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martedì 22 agosto 2023

Quella mattina anche noi nel rifugio avevamo sentito alle 8.40 le prime raffiche di mitraglia forti e vicinissime

La zona di Testico (SV). Foto: Eleonora Maini

"Che sarebbe stato se il nemico fosse riuscito a colpire [n.d.r.: a Testico (SV), il 15 aprile 1945] Giorgio [n.d.r.: Giorgio Olivero, comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] o Pantera [n.d.r.: Luigi Massabò, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"], a scoprire la sede del Comando catturando documenti e materiale? Come si sarebbe ripresa la Bonfante in pochi giorni, ora che l'azione decisiva sembra imminente?" Erano le domande che pose Mario [n.d.r.: Carlo De Lucis, commissario della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] nel pomeriggio di quel giorno. "Non ci ha insegnato nulla il disastro di Upega? Ricordate la circolare del Comando regionale di allora? E' mai possibile dopo un anno di lotta partigiana essere sorpresi? Così ad Upega, solo il caso e la fortuna vi hanno salvato oggi. Quando ieri sera ho chiesto chi voleva venire con me in rifugio non mi avete seguito. Vi pareva che fosse paura o eccesso di prudenza il non voler abbandonare ancora la tattica cospirativa. Avete visto. Non si tratta di paura o di coraggio, non siete padroni di esporvi senza ragione, le vostre vite sono troppo preziose per il movimento per sacrificarle per dormire in un letto".
Giorgio taceva, infatti non c'era nulla da opporre a quella requisitoria chiara ed inesorabile: il rifugio era stato costruito con ogni cura, era uno scavo di quattro metri per quattro, profondo due metri, rivestito di pietra, coperto di lamiera e di terra. Vi si accedeva per uno stretto corridoio la cui entrata era chiudibile con un cespuglio. La terra sopra il rifugio era coltivata. Nell'interno su telai in legno vi erano materassi per molte persone. Nelle pareti vi erano nicchie per le future radio trasmittenti. Come si vede si era ben lontani dalle umide tane in cui avevano vissuto per settimane i partigiani dei periodi più duri dell'inverno. Il rifugio era stato costruito da contadini cui il Comando aveva spiegato la delicatezza dell'incarico, l'alta prova di fiducia, le benemerenze che acquistavano nonché la possibilità di rappresaglie. Alcuni dei costruttori erano muti per sempre: erano tra gli ostaggi massacrati il giorno 15.
Se un appunto si può fare al rifugio era che era stato costruito troppo tardi. Il pericolo che gravava su Poggiobottaro era lo stesso che lo aveva minacciato da dicembre, da quando la circolare 23 aveva raccomandato la costruzione dei rifugi. Era ovvio che, dopo averne fatto a meno per tanti mesi, nel clima di euforia della primavera se ne sentisse meno la necessità. Io però l'avevo pensata diversamente. Tutte le volte che avevo dovuto dormire a Poggiobottaro mi ero trovato a disagio e mi era parso saggio, dato che dopo tanto un rifugio c'era, servirmene quella sera assieme a Mario.
Forse la situazione era migliorata, un attacco nemico poco probabile, ma non mi sarebbe piaciuto perdere alla vigilia della fine una vita che avevo salvato attraverso tante peripezie.
Quella mattina anche noi nel rifugio avevamo sentito alle 8.40 le prime raffiche di mitraglia forti e vicinissime. Eravamo rimasti stesi sui nostri materassi senza parlare, senza poter fare nulla. Fino alle 9.15 a brevi intervalli avevamo udito colpi, spari isolati ed altre raffiche. Chi soffriva di più era Sergio Sibelli del C.L.N. di Alassio che non pareva abituato ai rumori della guerra. "Come fate voi a restare calmi. Io vorrei non essermi mosso da casa", mi sussurrava a bassa voce. "E' questione di abitudine. Io è la prima volta che sento sparare sentendomi quasi al sicuro", gli risposi e aggiunsi "Non riuscirei invece a dormire come fate voi, in città con armi e manifestini nascosti in casa, sapendo che una spia potrebbe farmi prendere a letto".
Uscimmo alle 13.30 quando gli spari erano cessati e qualcuno da fuori si ricordò di noi e venne ad avvertirci.
L'incursione di Testico aveva rivelato che la potenza della Wehrmacht era al tramonto. Lo spionaggio del disertore tedesco e la conseguente condanna delle persone che ci avevano aiutato, se erano state condotte con abilità e prontezza, non raggiunsero, però, lo scopo che forse il nemico si riprometteva. La rapidità dello sgombero, l'essersi coperti con i civili, la mancanza di un bando, di un annuncio qualunque che dessero alla strage il carattere di una condanna, la brutalità stessa dell'esecuzione che dilaniò i cadaveri con proiettili esplosivi, diede all'azione un carattere di rabbiosa vendetta più che di giustizia, fu un gesto da banditi che rivelava una grave debolezza. I tedeschi per esercitare la loro legge dovevano adottare ormai anche loro i metodi che noi impiegavamo da tempo in Riviera, segno che la supremazia della loro forza si avvicinava al tramonto. In più noi portavamo, quando possibile, i colpevoli nelle nostre vallate per sottoporli a giudizio, mentre essi se ne erano coperti per sfuggire ai nostri colpi.
Non essendoci state né imboscate, né attacchi partigiani nei dintorni dagli abitanti la strage fu considerata un terrorismo selvaggio ed impotente. Ci si ricordava che il disertore tedesco aveva ordinato direttamente alle vittime di aiutare i malati partigiani quando era stato con noi, ciò aumentava ancora il risentimento e porterà in seguito la popolazione a tentativi di linciaggio di prigionieri da noi catturati.
I civili in preda al terrore abbandonarono i paesi della Val Lerrone passando le notti all'aperto, gli uomini chiedevano armi per unirsi a noi e difendere la loro vita, tornava così ad un anno di distanza il morale che aveva creato le bande locali. Il terrorismo nemico rendeva di nuovo i civili solidali con noi spingendoci alla lotta.
L'evolversi della situazione sui grandi fronti e la possibilità che incursioni nemiche contro la popolazione abbiano a ripetersi impongono ai partigiani un atteggiamento più deciso. L'opinione pubblica, orientata nettamente in nostro favore, l'afflusso continuo di nuove reclute e l'alto morale degli uomini decidono il Comando ad estendere il controllo finora limitato alla zona a sud della Val d'Andora a tutto lo spazio tra la «28» ed il mare. Dapprima si eliminerà il diaframma della Val Lerrone, poi collegheremo tra loro le bande creando uno schieramento quasi continuo sui due fronti della «28» e dell'Aurelia. I compiti verranno suddivisi tra le Brigate i cui effettivi sono in continuo aumento e dovrebbero già ora essere sufficienti.
Il timore delle rappresaglie nemiche non ci trattiene più: le popolazioni esasperate dal terrore e dalla vita nei boschi ci chiedono quando finirà quella situazione perché le notti passate all'aperto sono ancora fredde: "Per voi è appena cominciata, noi è più di un anno che facciamo questa vita", rispondiamo. "Ormai il tempo è buono, non abbiate paura, si può tirare avanti anche per dei mesi".
Una nostra occupazione sarebbe accolta con favore perché ormai ci ritengono in grado di respingere eventuali attacchi nemici.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 239-241
 
[...] Poco prima della Liberazione, il 15 aprile 1945, l’eccidio in assoluto più cruento, a Testico, nel quale perdono la vita 27 persone. All’alba di domenica due colonne tedesche giungono a Ginestro, frazione di Testico, per dare inizio a un rastrellamento: i militari catturano una ventina di civili, uomini e donne sorpresi nelle loro case, e li legano con corde. Poi, proseguendo la marcia, uccidono senza apparente ragione un contadino al lavoro. Alle 8.00, arrivati nei pressi della chiesa, irrompono nell’edificio, catturano altre persone e pongono tutti gli ostaggi lungo un muro sotto la sorveglianza di un soldato. Il resto della truppa, in parte, prosegue con il rastrellamento che porterà alla cattura di altri ostaggi; in parte si dirige verso Poggio Bottaro. Intorno alle 9.00 un gruppo di partigiani, dalla vicina frazione di Santa Maria di Stellanello, spara sui tedeschi permettendo a 3 degli ostaggi di fuggire. In risposta, i tedeschi tornano verso la chiesa, si appostano presso l’osteria del paese e catturano altri 3 contadini di Torria. Infine, la colonna riparte con i prigionieri al seguito. Durante la marcia, si arresta presso la frazione Zerbini per catturare altri ostaggi. L’ultima tappa è Costa Binella ove avviene la selezione dei progionieri. Vengono rilasciati 3 giovani di Ginestro, 4 donne e 4 ragazze. Queste ultime verranno poi condotte al carcere di Imperia, sottoposte a interrogatori e paestaggi e rilasciate almeno una dozzina di giorni dopo. Restano in mano ai tedeschi 27 persone: 25 uomini e 2 donne che vengono separate dagli altri prigionieri, seviziate e uccise a colpi di baionetta. I 25 uomini, legati 2 a 2 col fil di ferro, sono falciati a colpi di mitragliatrice. Dopo il massacro, i corpi risultano irriconoscibili [...]
Andrea Chiovelli, Quando i tedeschi massacravano i savonesi: ecco le 49 stragi che insanguinarono la provincia, IVG, 11 aprile 2016
 

domenica 30 luglio 2023

Si decise allora di bloccare la strada attraverso la quale transitavano i rifornimenti alla postazione tedesca

