mercoledì 30 giugno 2021

Il parroco porta le lettere al capitano Cristin

Molini di Triora (IM) - Fonte: Comune di Molini di Triora

Ricavo i dati da miei appunti del tempo e da una relazione del parroco di Molini di Triora (IM), in Valle Argentina, di cui segno tra virgolette le parole.
"Quando si ebbero i primi scontri armati tra le truppe nazifasciste e le bande partigiane a Carmo Langan, a Badalucco, a Carpenosa, a Santa Brigida, Molini fu subito sospettato dai tedeschi come centro di bande e ciò creò in essi quello stato d’animo di avversione verso i suoi abitanti".
Il martirio di Molini iniziò il 3 luglio 1944. Colonne di tedeschi puntavano sul paese da ogni parte. Presa dal panico, la popolazione, quasi in massa, abbandonò l’abitato e si diresse verso Corte o giù nei fondovalle. Ovunque i tedeschi passavano, sparavano a scopo intimidatorio o per paura.
"Fu durante questa sparatoria iniziale che caddero le prime vittime. Maiano Antonio, padre di famiglia, raggiunto dalla mitraglia in località Euscio. Fu ferito al ventre per il che si trascinò faticosamente, aiutato da Capponi detto Tulalua, fino a casa ove spirò la mattina seguente; Basso Pietro,vecchio di 78 anni e . . . a fianco veniva atterrato Bronda Pietro di Triora, 53 enne … Sulla strada di Perallo cadeva Moraldo Giacomo ed il 73 enne Arnaldi Francesco".
Il parroco ed il Commissario Prefettizio tentarono di parlamentare con il comando tedesco senza alcun risultato.
"Agli spari si aggiunse il saccheggio. Penetrati nelle case i nazifascisti prescelsero gli oggetti di valore, vestiti, capi di biancheria; rinchiusero il tutto in valigie, in sacchi, in ceste, e I’asportarono. Nelle case bivaccarono, ruppero oggetti, insudiciarono. Urla e canti di ubriachi si alternarono tutta la notte con violente quanto inutili raffiche di mitragliatrice".
La casa Campoverde, in Via San Bernardo, dopo uno scoppio cominciò a bruciare. La scusa fu che vi si erano trovate armi.
"… Fattosi giorno, la soldataglia usciva dalle case ed invadeva tutte le strade, convertendo la pirateria in un vero carnasciale stomachevole: ubriachi fradici, indossando vesti femminili, cantando sguaiatamente e continuando a tracannare vino, i soldati si spargevano un po’ dovunque, pronti ai richiami che indicassero case di maggior bottino . . . I capi facevano comunella con la truppa e lo stesso capitano comandante non rimaneva indietro nell’opera dei gregari".
Il parroco, che troppo si interessava alla sorte dei suoi parrocchiani, fu rinchiuso in casa sua e guardato a vista.
"ll 5 luglio si iniziò con l’incendio della casa Caldani in località Gianchette. La motivazione era che vi avevano trovato armi".
I nazifascisti si consideravano “Padroni” ed il saccheggio veniva chiamato “Premio di guerra”. In mattinata fu ritrovato il corpo di Allaria G. B. Secondo, ucciso probabilmente la sera del 4 e buttato sotto strada vicino al fossato in località Fontanelle.
"Alcuni reparti, il giorno 5 luglio 1944, si accingevano a partire. Una trentina di camion, stracarichi di masserizie, biancheria, vestiti, asportati dalle case… Purtroppo però la tragedia non era finita. La truppa ladra aveva lasciato dietro di sé il reparto guastatori e questi si erano messi subito alla loro triste opera".
Il  parroco era andato a cercare i suoi parrocchiani nascosti. Quando giunsero. presso il paese sentirono scoppi in ogni casa. Nello spazio di un’ora il paese era tutto un rogo immane.
Il giorno 6 luglio i più ardimentosi cercarono di estinguere i fuochi e salvare il salvabile.
Nel loro ritirarsi i nazisti avevano fatto un’altra vittima: Allaria G. B., novantenne, trovato sepolto sotto le macerie della propria casa.
Durante questo rastrellamento fu compiuto dai nazisti uno degli episodi più esecrandi di criminalità.
Catturarono qua e là nove persone provenienti da Gavano. Due da Sanremo, nativi di Corte, ed uno di Badalucco. Tra esse una giovinetta di 16 anni. Rinchiusi in una stalla-scantinato, torturati, furono inzuppati di liquido infiammabile e bruciati. Dopo la loro morte fu fatta crollare su di esse, mediante tritolo, la casa. Le vittime furono scoperte quando i loro corpi ormai in putrefazione, segnalarono la loro presenza.
I loro nomi sono:
Allaria Olivieri G.B. di Gavano
Faraldi Enrico di Gavano
Faraldi Livio Antonio di Gavano
Moraldo Vincenzo di Gavano
Allaria Olivieri Gerolamo di Gavano
Aliaria Olivieri Giuseppe di Ant. di Gavano
Allaria Olivieri Giacomo di Gavano
Allaria Olivieri Giuseppe fu Antonio di Gavano
Moraldo Maria Caterina di Gavano
Anfossi Virgilio di Sanremo
Pastorelli Domenico di Corte
Donzella Angelo di Corte
Boeri Antonio di Badalucco.
don Ermando Micheletto, La V^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni” (Dal Diario di “Domino nero”  Ermando Micheletto), Edizioni Micheletto, Taggia (IM), 1975 

Molini di Triora, poco distante dal confine francese, era importante per i nazifascisti per la sua posizione strategica e l'aiuto elargito ai partigiani. Per tutti questi motivi, in occasione di un forte rastrellamento organizzato dai Tedeschi ai primi di luglio del 1944 per annientare le forze partigiane della provincia di Imperia, Molini di Triora era incluso nell'elenco dei paesi da punire e terrorizzare.
Il 3 luglio 1944 intorno a mezzogiorno si sparge la voce dell'imminente arrivo di truppe tedesche e la popolazione impaurita abbandona il paese, fuggendo precipitosamente. Gli abitanti si sparpagliano nelle zone limitrofe all'abitato, mentre il nemico investe il paese con due colonne convergenti da due direzioni (una scendendo dal Pizzo attraversando la frazione di Andagna e l'altra partita da Carmo Langan).
Verso le 17.30 le due colonne stringono il paese in una morsa. Cadono le prime vittime (Maiano, Basso, Bronda, Moraldo Giacomo).
Il parroco Don Ferdinando Novella e il Commissario prefettizio Carlo Viale cercano, a loro rischio, di trattare con il Comandante tedesco per indurlo alla clemenza sottolineando che non sono presenti formazioni partigiane e la popolazione è costituita da soli pacifici agricoltori. Malgrado le assicurazioni dell'ufficiale la sparatoria non cessa, anzi aumenta di intensità.
Occupato Molini di Triora, iniziano i saccheggi, le ruberie, le distruzioni e le gozzoviglie.
Il 4 luglio 1944 il parroco, dopo aver ottenuto il permesso dal comandante tedesco di uscire dall'abitato per andare a dar conforto agli abitanti fuggiti, per tre volte viene sempre bloccato dalle sentinelle.
Don Novella passando per il paese osserva inorridito gli effetti del saccheggio effettuato il giorno prima che non è ancora cessato, anzi inizia la distruzione e l'incendio di numerose case con la scusa di ritrovamento di armi da guerra da parte dei tedeschi.
Gravissimo il fatto avvenuto presso la Casa Campoverde in via San Bernardo (attualmente Via Nuova) - dal racconto del parroco Don Novella -: risulta che i nazifascisti avevano rastrellato dalle frazioni limitrofe 13 persone quasi tutti padri di famiglia, apolitici, laboriosi, tra i quali una ragazza di 16 anni (Moraldo Maria Caterina) rastrellata mentre portava le mucche al pascolo. Gli ostaggi furono rinchiusi in uno scantinato usato come stalla e dopo immancabili vessazioni si ipotizza che, dopo essere stati inzuppati di liquido infiammabile, furono bruciati vivi e quindi per occultare l'orribile delitto fu fatta crollare su di essi, con il tritolo, la casa. Furono ritrovati dopo quindici giorni dagli abitanti e dai parenti attirati dall'odore di cadaveri in decomposizione. Le salme furono sepolte nel Camposanto del paese.
Il 6 luglio 1944: non s'odono più scoppi e si placano gli incendi. La gente scende dalle alture e s'avvicina al paese. Molini di Triora si presenta in tutta la sua disperata desolazione: 104 case su 150 sono sinistrate ed interi gruppi di abitazioni sono crollati in blocco. La casa canonica è bruciata e con esso il suo archivio parrocchiale, il municipio è crollato sotto l'opera del tritolo, l'archivio municipale bruciato, distrutti l'oleificio, il mulino,l'ufficio postale, i due alberghi e la rimessa automobilistica Lantrua.
In questi orrendi primi giorni di luglio, gli altri piccoli centri non vivono molto più tranquilli del martoriato paese di Molini di Triora. Brucia Bregalla, spari su Andagna, su Creppo, alla Goletta, invasi Loreto, Corte, Cetta.
Ferro e fuoco anche nel Comune di Triora e le sue frazioni (2-5 luglio 1944). Reseconto finale dell'incendio: distrutte o rese inabitabili una settantina di case; cinquantadue famiglie restano senza tetto in un paese come Triora già spopolato dall'esodo. Alcune si sistemano presso i parenti; altre, che non possiedono nulla a Triora, s'allontanano per sempre.
Da “Storia della Resistenza imperiese” vol. II di Carlo Rubaudo (da pag. 177 a pag. 184 e pag. 193) e da “Il Martirio di Molini di Triora (3 luglio 1944 - 25 aprile 1945)” di Mons. Cav. Ferdinando Novella
Redazione, Episodio di Molini di Triora, 01-05.07.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia 
 
