  partigiani  quali  staffette o addetti al deposito Intendenza sito nelle case della borgata Gerbonte (Triora), si mettono in marcia verso una grotta pensandovi di trovare rifugio sicuro. Intanto nella notte  tra  il 10 e l'11 giungono da Sanremo truppe  tedesche  appartenenti  ai  RAP  (Raggruppamento Anti Partigiani), che riescono a prendere di sorpresa la borgata senza che fosse  dato alcun allarme. Però la tattica partigiana era quella di non rimanere molto tempo nei luoghi abitati. Questa tattica salva il gruppo di uomini menzionati. Infatti all'alba lasciano Gerbonte per raggiungere la grande grotta, che si  apre nei pressi di Loreto. Giunti alla grotta il capitano Bentley si accorge di aver dimenticato l'antenna della radio nella casa di Gerbonte. Viene incaricato del recupero la staffetta partigiana Lupo, che è preso in  rastrellamento dai  nazifascisti nella zona di Gerbonte e successivamente condotto nei  pressi di Molini di Triora ed ivi fucilato (11.03.1945). Il ritardo del ritorno di Lupo fa  insospettire il gruppo, per cui parte in missione il  garibaldino Felice Miroglio, che cade ucciso da un colpo di Mauser nei pressi di Gerbonte. Lo stesso giorno, 11 marzo  1945, nei pressi di Bregalla <Frazione di Triora (IM)> viene ucciso in combattimento dai tedeschi il partigiano Paolo Bruno Oddo.
Mons. Cav. Ferdinando Novella, Il martirio di Molini Triora (3.07.44 - 25.4.1945), edito dal Comune di Molini di Triora, 2004 


sabato 8 agosto 2020

L'uccisione a tradimento a Rocca Spina dei partigiani Gelato e Sardena e di tre disertori repubblichini

Barchi, Frazione di Ormea (CN) - Fonte: Borghi Alpini
 
Un reparto distaccato della 1^ compagnia  9^ brigata GNR in servizio presso la polveriera Martinetto di Albenga (SV), per iniziativa ed interessamento di Osvaldo Melluso, segretamente iscritto alla cellula 61 del PCI alla stazione ferroviaria di Genova Brignole, decide di passare nelle file partigiane con tutto l’equipaggiamento e le armi. 

Caprauna (CN) - Fonte: Wikipedia
 
Il sergente repubblichino della polveriera di Martinetto, che si faceva chiamare Franco Cattaneo, invece era propriamente il furiere Salvatore Abate, che aveva cambiato nome per motivi di sicurezza personale quando Martinengo [Eraldo Hanau] lo aveva mollato. Lo aveva mollato liberandolo con gli altri militi fascisti della guardia nazionale repubblicana, dopo un assalto al Forte di Nava; - o rimanere in banda o tornare in camicia nera, come volete - gli disse. Ma quella volto fu uno sbaglio che costò caro alla partigianeria ligure piemontese. Fornito di moduli per lasciapassare, con bolli autentici nascosti nello zaino da quei tempi della fureria, adesso trafficava a pagamento licenze con i subalterni. Il milite Melluso, anche lui della polveriera di Martinetto, trafficava gratise con i partigiani di Capraùna, rischiando così di grosso tutti insieme. Gira e rigira, però, non ci misero granché a combinarsi su cosa fare in tornaconto per cambiare la situazione [...] A Capraùna dove sono in banda proprio di preciso glielo dice uno di guardia lì ad aspettarli, come si erano messi d'accordo; li fa accompagnare al punto giusto dalle due staffette del distaccamento, ma con le armi scariche si capisce, e le munizioni nello zaino da consegnare sul posto per precauzione, ci mancherebbe altro [...] Ma il sergente Cattaneo non se fa niente di tutto questo andare più leggeri nell'erba fresca [...] Neanche lui, il sergente Cattaneo, lo sa bene come succede; e intanto si fa dare il Saint-Etienne, perché adesso dice che tocca a lui portarlo un po', riprendendo a camminare.
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, pp. 49-54