Baiardo (IM): alle spalle, senza alberi, Monte Ceppo

27 giugno 1944, Sella Carpe, località a 1300 metri di altezza, nel territorio del Comune di Baiardo (IM).
È un passo nel quale la strada carrozzabile proveniente dal paese si biforca, proseguendo con un ramo verso Monte Ceppo e l’altro scende verso la Valle Argentina.
Sul culmine di Monte Ceppo era rimasto l’unico presidio tedesco (circa 400 uomini) che costituiva una minaccia costante ai partigiani del V° Distaccamento dislocati a Carmo Langan [località di Castelvittorio (IM)].
Tentare un attacco al monte per distruggere la postazione nemica era impossibile per mancanza di armi pesanti.
Si decise allora di bloccare la strada attraverso la quale transitavano i rifornimenti alla postazione tedesca.
Il 27 giugno Erven [Bruno Luppi] con una settantina di uomini si apposta sulla curva della strada per Monte Ceppo, in località detta Sella Carpe.
Verso mezzogiorno giungono due camions carichi di soldati nemici i quali sono investiti da una valanga di raffiche di mitragliatori, di altre armi automatiche e di bombe a mano.
Senza che avessero tempo a organizzare qualche resistenza, molti soldati vengono uccisi, altri rimangono feriti, i pochi superstiti si rifugiano nei boschi sottostanti.
I partigiani si apprestano a raccoglie molte preziose armi quando sopraggiungono imprevisti altri camions carichi di soldati i quali trovano il tempo di prendere posizione.
"La situazione si fa gravissima - racconta il Luppi in una sua memoria - man mano giungono altri Tedeschi i quali possono piombarci alle spalle. Un gruppo di sette partigiani riesce a bloccare momentaneamente l’azione del nemico per cui noi con un fuoco intenso possiamo affrontare i Tedeschi che si trovano sul bivio e che, però, aumentano di numero. Il loro fuoco è intensissimo, una quindicina di partigiani sono feriti, ma per fortuna in modo leggero. Solo due di essi rimangono colpiti a morte. Di fronte all’incombente minaccia, tento una sortita per cercare di eliminare una mitragliatrice nemica che ci rafficava alla nostra sinistra e che ci impediva l’unica via di ritirata e di scampo. Ma in quel momento sono colpito, prima di striscio al costato sinistro, poi da una granata che mi spezza il nervo sciatico al terzo medio della coscia destra. Poco dopo il mio ferimento per fortuito caso giunge una nuvola di nebbia spessissima che ci permette di defilarci nel sottostante bosco mettendoci in salvo".
Il bilancio della battaglia: Erven ferito gravissimo, una quindicina di partigiani feriti leggermente e, purtroppo, tre sono i caduti.
Ma i tedeschi lasciano sul campo quasi una cinquantina di morti.
I feriti, che sono una trentina, li trasportano negli ospedali di Sanremo.
Dopo il ferimento, il Luppi rimane tra i boschi e sui monti per mesi, senza cure, spesso braccato per la caccia che gli danno i nazifascisti, ma sempre a contatto con il Comando I^ Zona Liguria, assumendo, nei momenti di calma, incarichi per produrre stampa partigiana.
Al termine della lotta di liberazione Erven rivestiva il grado di vicecommissario della I^ Zona Operativa Liguria.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Bruno Luppi fu Paolo e fu Ponzoni Iside, nasce a Novi di Modena l’8 maggio 1916. Da giovane, organizzato in un gruppo giovanile comunista nell’aprile del 1935 a Modena, è arrestato ed imprigionato con altri antifascisti nelle carceri di Sant’Eufemia. Resistendo ai maltrattamenti e nulla confessando, dopo una ventina di giorni riesce a farsi scarcerare.
Negli anni 1935-1936, sempre a Modena, entrato nuovamente a far parte del gruppo giovanile comunista, continua l’attività cospirativa diffondendo manifestini antifascisti e scritti vari tra i giovani dei corsi premilitari, raccogliendo fondi per soccorsi alle famiglie degli antifascisti in carcere.
Trasferitosi a Taggia (IM), negli anni 1938-1940, prende contatto con un gruppo di comunisti di Sanremo (IM), tra cui Umberto Farina, Giuseppe Ferraironi, Luigi Nuvoloni, Bruno Garruti e, con loro, svolge attività antifascista e organizza in Piazza Bresca una specie di stamperia clandestina composta da macchina da scrivere e ciclostile. Ivi sono compilati migliaia di volantini contro la guerra, da distribuire nelle caserme della Città e di Arma di Taggia. Dal 1941 al 1943 è militare sul fronte meridionale. 
L’8 settembre 1943 viene catturato dai Tedeschi mentre è sottotenente nel 20° Reggimento Fanteria in ritirata verso il nord dalla Calabria. Dalla località Maddaloni - Campania riesce a fuggire, dopo avere assistito alla fucilazione di ufficiali italiani da parte dei tedeschi, e a raggiungere Roma. La notte del 9 settembre si unisce a reparti della Divisione Piave ed al comando di due squadre di mitraglieri combatte contro il nuovo nemico per tutta la giornata del 10, presso il cimitero ebraico e quindi a Fuori Porta San Paolo. In questa località la resistenza dura tutta la giornata, dopo di che inizia una ritirata fino al Colosseo e, per Via Cavour, raggiunge Via Principe Amedeo, dove fa nascondere le due mitragliatrici in dotazione a causa l’esaurimento delle munizioni. Nelle operazioni sono caduti otto bersaglieri e altri rimangono feriti.
Dopo l’occupazione di Roma da parte dei Tedeschi, dal giorno 12 al 20, insieme al sottotenente di Fanteria Enrico Contardi, ad alcuni soldati sbandati e ad alcuni popolani di Trastevere, prende parte alla raccolta di armi, abbandonate negli ex accantonamenti militari (fucili, armi automatiche, munizioni), che vengono consegnate agli antifascisti di Trastevere. Negli stessi giorni col Contardi e quattro soldati riesce a sottrarre ai Tedeschi due automobili nuove di cui una era in uso a un console della milizia.
Grazie ad un permesso di circolazione, inoltratosi nel Ministero della Difesa, riesce ad asportare una grossa radioricetrasmittente che con una delle macchine riesce a trasferire ai Colli Albani ove la consegna ad un gruppo di antifascisti che si stanno organizzando per combattere i nazifascisti.
Nei giorni successivi spara a gruppi di soldati tedeschi ma, rimasto intrappolato, per fortuito caso riesce a sfuggire alla cattura e a raggiungere la stazione ferroviaria dove è tenuto nascosto da due ferrovieri.
Nei primi di ottobre, dopo varie peripezie, raggiunge la sua abitazione a Taggia per prendere contatto con i vecchi compagni e con i quali organizza a monte della Città, in località Beusi, una prima banda armata composta da una ventina di giovani, in gran parte militari sbandati. Ma la banda ha vita breve poiché si scioglie nel novembre successivo.
In quel periodo entra a far parte del Comitato di Liberazione di Sanremo, come rappresentante insieme ad Umberto Farina del PCI, con l’incarico di addetto militare.
Organizza pure il CLN di Taggia e una cellula del PCI ad Arma, coadiuvato dai compagni Mario Cichero, Candido Queirolo, Mario Guerzoni e Mario Siri.
Con i sanremesi dà vita ad un giornale clandestino quindicinale dal titolo Il Comunista Ligure, ciclostilato nel retro del negozio del Cichero stesso.
Il gruppo prende pure contatto con la banda armata di Brunati dislocata a Baiardo e con altre formatesi in Valle Argentina.
Dopo la morte del dottore Felice Cascione, capobanda ucciso in combattimento dai tedeschi il 27 gennaio 1944, la Federazione Comunista di Imperia costituisce il Triangolo Insurrezionale e il Luppi è designato a farne parte per la zona della Valle Argentina-Sanremo.
Con queste mansioni prende contatto con il comandante partigiano Nino Siccardi (Curto), in previsione dell’organizzazione di bande partigiane in altre zone della Provincia di Imperia.
Contemporaneamente organizza a Molini di Triora (IM) un presunto Comitato con a capo il farmacista Alfonso Vallini (Teia), tramite il quale fa giungere ai partigiani riuniti intorno al comandante Guglielmo Vittorio (Vitò) [Giuseppe Vittorio Guglielmo, organizzatore di uno dei primi distaccamenti partigiani in provincia di Imperia, dal 7 luglio 1944 comandante della V^ Brigata Garibaldi "Luigi Nuvoloni", dal 19 Dicembre 1944 comandante della II^ Divisione "Felice Cascione"], viveri, armi, e munizioni.
Nei primi giorni di aprile 1944 il Luppi si incontra nuovamente con il Siccardi a Costa di Carpasio, presenti il savonese Libero Briganti (Giulio), Giacomo Sibilla (Ivan) [a fine 1944 comandante della II^ Brigata "Nino Berio" della Divisione "Silvio Bonfante"], Vittorio Acquarone (Marino) e Candido Queirolo (Marco).
Si decide di raccogliere tutte assieme una ventina di bande sparse sul territorio per costituire la IX^ Brigata d’Assalto Garibaldi "Felice Cascione". Il che avviene. Anche Vitò si aggrega alla Brigata con i suoi uomini accampati in località “Goletta” (Valle Argentina).
Questi vengono suddivisi in due Distaccamenti denominati IV° e V°; quest’ultimo ha per comandante Vitò e per commissario il Luppi, con nome di battaglia Erven.
Il Luppi, come commissario, nei mesi di maggio e giugno prende parte a tutte le azioni che hanno consentito di ripulire i territori delle alte valli Argentina, Nervia e Roja da presidi e postazioni tedesche e fasciste...
Francesco Biga, Ufficiali e soldati del Regio Esercito nella Resistenza imperiese in (a cura di Mario Lorenzo Paggi e Fiorentina Lertora) Atti del Convegno storico Le Forze Armate nella Resistenza di venerdì 14 maggio 2004, organizzato a Savona, Sala Consiliare della Provincia, dall’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Savona

domenica 12 febbraio 2023

Un giovane della provincia di Bari fucilato da partigiano a Sanremo

Fonte: Giuseppe Basile, art. "Leggi Noci" cit. infra

Ancora il 12 febbraio 1945 a Sanremo presso Villa Junia vennero uccisi mediante fucilazione i garibaldini Renato Borgogno (Caminito), Francesco Donchio (Franz) [n.d.r.: nuove fonti sostengono che si trattava di Francesco D'Onghia; altri documenti partigiani sostengono che fosse stato fucilato sempre a Sanremo, ma il 2 marzo 1945], mutilato ad un braccio, e il civile Silvestro Polizzi.
I loro corpi finirono in una fossa comune. Sulla tragica fine di 'Franz' dalla Memoria del partigiano Gian Cristiano 'Gianburrasca' Pesavento (conservata nell'archivio ISRECIm sez. III cartella 24 bis) si apprende che "era privo di una mano. Così gli aguzzini gli strapparono i vestiti, finchè il moncherino non fosse scoperto e su quel moncherino infierirono con una frusta".
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945). Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste,  Anno Accademico 1998-1999 