La popolazione di Molini fu aiutata dai paesi vicini con invio di viveri e vestiario. In settembre 1944 la calma ritorna perché un presidio partigiano veglia sul paese e sulla Alta Valle Argentina. Quando però i partigiani si devono ritirare in Piemonte, le truppe nazifasciste si insediano in paese.
"In novembre la permanenza dei reparti fascisti si fa quasi ininterrotta. Essi si insediano nelle poche case disponibili, facendone sloggiare i paesani: si fanno consegnare letti, materassi, stoviglie e viveri. … obbligano gli uomini a lavori pesanti… organizzano balli, obbligando, a mano armata, le fanciulle del paese ad intervenirvi ed inscenano il 2 novembre, giorno dedicato al ricardo dei morti, un vero carnasciale con schiamazzi, spari, ubriacature, a beffa degli affamati e terrorizzati abitanti".
Il prelievo di ostaggi è continuo e vessatorio. [...] Verso la metà di dicembre 1944 i nazisti vengono sostituiti da Granatieri Repubblichini, comandati dal capitano Cristin che colloca il suo comando in casa Daneri.
È lui, il presuntuoso, che la vigilia di Natale manda la circolare ai parroci, esigendo la lettura in chiesa, come è citato da me in un’altra parte. Ma fu anche autore di atti veramente criminali.
Tre giovani rastrellati dagli Alpini, i quali, incuranti della guarnigione di Molini [Molini di Triora (IM)], agivano per proprio conto, furono condannati a morte dal Cristin. La scena dell’esecuzione con i suoi preparativi crudeli e disumani fu vista da una buona parte della popolazione. […] "Allora il parroco si presenta al Cristin per chiedere la commutazione della pena, essendo i tre a lui noti come persone per bene. Il capitano risponde che ciò è impossibile e se vuole fare qualche cosa per essi può solamente annunziare ai condannati la sentenza irrevocabile e prepararli alla morte. Quantunque non ci sia nulla da sperare, il sacerdote tenta una seconda volta ed una terza, ma il capitano Cristin gli fa dire che attenda al suo ufficio di parroco e basta. I giovani accolgono la sentenza con pianti, si abbracciano tra di loro, protestano la loro innocenza, esibiscono la loro giovane età. Ma, confortati dal sacerdote, a poco a poco si calmano e si preparono da forti alla tragica fine. Si confessano, ricevono l’Eucarestia, quindi scrivono una lettera alle proprie famiglie. In esse, ognuno, per conto proprio, indipendentemente l’uno dall’altro, scrivono di andare verso la morte innocenti. Consegnano i documenti personali al parroco perchè li rimetta ai rispettivi parenti. Benché veda la situazione assolutamente disperata, il parroco porta le lettere al capitano Cristin e fa a lui notare la frase comune a tutti e tre “vado alla morte innocente”. Nel leggerla, il giustiziere sosta alquanto, poi, restituite le lettere dice di consegnarle ai rispettivi famigliari. Al parroco non rimane che accompagnare i tre giovani al luogo dell’esecuzione. D’altronde erano gli stessi a pregarlo di volerli assistere: “Venga almeno lei con noi”. Sono legate le loro mani, col filo di ferro, sul dorso e incolonnati tra due file di Cacciatori, quelli stessi che avevano eseguito il rastrellamento, il tragico corteo attraversa il paese per la via Grance e si porta nei pressi del cimitero in una fascia di proprietà di Adelina Sasso. Qui giunti sono disposti con la faccia rivolta verso il mare, prima però di alliniarsi, salutano ancora una volta il parroco. Un cacciatore interviene, li stacca dal parroco e li distanzia uno dall’altro, dieci centimetri circa. Quindi, dato da un sottotenente dei cacciatori l’ordine dell’esecuzione, una raffica di mitraglia li abbatte tutti e tre. Gli spari echeggiano giù fino al paese e si propagano lugubremente per tutta la valle. In ogni casa la gente, che era in attesa degli spari, rompe in singhiozzi. Le salme raccolte, dietro istanza del parroco, sono collocate in apposite casse e, poiché i caduti avevano espresso il desiderio di essere tumulati nel camposanto del proprio paese, ciò viene eseguito". Da una testimonianza di Don Ferdinando Novella, arciprete della Parrocchia di San Lorenzo Martire in Molini di Triora [ndr: dopo la pubblicazione di Don Micheletto, Op. cit. venne edito Cav. Ferdinando Novella, Il martirio di Molini Triora (3.07.44 - 25.4.1945), Comune di Molini di Triora, 2004]. Era il 16 gennaio 1945. Erano: Alberti Antonio, Verrando Domenico Quinto, Bova Giovanni, tutt’e tre di Agaggio Superiore. “Alcuni giorni dopo la suddetta esecuzione, il comandante Cristin, sfacciatamente, affiggeva un manifesto per il reclutamento dei giovani appartenenti alle classi dal 1914 al 1926, residenti a Molini di Triora. Redatto in forma altisonante e minacciosa, il manifesto ricordava i tre morti e terminava con le parole: Non avrete più pace”. Gli successe il ten. Renzo Barbieri delle Guardie Repubblichine, dominato da una paura indicibile."Fece costruire trincee stendere reticolati, alzare palizzate un po' ovunque, riducendo Molini una gabbia per le estese, quanto ridicole fortificazioni".  Il 17 febbraio 1945 per l’azione partigiana contro i guardiafili, in cui furono presi 10 repubblichini e tre tedeschi, furono rastrellati 20 ostaggi. ll comando tedesco ordinò il raduno dei parroci del Vicariato annunciando: se i tre tedeschi catturati non fossero stati restituiti, il comando si sarebbe sentito obbligato a far fucilare 14 banditi.  
Don Micheletto, Op. cit.

Barbieri Renzo nato a Golese (Pr) il 22 maggio 1916, Tenente e comandante di compagnia nel Raggruppamento Cacciatori degli Appennini
Interrogatorio del 4.9.1945: L’8 settembre mi trovavo quale S. Tenente di complemento nell’isola di Corfù presso il 41° Reggimento di Fanteria [...]
Verso la fine di novembre sono rientrato con la mia compagnia a Ceva ove sono rimasto sino ai primi di gennaio epoca in cui tutto il battaglione fu trasferito in Liguria ed io assegnato con la mia compagnia a Borgomaro, dove venne istituito un presidio da me comandato. Dopo circa dieci giorni di permanenza a Borgomaro sono passato con la mia compagnia a Molini di Triora. Effettivamente il Reggimento Cacciatori degli Appennini aveva il compito di effettuare rastrellamenti ma io non vi presi parte perché la mia compagnia aveva compiti di servizi interni. Alle mie dipendenze a Borgomaro avevo il Sottotenente Sacchetti, fervente fascista ed accanito antipartigiano il quale, di sua iniziativa, raccoglieva notizie ed effettuava fermi. Egli da solo si era arrogato il compito di certe operazioni di polizia né io potevo impedirglielo poiché il predetto era appoggiato dai comandi superiori. Una notte siamo partiti da Molini di Triora con l’intenzione di renderci conto della sicurezza del nostro presidio in relazione alla presenza di eventuali bande nei dintorni. A tale scopo pensammo di camuffarci da partigiani per attingere notizie. Faceva parte della spedizione anche il Sottotenente medico Corretti Francesco, accanito antipartigiani. Giunti in località S. Faustino, notammo una casa isolata e bussammo.
Ci trovammo in presenza di un signore che dichiarava essere un generale a riposo e di chiamarsi Mario Ferraroli. Il sottotenente medico Corretti gli disse che eravamo partigiani e gli chiese notizie su eventuali bande presenti in zona alle quali volevamo aggregarci. Il generale immediatamente spifferò che era sempre stato antifascista e genericamente disse che verso un determinato versante della montagna agiva una banda partigiana. Non avendo ottenuto altre informazioni ci allontanammo ma lungo la strada il Sottotenente Corretti mi fece osservare che bisognava provvedere al fermo del Ferraroli che si era dichiarato antifascista. Ritenni opportuno seguire il suo consiglio per evitare critiche al mio riguardo e mandai due militi a fermare il predetto generale. Il predetto venne trattenuto per due giorni in mia presenza da un tenente ed un maresciallo tedeschi e poi rilasciato. Ricordo che nell’aprile us, il Tenente Lazzari, alle mie dipendenze, si recò nella zona di Verdeggia per praticare accertamenti relativi al prelevamento di una pattuglia di militi. Il Lazzari ritornò portando circa dieci giovani che rastrellò nella zona ed accompagnò inoltre una certa Lanteri Maria e la figlia di lei, Rosa, perché il rispettivo marito e padre era stato indicato come partigiano. La Lanteri fu effettivamente interrogata in mia presenza dal tenente tedesco e dal Tenente Lazzari e fu picchiata con un frustino e minacciata con una pistola ma nego di averla io stesso minacciata o di averla malmenata. La Lanteri Maria fu poi rimessa in libertà mentre la di lei figlia Rosa fu trattenuta a lavorare presso il nostro presidio. Sono estraneo all’eccidio consumato dai tedeschi di cinque partigiani in Carpenosa. Escludo che miei uomini abbiano partecipato alla cattura ed all’uccisione dei cinque.
Nego di aver dato fra il 7 ed il 9 aprile us, ordini ad alcuni miei militi, mentre sostavo sulla piazza di Molini, di recarsi a prendere quattro individui a Carmo Langan e di metterli al muro. Non sono mai stato iscritto al PFR né al PNF.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 

Il 3 marzo 1945 a Grattino, frazione di Molini di Triora, minuscolo borgo della Valle Argentina, furono catturati, perché in possesso di armi, Quinto Verrando e Livio Maggi. I due partigiani furono rinchiusi a Molini di Triora in un scantinato, insieme al parroco di Molini Don Rodini e al ragioniere Zappa, accusato di risorse economiche alle bande che però viene presto liberato. I due partigiani vennero presumibilmente torturati. Dopo otto giorni i due giovani con le mani legate sul dorso furono condotti ad Agaggio Superiore, dove i Tedeschi pensavano fossero i partigiani, perché ne indicassero l'ubicazione precisa. Rifiutatisi di parlare, giunti in Pian Carré furono freddamente giustiziati con un colpo di pistola alla nuca.
Verrando morirà subito, mentre Maggi verrà lasciato agonizzante sul terreno. Soccorso da alcuni contadini, morirà dopo due settimane.  Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020

[n.d.r.: altri lavori di Giorgio Caudano: Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021;  La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944) (a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone), Comune di Pigna,  IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]

Nel mese di marzo gli ostaggi di turno subivano torture negli scantinati di casa Daneri e di casa Fognini.
Il 10 marzo 1945 il parroco veniva arrestato perché era salito sul campanile “per dar la corda all’orologio”,  scusa per fare segnalazioni ai banditi. Inoltre il diverso colore dei paramenti della messa, cambiato ogni giorno, era un messaggio ai partigiani. Venne rinchiuso nella cantina di casa sua. Fu liberato dopo molti giorni. Nella stessa prigione vennero rinchiusi due giovani partigiani: Verando Quinto di Agaggio e Maggi Lino di Genova, fucilati poi l’11 marzo presso Agaggio Superiore.
Il 18 marzo una ventina di ostaggi, prelevati dallo scantinato di casa Fognini, vennero condotti verso Taggia. Dodici venivano poi liberati e 6 fucilati o meglio mitragliati in una grotta sotto Carpenosa. Questi ultimi erano:
Lanteri Pierino di Verdeggia
Lombardo Calogero di Ravanusa (Sicilia)
Oliva Giovanni di Badalucco
Gamboni Pietro di Montello (Avellino)
Verrando Vincenzo di Agaggio
Cassini Vincenzo di Apricale
Il Verrando era il terzo morto della famiglia per cause belliche.
"Il Cassini era un vecchio cadente di oltre 72 anni dalla lunga barba bianca, mostrava numerose e profonde cicatrici dovute a sevizie e a torture. Fu accusato di rifornire olio alle bande partigiane. Niente di vero".
Il 14 aprile 1945 vengono rastrellati cinque uomini e mandati ai Ponti di Nava per lavori.
Il 19 aprile, dopo lo scoppio delle rocche di Drego, quasi tutti gli uomini validi vengono costretti, spinti come bestiame da lavoro, fin nei pressi di Drego per ripararvi una strada fatta saltare da bande partigiane.
Gli ultimi due giorni, il 24 e il 25 aprile 1945, sono giorni di inferno. La soldataglia, in ritirata, entra nottetempo nelle case; obbliga ammalati e poveri vecchi a cedere il letto; vi consuma pasti e porta via il rubabile.”
"Improvvisamente il presidio locale dei repubblichini, la sera del 25, lascia il paese. La poco gloriosa truppa, fedele e coerente fino all’ultimo all’insegna del ladro, cerca di improvvisare un mercato di tutta la mercanzia rubata; ma non trovando avventori, ammucchia il tutto e la da alle fiamme. Appiccano il fuoco anche ai rimanenti stabili delle caserme ancora intatti".
Ognuno lascia l’orma del suo operato. I nazifascisti lasciarono impronte infamanti, che non si cancelleranno più nel tempo e verranno perpetuate nella memoria storica.
Don Micheletto, Op. cit.