Due giorni dopo lo scontro di Pizzo d'Evigno, la nostra Resistenza è colpita da un grave lutto.
Cinque partigiani sono uccisi a tradimento da Franco Cattaneo, sergente della Guardia Nazionale Repubblicana. Erano con lui sei militi: Luigi Austoni, Lazzaro Boldrini, Gaetano De Musso, Floriano Grassini, Osvaldo Melluso ed Antonio Vicini che costituivano un reparto distaccato della 1a Compagnia - 9a Brigata GNR - presso una polveriera in località Martinetto d'Albenga.
Per iniziativa ed interessamento del Melluso, segretamente iscritto alla cellula 61 del PCI presso la Stazione ferroviaria di Genova Brignole, l'intero reparto decide di passare nelle fila partigiane con tutto l'equipaggiamento e le armi.
Il 20 giugno 1944, a seguito di accordi presi con il Comando Partigiano, i militi giungono a Caprauna (CN).
Il giorno seguente, i sette uomini del reparto, guidati da due garibaldini, Giuseppe Maccanò e Angelo Viani, sono in marcia di trasferimento destinati ad una formazione di partigiani autonomi. Ma questa non è più sul luogo. Il gruppo si dirige verso un'altra banda e giunge a Rocca Spina, presso Barchi, piccola località tra Ormea (CN) e Garessio (CN). 
All'improvviso, con un pretesto, il Cattaneo (sergente della guardia nazionale repubblicana) si offre di tenere il fucile mitragliatore di un partigiano affaticato.
Questi glielo consegna: quello lo ritira e nascostamente innesta nel Saint-Etienne un caricatore. Poi s'avvicina al gruppo ed apre a bruciapelo il fuoco contro i compagni. Cadono tutti, chi gravemente ferito ed agonizzante, chi immediatamente ucciso.  Quindi, il Cattaneo s'allontana portando con sé i sopravvissuti Grassini e De Musso. I tre raggiungono, a detta del Grassini, il Comando GNR di Albenga ed il Cattaneo si presenta al suo comandante Crespi affermando di essere stato catturato con la forza dagli altri militi e di essere riuscito a fuggire portando con sé il De Musso ed il Grassini.
La versione del Melluso è diversa: un certo Chiesa, milite della GNR, in servizio presso un reparto di stanza a Leca d'Albenga, avrebbe riferito che sarebbero stati catturati ed accusati di diserzione.
Le due versioni, comunque, coincidono nella conclusione: Franco Cattaneo è fucilato per diserzione ed altri precedenti crimini, mentre il Grassini ed il De Musso sono inviati al fronte per punizione.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. II: Da giugno ad agosto 1944, volume edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992, p. 103

Quando, alla fine di girare, il sergente Cattaneo si ripresentò ai fascisti di Albenga ormai non lo aspettavano più con i due militi in cattura, avendoli già dati per dispersi; eppertanto la storia finì così, che lui lo fucilarono lo stesso per diserzione siccome quella storia complicata non riuscirono a capirla, anche se girava che sì, lui era fascista; eppoi anche perché scoprirono che in verità si chiamava in un altro modo. Tanto per non sbagliarsi i due militari che erano tornati li mandarono per punizione sul fronte francese, ma in prima linea. Gliela facessero vedere là, in quegli avamposti della malora, la loro fede genuina nel fascismo come dicevano, rischiando la pelle. Invece il milite Melluso, appena guarito, sentendosi già patriota, non stette a ripensarci com'era la repubblica dove c'era stato prima; ma cominciando ad adoperare il braccio si mise a scrivere la relazione di tutto come aveva visto che era successo, dal principio alla fine. Eppoi cominciò veramente a fare il partigiano in banda da quelle parti, anche col braccio mezzo fottuto; in seguito diventò caposquadra e si guadagnò pure lui a tempo debito il nome di battaglia, come gli piaceva: se lo scelse personalmente di suo gusto, così come se l'era pensato fin da quando era ancora nella polveriera del Martinetto e cominciava a trafficare con quelli in montgan sul Colle di Capraùna.
Osvaldo Contestabile, Op. cit., pp. 57-58

Dal processo verbale di interrogatorio di Osvaldo Melluso rilasciato alla Stazione dei Carabinieri di San Fruttuoso, Genova, il 15 agosto 1964:
"Il giorno 20 giugno 1944 verso le 15, in seguito ad ordine datomi dal Comando Partigiano, condussi sei dei miei commilitoni, compreso il sergente Cattaneo Franco, a Caprauna… Il giorno successivo, durante la marcia di trasferimento da Caprauna verso i monti di Savona, accompagnati da due partigiani, Maccanò Giuseppe e Viani Angiolino, in funzione di guida, giunti in località Rocca Spina presso Barchi di Ormea, verso le 17, il sergente Cattaneo Franco… fece fuoco contro noi sei che lo precedevamo, causando il mio ferimento e la morte dei cinque compagni: Austoni, Maccanò, Viani, Boldrini e Vicini".