Francesco D'Onghia. Fonte: Giorgio Caudano, op. cit. infra

Francesco D’Onghia dal giugno 1944 alla morte presta servizio effettivo come partigiano combattente nel III° battaglione della IV^ brigata “E. Guarrini” della II^ divisione d’Assalto Garibaldi “F. Cascione”. D’Onghia viene catturato con altri due garibaldini nei pressi di Pompeiana (IM) e sottoposto invano a torture perché fornisca informazioni sui suoi compagni. Così il 12 febbraio 1946 a Sanremo (Villa Junia) viene fucilato insieme al civile Silvestro Polizzi ed al partigiano Bergogno Renato (Caminito).
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020

[ n.d.r.: altri lavori di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944) (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016

Elenco delle vittime decedute
Borgogno Renato (nome di battaglia “Caminito”) fu Giobatta, nato a Sanremo il 24.11.1924, anni 20, tapezziere, Partigiano, Com.te Squadra (II Div. “F. Cascione” V Brig.) dal 15.04.1944 al 12.02.1945 n° dichiaraz. Integrativa 3218, fucilato a Villa Junia il 12.02.15.
D'Onghia (Donchio) Francesco (nome di battaglia “Franz”) di Domenico, nato a Noci (Bari) l'1.02.1923, anni 21, contadino, Partigiano, (II Div. “F. Cascione” V Brig.) dal 18.06.1944 al 2.03.1945 n° dichiaraz. Integrativa 19396,
[...] Nel giorno 12 febbraio 1945 a Sanremo (villa Junia) vengono fucilati i garibaldini Francesco Donchio (Franz) (trattatasi di D'Onghia Francesco) mutilato ad un braccio, Borgogno Renato (Caminito) e il civile Polizzi Silvestro. I loro corpi finiscono in una fosse comune.
da Vol. IV “Storia della Resistenza Imperiese di F. Biga pag. 172 e da Memoria del partigiano G. Pesavento conservata nell'archivio ISRECIm sez. III cartella 24 bis
[...] Monumenti/Cippi/Lapidi:
Edicola in marmo: lapide in marmo riferita a rastrellamento e fucilazione (del 24.01.45 e 12.002.45) iscrizione:ba perenne ricordo dei Garibaldini (inseriti anche i nomi dei 2 partigiani e del civile) ... che al sacro ideale della libertà immolarono le loro vite generose vittime del furore nazifascista ….. - situata in Corso Inglesi a Sanremo
Edicola in laterizio: lapide in marmo riferita a fucilazione (del 24.01.45 e 12.002.45) (inseriti anche i nomi dei 2 partigiani e del civile - Edicola in marmo: lapide in marmo riferita a rastrellamento e fucilazione (del 24.01.45 e 12.002.45) iscrizione: a perenne ricordo dei Garibaldini (inseriti anche i nomi dei 4 partigiani di Baiardo) ... che al sacro ideale della libertà immolarono le loro vite generose vittime del furore nazifascista ….. - situata in Corso Inglesi a Sanremo
Edicola in laterizio: lapide in marmo riferita a fucilazione (del 24.01.45 e 12.002.45) (inseriti anche i nomi dei 4 partigiani di Baiardo) - Situata presso Villa Junia - Sanremo) - Situata presso Villa Junia - Sanremo. [...] Commemorazioni
Ogni anno nei primi giorni di marzo l'ANPI sez. di Sanremo organizza una commemorazione presso Villa Junia per ricordare i caduti del 24.01.45 e del 12.02.45.  

Roberto Moriani, Episodio di Villa Junia, Sanremo, 12.02.1945, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

Come ha avuto modo di scrivere anche il professor Vito Antonio Leuzzi, presidente dell’IPSAIC (Istituto Pugliese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea) di Bari, la Puglia, subito dopo la Sicilia, è stata la regione del Sud con il maggior numero di partigiani caduti in combattimento, fucilati e deportati. Gli aderenti alla lotta di liberazione, originari della Provincia di Bari furono oltre cinquecento, il numero più alto tra le provincie meridionali. Anche Noci ha contribuito alla Liberazione dell’Italia dai nazi-fascisti. Tra i partigiani nocesi vi è Francesco D’Onghia: la militanza partigiana e le sue notizie biografiche, che saranno illustrate durante l’incontro del 26 settembre, sono venute alla luce soltanto recentemente.
Giuseppe Basile, Settembre in Santa Chiara: Franz. Il partigiano Francesco D'Onghia, Noci Gazzettino, 25 settembre 2019

[...] Francesco D’Onghia. A quest’ultimo dal 31 luglio 1984 è intestata una strada nell’abitato di Noci, nonostante all’epoca si avessero solo frammentarie e imprecise notizie circa la drammatica vicenda dello sfortunato nocese. Grazie a recenti ricerche effettuate anche da una pronipote, Marica D’Aprile, sono ora disponibili maggiori notizie sul nostro sfortunato e valoroso concittadino.
Francesco D’Onghia nasce a Noci da Domenico e Anna Pugliese. Contrae matrimonio il 15/11/1942 nella chiesa di S. Maria Assunta di Valsinni (Matera) con la diciannovenne casalinga valsinnese Rosa Montemurro. Francesco sembra avviato, come tanti coetanei, a una vita di lavoro e sacrifici per mantenere la sua famiglia con il duro e onesto lavoro di contadino, come riportato in alcuni documenti, e/o di carbonaio, come dichiarato nell’atto di matrimonio. Durante il secondo conflitto mondiale viene però chiamato alle armi. Al momento del proclama dell’armistizio dell’8 settembre 1943 egli è in servizio nella 2a Compagnia di Sanità presso l’ospedale militare di Alessandria.
Il giovane Francesco, approfittando dello sbandamento generale, potrebbe abbandonare le armi e tornarsene a casa, come fa la maggior parte dei soldati, oppure aderire all’Esercito nazionale repubblicano; invece, per un’innata aspirazione alla libertà, preferisce avvicinarsi alle prime spontanee formazioni partigiane, nelle quali assume il nome di battaglia di “Franz”, e prendere parte attiva alla Resistenza e alla lotta di liberazione.
È documentato che dal 18/6/1944 alla morte presta servizio effettivo come partigiano combattente nel III battaglione della IV brigata “E. Guarrini” della II divisione d’assalto Garibaldi “F. Cascione”. Il 24/1/1945 durante uno scontro con i nazi-fascisti è catturato presso Pompeiana (Imperia) e sottoposto invano a torture perché fornisca informazioni sui suoi compagni garibaldini. In precedenza era stato gravemente ferito, presumibilmente in uno scontro con il nemico, tanto che gli era stata amputata la mano o parte del braccio sinistro [...]
Giuseppe Basile, Il partigiano nocese Francesco D’Onghia che perse la vita per la libertà, Leggi Noci, 25 aprile 2020