[...] Il giorno 18 marzo 1945, dalla prigione di casa Fognini strapiena di innocenti detenuti sul far della sera vengono fatti uscire una decina di giovani legati, al solito, con le mani sul dorso e incolonnati tra due file di tedeschi e vengono diretti, lungo la strada provinciale, verso Taggia.
Guai ai paesani che facessero solo cenno di riconoscerli e tanto peggio se osassero indirizzare una parola agli stessi! Il fucile sarebbe stato sempre pronto con lo sparo! Lungo la strada però uno o due dei prigionieri furono rilasciati. Quando il gruppo fu nei pressi della frazione Glori, si fece una seconda scelta, sicché non rimasero che sei. Questi, legati l'uno all'altro furono sospinti, nei pressi , alla imboccatura di una caverna. Venne piazzata una mitragliatrice e senza alcuna formalità falciati. Da lontano i pochi abitanti di Carpenosa (Molini di Triora) potettero assistere all'eccidio. Nei giorni appresso si poté avvicinare i corpi delle vittime e procedere al loro riconoscimento.
Econe il triste elenco:
Lanteri Pierino di Verdeggia (Triora)
Lombardo Calogero di Revenusa (Sicilia)
Oliva Giovanni di Badalucco
Gambone Pietro di Montello (Avellino)
Verrando Vincenzo di Agaggio (Molini di Triora)
Cassini Vincenzo di Apricale
Il Verrando, fratello di Quinto, era già stato fucilato il giorno 11 Marzo 1945; con i due fucilati i morti della loro famiglia raggiungevano la terna, poiché un terzo fratello era già morto soldato.
Il “Cassini” era un vecchio cadente, di oltre 72 anni dalla lunga bianca barba, mostrava numerose e profonde cicatrici dovute a sevizie e a torture. Fu accusato di rifornire olio alle bande Partigiane. Niente di vero.
Da “I Testimoni raccontano” a cura di Don Nino Allaria Olivieri (archivista Curia) pagg. 118 e 119 [...].
Roberto Moriani, Episodio di Carpenosa, Molini di Triora, 18.03.1945, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia 

mercoledì 16 giugno 2021

Partigiani a Pian di Bellotto

La zona di Monte Ceresa, comprensiva di Pian di Bellotto (Cian de Belotto), al confine tra il Savonese e l'Imperiese - Fonte: giambi@wikiloc

Già dall'8 settembre 1943, Silvio BonfanteCion»] è pronto e presente alla lotta e, fin dall'inizio, rivela spiccate qualità di uomo destinato a diventare una guida trascinatrice. Il curriculum di combattente della montagna è più che garante della sua validità.
Nel mese di giugno del 1944 ha ormai percorso in lungo ed in largo i nostri monti e le nostre valli. Quante azioni portate a termine! Con ogni mezzo, tritolo o mitra, ha già inferto gravi colpi ai nazifascisti. Ma, ciò che più conta, ha messo a disposizione le sue doti d'organizzatore con cui ha contribuito, in uno sforzo comune con gli altri combattenti maggiormente dotati, a creare l'ossatura di un esercito che, pur affamato e scalzo, infliggerà a Tedeschi ed a fascisti perdite ingenti (4).
Mese di giugno 1944: «Cion» è capobanda della «Volante». Progetta le azioni più rischiose con pochi coraggiosi che, di volta in volta, si sceglie. Gli esiti sono sempre positivi e soddisfacenti. Egli possiede, innate, le doti del comando.
Alto ed atletico, colorito bruno, capelli nerissimi ondulati, baffetti sottili, occhi neri e vivissimi, ispira una fiducia illimitata in tutti i suoi uomini che lo seguono in ogni azione, consapevoli d'essere ben guidati da un uomo che sa valutare perfettamente l'eventualità di ogni insidia ed avvertire la necessità di non rischiare in modo temerario oltre il lecito.
«Cion» sa farsi amare ed ammirare, anche se i rapporti tra comandante e semplici volontari non sfociano mai nell'eccesso di confidenza che spesso rappresenta, nella lotta partigiana, un fattore negativo poiché intacca quei principi di obbedienza e disciplina necessari quando si agisce nei pericoli.
Progettata l'azione, non ne rivela ad alcuno i particolari onde evitare che la leggerezza, od eventuali delatori, procurino informazioni al nemico, pregiudicandone l'esito e determinando perdite nelle fila partigiane. Tale prudenza è segno di maturità e di saggezza, se si considera che consistente e continuo è l'afflusso alle formazioni garibaldine di uomini, a volte sconosciuti e dei quali s'ignorano identità e, non raramente, gli stessi nomi. All'arrivo, ognuno è interrogato sulle proprie intenzioni e, alla risposta di voler far parte delle bande partigiane, è accettato ed entra in formazione.
«Cion» sa che il modo più idoneo per creare buoni combattenti è il battesimo del fuoco; perciò, via via, alterna i giovani nelle azioni affinchè prendano gradualmente confidenza col pericolo.
All'inizio gli uomini della «Volante» sono una ventina, forse meno; garibaldini reduci dalla prima gloriosa formazione di Cascione e qualche badogliano uscito vivo dalla tragedia di Val Casotto (5). E' gente avvezza ai pericoli e provata dalla dura lotta. Alcuni sono reduci dai campi di battaglia d'Albania, d'Africa, o di Russia.
La «Volante» di «Cion» pare l'elemento apposito per creare altissimo l'entusiasmo; è diventata ormai la formazione perfettamente organizzata e guidata da un capo meraviglioso, in quella zona verdeggiante, irradiata dal sole d'una splendida primavera, a due passi dal mare d'Oneglia e d'Albenga.
Un senso di profondo cameratismo regna nella banda. La democrazia più autentica, quella non condizionata da alcun fattore, è l'elemento predominante. Il rispetto ed il senso umanitario reciproco hanno trovato il loro regno. Esempi a non finire di generosità e rinunce, d'amicizia autentica tra Comandante, Commissario ed i garibaldini. E' il luogo ideale per chi sogna la fraternità.
Un partigiano deve recarsi a Stellanello e chiede il permesso al Commissario che glielo concede. Ma non è ancora soddisfatto e dice: «Federico, ho i pantaloni rotti, mi secca andare così in paese». - Federico [Federico Sibilla]: «Tieni i miei, ma fa' presto che io ne resto senza!». E, nell'attesa del ritorno, si avvolge in una coperta (6).
Le notizie provenienti dai fronti di guerra con i Tedeschi in ritirata, il pensiero dell'imminente fine del conflitto e le sistematiche azioni partigiane a catena, sempre vittoriose sui nazifascisti, le gesta di «Cion» ingigantiscono la figura del condottiero garibaldino, e creano un senso di invulnerabilità e d'invincibilità della «Volante». L'ammirazione cresce e si diffonde ovunque nelle valli e, in tutti i paesi e città, il nome di «Cion» esalta e crea altissimo il morale sia tra i suoi uomini che nella popolazione. Scrive «Magnesia» [Gino Glorio]: "...  «Cion» fu il più noto, il migliore dei capobanda garibaldini. Con coraggio freddo progettava le imprese più spinte e le portava a termine con un pugno di ardimentosi. Aveva tutte le qualità del capobanda, sapeva ispirare fiducia negli uomini che andavano con lui sereni anche verso l'ignoto, consci di essere ben guidati, che il capo sarebbe andato innanzi a loro esponendosi di persona. Sapeva trascinare i combattenti con l'esempio ma valutava esattamente le situazioni e non arrischiava oltre il necessario ...".
Noi esitiamo a sottoscrivere in assoluto il concetto espresso all'inizio del passo citato perchè, nel proseguimento della lotta, altri fior di combattenti sorsero nelle fila; anzi, già c'erano, ma è certo che «Cion» fu nella ristretta cerchia dei migliori. Non c'è dubbio che Silvio Bonfante sia stato un riconosciuto e naturale erede di Cascione: infatti, la I^ Brigata, dopo la sua morte, diventerà nel dicembre 1944 la Divisione d'Assalto Garibaldi ed assumerà il suo glorioso nome.
I Tedeschi e tanto meno i fascisti non osano avventurarsi, da lunga data ormai, per uno scontro armato in montagna da quando un gruppo della Ettore Muti, inoltratosi fino alla località Rossi, era stato annientato interamente e  seppellito sotto i castagni.
Morale alle stelle, dunque, e cameratismo profondo tra i partigiani della «Volante» ed afflusso continuo, in primavera ed estate, di giovani dalle città e dai paesi alle bande armate. È vanto d'ognuno far parte della formazione di «Cion», partecipare alla lotta contro i nazifascisti, contribuire alla rinascita del paese.
Inoltre, tra le fila partigiane non si corre il rischio d'incorrere nei crudeli rastrellamenti che i Tedeschi operano tra i civili nelle città e di essere imprigionati o spediti in Germania, o essere costretti ad indossare la divisa della Repubblica di Salò, o inquadrati nell'organizzazione Todt con tutti i rischi e le conseguenze future.
L'afflusso dei nuovi venuti alle bande tocca il ritmo medio di cinque­dieci unità al giorno; cifra notevole se si considera, come già ricordato, che i partigiani non possiedono caserme, magazzini, grosse scorte, armi e, tanto meno, munizioni per poter far fronte a necessità che, col tempo, diventano sproporzionate rispetto alle obiettive possibilità (7).
Le imboscate partigiane alle colonne nemiche, l'assalto ai presidii, la distruzione di ponti e vie di comunicazione, i colpi di mano per procurare viveri e munizioni, l'eliminazione delle spie, sono all'ordine del giorno nel mese di giugno. «Cion» per ogni azione da compiere alterna gli uomini per formare nuovi combattenti, ed imparare a conoscere d'ognuno le qualità, i pregi, i difetti; quasi per selezione naturale, ognuno scopre in sé le attitudini per lo svolgimento delle mansioni adatte alle proprie possibilità.
La certezza regna sovrana: nessuna sorveglianza intorno all'accampamento, nessun turno di guardia neppure durante la notte. In definitiva, è convinzione radicata nei partigiani di essere assistiti dalla fortuna; non resta che la battaglia finale e la discesa per liberare definitivamente le Città.
Nella prima decade di giugno, la Volante ha tanti effettivi che Cion decide di scinderla e di creare un nuovo distaccamento. Nasce così la «Volantina», come figlia e sorella della «Volante», il cui comando è affidato a Massimo Gismondi (Mancen). Questi, di «Cion», è l'amico fraterno che sempre affiancherà in ogni luogo ed in ogni rischio.
«Mancen», per coraggio, a nessuno è secondo, neppure a Cion, tanto che il suo nome sarà altrettanto temuto ed odiato nel campo nazifascita. I due Comandanti si diversificano nel carattere, perché «Mancen» è, come si suol dire, più alla mano, più pronto alla battuta popolaresca, al vociare robusto, allo scherzo entusiasticamente infantile. Ma è un generoso. Un giorno si presenta in ritardo al Comando e si scusa spiegando di aver dovuto fare il percorso a piedi nudi perché ha dato in prestito le scarpe ad un suo partigiano partito in missione!
Che «Mancen» abbia un Santo protettore in cielo lo possono dimostrare decine di fatti di vita partigiana; ma li riassume tutti quello del 25 luglio 1944 che accadrà nel corso della battaglia di Pievetta: quando, all'improvviso, un tiro violento ed incrociato di armi automatiche tedesche si abbatte tempestoso sulla colonna partigiana e tutti, anche i più coraggiosi, sono inchiodati a terra nell'attesa di momenti... migliori, «Mancen», in piedi, osserva i movimenti del nemico! (8)
Non a caso, d'altronde, questo giovane venuto alla montagna dalla sua Oneglia nel mese di marzo del 1944, come «Cion», Nino Berio (altro valoroso combattente e martire) e tanta altra gioventù, sarà uno dei protagonisti di quella «Squadra d'Assalto» che sorprenderà i nazifascisti e li sgominerà, il 5 di settembre, nella fatidica battaglia di Montegrande, divenuta celebre anche fuori dell'ambito regionale.
Mancen, in seguito, ricoprirà l'incarico di Comandante della I^ Brigata Garibaldi «S. Belgrano».
Nel mese di giugno, con la costituzione della «Volantina», la «Volante» che nel maggio era a Stellanello si trasferisce a Pian di Bellotto (9). L'accampamento è composto da tre stanze con funzioni di dormitori, deposito armi e cambusa-viveri. Ci sono, inoltre, la tenda per il Comando, qualche altra tenda-dormitorio, ed una radio sempre tenuta ad alto volume ed udibile a lunga distanza, in segno di sicurezza e di sfida al nemico. Pian Bellotto è alle falde del ripido pendio del monte Ceresa ed è circondato, ai suoi fianchi, da boschi e rocce. Su una di queste è piazzata una mitragliatrice. La «Volante» possiede un discreto armamento; ma le sempre nuove esigenze ne rivelano l'insufficienza anche se attraverso le quotidiane azioni i garibaldini, via via, si procurano le armi sottraendole al nemico. Citiamo un fatto narrato da «Magnesia»: «Mi disse un partigiano: "Vedi quel fucile «Mauser» con cannocchiale? Il Calabrese ne desiderava uno; poi ha saputo che un Tedesco di Andora lo possedeva ed allora, l'altro giorno, è partito da solo. È ritornato con questo"».
Il vitto, per quanto i rifornimenti lo permettano, è cucinato all'aperto: poche pietre disposte a focolare protette da qualche ramo. Il cuoco non può mai conoscere in tempo il numero dei presenti essendovi sempre nella formazione un via vai di partigiani, di passaggio o in arrivo. Comunque, la quantità di cibo è sufficiente all'alimentazione degli uomini.
Il numero dei componenti la «Volante», a seguito della creazione del distaccamento affidato a «Mancen», è ridotto ad una quarantina; ma nuovi giovani continuano ad affluirvi.
Verso passo San Giacomo ha sede una banda di badogliani e sovente, la sera, s'odono degli spari d'esercitazione.
La «Volantina» di «Mancen» prende posizione alla base del monte Torre ma dalla parte opposta a quella della «Volante», cioè sul lato sud. La zona è quella già citata di «Fussai» ed è soprastante ad Evigno, nel comune di Diano Arentino. «Mancen» controlla, perciò, la zona dello Steria e dell'Impero. In caso d'attacco nemico, compito della «Volantina» è l'occupazione di Pizzo d'Evigno a protezione della postazione «Volante», sul monte Ceresa. Il piano prevede, dunque, il dominio delle alture da parte dei garibaldini.
Aggiungiamo ora qualche particolare sullo svolgimento dello scontro così ben sintetizzato, come abbiamo visto, dal bollettino di «Cion».
Alle 7 circa del mattino è dato l'allarme, con una lunga raffica di mitragliatrice, mentre parte dei partigiani, già svegli, sta facendo colazione. Tutti afferrano le armi e si raggruppano intorno al casone principale dell'accampamento per prendere ordini. A quanto è dato supporre dalle raffiche che si susseguono, i nemici si spingono verso Stellanello. Non è ancora possibile conoscere la consistenza delle forze nemiche, sia riguardo al numero, sia all'armamento, sia anche alla direzione in cui agiranno. Contrariamente al solito, però, si intuisce che stavolta la cosa si presenta seria; ma la fiducia nella loro forza e la coscienza dell'andamento favorevole degli avvenimenti fino a quel giorno, preparano i garibaldini ad una lotta da cui, come sempre, i nazifascisti usciranno sconfitti.
«Cion», con gli uomini armati, parte incontro al nemico, mentre i nuovi arrivati, in maggioranza ancora privi di armamento e, conseguentemente ancora inutili sul fronte dello scontro a fuoco, si disperdono nei boschi vicini con l'intenzione di svolgere funzioni di staffetta e di collegamento fra le varie postazioni partigiane combattenti, e di avvistamento del nemico. Un gruppo di essi raggiunge la vetta del monte Ceresa. Le notizie si fanno sempre più precise: un'imponente forza di circa milleduecento nazifascisti, disposta su varie colonne, si avvia all'assalto delle due bande partigiane partendo dalle varie direzioni di San Damiano, Testico, Stellanello, Chiusanico, Pairola.
La situazione dei garibaldini diventa rapidamente molto difficile poiché è esclusa ogni possibilità d'aiuto da altre formazioni.
«Cion» stima la vetta del Ceresa la posizione più opportuna per la difesa: lassù, il nemico concentrerà i suoi attacchi che potranno essere contenuti poiché «Mancen» occuperà la vetta del Pizzo d'Evigno, come previsto nei precedenti piani, e proteggerà di lassù il fianco sinistro della «Volante».
Ma, come abbiamo già riferito, la «Volantina» è impossibilitata all'appuntamento. Sicchè quando il gruppo dei partigiani di monte Ceresa è fatto segno di raffiche di mitragliatrice dalla vetta di Pizzo d'Evigno, si comprende allora che, in quel luogo ci sono i Tedeschi.
(4) Molta parte dell'azione di «Cion», nel periodo fino al giugno 1944, è riportata nel 1° volume della presente opera, di G. Strato.
(5) La tragedia di Val Casotto è avvenuta nel marzo l944.
(6) Dal diario di Gino Glorio.
(7) Per dare un'idea sull'afflusso di nuove reclute alle bande partigiane, riportiamo il breve rapporto inviato dalla Volante al Comando della IX Brigata:
"Comando della IX Brigata d'Assalto Garibaldi, Distaccamento N° 1 (Volante)
         lì, 18/6/44
Impossibile preparare servizio giornaliero.
Continuamente affluiscono uomini di tutte le classi.  
Distaccamenti al completo, possibilmente formarne altri da queste parti (attendiamo
ordini). Formato tre bande locali a nostra disposizione.
Totale uomini 20 a Pairola, Riva Faraldi, Testico.
Attualmente presenti a questo distaccamento 80 uomini.
Azione Santa Croce rimandata perché rinforzata. Facilmente lunedì o martedì.
F.to Commissario politico Federico"
(8) Testimonianza di partigiani presenti allo scontro.

Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992

In quel periodo si cominciava a parlare della Volante, che era una banda in attività permanente, e del Cion che la comandava: questa banda la comandava a modo suo con tutti che gli ubbidivano: era un modo tutto speciale che bisognava vedere.
Il Cion capobanda era un giovanotto di fegato, che di risposte ai fascisti dopo quei bandi di chiamata ne aveva già date parecchie, ma tutte precise, diventando famoso per la sveltezza che aveva.
Tanto per spiegare come facevano, eccoli: a Capo Berta, proprio in mezzo alle pattuglie e ai reticolari, una volta aveva mandato il Brilla caposquadra, che intanto andasse per un lavoretto veloce; siccome il Brilla sapeva tirare di boxe, per non fare rumore fece a pugni con la sentinella tedesca prepotente, che non voleva capirla prima degli spari; e così quando spararono, lui aveva già sgombrato il passaggio per conto suo.
Ai Rossi la Volante tutta insieme, che non li fermavano nessuno, se la prese con quelli della Muti, che si credevano i padroni del vapore su e giù per la vallata; questi qui della Muti saccheggiavano intorno nei paesi da prepotenti, cantando all'armi all'armi siam fascisti; e non cantarono più.
Col Mancen che era il vice Cion, a Casanova ne catturarono tredici di un reparto di camicie nere in un colpo solo di passaggio; e anche quelli non ci passeggiarono più su e giù per la vallata, facendo i bulli.
Poi, dopo tutti questi colpi che facevano, il Cion e i suoi uomini tornavano alla base che avevano nei casoni di Pian di Bellotto; e lì da strafottenti aprivano la radio a tutta birra, che la sentissero dappertutto.
Lo facevano apposta per farsi sentire che c'erano nei loro posti, e che se ne strafregavano, e che ci rimanevano eccome; venissero pure.
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, p. 44

Leo è nato ad Andora (SV) il 4.6.1925. Alla fine del 1943 saliva al Casone du Beu, nel comune di Testico, dove sostavano nascosti i primi partigiani comunisti comandati da Felice Cascione. Leo aveva raccolto poche cose di vestiario e qualche provvista alimentare in uno zaino tedesco, che lo zio Quinto reduce dalla Russia aveva portato a casa, e si era incamminato verso i monti, fiducioso di trovare i ribelli. Giunto con fatica all’accampamento era interrogato in modo stringente, sulla sua identità e sulla parentela, specie da parte del partigiano Felice Spalla (Felì) futuro caduto in battaglia e da un altro ribelle. Leo non capiva la brusca inquisizione, non aveva riflettuto sul messaggio comunicato dal suo sospettoso zaino. Chiarita la provenienza e la famiglia, conosciuta proprio da Felì, anch’esso reduce con lo zio di Leo dalla guerra russa, dopo due giorni di permanenza nel Casone du Beu era comunque invitato a tornare a casa. La breve esperienza a contatto con il gruppo Cascione aveva infiammato Leo che tornerà per vivere con Silvio Bonfante (Cion), l’erede di Felice Cascione, l’epopea di Cian de Bellottu, le prime battaglie contro i nazifascisti e dopo la presenza nella Volante; infine l’adesione al distaccamento di Nino Agnese (Marco) fino alla Liberazione.
Ferruccio Iebole, Leopoldo Fassio “Leo”, un partigiano, I Resistenti, ANPI Savona, n° 1 - Aprile 2019 

Bonfante, Silvio, (Cion)
Arruolato, nel luglio 1941, nella Regia marina per obbligo di leva, viene destinato al deposito Crem di La Spezia e in seguito al distaccamento Marinai di Roma. Dopo l'armistizio rifiuta l'arruolamento nell’ esercito della Rsi e ad ottobre, rientrato in Liguria, si unisce ai primi partigiani dell'imperiese. Dopo aver operato nelle formazioni cittadine, nel febbraio 1944 entra a far parte del gruppo Cascione, ricostituitosi dopo la morte del suo comandate. E’ nominato comandante del 1° e poi del 3° distaccamento, entrambi dislocati al bosco di Rezzo. Nel giugno 1944 gli viene affidato il comando del 1° distaccamento Volante della 9ª brigata d'assalto Garibaldi, dislocato prima a Testico e poi a Rossi. Nel combattimento di Pizzo d'Evigno del 19 giugno, sostenuto interamente dal suo distaccamento, respinge l'assalto di una colonna tedesca, infliggendo al nemico pesanti perdite. A luglio, alla costituzione della divisione Cascione, ottiene il comando della 1ª brigata Silvano Belgrano. Guida numerosi attacchi contro presidi germanici e di Brigate nere a Ceva, Cesio, Pogli, Case di Nava e contro convogli della Wehrmacth sulla strada di Diano Marina e a Ponti di Nava. Comanda un attacco contro quattro postazioni della divisione San Marco che porta alla cattura di numerosi militari nella zona di Chiappa (val Steria), Roccà e Pairolo. Nella battaglia di monte Grande del 5 settembre guida l'assalto contro il reparto germanico che tiene la vetta, costringendolo a ritirarsi. Il 12 settembre gli viene affidato l'incarico di vicecomandante della Cascione. L'8 ottobre tenta, con un piccolo gruppo di uomini, l'impresa di catturare il contingente tedesco di stanza nel presidio di Vessalico. Rimasto ferito, viene ricoverato in un ospedale partigiano in località Valcona (Piaggia). Il 15 ottobre, nel corso di un grande rastrellamento della Wehrmacht, viene trasferito in barella, insieme ai feriti radunati a Vessalico e a quelli di Pigna, nell'ospedale da campo allestito a Upega. Due giorni dopo l'ospedale viene circondato dai tedeschi che, dopo aver attaccato San Bernardo di Mendatica, avevano puntato su Upega. Cion, per non cadere vivo nelle loro mani, si uccide sparandosi al petto. Nel dicembre 1944 gli viene intitolata la 6ª divisione d'assalto Garibaldi. Medaglia d'oro al valor militare.
(a cura di) F. Gimelli e P. Battifora, Dizionario della Resistenza in Liguria, De Ferrari, Genova, 2008 

domenica 13 giugno 2021

Era il 31 gennaio 1945

Capo Berta, Diano Marina (e San Bartolomeo al Mare) visti da Cervo (IM)