da una pubblicazione di A.N.P.I. Savona
 

[...] Legione territoriale dei carabinieri di Genova, Stazione di Arma di Taggia
Processo verbale di interrogatorio di Grassini Floriano fu Carlo e fu Saldani Eugenia, nato a Pisa il 3/2/1926, residente a Genova Pra - Via Sapello  N° 36 e domiciliato a Arma di Taggia Lido «Idellerj» Boghino.
L'anno 1964 addì 1° ottobre, nell'ufficio della Stazione Carabinieri di Arma di Taggia alle ore 9 - davanti a noi Vicebrigadiere Cariano Tommaso, Comandante interno della suddetta stazione, è presente Grassini Floriano, in rubrica generalizzato, il quale interrogato dichiara quanto segue: «Il 20 giugno 1944, mentre facevo parte del 9° Battaglione d'Assalto della G.N.R. unitamente ai miei compagni: V.B. Cattaneo Franco, De Musso Gaetano, Vicini Antonio, Melluso Osvaldo, Boldrini Lazzaro e Austoni Luigi, tutti noi che eravamo di servizio di guardia alla polveriera di Martinetto, di comune accordo abbandonammo il servizio per raggiungere una brigata partigiana. Preciso che nessuno di noi sapeva dove si trovava la brigata più vicina. Nonostante ciò iniziammo la nostra marcia con tutte le armi che avevamo in dotazione nella suddetta polveriera. Giunti nel territorio di Caprauna, nei pressi di Pieve di Teco, trovammo una banda armata la quale si dichiarò partigiana. Allora noi approfittammo di chiedere se potevamo rimanere con loro. A tale richiesta nostra il Comandante di detta banda ci indicò una brigata badogliana e per raggiungere detta brigata ci fece accompagnare da due partigiani armati. Dopo aver fatto circa sette chilometri di montagna sempre nella zana di Pieve di Teco, ci fermammo per riposare; ad un certo momento il V.B. Cattaneo si allontanò dicendo che doveva fare alcuni bisogni. Preciso che mentre si allontanava portava con sé il mitragliatore Sant Etienne con 25 colpi. Così dopo qualche istante dalla parte in cui si trovava il V.B. Cattaneo venne una raffica di mitragliatore al nostro indirizzo per cui, ad eccezione del De Musso Gaetano ed io, rimasero tutti feriti. Io e il De Musso non riportammo nessuna ferita. Infine puntò l'arma per ferire anche noi due e quindi abbiamo alzato le mani ed il Cattaneo ci disarmò. Così subito dopo ci obbligò a seguirlo e ci portò presso la caserma del 9° Battaglione di assalto di Albenga. Ad Albenga il Cattaneo si presentò al suo Comandante Crespi e dichiarò che noi tutti lo avevamo preso prigioniero e che con la sua abilità era riuscito ad uccidere i sei, facendo prigionieri noi due. Di tutti i fatti su esposti venne celebrato il processo militare di guerra ad Albenga il 17/7/1944. Aggiungo che eventuali chiarimenti ed equivoci possono essere riscontrati presso gli atti di Albenga. In seguito al processo risultò che il V.B. Cattaneo Franco - autore dell'eccidio - si faceva chiamare tale, ma in realtà il suo nome era Abate Salvatore. Aggiungo che detto V.B. Cattaneo Franco venne condannato alla pena di morte: immediata fucilazione alla schiena con esecuzione immediata in data 17/7/1944. Io e il De Musso Gaetano in seguito al processo fummo inviati al Fronte francese per punizione motivata di diserzione con passaggio al nemico. Non ho altro da dire ed in fede di quanto sopra, preciso lettura mi sottoscrivo».