Secondo alcune fonti Franz è fucilato il 12/2/1945 a Villa Junia, presso Sanremo. Un testimone ricorda che egli “era privo di una mano. Così gli aguzzini gli strapparono i vestiti finché il moncherino non fosse scoperto e su quel moncherino inferirono con una frusta”.
In altri documenti, tra i quali l’atto di morte trascritto presso il Comune di Valsinni, è riportata la data di morte del 2/3/1945.
La famiglia di Francesco D’Onghia è informata della morte del congiunto dal comando del terzo battaglione della brigata “E. Guarrini” il 22/5/1945 con la seguente comunicazione:
“È col più vivo rimpianto che dobbiamo annunciarVi che il caro Compagno FRANCESCO ci ha abbandonato quando già ci arrideva la vittoria.
Ha appartenuto fin dai primi giorni del Giugno 1944 alle nostre formazioni ed ha dato prova di un’onestà e sagacia tali da essere stimato e amato da tutti i Superiori come un vero fratello.
È caduto, colpito dal piombo del nemico nazi-fascista, dopo lunghi giorni di prigionia sopportati con uno stoicismo tale che il nemico stesso dovette ammettere di aver giustiziato un Eroe.
Il vile nazi-fascista non è riuscito a piegare la sua volontà ed egli, pur di fronte alla morte, seppe conservare, dignitoso e sprezzante, la calma dei forti.
Tutti i Garibaldini del III Battaglione rimangono a Voi uniti nel dolore e nel proposito di vendicare il Compagno gloriosamente Caduto per un Ideale di GIUSTIZIA E LIBERTÀ”.
I resti mortali di Francesco D’Onghia quasi certamente riposano in pace nell’ossario del Sacrario dei Caduti partigiani del cimitero di Valle Armea in Sanremo, dove a cura della sezione sanremese dell’A.N.P.I., il suo nome è stato aggiunto in calce ai nominativi già esistenti.
Il nome di Francesco Donchio è riportato anche, con quelli di altri partigiani, su una lapide in un’edicola situata in Corso Inglesi presso Villa Junia a Sanremo.
Nel 1984 il Consiglio comunale di Noci intesta a Francesco D’Onghia l’ultima traversa a destra di via Tommaso Siciliani, prima dell’ingresso al Parco giochi.
Giuseppe Basile, Franz, il partigiano Francesco D'Onghia, Noci24, 24 settembre 2019

lunedì 5 dicembre 2022

Sulla costa si sentiva parlare di partigiani

Imperia: il ponte stradale della Via Aurelia sul torrente Impero

Già nel febbraio del 1944 il mio carissimo amico Giovanni Berio (Tracalà) mi aveva esortato a salire in montagna tra i partigiani. Lui aveva già partecipato alla battaglia di Alto avvenuta il 27 gennaio 1944, durante la quale aveva trovato eroica morte il comandante Felice Cascione ("u Megu", che era dottore in medicina) e, a causa dello scioglimento della banda, si trovava sbandato. Al tempo stesso mi aveva fatto capire che la mia permanenza nella TODT (ditta militarizzata che costruiva bastioni antisbarco per conto dei tedeschi) non era cosa giusta e non era cosa ben vista.
Mi trovavo nella TODT per evitare di essere arruolato nell'esercito della Repubblica Sociale di cui avevo già ricevuto la cartolina precetto (sono della classe 1924).
Feci notare a Giovanni che ben poca cosa si sapeva del movimento partigiano e che qualcuno con il quale avevo parlato mi aveva sconsigliato di salire in montagna, poiché era ancora una iniziativa incerta. Comunque mi misi d'accordo con lui: saremmo partiti verso la metà di febbraio. Quando venne il giorno prestabilito e dissi a mia madre che avevo deciso di partire e che mi necessitavano indumenti pesanti e un paio di scarponi (che non avevo).
La poveretta si mise a piangere convulsamente pregandomi di posticipare la partenza di almeno due mesi in attesa della bella stagione. Durante l'attesa avrebbe provveduto a procurarmi il vestiario necessario. Mio padre invece non aprì bocca. Non manifestò alcun parere. Però capii che la mia decisione non gli sarebbe dispiaciuta.
Alla fine, impressionato dalla manifesta disperazione di mia madre, con Giovanni convenni di rimandare la partenza per la montagna di qualche tempo.
Alcuni di noi già dal 25 luglio 1943 (quando cadde Mussolini) si erano iscritti alle cellule segrete del PCI. Avevano ricevuto l'incarico dal partito di sorvegliare gli ex fascisti, notare se si riunivano segretamente e se tentavano di riorganizzarsi (qualcuno ci consegnò anche la pistola per convincerci che avevano rotto ogni rapporto col fascismo risorgente sotto l'egida dei tedeschi). Il nostro capo cellula era Nello Bruno ("Merlo", caduto in montagna nel gennaio del 1945). La cellula era composta da Tino Moi ("Tino"), che cadrà anche lui il 25 luglio 1944, da Bruno Denardi, da un altro compagno di cui non ricordo più il nome e dallo scrivente.
In agosto il governo Badoglio, succeduto a quello di Mussolini, non agevolò indubbiamente gli antifascisti, anzi rese loro la vita dura vietando ogni manifestazione ed ogni iniziativa che avesse una parvenza di democrazia.
Poi, come è noto, l'8 del settembre successivo, in occasione dell'armistizio, i tedeschi occuparono militarmente il nostro paese e diedero vita all'esercito fantoccio della repubblica di Salò, mobilitando vecchi e nuovi fascisti.
Allora Cascione ed altri imperiesi più compromessi con l'antifascismo, tra cui Nello Bruno, Eolo Castagno ("Garibaldi"), Nino Berio e diversi altri, presero la via della montagna, e noi, meno compromessi e più giovani, restammo, in attesa di significativi eventi.
Sulla costa si sentiva parlare di partigiani, di uno scontro con il risorto esercito, ma di stampo fascista, nel territorio di Colla Bassa (Montegrazie). Gli episodi venivano ingigantiti dalla fantasia popolare e in noi aumentava la volontà di raggiungere i nostri amici in montagna per compiere la nostra doverosa parte di combattenti per la libertà.
Apprendemmo che, dopo la dolorosa morte di Felice Cascione, la sua banda si era sbandata per tale motivo, ma anche per l'inclemenza del tempo e per la non ancora perfetta organizzazione della vita in montagna. Qualcuno tornò a casa, qualcun altro si rifugiò presso i partigiani badogliani che si stavano organizzando e che già ricevevano aiuti militari dagli inglesi attraverso lanci aerei.
Ma nella primavera del 1944 quasi tutti gli imperiesi ridiscesero sulla costa dove si stavano organizzando bande garibaldine, rinforzate da coloro che, non ubbidendo ai bandi fascisti di richiamo alle armi, avevano preferito raggiungere i compagni per combattere contro i nazifascisti.
La situazione era diventata critica: ci si poteva intrufolare nella TODT come avevo fatto io, o presentarsi ai Comandi fascisti per essere arruolati nell'esercito della Repubblica Sociale, o salire in montagna. Questa ultima soluzione a moltissimi sembrò la migliore.
Alfine giunse anche il momento della mia partenza. Chi organizzava coloro che avevano intenzione di partire era Bruno Denardi che, anche lui, aveva deciso di rientrare in banda. Alle ore 6 del mattino (ultimi giorni di maggio 1944) ci trovammo in sei in località "Ergi", presso il cimitero di Diano Gorleri [n.d.r. Frazione del comune di Diano Marina (IM)]: De Nardi, Duccio, Tenni, lo scrivente, ed un altro che credo fosse Carlo detto "U Gallu du Bimbu".
Ci dirigemmo verso il Pizzo d'Evigno dove speravamo di incontrare una banda detta "volante" comandata dall'onegliese Silvio Bonfante ("Cion"), banda che aveva già incorporato Germano Belgrano ("Germano"), Massimo Gismondi ("Mancen"), "Cigrè", "Sardena", "Tino" e tanti altri già miei compagni di gioventù.
Giunti nei pressi di Diano Arentino sentimmo delle raffiche di mitragliatrice provenienti dalla vallata di Stellanello, il che ci costrinse a cambiare direzione. Denardi disse che probabilmente si trattava di un rastrellamento: se avessimo proseguito, probabilmente saremmo finiti in bocca ai nazifascisti. Decidemmo di ritornare sui nostri passi, per portarci nella vallata di Dolcedo attraverso Borgo d'Oneglia e Sant'Agata, in cerca di altre bande partigiane.
Trascorremmo la notte in modo precario in una centralina elettrica, a monte della strada statale 28, nei pressi del ponte del borgo. Il mattino seguente, dopo una ulteriore discussione, Denardi ci convinse che era più opportuno incamminarci verso Tavole e Villatalla in quanto era certo che anche là dovevano trovarsi delle bande partigiane.
In seguito, se avessimo voluto, potevamo trasferirci nella zona di Stellanello, già nostra prima meta.
Giunti nei pressi di Pianavia [n.d.r.: frazione del comune di Vasia (IM)], sentimmo molto distante un'altra sparatoria. La gente del paese ci informò che partigiani si trovavano a Villatalla [n.d.r.: frazione del comune di Prelà (IM)] verso cui ci incamminammo.
Sulla piazza principale del paese incontrammo un gruppo di armati intenti a pulire patate e verdura presso una fontana. Preparavano il rancio. Tra i cuochi riconobbi Angelo, mio vecchio compagno di scuola, ed alcuni altri.
Ci accompagnarono in una stanza dove aveva sede il Comando. Ivi incontrai Rinaldo Rizzo (Tito) e Gustavo Berio (Boris). Questi ci salutarono e ci destinarono al distaccamento che era dislocato a Pianavia, comandato da Angelo Setti (Mirko) e che aveva per commissario Nello Bruno. Il distaccamento era composto da circa quaranta uomini e tra questi riconobbi dei miei amici di antica data, tra i quali alcuni con i quali ero cresciuto nella mia prima giovinezza (avevamo fatto il premilitare insieme). Ricordo "Nino u fransese", "Nani u careté", "U pastissé" ed altri.
Ad essere sincero, da questi non ebbi una affettuosa accoglienza: sapevano che ero stato nella TODT per cui rimasero un poco freddi.
Qualcuno mi disse: «Era ora che ti decidessi a venire su in montagna». Cercai di giustificarmi e tutto finì lì.
Dopo oltre quarant'anni "U pastissé" mi disse che qualcuno avrebbe voluto fucilarmi per la mia permanenza nella TODT, ma non mi disse chi aveva espresso questo parere. Sono sicurissimo che, se questo intendimento arrivò nelle orecchie di "Merlo", lui non trattò certamente bene coloro che desideravano la mia morte. Sapeva che io facevo parte di una cellula di giovani del Pci. Rileggendo una memoria riguardante un colpo che avevamo fatto nella caserma Siffredi ad Oneglia, mi venne in mente il nome di colui che voleva sempre uccidere tutti (a parole). Forse era costui che desiderava anche la mia morte.
La prima notte che trascorsi nell'accampamento, mi misero di guardia ma, non avendo esperienza e un po' di paura, scambiai un albero che ondeggiava a causa di un po' di vento per un nemico. Preoccupato, andai a svegliare "Nino u fransese", il compagno con il quale avevo più confidenza. Egli venne, gli feci vedere l'ombra sospetta e lui subito si diresse in quella direzione.
Dopo un po' mi chiamò e mi disse: «Guarda che bell'albero... se in ogni albero scorgi un nemico, questa notte non dorme più nessuno». Ci rimasi male e il giorno successivo venni "sfottuto" un poco da tutti.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