Federico [Federico Sibilla], che intanto era diventato commissario di brigata [n.d.r.: la I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"], ci fece notare che eravamo in troppi per rifugiarci nella casa della Tassi, e mi invitò a ritornare in uno dei rifugi di Besta [n.d.r.: località nel territorio del comune di Diano San Pietro (IM)]. Pensai di ritornare sui miei passi insieme al garibaldino Franco Piacentini ("Raspen"), che era sceso dalla montagna per procurare a lui ed agli altri dei viveri.
Questo invito di Federico non mi sembrava giusto poiché io facevo parte, a tutti gli effetti, del Comando della brigata e avrei preferito rimanere insieme ai miei abituali compagni. Comunque non feci discussioni e, insieme a "Raspen", racimolato un poco di pane, un poco di tabacco e qualche altra cosa da mangiare, incominciai ad avviarmi verso i rifugi. Sennonché, mentre scendevamo la scaletta della baita, incontrammo Giuseppe Saguato ("Pippo"), comandante del distaccamento "Francesco Agnese", il quale mi chiese dove stavo andando. Ascoltate le mie ragioni, mi invitò ad andare con lui, anche se Federico mi aveva suggerito di raggiungere i rifugi di Besta. Mi fece presente che nella casetta a Sant'Anna c'era posto anche per me.
Fu in quel momento che mi separai da Raspen e seguii Pippo. Ci accompagnava il sapista Gaetano.
Su suggerimento di "Moschin", altro compagno di lotta, per abbreviare la strada ci azzardammo a passare nei pressi della batteria tedesca dislocata in località "Ciapasso".
Probabilmente i soldati udirono il nostro scarpinare nella notte perché spararono alcune raffiche col mayerling, ma tutto finì bene.
Ci fermammo nella casa della Tassi tre giorni e due notti; fummo trattati da quella signora con ogni gentilezza; riuscii a fare conoscere a mia madre dove mi trovavo, per cui essa mi raggiunse con molti viveri, ma insieme ai viveri ci recò una grave notizia.
Rimasi stupito di vederla pallidissima in volto mentre parlava; ci informò che, mentre stava passando per Capo Berta per raggiungermi, aveva visto fucilare da tedeschi e fascisti il caro compagno Adolfo Stenca, capo dell'ufficio informazioni, partigiano, insieme ad una decina di altri nostri combattenti, prelevati dalle carceri di Oneglia.
Nella sua disperazione ci fece presente quanta paura aveva per la nostra vita.
Non ci rimaneva che farle coraggio dicendole che presto la guerra sarebbe finita e noi saremmo ritornati, tutti, alle nostre case.
Era il 31 gennaio 1945.
Andò via un poco più sollevata di animo, ma non del tutto convinta.
Nella notte fummo svegliati dal solito aereo solitario, soprannominavamo "Pippetto", il quale sganciò una bomba (forse per colpire i tedeschi del "Ciapasso") molto vicino a noi. Ci venne da pensare che non solo avevamo contro i nazifascisti, ma anche gli alleati angloamericani.
Il giorno successivo sentimmo dei colpi di mortaio che i tedeschi sparavano dal "Ciapasso"; un colpo finì davanti alla Chiesa di Diano Marina uccidendo tre bambini e ferendo alcune persone.
La terza sera - dopo che Massimo Gismondi ("Mancen"), comandante della brigata, aveva preso contatto con Giancamillo Negro, ufficiale della brigata nera, il quale si dichiarava amico della Resistenza e diceva che per noi non ci sarebbero stati rastrellamenti e dopo aver consegnato a "Mancen" stesso il suo armamento - partimmo per rientrare nella nostra zona.
Dormimmo in un'altra casetta, in località "Biascine", di proprietà dello Sgarbi, perché non ci fidavamo per niente dell'ufficiale fascista.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998 
 
Anche il garibaldino Guglielmo Bosco, catturato, verrà fucilato su Capo Berta di Imperia il 31 gennaio 1945... Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV. Da Gennaio 1945 alla Liberazione, 2005, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia  

31 gennaio 1945 - Dalla Sezione S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] della II^ Divisione "Felice Cascione" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Comunicava che "a Villatalla sono stati uccisi 30 partigiani dalle SS tedesche; a Capo Berta sono stati uccisi 11 partigiani prigionieri, Stenca, De Marchi, Manodi, Ansaldo, Garelli, Bosco, Bertelli, Agliata, Ardigò, Noschese, Delle Piane, arrestati il 9 gennaio su indicazione della donna velata, che era stata con loro in montagna...".
31 gennaio 1945 - Dalla Sezione SIM Fondo Valle della II^ Divisione "Felice Cascione" all'Ufficio informazioni e spionaggio della I^ Zona Operativa Liguria - Segnalava che "da una relazione fornita al commissario federale [fascista] di Imperia si desume che nella mattinata in corso un camion tedesco e 5 militari delle bande nere hanno circondato un casone in cui si trovavano diversi garibaldini e ne uccidevano 30. Sempre nella giornata in corso sono stati fucilati 10 garibaldini prigionieri lungo la salita di Capo Berta come rappresaglia all'uccisione di 2 tedeschi. Il mio cuore sanguina troppo per commentare. La causa di tutto è la famosa donna che ben conoscete... il morale delle truppe tedesche è bassissimo: moltissimi quelli che si spacciano per austriaci. Molti i polacchi che piangono, pensando che avendo servito il nemico non potranno più ritornare in patria".
31 gennaio 1945 - Relazione sul rastrellamento di Tavole - Villatalla - Nicuni, avvenuto il 31 gennaio 1945: tra i partigiani ci furono 6 morti e 3 prigionieri, "Insalata", "Oscar" e "Testa Bianca".
31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" allegato n° 24 circa le perdite subite nel mese di gennaio 1945: "il giorno 1 perirono Badano Ezio, Menini Lionello e Valduna Giovanni ad Armo; il 2 Emilio Zamboni, nativo di Dernis (Jugoslavia); il 3 Lorenzo Gracco; il 15 Italo Menicucci; il 20, a Bosco, Gino Bellato, William Bertazzini, Gospar, soldato russo, Rolando Martini e perirono in altre località Antonino Amato, Giuseppe Cognein *, Mario Miscioscia, Attilio Obbia, Franco Riccolano *; il 22 a Pogli Giuseppe Caimarini e Settimio Vignola; il 23 Germano Cardoletti; il 26 Ettore Talluri, Bruno Cavalli, Walter Del Carpio, Giuseppe Lobba, Oreste Medica, Ugo Moschi, Luciano Mantovani, Fausto Romano, tutti deceduti a Degolla e a Cappella Soprana Renzo Orbotti; il 27 a Ginestro Mario Longhi (Brescia) e Silvio Paloni (Romano). * Proposte assegnazione medaglia d'argento alla memoria a Giuseppe Cognein e a Franco Riccolano morti il 20 gennaio 1945.
31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione sui rastrellamenti subiti il 10 ed il 20 gennaio 1945 "nelle valli di Caprauna, Arroscia, Lerrone e Andora. Dopo l'arresto del comandante Menini ebbe inizio l'atteso rastrellamento nelle valli suddette. Il 10 gennaio una colonna di tedeschi, partita da Pieve di Teco, circonda Gavenola e rastrella il paese, catturando il garibaldino 'Carletto', il quale ha tradito i propri compagni facendo giungere i tedeschi presso la sede del capo di Stato Maggiore ma con esito per loro sfavorevole. Il giorno 20 gennaio avveniva il temuto rastrellamento a catena ad opera di forze della RSI e di alcuni reparti tedeschi. Furono attaccate formazioni della II^ e della III^ Brigata; a Bosco il nostro presidio venne dopo una battaglia catturato quasi al completo. Dei 16 garibaldini arrestati, 12 riuscivano a fuggire, evitando la fucilazione. Contemporaneo a questo attacco vi fu quello di Degolla, in cui i garibaldini ebbero 3 morti, 1 ferito e 8 uomini presi prigionieri. A Gazzo un'altra colonna, guidata dall'ex garibaldino 'Boll', catturò l'intera famiglia di 'Ramon', non riuscendo a sorprendere il nostro capo di Stato Maggiore. A Nasino il Distaccamento "Giannino Bortolotti" infliggeva alcune perdite al nemico e poteva ritirarsi. Il 26 gennaio il commissario di Brigata [III^ Brigata "Ettore Bacigalupo"] 'Gapon' [Felice Scotto] veniva attaccato dai soldati della RSI, ma infliggeva loro la perdita di 6 uomini. I soldati repubblicani occupavano Alto, Nasino, Borgo Ranzo, Borghetto d'Arroscia, Ubaga e Ubaghetta; il 21 gennaio occupavano altresì Casanova Lerrone, Marmoreo, Garlenda, Testico, San Damiano, Degna e Vellego. Il 22 gennaio il nemico abbandonava Borghetto d'Arroscia, Ubaga e Ubaghetta. Il 27 gennaio le forze avversarie attaccavano una squadra la quale riportava la perdita di 2 garibaldini. Durante il rastrellamento il capo di Stato Maggiore della Divisione insieme ai comandanti 'Cimitero' [Bruno Schivo] e 'Meazza' [Pietro Maggio] con 2 Distaccamenti attaccavano in più punti il nemico infiggendo la perdita di 13 uomini e subendo l'uccisione di 1 solo partigiano.
31 gennaio 1945 - Da "Elio" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Riferiva che "la Divisione [fascista] Monterosa prenderà il posto della San Marco" e che si stava provvedendo ad inviare ai partigiani in montagna viveri e medicinali mandati dal CLN.
31 gennaio 1945 - Dal commissario prefettizio e dal comando militare tedesco di Albenga (SV) alla popolazione - Il manifesto avvertiva che i permessi in scadenza il 31 gennaio sarebbero stati rinnovati solo in pochi casi e che l'oscuramento era obbligatorio dalle ore 18 alle ore 7.15 del giorno successivo; infine, compariva il monito a segnalare alle autorità i nominativi e ubicazioni dei "banditi".
1 febbraio 1945 - Dal Triumvirato insurrezionale del P.C.I. per la Liguria ai Comitati Federali del P.C.I. ed alle formazioni partigiane - Nel documento, si rendeva, tra l'altro, nota l'avanzata dell'Armata Rossa in Polonia, nella Prussia Orientale, nella Slesia e nel Brandeburgo; si sottolineava la necessità di preparare la liberazione di località e territori, nonché di approntare l'insurrezione dei grandi centri industriali; si rimarcava l'esigenza di discutere nei CLN il problema dello scatenamento al momento opportuno dell'insurrezione nazionale inglobando i lavoratori desiderosi di farne parte; si faceva un appello affinché ogni compagno fosse pronto a dare prova di spirito di unità ed a collaborare con i patrioti di ogni tendenza politica; si dava l'indicazione di costituire in ogni villaggio occupato dai partigiani una sezione di partito che fosse di ausilio a tutti i patrioti e della promozione da parte delle SAP di scioperi generali per il pane, per i viveri, per gli indumenti e per la fine dell'oppressione nazifascista.
1 febbraio 1945 - Da "Citrato" [Angelo Ghiron] alla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava la cifra da chiedere "per l'affare Faravelli"; gli arresti di alcuni esponenti della Resistenza e del PCI di Imperia, avvenuti dietro intervento di una spia detta "La Francese" o "Primula Rossa", una donna italiana, che era stata tra i partigiani e che parlava bene il francese; la prossima diminuzione della consistenza dei presidi tedeschi nella valle di Cervo.
3 febbraio 1945 - Dal commissario prefettizio di Albenga ai podestà di Ortovero, Villanova d'Albenga, Casanova Lerrone, Vendone, Nasino, Castelbianco, Castelvecchio, Zuccarello, Cisano sul Neva e Garlenda - Trasmetteva l'ordine della Feldgendarmerie di fare rientrare nella Brigata Nera di Albenga le giovani reclute che, appena arrivate all'arruolamento, si erano allontanate dalla caserma, perché passibili di fucilazione come "banditi".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

martedì 8 giugno 2021

Questi rastrellamenti uno dopo l'altro, che così a questo modo non ci sono mai stati