Riportiamo ancora una lunga esposizione dei fatti narrati da Osvaldo Melluso:
«Nel mese di giugno 1944 mi trovavo, quale milite della 1a Compagnia della 9a Brigata d'Assalto della G.N.R., a prestar servizio in un presidio sito in località Martinetto di Albenga (distante circa 11 chilometri da Albenga e altrettanti da Caprauna). Il presidio era composto da sei militi ed un Vice Brigadiere e avevo il compito di vigilare delle casematte adibite a polveriera. Ricordo i loro nomi: Austoni Luigi, Boldrini Lazzaro, Vicini Antonio, Grassini Floriano, Mulas o De Musso Gaetano (il suo vero nome deve essere De Musso in quanto il Grassini, che era in più stretti rapporti con lui, lo chiamava appunto De Musso nel processo verbale fatto ad Arma di Taggia a seguito della vicenda di seguito descritta) e il V.B. Cattaneo Franco (nel verbale il Grassini dice che al processo fatto a Albenga, si venne a sapere che il vero nome, anzichè Cattaneo Franco, era Abate Salvatore) infine lo scrivente Melluso Osvaldo. Per mie indagini, fatte in seguito, venni a sapere che il V.B., tempo addietro, aveva prestato servizio presso il forte di Nava, quale furiere e che svolgeva ancora tale incarico quando il forte venne occupato dai partigiani i quali fecero tutti prigionieri. Ad essi veniva data facoltà di scelta fra rimanere nelle loro fila e l'essere mandati a casa. Questo fatto, in particolare, mi fu raccontato da uno dei militi che rimase appunto volontario nelle fila partigiane: egli stesso precisò che, se anzichè tornare a casa, qualcuno di loro si fosse ripresentato nella G.N.R. e fosse stato poi di nuovo catturato dai partigiani, sarebbe stato passato per le armi. Questa circostanza spiega le ragioni che indussero il Cattaneo ad agire come dirò in seguito, venutosi giocoforza a trovare tra le fila dei partigiani. Si era dunque nel giugno del 1944; il Cattaneo possedeva una valigetta in cui custodiva alcuni documenti, dei permessi, fogli di viaggio,  fogli [...] Vidi in lontananza un campanile e mi diressi in quella direzione correndo. Lungo il sentiero incontrai un contadino vecchio e zoppo, il quale aveva inteso la raffica e ne era terrorizzato. Lo presi sottobraccio e corsi, cercando di farmi indicare la strada per il paese. Me la indicò; lo lasciai e continuai a correre. Mi accorsi che il braccio sinistro roteava per conto suo: la giacca era forata, ma non grondava sangue perchè era tutto assorbito dalla stoffa. Mi tenni il braccio e raggiunsi Barchi d'Ormea. Giunse un calesse con degli uomini armati. Un uomo isolato arrivò in moto. Raccontai l'accaduto al comandante Colombo che mandò subito degli uomini sul posto dell'eccidio e poi mi fece trasferire all'ospedale di Ormea. Dietro consiglio del dottore non mi fecero sapere della morte dei miei amici se non dopo i funerali. Il comandante Colombo si interessò di avvisare i famigliari dei morti ed anche i miei che vennero a trovarmi. Il seguito è storia partigiana. Se mi sarà richiesto darò delucidazioni. Genova 8 luglio 1975 - Melluso Osvaldo»
Una versione sostanzialmente simile del fatto descritto si trova nel volume di Renzo Amedeo (2): «Un gruppetto di fascisti fuggiti dal proprio reparto ed accompagnati da due partigiani, in viaggio per raggiungere le formazioni combattenti in Valle Tanaro, nel tardo pomeriggio del 21 giugno 1944 furono improvvisamente uccisi da uno della compagnia, appena raggiunta la località di Rocca Spina (Ormea).
"Morti per ferita di arma da fuoco alla schiena e al capo, a seguito di una raffica di mitra sparata da un sottufficiale della Guardia Repubblicana Fascista che accompagnava i suddetti e che era in fondo alla colonna" - dicono i registri dello stato civile di Ormea (3).
I cinque caduti sono Austoni Luigi, nato a Genova il 13-1-1925; Boldrini Lazzaro, nato a Santa Margherita Ligure il 16-9-1925; Maccanò Giuseppe, nato a Oneglia il 25-2-1920; Viani Angiolino, nato a Oneglia il 1°-11-1921; Vicini Antonio, nato a Mezzanego il 25-11-1926.
Ma, assieme a questi cinque, si trovavano altre quattro persone: il signor Melluso Osvaldo (4), che si era impegnato ad accompagnare questo gruppo di militi, in servizio presso la prima compagnia della IX brigata d'assalto della GNR, dalla polveriera in località Martinetto d'Albenga alla sede dei partigiani in Caprauna; il Grazzini Floriano ed il De Musso Gaetano i quali, unitisi alla compagnia forse non del tutto persuasi a fuggire dalla Repubblica, poterono ritornare alla propria Compagnia assieme all'autore materiale della strage, il vice brigadiere Abate Salvatore che aveva mutato nome in Cattaneo Franco, dopo la fuga dai Forti di Nava, per approfittare del grado di un altro milite del quale era venuto in possesso dei documenti. In realtà i due scampati furono processati in Albenga il 17 luglio 1944 e condannati a morte, pena commutata poi nell'invio al fronte, mentre fu eseguita la fucilazione a carico del Cattaneo Franco che cercava di rifarsi una verginità vantando quella sua nefanda impresa. Il gruppo dei sette fuggitivi, giunto a Caprauna, fu accompagnato verso la Val Tanaro dai due partigiani Maccanò e Viani della IX Brigata garibaldina, che rimasero uccisi con tre dei fuggitivi, mentre il Melluso se la cavò con alcune gravi ferite
».