venerdì 25 novembre 2022

Un lancio alleato che non era stato destinato ai partigiani imperiesi

Rifugio Mongioie. Fonte: Mapio.net

Il mattino del 16 [novembre 1944] lasciammo Viozene [Frazione di Ormea (CN)]. Discutemmo un po' sulla via da tenere. La strada della Fascette era la più breve, ma forse era gelata. Pure parecchi di noi avrebbero voluto passare per Upega a salutare le tombe di Cion, Giulio e di tanti compagni noti ed ignoti. Scegliemmo infine l'altra via, quella del varco del Tanarello. Marciammo fino al pomeriggio, conoscevo la strada per averla fatta il 13 agosto. Pure quel giorno mi parve più lunga e più triste. Anche qui, come già oltre il Mongioie, alberi spogli e cumuli di foglie, fango gelato, ghiaccio e squallore.
Superato il varco del Tanarello trovammo una colonna di muli che bloccava il sentiero: erano le bestie che le popolazioni di Pigna, Langan, Triora avevano affidato alla V^ Brigata quando i tedeschi avevano cacciato i partigiani dalle retrovie del fronte francese. Erano sessanta muli che ci avevano seguito nella ritirata: «Se un giorno tornerete ci ridarete le nostre bestie. Se saranno morte pazienza, tanto se restano qui le prenderanno i tedeschi...», avevano detto i contadini di Pigna, ma ora i partigiani della V^ tornavano con i muli verso il sud. Chissà per dove erano passati? Forse per Val Casotto, non certo per il Bocchino. Anche la strada del Tanarello era in qualche punto impraticabile per i muli, solo le pecore vi passavano facilmente. Quelli della V^ vi si erano inoltrati restando bloccati. Dovemmo così lasciare la strada più breve ed inerpicarci sulla mulattiera di Baussun, il percorso era così allungato di qualche ora. Salimmo con la colonna fino in cresta, poi l'abbando­ nammo per scendere lungo il ripido pendio e raggiungere di nuovo il fiume. Passammo da Baussun dove in settembre c'era Battaglia con i suoi; ora i casoni erano deserti. Il tetto sfondato, la paglia fradicia.
Marciammo ancora a fondovalle per raggiungere Piaggia, intorno sempre lo stesso abbandono: fuochi spenti, carbonaie abbandonate, casolari deserti: dove i mesi scorsi ferveva la vita ora il freddo sole invernale stentava a fondere i ghiaccioli che ogni notte sulle rive del fiume si riformavano più spessi. Solo i partigiani si aggiravano ormai tra i rami stecchiti ed i pascoli brulli: il vento gelido delle cime ha spinto pastori e boscaioli verso il mare.
Ecco un gruppo di uomini che viene verso di noi sul nostro sentiero. Chi sono? Partigiani. Li abbiamo riconosciuti subito perché ci siamo accorti della loro presenza a breve distanza: il sentiero corre nel bosco.
Sono uomini di Martinengo, ci salutiamo, poi continuiamo il cammino. Ho già visto il primo di loro da qualche parte, non ricordo dove, poi marciando rammento: è lui, Nasone, il commissario di una banda della V che per conto di Turbine avevo cercato a Case di Nava [nel territorio del Comune di Pornassio (IM)] il 10 luglio. Giungiamo a Piaggia alle tre, troviamo Curto, Boris, Achille e qualche altro del comando divisionale. Pantera e gli altri del comando I^ Brigata erano partiti qualche istante prima verso la Val di Triora alla ricerca del gruppo di Osvaldo e Pablo. Scorgemmo il gruppo di Pantera che saliva rapido per la mulattiera che portava alla cima del Frontè, non ci sarebbe stato possibile raggiungerlo, eravamo stanchi e Pantera aveva un particolare motivo per sbrigarsi: i contadini, che avevano visto le giacche militari dei partigiani della V Brigata che erano con noi, gli avevano segnalato che un forte nucleo di tedeschi o repubblicani si avvicinava a Piaggia.
Sostammo a Piaggia. Poco dopo di noi giunse il dottore e comunicò di aver visto nel bosco dei paracadute impigliati nei rami. Era bene mandare degli uomini a controllare ed in caso a recuperare il materiale.
Perché gli alleati avevano effettuato un lancio in quella zona deserta? A chi era diretto? E' possibile che qualche fuoco acceso da sbandati abbia tratto in inganno gli aerei. Comunque quello era per noi il primo lancio! Qualche illusione, qualche speranza, ma per poco: non c'era niente di utile per noi, solo bombe di mortaio di un tipo inglese. Le seppellimmo, avremmo avvertito i badogliani, forse avremmo potuto combinare con loro qualche scambio, poi recuperammo i paracadute.
Curto e Boris partirono anche loro verso Triora. Noi restammo ancora. Era inutile inseguirci l'un l'altro, non ritenevamo probabile che il gruppo Osvaldo fosse in Val di Triora, fuori della zona della I^ Brigata: fin quando non avessimo saputo con precisione dove fossero ambedue i nuclei del comando I^ Brigata non ci saremmo mossi da Piaggia.
Il 15 passammo il Mongioie, il 16 rimanemmo a Viozene, il 17 giungemmo a Piaggia, il 18 partì Curto. Poco prima della partenza di Curto anche il dottor Caduceo e Cobra l'infermiere ci lasciarono. Ne avevano avuto autorizzazione dal Curto. Motivi di salute, hanno detto, in realtà le incognite della situazione e lo spostarsi in zone a loro poco note avevano fiaccato il loro morale. Caduceo sarebbe tornato a Viozene dove la popolazione mancava di dottori, Cobra lo avrebbe accompagnato. Non erano i primi e non sarebbero stati nemmeno gli ultimi compagni a lasciarci. Cobra mi affidò una valigetta con pochi medicinali. Io gli diedi una mia giacca, ci abbracciammo.
Eravamo stati buoni compagni perché rari erano gli studenti fra i garibaldini e la sua partenza mi rattristò. De Marchi e Gazzelli erano morti, Caduceo ci lasciava, la I^ Brigata restava così senza dottori, solo con Libero che era ancora uno studente di medicina, ma nessuno d'ora in poi sarebbe rimasto con noi se non per sua volontà. Purtroppo anche lasciando le formazioni partigiane gli ex San Marco non cancellavano il loro passato, venivano solo a perdere l'appoggio che, malgrado tutto, eravamo ancora in grado di dare con la nostra organizzazione e le nostre povere armi. Cobra e Caduceo si fermarono nell'alta Val Tanaro sperando di trovarvi una relativa sicurezza. Fu un errore che avrebbero scontato amaramente.
Passarono altri cinque partigiani, avevano lasciato la loro banda a Montegrosso di Mendatica, anche loro abbandonavano la lotta: la Cascione si andava lentamente sfaldando.
Un gruppo di noi era ancora occupato nel bosco col materiale del lancio quando scese la sera. A Piaggia eravamo rimasti in tre: Luigi, Cappello ed io.
Luigi era anziano, l'avevo conosciuto la sera del 2 luglio nel bosco di Rezzo quando ci eravamo presentati al comando garibaldino; Luigi quella sera aveva cantato la nostra canzone Katiuscia che io udivo allora per la prima volta. Chissà se se ne ricordava. Luigi si sarebbe fermato a Piaggia dove aveva delle conoscenze, Cappello ed io esitammo. L'ambiente di Piaggia era già freddo in ottobre; al nostro ritorno poi erano sorte divergenze col Curto per la scomparsa di zucchero ed altro materiale di Faravelli che prima dell'ultimo rastrellamento era stato affidato a civili. La popolazione, che, come abbiamo visto, si era allarmata credendoci tedeschi, pareva in quei giorni angustiata dalla nostra presenza: pure non avrebbe dovuto preoccuparsi per rappresaglie tedesche. Non ne aveva subite in ottobre per quanto il nemico avesse scoperto che era stata sede del nostro comando. Un contadino infatti era stato preso con un permesso di circolazione del comando della Cascione. Interrogato aveva portato i tedeschi all'albergo Saccarello dove il lasciapassare gli era stato consegnato. Le SS che occupavano il paese si erano limitate ad arrestare Pastorelli, proprietario dell'albergo ed a condannarlo a morte per un ordine del comando geoerale che prevedeva tale pena per tutti coloro che ospitavano partigiani. Anche Pastorelli si salvò, perché le SS lasciarono il paese ed il reparto di fanteria subentrato si convinse che l'albergo poteva esser stato da noi occupato senza il consenso del proprietario. Al posto del padre arrestarono il tredicenne figlio Pietro. Lo portarono nelle caserme di Tanarello nella neve e poi di nuovo a Piaggia a pelare patate fino allo sgombero del paese. Cosa la gente di Piaggia abbia pensato dell'imprevedibile contegno tedesco non saprei, era però evidente che aveva paura di noi e così prendemmo un po' di riso e di farina, resti di quella nascosta prima del rnstrellamento, e partimmo per Valcona dove avremmo trovato una famiglia amica che già in passato ci aveva accolto.
La strada per Valcona era coperta di uno strato di ghiaccio, il sentiero percorso decine di volte al buio o con la pioggia era diventato insidioso in pieno giorno. Rivedemmo Seppà dove era stato il comando della I^ in agosto: i due casoni erano deserti, gli usci scardinati. Ecco: lì erano state le stalle, qui il dormitorio; c'era ancora un po' di paglia, e lassù erano gli uffici: c'era ancora il rustico parapetto di legno costruito da noi. Sulla strada la fontana gettava sempre acqua, solo la vasca era in più punti gelata.
Proseguimmo, il rumore dei nostri passi era l'unico suono nel freddo crepuscolo. Anche a Valcona silenzio: che fossero partiti tutti?
Ecco il nostro ospedale, vediamo che ne è stato. La villetta esiste ancora, non l'hanno bruciata. Lì ci fermammo con Turbine il 4 luglio durante il temporale, lì sostai dal 1 al 9 settembre quando De Marchi vi curava i feriti. Ora De Marchi è nel cimitero di Upega. Che ne sarà stato della moglie di Curto e di quell'altra ragazza bionda che ci curavano? Come si chiamava? Silvana mi pare; doveva essere un'infermiera diplomata tanto era brava ed attiva.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980