Le prime avvisaglie del poderoso rastrellamento, che durera' quattro giorni, incominciano a manifestarsi il mattino del 4 settembre 1944.
La massa d'urto nemica raggiungerà nello scontro il suo momento critico e decisivo dopo il mezzogiorno del 5, quando una squadra d'assalto garibaldina, conquistata la vetta del Monte Grande, riuscirà a bloccare l'accerchiamento che oramai stava per chiudersi su più di un migliaio di combattenti partigiani del ponente ligure. 

La sera prima, l'agente “argentino” (anziano ragioniere di Borgoratto [Lucinasco (IM)]), che riusciva ad avere notizie sul nemico quasi sempre esatte, invia una staffetta munita del piano tedesco di attacco, che prevede un impiego di circa 8000 uomini, a Giacomo Sibilla (Ivan), comandante del II° battaglione (IV^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Elsio Guarrini" della II^ Divisione d'Assalto "Felice Cascione"), dislocato alla Cappelletta del Monte Acquarone [Lucinasco (IM)], con i Distaccamenti 5° e 6°.

Conscio dell'importanza della notizia Ivan corre a Villatalla [Frazione di Prelà (IM)] dove è gia' installato il comando della divisione e l'ispettorato di zona. Consegna a Curto [Nino Siccardi, comandante della II^ Divisione] il foglio dei piani su cui tra l'altro è scritto: “... pare che 8000 tedeschi abbiano intenzione di circondare a attaccare i partigiani imperiesi...”

Curto rimane incredulo. 
Ivan ritorna indietro per raggiungere il suo battaglione e marciare su Oneglia. In fondo alla scala dove è  installato il comando, incontra pure l'ispettore Simon [Carlo Farini, Ispettore Generale del Comando militare Unificato Ligure] a cui spiega quanto ha saputo.
È proprio in quel momento che giunge una donna ansante per la corsa fatta, portando la notizia che i tedeschi sono già ai Molini di Prelà. Allora Ivan risalito alla Cappelletta e raccolti i suoi uomini con una marcia forzata si trasferisce a Prati Piani, mentre il 7° Distaccamento “Romolo” si sposta da Ville San Pietro a San Bernardo di Conio [Frazione  di Borgomaro (IM)].

In giornata, la V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione è la prima a percepire quanto sta accadendo e riesce a sganciarsi in tempo senza subire perdite.

Invece la IV^ Brigata, che nelle prime ore del mattino del 4 era scattata all'attacco verso la costa, e che aveva scorto da Collabassa, tra Pontedassio (IM) e Montegrande [località di San Bernardo di Conio], lungo le strade procedenti verso il nord, colonne tedesche con mezzi motorizzati, in serata e nella notte tra il 4 e il 5 disorientata e schiacciata da più parti, è obbligata a ritirarsi dalla Val Prino.

Uniformandosi all'ordine ricevuto dal Comando a mezzogiorno, ripiega in pessime condizioni di visibilita' sulla I^ Brigata ["Silvano Belgrano"] a San Bernardo di Conio. Però è necessario trattenere i tedeschi per qualche ora sotto il paese di Villatalla per dar modo alla Brigata di ritirarsi completamente, evitando di essere agganciata. 
Per questo compito non facile si prestano Curto, Giulio [Libero Remo Briganti, commissario della II^ Divisione], Simon e altri uomini del Comando, per la posizione che occupavano in quel momento, dominante le due strade di accesso al paese (mulattiera e carrozzabile) le cui conformazioni rendevano il movimento dei tedeschi lento e circospetto. 
Nel pomeriggio questi comandanti, quando non restava loro altro da fare che ritirarsi e raggiungere le formazioni, riescono a sganciarsi e ripiegare. 

Prevedendo un inseguimento immediato e con lo scopo di coprire alcune forze esaurite della IV^, la I^ Brigata si schiera su posizioni difensive nei pressi delle colline intorno a Montegrande.
Invece il Comando della Divisione, quelli delle Brigate I e IV e il Distaccamento d'Assalto "Giovanni Garbagnati", comandato da Massimo Gismondi (Mancen) prendono posizione presso San Bernardo di Conio e il Battaglione Lupi, comandato da Eraldo Pelazza, prende posizione presso il passo della Mezzaluna.
Partigiani dei distaccamenti della IV^ Brigata, ritiratisi dalla Val Prino, giungono a San Bernardo di Conio al tramonto, portando drammatiche notizie: colonne di tedeschi avanzano da tutte le direzioni, incendiando i casolari che incontrano. Si stenta a credere a tutto ciò. 

Mentre gli alleati avanzano da Ventimiglia lungo la riviera, come possono gli avversari perdere tempo in rastrellamenti? 
Curto, Cion [Silvio Bonfante, vice comandante della II^ Divisione], Giulio, Simon non riescono a rendersi conto della situazione. 
Ma vedendo quelli della IV^ Brigata affluire ininterrottamente sulle posizioni della I^, sono seriamente preoccupati. Ma la notte trascorrerà senza che si verifichino gravi episodi.

I tedeschi si spingono su Borgomaro, occupano la zona di Moltedo, raggiungono il paese di Carpasio e dilagano nella Valle di Triora. Da Pieve di Teco si spingono su Pornassio e su San Bernardo di Mendatica. 

La trappola è pronta; scatterà il mattino successivo.

Chiara, la moglie di Curto, infermiera nell'ospedale partigiano di Valcona, informata della terribile minaccia che incombe sulle formazioni comandate dal marito, parte in cerca del comandante Martinengo [Eraldo Hanau, del Gruppo Divisioni Alpine del comandante Mauri] che ha nelle bande complessivamente duecento uomini rimasti fuori dall'accerchiamento.
Incontrato il comandante alle Navette, Chiara non riesce a convincerlo a portare aiuto agli accerchiati.  
Martinengo non osa rischiare l'incolumità dei suoi uomini nell'impresa disperata di tentare di aprire un varco ad una massa di uomini già sbandati, non preparati a un simile intervento e che, di conseguenza, non avrebbero appoggiato l'azione dall'interno del cerchio. Martinengo conclude il suo discorso dicendo che Curto, in qualche modo, se la sarebbe cavata ugualmente.

All'alba del 5 Settembre i nazifascisti iniziano l'attacco generale per stroncare definitivamente la resistenza imperiese.

Danno la sveglia le prime raffiche di mitra verso le 5 del mattino.
L'avamposto garibaldino al passo della Teglia, investito da forti pattuglie di avanguardia nemiche che con i bengala illuminano a giorno il teatro della battaglia, mette in allarme i Distaccamenti circostanti.
Sfondata la difesa partigiana in direzione del crinale che da nord ovest conduce alla vetta del Montegrande, i Tedeschi occupano quest'ultima piazzandovi i propri mitragliatori.

Regnano l'ansia e il fermento nei casoni dove sono dislocati i Comandi. Tutto viene disposto per il combattimento ravvicinato poichè, per quanto informano le staffette che giungono da ogni parte, i tedeschi si trovano vicinissimi. Hanno investito in pieno la zona da Colla d'Oggia, da Monte Grande, dal bosco e non c'è via d'uscita. Hanno occupato anche il passo della Mezzaluna e tutta la cresta montuosa che circonda il bosco di Rezzo a nord e a ovest, fino a Prearba.
Dalle posizioni di Montegrande il nemico è in grado di controllare e di battere il raggruppamento partigiano a San Bernardo di Conio.
Col fuoco intenso delle mitragliatrici pesanti può colpire le colonne di muli, disorganizzare ogni resistenza, ogni tentativo di sganciamento o di difesa.

Curto raduna Giulio, Simon, Cion, Giorgio [Giorgio Olivero, tre mesi dopo comandante della neo-costituita Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] e gli altri componenti il comando divisionale, viene tenuto un consiglio d'urgenza per esaminare la situazione profilatasi in tutta la sua gravità e, anche se può sembrare disperata, viene presa la decisione di attaccare Montegrande per conquistarlo e così dominare dall'alto tutta la zona e quindi spingere a destra per aprire un varco ai circondati verso nord ovest; oppure (ed è quello che si verificherà), bloccare il nemico sulle posizioni raggiunte per dar tempo ai garibaldini di disperdersi nei monti della Giara e altrove possibile, prima di rimanere agganciati in un mortale combattimento.