Infine, riportiamo ancora il documento con cui il 10° distaccamento dava notizia dell'accaduto al Comando della IX Brigata:
«IX Brigata d'Assalto Garibaldi - 10° Distaccamento
9 luglio 1944
Oggetto: relazione circa il compito affidato ai Garibaldini Sardena e Gelato.
          Al Comando della IX Brigata d'Assalto Garibaldi
La sera del 20 giugno 1944 il Comandante di un distaccamento badogliano «Enzo» informava l'ex Comandante del nostro distaccamento che un suo componente sarebbe transitato nella nostra zona nelle prime ore del mattino del 21 giugno accompagnando dei fascisti della «Muti» che avevano già deciso in precedenza la resa col detto distaccamento. Infatti alle ore 3 all'intimazione di «alt» delle nostre sentinelle rispondeva la pattuglia dei sette fascisti che dichiaravano di voler essere accompagnati al distaccamento suddetto. Il sergente, comandante la pattuglia in questione, confermava all'ex Comandante che aveva già preso accordi col distaccamento badogliano per la resa. Verso le otto del mattino l'ex Comandante del distaccamento, dopo aver fatto togliere le munizioni dai fucili dei fascisti, disponeva che due staffette accompagnassero al distaccamento dei badogliani i fascisti in parola. Però lasciava le munizioni nel fucile mitragliatore S. Etienne. L'incarico di staffetta veniva assegnato ai garibaldini Sardena e Gelato (Viani Angelo e Maccanò Giuseppe). I predetti non facevano più ritorno alla base, per i fatti a voi noti. Comunque si comunica che le due staffette che abbiamo inviato a cotesto comando sono concordi nell'affermare che:
- Sardena e Gelato giunti nella zona ove alloggiava il distaccamento badogliano hanno trovato la zona deserta. Gli stessi allora hanno deciso di raggiungere il nostro distaccamento, che nel mattino aveva ripreso la marcia di trasferimento.
- Giunti sopra Caprauna, mentre il piccolo nucleo era intento a riposarsi, il sergente che aveva impugnato in quell'istante il fucile mitragliatore S. Etienne, faceva fuoco sul nucleo che era disposto a semicerchio.
- Venivano uccisi sul colpo Sardena e Gelato e quattro fascisti.
- Un fascista ferito da varie pallottole, dopo l'allontanamento del sergente e dell'altro fascista riusciva a dare l'allarme alla popolazione di Caprauna che provvedeva al ricupero delle salme.
- Il sergente appena ritornato al suo presidio è stato passato per le armi.
          Il Comandante Marco
[Candido Queirolo] - Il Commissario politico Pantera [Luigi Massabò]»

Carlo Rubaudo, Op. cit.

(2) Volume inedito Storia della XIII Brigata Val Tanaro, pag. 187. Opera depositata presso l'Archivio del Comune di Garessio.
(3) Archivio del Comune di Ormea, atti di morte, p.2^ serie B, anno 1944, atti N° 7,8,9,10,11, stesi per autorizzazione del pretore di Ceva.
(4) Melluso Osvaldo, impiegato FF.SS. Già membro della cellula N° 61 di Genova Brignole, fuggito il 20 giugno 1944 dalla GNR di Cisano, ferito a Roccaspina, rimase all'ospedale di Ormea dal 21 giugno al 16 luglio 1944. Partigiano dal 20 giugno 1944 al 30 settembre 1944, poi caposquadra fino al 31 ottobre 1944 e quindi comandante di distaccamento fino al 30 aprile 1945 nella VI Divisione «Bonfante», III Brigata, dichiarazione integrativa n. 5921.