martedì 20 settembre 2022

Ebrei deportati dai nazifascisti da Sanremo

Sanremo (IM): uno scorcio del Forte di Santa Tecla

Natalie Camerini, figlia di Giuseppe Camerini e Diana Norsa è nata in Italia a Trieste il 21 dicembre 1852. Arrestata a San Remo (Imperia). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah.   
Raffaele Camerini, figlio di Giuseppe Camerini e Diana Norsa è nato in Italia a Trieste il 17 settembre 1863. Arrestato a San Remo (Imperia). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.
Donato Colombo figlio di Davide Colombo è nato in Italia a Trinità il 4 ottobre 1863. Coniugato con Emma Ottolenghi. Arrestato a San Remo (Imperia). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.
Benvenuta Perla De Benedetti, figlia di Leone De Benedetti e Giustina Artom è nata in Italia a Asti il 14 maggio 1873. Coniugata con Alessandro Levi. Arrestata a San Remo (Imperia). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah.
Emma Foà, figlia di Leone Bonaventura Foà e Giulia Ferraresi è nata in Italia a Verona il 23 maggio 1874. Arrestata a San Remo (Imperia). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah.
Sara Franco, figlia di Abramo Franco e Elvira Schnur è nata in Turchia a Istanbul il 23 luglio 1874. Arrestata a San Remo (Imperia). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah.
Alessandro Levi, figlio di Donato Levi e Marianna De Benedetti è nato in Italia a Torino il 4 ottobre 1868. Coniugato con Benvenuta Perla De Benedetti. Arrestato a San Remo (Imperia). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.  
Edwin Lumbroso è nato in Egitto a Alessandria d'Egitto il 4 dicembre 1875. Coniugato con Irene Elena De Bonfils. Arrestato a San Remo (Imperia). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.
Brunilde Levy, figlia di Federico Levy e Gemma Pugliese è nata in Italia a Milano il 13 settembre 1929. Arrestata a San Remo (Imperia). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah.
Federico Levy figlio di Alfredo Levy è nato il 21 aprile 1871. Coniugato con Gemma Pugliese. Arrestato a San Remo (Imperia). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.
Irma Neufeld figlia di Ferdinando Neufeld è nata in Austria a Vienna il 24 settembre 1909. Arrestata a San Remo (Imperia). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah.
Anna Luciana Norzi, figlia di Guido Norzi e Amalia Segre è nata in Italia a Casale Monferrato il 27 aprile 1931. Arrestata a San Remo (Imperia). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah.
Guido Norzi, figlio di Moise Norzi e Evelina Momigliano è nato in Italia a Vercelli il 5 settembre 1886. Coniugato con Amalia Segre. Arrestato a San Remo (Imperia). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.
Lodovico Orvieto, figlio di Sabatino Orvieto e Anna Calò è nato in Italia a Roma il 15 settembre 1882. Coniugato con Ines Pacifici. Arrestato a San Remo (Imperia). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.
Giulio Osimo, figlio di Raffaele Osimo e Debora Osimo è nato in Italia a Turro di Podenzano il 7 febbraio 1886. Arrestato a San Remo (Imperia). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.
Emma Ottolenghi, figlia di Maurizio Ottolenghi e Speranza Ottolenghi è nata in Italia a Acqui Terme l' 1 dicembre 1866. Coniugata con Donato Colombo. Arrestata a San Remo (Imperia). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah.
Vittorio Ottolenghi, figlio di Gershon Ottolenghi e Rachele Pugliese è nato in Italia a Alessandria il 18 gennaio 1874. Arrestato a San Remo (Imperia). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.
Ines Pacifici è nata in Italia a Firenze il 30 aprile 1889. Coniugata con Lodovico Orvieto. Arrestata a San Remo (Imperia). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah.
Gemma Pugliese, figlia di Giuseppe Pugliese e Giuseppina Treves è nata in Italia a Alessandria il 17 aprile 1881. Coniugata con Federico Levy. Arrestata a San Remo (Imperia). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah.
Tullio Pescarolo, figlio di Giuseppe Pescarolo e Lucia Peirone è nato in Italia a Torino il 22 giugno 1919. Arrestato a San Remo (Imperia). Deportato nel campo di concentramento di Buchenwald. È sopravvissuto alla Shoah.
[ n.d.r.: i nomi - e relative sintetiche informazioni - che precedono sono stati desunti dal meritorio Archivio CDEC, che si consiglia di consultare per ulteriori approfondimenti. Si coglie l'occasione per sottolineare che il partigiano Renzo Orvieto (altresì, illustre artista pittore e scultore: a lui si deve, ad esempio, il monumento ai Partigiani Caduti di Sanremo) era figlio di Ines Pacifici e di Lodovico Orvieto, sopra citati ]

Emma Foà nasce a Verona il 23 maggio 1874 da una famiglia ebraica e nella città scaligera vive gran parte della sua esistenza. Emma è un’educatrice e per anni dirige una scuola dell’infanzia nel quartiere veronese di San Zeno, in quella che oggi è via San Bernardino, 10. La sua attività professionale si scontra però nel 1938 con le leggi razziali, che le impediscono, in quanto ebrea, di continuare a svolgere quella che per lei è, oltre che un lavoro, anche una missione.
Negli anni successivi Emma Foà si trasferisce sulla riviera ligure, a Sanremo (IM), ed è proprio nella ‘Città dei fiori’ che viene arrestata il giorno dell’Epifania del 1944. Tradotta al campo di Vallecrosia (IM) e poi in quello di Fossoli, è infine deportata ad Auschwitz. È assassinata nelle camere a gas al suo arrivo, il 10 aprile 1944, in quanto considerata, con i suoi 70 anni, troppo anziana per contribuire allo sforzo bellico nazista, tramite il suo lavoro in stato di schiavitù [...]
Redazione, Emma Foà, Da Verona ai lager

Vallecrosia (IM): stele in memoria dei prigionieri del campo fascista di transito

Il nome intero di questo campo [n.d.r.: di Vallecrosia] era "Campo di concentramento provinciale per ebrei", ma in realtà non era un campo di concentramento ma di smistamento, dove prigionieri politici e ebrei venivano separati secondo le leggi razziali. Fu costruito nel Dicembre del 1943 ed entrò in funzione il Febbraio del 1944, chiuso poi nell'Agosto dello stesso anno. Scoperto negli ultimi vent'anni, il suo ricordo era quasi del tutto scomparso dalle menti della città, per questo motivo è stato posto il cippo, per far ricordare alla gente che in quel luogo, dove fisicamente non c'è più nulla, c'era un campo. Questo campo era diviso in tre aree: tutte avevano quattro edifici; la prima era chiamata "Il campo" anche se il vero nome era "Zona Fassi", un edificio era occupato da una caserma per soldati, gli altri tre da stalle per i cavalli; la seconda area era una distilleria di lavanda diventata caserme per soldati; la terza era destinata a caserme, uffici dettaglio, uffici comando e a dei magazzini. Una vicenda interessante è quella delle sorelle Perera portate subito da Bordighera con la madre a Vallecrosia per essere poi smistate in campi diversi, Gabriella andò da sola nel campo di concentramento di Bergen-Belsen e l'altra sorella, Mirella, con la madre andò al campo di Ravensbruck. Durante il periodo di permanenza a Vallecrosia furono aiutate dalle compagne di scuola di Mirella.
Iscrizioni:
    IN QUESTO LUOGO SORSE NEL 1944
    VIOLENZA TRA LE VIOLENZE DELL’INGIUSTA GUERRA
    UN CAMPO DI RACCOLTA PER EBREI
    E PRIGIONIERI POLITICI
    In memoria di tutti i perseguitati
    l’Amministrazione Comunale
    pose il 27 gennaio 2012
Redazione, 207474 - Cippo in memoria del campo per ebrei di Vallecrosia (IM), Pietre della Memoria. Il segno della storia, 22 luglio 2022


In Corso Garibaldi, al centro di Sanremo, il 28 gennaio 2022 sono state collocate due pietre d'inciampo dedicate alla memoria di Anna Luciana Norzi e Guido Norzi.
[...] La famiglia Norzi era composta da tre membri: la madre morta per cause naturali, la figlia Anna Luciana Norzi morta il 11 novembre del 1943 e il padre Guido Norzi morto il 31 gennaio del 1944. Quando arrivarono a prendere Guido Norzi lui nascose la figlia dentro l'armadio di casa sua e chi venne a prenderlo non se ne accorse e portarono via solo lui, la governante vide questa bambina e andò a cercare da vicini o conoscenti della famiglia se potessero prenderla ma non la prese nessuno. Lei la prese e la portò alla polizia dove c'era suo papà.
Redazione, 209128 - Pietre d’inciampo in memoria di Anna Luciana Norzi e Guido Norzi - Sanremo, Pietre della Memoria. Il segno della storia, 22 luglio 2022