Mentre due mortai partigiani prendono sotto il fuoco la cima del Montegrande, Mancen con tredici volontari inizia la scalata del monte per conquistare la posizione tedesca. Non solo questi uomini sono carichi di armi, ma anche di ansia tremenda perché sanno bene a cosa vanno incontro, però al di sopra dei loro stati d'animo sta la decisione, consci della responsabilità di avere nelle proprie mani la vita di centinaia di uomini. Quasi alla cima del monte, i volontari, sviluppando un fuoco intenso, attaccano la posizione tedesca e la conquistano. Il nemico si ritira abbandonando armi, materiale ed un mulo carico con due casse di cottura. I garibaldini, catturato un tedesco, corrono oltre, inseguendo il nemico fin quasi al passo della Fenaira.
Si creano così le condizioni per guadagnare molto tempo, dato che il nemico, disorientato dall'azione partigiana, blocca i suoi movimenti. L'esercito scalzo può salvarsi perchè l'obiettivo strategico prefissato dal comando è stato raggiunto. I distaccamenti possono iniziare lo sganciamento e disperdersi nei boschi, al coperto dall'offensiva nemica, verso basi più sicure.
La dispersione delle brigate I^ e IV^ occupa tutto il pomeriggio del giorno 5 e la notte successiva. Il tempo peggiora, scrosci di pioggia e banchi di nebbia investono le cime dei monti, un uniforme grigiore avvolge ogni cosa. Nella notte i muli vengono disseminati per le stalle di Rezzo e per le località vicine.
Il Battaglione Lupi riesce a spostarsi verso nord incolume.
Curto e il comando - scrive il partigiano Gino Glorio [Magnesia] in un suo diario - vedono e comprendono che è impossibile pretendere ancora forza dal morale e dal fisico dei combattenti. Sarebbe necessario dare loro un poco di cibo, ma i magazzini di Case Rosse sono andati perduti e la pioggia impedisce di accendere il fuoco. Parecchi distaccamenti, che avevano trascorso il giorno in tre marce continue, sono senza cibo da 48 ore, nella notte del 5 i partigiani accerchiati non possono andare a dormire nei casoni che il nemico in rastrellamento può incendiare... intuiscono che bisogna aprofittare del buio per uscire dall'accerchiamento. Con questo intento le formazioni si sciolgono, con la prospettiva di riunirsi altrove, cessato l'accerchiamento. Così avviene. La mattina del 6 i tedeschi, ricevuti ulteriori rinforzi, iniziano la terza fase del rastrellamento, occupano borghi e punti strategici, cercano di chiudere il sacco, ma ad un certo momento si accorgono che il sacco è vuoto. I partigiani, dopo una drammatica ma brillante ritirata strategica basata sull'individuale, riescono a mettersi in salvo. I tedeschi, durante i loro movimenti, incendiano tutte le baite che incontrano, da ogni parte si innalzano colonne di fumo. Tre partigiani, catturati nei dintorni, vengono fucilati a San Bernardo di Conio.
Gli unici uomini ancora nella zona del rastrellamento sono Curto e gli appartenenti al comando della Divisione, rimasti fino all'ultimo per cercare di controllare l'esecuzione dello sganciamento. Vengono sorpresi all'alba. Riescono a rifugiarsi in un casone ubicato cinquecento metri sopra la chiesetta della Madonna della Neve di Rezzo.
Il loro numero ridotto (sessanta uomini, comprese tutte le staffette dei vari distaccamenti e squadre), permette loro di occultarsi, evitare la cattura e l'annientamento.
Però solo per un caso fortuito non vengono scoperti.
Come previsto, le colonne nemiche frugano i fienili, le baite, i casoni. San Bernardo di Conio è dato alle fiamme, da ogni parte del bosco si innalzano colonne di fumo. Ad un certo momento sette Tedeschi si dirigono verso il casone dove è occultato il comando divisione. Quando sono scorti è troppo tardi per fuggire. Che fare? Si può sperare non entrino? No, perché essi avanzano proprio verso il casone. E allora? Allora il garibaldino Francesco Alberti (Monte), maniscalco di Conio, si offre, andrà lui, vedrà se potrà convincerli e fermarli. E' un poco anziano, quarantacinque anni, vestito da contadino, lascerà le armi nel casone.
La partita è disperata, se i Tedeschi si accorgono dell’inganno, la sua fine sarà atroce, e come potrà lui ingannarli se conosce a stento la lingua italiana?
Ma i compagni, prima di essere presi, spareranno e i loro colpi gli eviteranno una fine penosa.
Il volontario esce, richiude la porta, scende pochi metri, si ferma presso una vigna a sfogliarla.
I compagni, con il fiato sospeso, osservano attraverso le fessure della porta.
I tedeschi scendono, si fermano, chiamano con le loro voci gutturali.
Il partigiano si alza, viene circondato, discute, dal casone non si afferrano le parole.
I tedeschi gesticolano, indicano ripetutamente la casa, poi il gruppo si avvicina: non c’è dubbio, vengono.
I partigiani si schierano a semicerchio intorno alla porta, puntano un mitragliatore.
Se quelli entrano, una raffica e si balza fuori, qualcuno forse potrà salvarsi.
Quanto impiegheranno a giungere fin qui?
Un minuto forse, ma può darsi che prima circondino la casa o che piazzino una mitraglia contro la porta o che attendano rinforzi, o che brucino il casone senza entrarci.
I minuti passano eterni, che sarà successo?
I partigiani si accostano all’uscio: i tedeschi sono sempre lì fuori, ridono, parlano, che fanno?
Si guarda tra una tavola e l’altra: sono sempre lì a pochi metri che mangiano mele selvatiche, alcuni raccolgono frutti sugli alberi di mele che crescono presso il casone, gli altri sono seduti sull’erba.
Si potrebbe far loro una sorpresa balzando fuori all’improvviso: i tedeschi non sarebbero in grado di reagire perché, è evidente, non pensano di essere osservati.
L’idea è buona, se ne potrebbero uccidere parecchi, per poi disperdersi nel bosco.
È buona, ma non si può: i tedeschi che sono un poco più in basso hanno un ostaggio prezioso, il compagno che ha rischiato per tutti, più di tutti.
Il tempo passa e il nemico è sempre lì fuori. E se qualcuno vuole provare ad entrare?
Riposatisi, i tedeschi si alzano prendendo in mezzo il partigiano che era uscito dalla casa e se ne vanno verso Rezzo.
Lui aveva detto loro di essere un contadino che era in quel momento uscito dal suo casone, quindi a Rezzo i tedeschi chiesero agli abitanti se lo conoscevano, se era un bandito o realmente un contadino del luogo.
La gente confermò le parole del prigioniero: i tedeschi lo trattennero per qualche ora, poi lo rilasciarono... 
Francesco Biga, U Cürtu. Vita e battaglie del partigiano Mario Baldo Nino Siccardi, Comandante della I^ Zona Operativa Liguria, Dominici editore, Imperia, 2011

Montegrande - Fonte: Mapio.net

Riproduzione in un Notiziario - Fonte: Fondazione Luigi Micheletti - della G.N.R. di un documento interno dei garibaldini, ma caduto in mani repubblichine

San Bernardo di Conio, Frazione di Borgomaro (IM): memoriale della battaglia partigiana di Montegrande del 5 settembre 1944 - Foto: Mauro Marchiani


Qui in Liguria invece, schiacciati su terreno poco e gramo di confine, le armi bisogna sgraffignarle ad una ad una, con dei colpi di mano; qui è un'altra guerriglia che dura più accainata, a raspare sempre nei gerbi di tutti i giorni uguali.
Ma a pensarci o no è lo stesso, perché tanto non si può sapere com'è la faccenda o come si metteranno le cose andando avanti col tempo che passa: voglio dire se si può cambiare sta faccenda sì o no; si sa soltanto che ogni giorno è peggio, e avanti così.
Bisognerebbe sapere invece, come la mettono laggiù al quartier generale angloamericano, per potersi regolare suppergiù; epperciò si rimane sempre così nell'incerto, con tutti sti bruttezzi che andando gli dicono dietro.
La radio la sentono al comando, ma quando funziona la dinamo solo di tanto in tanto: va bene lo sfondamento di Cassino l'occupazione di Roma lo sbarco in Normandia e proprio lì in Provenza a due passi, che quasi quasi manco te lo credi; ma non te lo dicono sti merdosi che adesso qui è ancora peggio, con più raffiche di prima.
Non te lo dicono perdio, di questi rastrellamenti uno dopo l'altro, che così a questo modo non ci sono mai stati.
E allora, anche se di là è finita, non te ne frega proprio un tubo di saperlo sì o no; dunque non serve a un piffero nemmeno sta menata della radio, che un po' la senti e un po' non la senti più per via della dinamo, perché è solo una grande fregatura; ed è inutile perdere il tempo a lamentarsi; eppoi chissà perché sono sempre lì a sfrugugliarti, un accidenti che se li porti via.
Fanno presto loro coi ponti caserme ferrovie impianti centrali depositi e tutto il bataclan da far saltare, mettendoci l'esplosivo al posto giusto; fanno presto a dirlo per radio, dicendoti anche forza patrioti sabotate ancora di più, che saranno lì a momenti i liberatori: ma invece non è vero, macché.
Sono a Mentone dice radio Algeri; Italia combatte dice a Ventimiglia; radio Londra addirittura che passeggiano già coi partigiani, tra Bordighera e Sanremo. Tu adesso li senti sul serio ste carogne che te lo dicono e ti tocchi se ci sei, se è prnprio vero o se sei scemo; ma loro sì, o lo fanno apposta o sono propriamente ciucchi, perché è vero che te lo dicono e te lo ripetono, proprio come se fosse vero.
Eppure, va a sapere com'è, anche il comando però dice chissà, forse sarà vero; e così anche questi qui, ci fanno la figura dei fessi proprio uguale, e tutti insieme. Eppertanto, danno subito l'ordine incredibile, tutti giù nel bosco di  Rezzo; tutti insieme senza discutere e con la roba per fare più presto.
Una trappola così precisa fatta apposta, i partigiani non l'avevano mai vista da nessuna parte; non l'avevano mai vista né sentita dire.
Quella volta, c'erano tutti concentrati sotto il tiro dei tedeschi nei cespugli carichi di brina prima dello spuntar del sole; al mattino presto, su tutte le creste intorno ben bene all'ingiro, c'erano già in agguato fascisti e tedeschi da tutto l'universo.
Colonne motorizzate, durante la notte, si erano già messe in postazione collegandosi ai valichi; poi fu rastrellamento all'ingrande, completamente circondati in cresta e in fondovalle.
Qui adesso è così mondocane, e chissà com'è successa questa porca bidonata a più di mille uomini tutti insieme concentrati in questa trappola; sì che lo diranno in parecchi modi dopo, con la radio e senza: ma adesso è così e basta, e non serve dirlo in un modo più che in un altro, com'è.
44. Adesso serve soltanto non girarti in questa trappola della malora, perché tirano incrociati sui passi.
Con le mitraglie puntate, sbarrano dal Colle d'Oggia al Montegrande, per collegarsi con la Mezzaluna e il Prearba, chiudendoti nel cerchio che così non ci scappi più; non fai manco in tempo a capire come succede, che già ti sparano addosso precisi rastrellando il bosco passo passo alla tedesca, con tutto l'occorrente.
Ecco perché dunque, anziché star lì fermo, ti devi muovere a tutti i costi; anche se ti sparano addosso e non capisci; ma se allora devi rigirarti così incastrato sotto tiro, ecco che tanto vale buttarti a casaccio la va come la va, sennò fai la fine del topo.
Se non vuoi farla, chiudi gli occhi e vattene a ramengo te con tutti i tuoi stracci, che più fottuto di così non si può assolutamente; cosa te ne fai adesso di sapere come sarà dopo andando; adesso non ti serve manco più sapere com'è sul momento, tanto ci vedi benissimo che ci sei proprio incastrato.
Te lo dico io adesso com'è: è che tu te ne vai imprecando, sotto le raffiche più che puoi, come ti viene in gola con tutta la rabbia che hai dentro, rigirandoti col pericolo che c'è; tu te ne vai con tutta questa rabbia della trappola di morte e non te la spieghi, quando invece credevi di scendertene al mare cantando, avendo finito di fare la guerra.
Così, loro sparano e anche tu spari tutto più che puoi, con tutta la scalogna che ti capita, in questo andartene balordo sotto le raffiche; alé, ten e vai dritto, tanto è lo stesso in salita o no, al Montegrande; perché loro sono già lassù e tu li devi stanare, altro che balle.
Tutte ste cose che dici adesso però, standotene seduto comodo a raccontarle dopo tanto tempo, allora non le pensavi nemmeno, mancandoti il fiato; allora te ne andavi sotto le raffiche e basta, non essendoci assolutameme il tempo, con tutti quegli spari sempre di più da tutte le parti.
Ma ecco che sempre più balordo, in mezzo al putiferio, ti accorgi finalmente dei sanmarchini che sparano da forsennati; per la miseria se te ne accorgi che ci sono anch'essi, coi mortai puntati sul Montegrande: a sparare come capita capita, e non ti sembra vero.
Tu non lo capisci come fanno a trafficare con sti mortai, anche senza i congegni di puntamento, soltanto col filo a piombo; il fatto sta però, che li sparano in riga tutti giusti, sti colpi sui tedeschi l'un dopo l'altro, sempre di più.
Così, tutti insieme, quelli del Mancen che erano già partiti, con gli altri a sparare; tutti si arrampicano in tutti i modi col fiato grosso al Montegrande, e intanto coi mortai aprono il varco.
I sanmarchini mortaisti al coperto o sul pulito, anch'essi salgono di prepotenza tra i cespugli, e  tutti  insieme  alla  fine occupano  la  cima  del  Momcgrandc, ripulendola ben bene all'ingiro.
Cosicché quella volta, di lassù, i tedeschi contro i partigiani non ci sparano più, mentre quelli del Mancen gridano - bona né.
Poi siccome gli angloamericani, quella volta glielo hanno fatto capire ai partigiani di strafottersene, prendendoli anche in giro; da soli nel bosco adagio, dopo quell'assalto, gli sbandati ritornano ai posti di prima come se niente fosse: però da quella volta, i garibaldini e i sammarchini si capiscono di più; i tedeschi invece, mollano la presa perché non ce l'hanno fatta manco stavolta; eppure gli era capitata l'occasione eccezionale.
Epperciò, i partigiani ricominciano dal principio; ma senza più stare a sentire via radio, cosa dicono dal sud quei capatazzi del cavolo; e d'ora in poi la guerra se la fanno in proprio da sbandati che tanto è lo stesso, mondocane.
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, pp. 67-69