Nella zona dell'ex carcere di Santa Tecla in Pian di Nave il giorno 28 gennaio del 2022 sono state posate due delle sei pietre d'inciampo dedicate alla memoria di Ines Pacifici e Lodovico Orvieto.
[...] Ines Pacifici, nata nel 1889, il 26 novembre del 1943 fu portata a Milano per poi arrivare ad Auschwitz dove morì il 11 dicembre del 1943 insieme a suo marito, nato nel 1882. Sono stati catturati dai tedeschi a Sanremo nel 1943 ed inviati a Materassi. Nel dicembre furono trasferiti nelle carceri di Milano, dopo circa tre mesi furono inviati a Bolzano e successivamente deportati nel campo di concentramento. Insieme ad essi si trovavano anche il signore Osimodo di Sanremo e il dottor Neppi di Milano.
[...] Questa famiglia era composta di persone già avanti con gli anni, erano cittadini italiani ed erano inseriti nella vita sociale.
Il giorno del posizionamento della pietra d'inciampo erano presenti dei discendenti della loro famiglia che vivono fuori Sanremo.
Dopo le leggi razziali e le deportazioni che il comune di Sanremo ha vissuto non si è più riformata una comunità ebraica significativa nel territorio comunale.
Redazione, 209092 - Pietre d’inciampo ai coniugi Ines Pacifici e Lodovico Orvieto a Sanremo (IM), Pietre della Memoria. Il segno della storia, 22 luglio 2022

domenica 27 marzo 2022

Entrammo dunque in Ormea il 27 di aprile, pomeriggio, del 1945

Ormea (CN) - Fonte: Mapio.net

Dopo il primo lancio degli aerei alleati a Pian Rosso sopra Viozene ottenemmo due bazooka e diversi Bren e un buon numero di Sten, un discreto quantitativo di plastico con relativi detonatori, miccia di diversi tipi e l'occorrente per perfezionare le «Cipolle». Le cosiddette «cipolle» erano composte da un aggeggio che svitando un tappo gli si inseriva il detonatore: avvitando il tappo serviva anche da sicura, dall'altro lato dell'aggeggio era un pezzo di stoffa confezionato a forma di cipolla che, all'ultima estremità, era ristretto da un elastico; si riempiva questo involucro di plastico (poteva contenere anche mezzo chilo di esplosivo) e, quando si lanciava, la sua esplosione era veramente terrificante. Ottenemmo anche munizioni in abbondanza, dopodichè lasciammo Viozene. Una parte del materiale la lasciammo a un contadino di Alto che, assieme ad altri della Val Pennavaire e della Val d'Arroscia, si trovava a Viozene per caricare sui muli quanto non era possibile trasportare individualmente. Con tutto ciò eravamo notevolmente carichi e, per questo, si procedeva lentamente.
Alla sera anzichè trovarci sopra Eca Nasagò [Frazione di Ormea (CN)], eravamo ancora sopra Ormea; allora Arturo, un giovane ormeasco disse: "Se passiamo da Eca Nasagò dovremmo attraversare la statale di giorno e, con il carico che abbiamo, è da imprudenti e per questo sarà necessario aspettare la notte. Se invece scendiamo verso Ormea, transitiamo nei pressi del castello diroccato e attraversiamo il Tanaro nei pressi del paese e arriviamo al distaccamento di «Plastico» inosservati". Quest'ultimo era il Comandante del distaccamento di Ormea, che si trovava a poca distanza dalla cittadina.
Arturo conosceva bene la zona; certamente non ci avrebbe proposto quella strada se non fosse stato convinto di poter attraversare il Tanaro con facilità. Dopo esserci consultati, decidemmo di approvare la sua proposta. Era notte quando arrivammo nei pressi del castello. Guidava la piccola colonna Arturo, io subito dietro. Tutto sembrava procedere nel migliore dei modi, quando udimmo uno scoppio simile ad un colpo di pistola, subito seguito da una luce intensa come quella di un bengala. Qualcosa bruciava a poca distanza da noi. Ci acquattammo sul terreno in attesa delle prime raffiche; ma non successe nulla. Però i ragazzi che erano alla fine della colonna iniziarono a ripiegare abbastanza rumorosamente. Lasciai il mio carico ad Arturo dicendogli: "Devo raggiungerli e fermarli, non conoscono la zona!" e così feci.
Ritornammo sui nostri passi e pernottammo in un fienile di una frazione di Ormea. La sera seguente proseguimmo attraverso la statale per Eca Nasagò, senza altri incidenti. Lello Nante, con il suo solito umorismo, iniziò allora a sfottere Arturo dicendo che il motivo per il quale egli voleva guadare il Tanaro era che aveva i piedi sporchi, dato che non se li lavava mai....... Per tutta la durata della guerra Arturo restò «l'uomo dai piedi sporchi» che, per lavarseli, aveva bisogno di compagnia.
Il traffico nemico sulla statale era sempre molto intenso. Di giorno disturbavamo il transito con le mitragliatrici pesanti; di notte, con i bazooka, colpivamo la prima macchina della colonna, se di colonna si trattava. Al contrario, se era un veicolo isolato, non davamo neanche il tempo ai sopravvissuti, se ce n'erano, di reagire, perché colpivamo con numerose raffiche di sten. Poi prendevamo le armi e quant'altro c'era di utile a bordo degli automezzi e ci ritiravamo. Col bazooka il migliore era Lazzaro il redivivo: lasciava avvicinare l'automezzo a brevissima distanza e lo centrava con il suo tiro preciso. L'attività della nostra Brigata, dopo la prima decade di aprile, divenne intensa; durante il giorno era un susseguirsi continuo di vetture e autocarri che viaggiavano sempre in discreto numero, ma anche di colonne di carri trainati dai muli, cavalli e asini che il nemico aveva razziato nella zona.
Intorno al quindici di aprile, due squadre di un Distaccamento avevano attaccato una colonna di vetture tedesche, scortate da alcune autoblindo, armate da mitragliere antiaereo e da mascin-gavert. Su una vettura, occupata da ufficiali superiori nazisti, vennero trovate due grosse valigie di orologi di svariate marche e molte pezze di stoffa per vestiti da uomo e da donna, tutte in pura lana, a quanto dicevano gli intenditori.
Questo materiale fu caricato in seguito su due muli e, personalmente coadiuvato dai garibaldini Athos e Scalabrino, lo consegnai al Comando di Divisione «Silvio Bonfante». Allora non ci passò neanche per la mente di dividere questo bottino fra i componenti della Brigata che pure ce n'era bisogno: tutto quanto preso al nemico era ritenuto dovesse appartenere alla collettività, era di tutti e pertanto era sacro, più ancora delle vacche in India, come dicevamo allora.
Al mio ritorno dal Comando di Divisione, dove avevo consegnato il bottino di guerra, anzichè rientrare al Comando Brigata, allungai il mio giro nel territorio per vedere e sentire le novità nei vari Distaccamenti: tutte le notizie confermavano quelle del Comando di Divisione che prevedevano il ritiro dei nazifascisti entro il mese stesso. Il traffico sulla statale era ormai a senso unico: tutto in direzione del Colle di Nava e oltre, mentre i tedeschi di Pieve di Teco requisivano tutti i carri e tutte le bestie che riuscivano ancora a scovare.
Riferii ai vari Distaccamenti quello che avevo saputo al Comando di Divisione (il Comando Divisione era puntualmente informato degli eventi bellici in Europa dalla Missione alleata che era presso il Comando della Prima zona Liguria), raccomandai a tutti, in special modo ai comandanti la massima prudenza: era inutile rischiare più del necessario: avevamo dei fucili mitragliatori meravigliosi con abbondanti munizioni. Dovevamo usarli, ma a distanza di sicurezza, cambiando continuamente di posizione affinché il nemico non potesse localizzarli e fare uso dei mortai. Nel caso fossero stati sottoposti al tiro dei mortai, dovevano allontanarsi immediatamente. L'azione doveva essere continua, ma con una squadra in azione e le altre tre di riserva. Non dovevamo più adoperare i mitra, gli sten, se non per difenderci, oppure per occupare i paesi; dovevamo colpire i tedeschi e i loro alleati fascisti, ma niente eroismi; troppi compagni avevamo già perso, le nostre madri ormai ci aspettavano a casa da un momento all'altro. Era nostro dovere colpire il nemico in ritirata, ma era anche nostro dovere tornare alle nostre case.
Rientrai al Comando di Brigata dopo aver visitato tutti i Distaccamenti della stessa e dopo aver ripetuto a tutti le stesse cose. Quando giunsi al Comando Brigata, Osvaldo e Lello mi informarono di aver dato le stesse disposizioni che avevo dato io a voce, per lettera ai vari Distaccamenti; questo sempre a mezzo di staffette.
Chissà se un giorno qualcuno scriverà qualche cosa sulle nostre staffette; ... Alle volte ho l'impressione che il compito delle stesse sia stato sottovalutato (forse anche dagli stessi partigiani), invece era un compito di grande importanza e pericolosissimo. Andavano sempre da soli e nell'incerto, pressoché disarmati, forniti solo di rivoltelle di dubbia efficienza; dovevano recapitare ordini e istruzioni urgentissime dalle quali alle volte dipendeva la sopravvivenza di intere formazioni, le quali per i più svariati motivi nel frattempo potevano aver anche cambiato sede. Ma loro dovevano trovarle ugualmente, non potevano assolutamente cadere prigionieri del nemico con la posta e siccome in tal caso non serviva più alcuna copertura, i nazifascisti li avrebbero torturati fin tanto che non avessero parlato oppure fossero morti. L'indirizzo era sempre lo stesso: al Comando del Distaccamento oppure di Battaglione, o di Brigata, o di Divisione, sua sede, Vattelapesca. Pertanto era chiaro che questa sede bisognava saperla o cercarsela e comunque non denunciarla.
Se venivano catturati, seguiva pena la tortura e una morte atroce, il che purtroppo spesso capitava, appunto, alle nostre eroiche staffette che non tradirono mai.
Continuammo a colpire il nemico in ritirata sino al 27 aprile nel pomeriggio, quando entrammo in Ormea.
Forse qualcuno criticherà il nostro colpire il nemico in ritirata, sparare su gruppi di uomini in fuga, su carri, su camion, sui più svariati mezzi di trasporto; non è certamente da soldati agire così, si dice. Ma noi non eravamo più dei soldati, eravamo dei «Ribelli», e loro ci chiamavano addirittura banditi; come tali (e ancora peggio) ci avevano trattato. Ci chiamavano banditi e traditori, ma i veri traditori erano invece proprio loro, i fascisti che avevano tradito il 25 Luglio Mussolini, giurando fedeltà a casa Savoia e poi, all'8 settembre, dietro le baionette tedesche, avevano ripresentato giuramento di fedeltà al loro duce. I tedeschi invece facevano la guerra per il loro Führer e noi rendevamo loro quanto loro ci avevano dato in tutto quel periodo di lotta senza quartiere. Eravamo anche dei ribelli alla guerra, ma facevamo la guerra perchè avevamo capito che questo era il prezzo che si doveva pagare per quanto era successo dal 1922 al 1945 nel nostro paese.
Entrammo dunque in Ormea il 27 di aprile, pomeriggio, del 1945.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 188-192