Ettore Bacigalupo. Nato a Chiavari (GE) il 13 luglio 1924; allievo meccanico; vice comandante del Distaccamento "Angiolino Viani". All’alba del 5 settembre 1944 i tedeschi e i fascisti iniziano l’attacco generale per stroncare definitivamente la Resistenza imperiese. Il pronto intervento dei garibaldini sorprende il nemico e permette al comandante Belgrano di organizzare la difesa e, valutata la situazione, ordina alle altre squadre di arretrare su posizioni migliori. Nel tentativo di recuperare un mitragliatore abbandonato cade il caposquadra Ettore Bacigalupo. Il 15 settembre 1944 il Comando divisionale propone il conferimento alla memoria della medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione: "Avvertito che una postazione attaccata dai Tedeschi aveva perduto il mitragliatore, si slanciava al seguito del comandante di distaccamento al contrattacco per recuperare l’arma. Accolti nel tentativo dalla violenta reazione del nemico ormai attestato sulla posizione perduta, i garibaldini persistevano sinché, visto inutile ogni tentativo, iniziavano il ripiegamento. Ettore Bacigalupo, con le lacrime agli occhi per la perdita di quel mitragliatore tedesco da lui conquistato alcuni giorni prima, non volle desistere dall’impresa. Riportatosi sotto la postazione nemica l’attaccava nuovamente con l’audacia dei forti. Lanciatosi improvvisamente contro i Tedeschi dal riparo che aveva raggiunto, imbracciando un mitragliatore “Octis”, riusciva a far tacere la mitragliatrice nemica, ma, colpito da una raffica di machinenpistole, cadeva esamine. Il suo corpo fu poi ritrovato deturpato dalla rabbia nazista. Monte Grande (Rezzo-Imperia) - 5.9.1944"
Redazione, Arrivano i Partigiani, inserto "2. Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I RESISTENTI, ANPI Savona, 2011

venerdì 4 giugno 2021

Sottoposto a barbare sevizie nulla svelava sul movimento partigiano

Moltedo, Frazione di Imperia - Fonte: Mapio.net

[...] Il giorno 22 luglio 1944 a Moltedo sono catturati dalle brigate nere tre partigiani della II Divisione Garibaldi F. Cascione. I partigiani Nino Gazzano di anni 19 e Elsio Guarrini di anni 18, appartenenti alla IV brigata, sono fucilati immediatamente sulla piazza del paese. Il partigiano Francesco Gazzano di anni 28, staffetta delle SAP che teneva i collegamenti con la IV brigata, è fucilato il giorno 23 nei pressi del cimitero di Porto Maurizio.
Nino Gazzano, era sceso dalla montagna il giorno prima per conoscere il fratello che era nato da pochi giorni e che non aveva ancora visto. Era sera e così, assieme al compagno Elsio Guarrini decidono di dormire in un fienile vicino al paese. La mattina seguente i due partigiani sono circondati dalle brigate nere e catturati. Vengono immediatamente portati sulla piazza di S. Caterina, in centro paese, e fucilati all’alba del 22 luglio.
La gloriosa IV brigata ha preso il nome di Elsio Guarrini, medaglia d’argento al Valor Militare.
Redazione, La Resistenza imperiese ricorda i Partigiani caduti per la libertà a Moltedo, Riviera24.it, 25 luglio 2015

Elsio Elsio Guarrini. Nato ad Imperia il 15 agosto 1925. Partigiano dal 24 settembre 1943. Vice comandante di Battaglione al momento della morte. A seguito di una delazione venne sorpreso nel sonno in un fienile; con lui venne catturato anche il compagno Nino Stella Gazzano. 
Guarrini e Gazzano chiesero ed ottennero la fucilazione nel petto dopo avere esclamato perché noi non siamo traditori e morirono gridando Viva i partigiani. Furono fucilati nella piazza della vicina Moltedo, Frazione di Imperia.
Furono fucilati dai militi Amleto Alunni - poi fucilato insieme al tenente Salerno alle Ferriere di Imperia il 29 aprile 1945 - e Antonio Cartonio - giustiziato a Castellamonte (TO) il 3 maggio 1945 -, entrambi protagonisti di altre esecuzioni, entrambi della Compagnia Ordine Pubblico (O.P.) Imperia, comandata dal famigerato capitano Giovanni Daniele Ferraris.
Nello stesso rastrellamento venne catturato anche il partigiano Francesco Bruna Gazzano (della S.A.P. locale, incaricato di mantenere i contatti con la IV Brigata, catturato a Moltedo il 22 luglio 1944, il quale fu condotto nella caserma Ettore Muti di Imperia Porto Maurizio, dove fu interrogato e torturato, prima di essere fucilato il 23 luglio 1944 in Via Artallo nei pressi del cimitero di Porto Maurizio. 
Elsio Guarrini venne decorato di Medaglia d'Argento al Valor Militare alla Memoria con la seguente motivazione: Giovane e fervente patriota, durante una pericolosa missione assieme ad un compagno di fede, si impegna in aspro combattimento contro preponderanti forze nemiche, finché, rimasto privo di munizioni, veniva sopraffatto e catturato. Sottoposto a barbare sevizie nulla svelava sul movimento partigiano. Condannato a morte, affrontava il plotone di esecuzione con eroica fermezza cadendo al grido di Viva l'Italia. Moltedo (Imperia), 22 luglio 1944
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I Caduti della Lotta di Liberazione nella I^ Zona Operativa Liguria, Edito dall'Autore, 2020  [ n.d.r.: altri lavori di Giorgio Caudano: Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944) (a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, Edito dall'Autore, 2016  ]

[...] Elenco delle vittime decedute
Gazzano Francesco Mario (nome di battaglia “Bruna”) di Francesco, nato a Moltedo superiore (Imperia) il 28.02.1916, anni 28, Partigiano, (II Div. “F. Cascione” IV Brig.) dall'01.05.1944 al 23.07.1944 n° dichiaraz. Integrativa 3034. Catturato a Moltedo il 22.07.1944 trasferito nella Caserma “Ettore Muti” di Imperia Porto Maurizio, torturato, fucilato il 23.07.1944 in Via Artallo nei pressi del Cimitero di Porto Maurizio (Imperia). Successivamente la salma sarà trasportata nel Cimitero di Moltedo e quivi seppellita con Guarrini Elsio e Gazzano Nino.
Gazzano Nino (nome di battaglia “Stella”) di Emilio, nato a Moltedo (Imperia) il 20.03.1925, anni 19, Partigiano, (II Div. “F. Cascione” IV Brig.) dal 10.05.1944 al 22.07.1944 n° dichiaraz. Integrativa 2529. A seguito di una delazione, mentre dorme in un fienile con il compagno Guarrini Elsio è sorpreso da una squadra di fascisti comandata dal Ferraris. Fucilato a Moltedo nella piazza Santa Caterina il 22.07.1944.
Guarrini (Guarini) Elsio (nome di battaglia “Elsio”) di Carlo, nato a Imperia il 15.08.1925, anni 18, Partigiano, Vice com.te Battaglione (II Div. “F. Cascione” IV Brig.) dal 24.09.1943 al 22.07.1944 n° dichiaraz. Integrativa 6160. A seguito di una delazione, mentre dorme in un fienile con il compagno Gazzano Nino è sorpreso da una squadra di fascisti comandata dal Ferraris. Fucilato a Moltedo nella piazza Santa Caterina il 22.07.1944. Decorato di Medaglia d'Argento al Valor Militare alla Memoria con la seguente motivazione:
“Giovane e fervente patriota, durante una pericolosa missione assieme ad un compagno di fede, si impegna in aspro combattimento contro preponderanti forze nemiche, finché, rimasto privo di munizioni, veniva sopraffatto e catturato. Sottoposto a barbare sevizie nulla svelava sul movimento partigiano. Condannato a morte, affrontava il plotone di esecuzione con eroica fermezza cadendo al grido di “Viva l'Italia”. Moltedo (Imperia), 22 luglio 1944
[...]
Durante il rastrellamento avvenuto a Moltedo (frazione di Imperia) il 22 luglio 1944 i militi Amleto Alunni e Antonio Cartonio della GNR Compagnia Ordine Pubblico Imperia (Comandata dal capitano Giovanni Daniele Ferraris) fucilano sulla piazza di Moltedo i partigiani Gazzano Nino e Guarrini Elsio. Sono caduti chiedendo la fucilazione nel petto “perché noi non siamo traditori” e morivano gridando “Viva i partigiani”.
Nello stesso rastrellamento viene catturato anche il partigiano Gazzano Francesco, condotto nella caserma “Ettore Muti” di Imperia Porto Maurizio, interrogato e torturato verrà fucilato il 23 luglio 1944 in via Artallo nei pressi del Cimitero di Imperia Porto Maurizio [...]
Roberto Moriani, Episodio di Moltedo - Artallo, Imperia, 22-23.07.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

Elsio Elsio Guarrini. Nato ad Imperia il 15 agosto 1925. Partigiano dal 24 settembre 1943.Vice comandante di Battaglione al momento della morte. A seguito di una delazione venne sorpreso nel sonno in un fienile; con lui venne catturato anche il compagno Nino Stella Gazzano. Furono entrambi fucilati nella piazza della vicina Moltedo, Frazione di Imperia, dai militi Amleto Alunni e Antonio Cartonio della G.N.R. (Compagnia Ordine Pubblico Imperia), comandata dal famigerato capitano Giovanni Daniele Ferraris. Chiesero ed ottennero la fucilazione nel petto perché noi non siamo traditori e morirono gridando Viva i partigiani. Nello stesso rastrellamento venne catturato anche il partigiano Francesco Bruna Gazzano, il quale fu condotto nella caserma Ettore Muti di Imperia Porto Maurizio, dove fu interrogato e torturato, prima di essere fucilato il 23 luglio 1944 in Via Artallo nei pressi del cimitero di Porto Maurizio. Elsio Guarrini venne decorato di Medaglia d'Argento al Valor Militare alla Memoria con la seguente motivazione: Giovane e fervente patriota, durante una pericolosa missione assieme ad un compagno di fede, si impegna in aspro combattimento contro preponderanti forze nemiche, finché, rimasto privo di munizioni, veniva sopraffatto e catturato. Sottoposto a barbare sevizie nulla svelava sul movimento partigiano. Condannato a morte, affrontava il plotone di esecuzione con eroica fermezza cadendo al grido di Viva l'Italia. Moltedo (Imperia), 22 luglio 1944 - Redazione, Arrivano i Partigiani, inserto "2. Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I RESISTENTI, ANPI Savona, 2011