6 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava l'elenco del materiale ricevuto con il 3° lancio alleato, avvenuto [a Pian Rosso] nella stessa data, materiale in cui figuravano soprattutto 18 Sten con 8000 munizioni, 2 lanciagranate con 28 munizioni, diversi capi d'abbigliamento.
15 aprile 1945 - Dal commissario [Mario, Carlo De Lucis] della VI^ Divisione al comando della VI^ Divisione - Informava che: "... Cimitero [Bruno Schivo] ha attaccato il 4 aprile i tedeschi a Borghetto d'Arroscia: si parla di 4 morti e 6 feriti; Basco [Giacomo Ardissone] non è intenzionato a lasciare il Battaglione 'Turbine'"; Osvaldo [Osvaldo Contestabile, commissario della costituenda IV^ Brigata "Domenico Arnera", già Brigata "Val Tanaro"], che è guarito, probabilmente rientrerà in formazione; Fra Diavolo [Giuseppe Garibaldi, comandante della IV^ Brigata, già a capo nell'autunno 1943 di un piccolo gruppo partigiano in Cipressa (IM)] ha attaccato nei giorni scorsi una macchina tedesca ferendo un tenente colonnello: la formazione colà stanziata funziona bene e continua ad arruolare nuovi volontari...".
16 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" alla formazione garibaldina in Val Tanaro - Comunicava che "Fra Diavolo" [Giuseppe Garibaldi] era nominato comandante - commissario "Lello" [Raffaele Nante], responsabile politico "Barba" - della Brigata "Val Tanaro", dalla quale dovevano ormai dipendere il I° Distaccamento "Mario Longhi" con comandante "Franco" [Franco Bonello] e commissario "Romolo" [Romolo Gandolfo], il II° Distaccamento "Giuseppe Maccanò" con comandante "Arturo", il III° Distaccamento "Ormea", nome dato spontaneamente dai garibaldini che lo componevano, con comandante "King Kong" [Secondo Bottero] e con commissario un partigiano designato da "Lello", il IV° Distaccamento "Garessio" i cui uomini dovevano eleggere il proprio comandante ed il proprio commissario, che i 4 Distaccamenti dovevano "inviare rapportini giornalieri", che la formazione "Val Tanaro" doveva stabilire contatti con il comando della VI^ Divisione tramite la II^ Brigata "Nino Berio".
17 aprile 1945 - Dal comando della II^ Brigata "Nino Berio" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" alla "formazione in Val Tanaro" [non era ancora stata ufficializzata la IV^ Brigata "Domenico Arnera"] - Chiedeva la presenza del comandante "Fra Diavolo" [Giuseppe Garibaldi] ad una riunione ad Alto per discutere un piano con "Basco" [anche "Blasco", Giacomo Ardissone, vice comandante della II^ Brigata].
23 aprile 1945 - Da "Boris" [Gustavo Berio, vice commissario della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della VI^ Divisione - Scriveva che "Frà Diavolo ha effettivamente 150 uomini... la val Tanaro è completamente nostra politicamente, lo deve essere anche militarmente".
24 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 340, al comando della formazione "Val Tanaro" - Comunicava la nuova denominazione della formazione, IV^ Brigata "Domenico Arnera".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

lunedì 10 gennaio 2022

Oggi sul petto di chi passò l’inverno sui monti è appuntato un simbolico nastrino

Primo da sinistra Ivar Oddone, Kim, terzo Giuseppe Vittorio Guglielmo, Vittò/Ivano - Fonte: Annalisa Piubello, Op. cit. infra

Chi canterà le  gesta dell’armata errante, l'epopea dei laceri eroi, le imprese dell’esercito scalzo, chi canterà l’anno di gloria e sangue trascorso sui monti? Chi enumererà la schiera di quelli che non scesero, dei tanti morti lasciati lassù, con nello spento sguardo l’ultimo bagliore del combattimento o l'ultimo spasimo della tortura? Chi tramanderà la lunga storia di imboscate e guerriglie, di battaglie e sbandamenti, di raffiche e cespugli, di fughe e assalti? 

I primi morirono. Ma non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è ora leggendario, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s'arruolarono sotto la tua bandiera. E pure morì sotto il martirio nazista l'animatore di una delle prime bande a Baiardo: Brunati, il partigiano poeta. E la trista Germania inghiottì Lina Meiffret, prima partigiana. 

S'approssimava la primavera. Verso Rezzo era salito un uomo alto e flemmatico dall’occhio allucinante e dal vestito trasandato: il Curto. Verso Langan vagava un uomo tarchiato e biondo, dallo sguardo azzurro e freddo, magnetico e impassibile. Vittò. Intorno a ognuno d’essi si ingrossò la schiera. 

Chi canterà la spensierata audacia degli inizi, in cui ogni azione era una beffa, ogni arma conquistata un trofeo? Langan, nome glorioso, vedesti ingrossarsi le schiere, urlare l’entusiasmo, salire e scendere i camion gremiti ad ogni nuova azione, tra canti e sventolare di bandiere nella gloriosa primavera. Chi canterà la battaglia di Carpenosa, di come trenta uomini fermarono quattro camion carichi di tedeschi, chi canterà come Erven si coprì di ferite e di gloria a Sella Carpe e sfuggì per miracolo la morte riverso in un cespuglio? Con Marco [n.d.r.: Candido Queirolo] a Triora e Vittò a Langan è incerta per i tedeschi la via dei monti. 

Poi venne, giorno infausto, il tre luglio. I tedeschi ebbero il sopravvento sulle bande, i paesi furono invasi e saccheggiati. Chi canterà la gloriosa popolazione di Castelvittorio, i vecchi cacciatori di cinghiali insorti alla difesa del loro paese, che resistettero con tanto valore? Sotto i colpi di mortaio tutto sembra che si sfasci: l’impassibile Vittò si passa una mano sulla fronte: è la fine? No, gli sbandati si ritirano intorno a Vittò, su Marta, e l’agosto rivedrà la Brigata ricostruita, più organizzata, più potente.

Marco cade in un’imboscata nella trista Baiardo, ma un nuovo capo si è fatto avanti, un ragazzo dal coraggio di leone, dal corpo tarchiato, dalle prominenti ganasce: è Gino. Il suo distaccamento quasi inerme agli inizi in meno di un mese è il più amato della Divisione. I vili bersaglieri - carne venduta - cominciano a temere il suo nome.

Le armate delle nazioni unite liberano intanto tutta la Francia, avanzano verso il nostro confine. È l’ora di discendere? Non ancora, bisogna mordere il freno, comincia il lungo periodo dell’attesa mentre i cannoni alleati rombano vicini, verso ovest. Si inoltrino le colonne tedesche verso Baiardo, ogni cespuglio nasconde un mitragliatore pronto a far fuoco, i morti cadono fitti a mordere la polvere: fu questa la più grande imboscata della nostra storia partigiana.

Badalucco è contesa tra i tedeschi ed Artù - nome che suona terribile alle orecchie nazi-fasciste - e paga con la distruzione il suo patriottismo. Gino gareggia in audacia coi suoi uomini. Figaro e il francese Pierre primeggiano: una divisa tedesca basta per portarli nel campo nemico a compiere le più audaci imprese.

Poi sopraggiungono giorni tristi. Pigna cade: l'occhialuto Fragola, il cervello strategico della brigata, vive dieci giorni digiuno e nudo in una grotta. Upega vede la morte gloriosa del più leggendario di tutti i partigiani, del cavaliere senza macchia e senza paura, dell’eroe di mille imprese le più audaci: il Cion. I Partigiani laceri e scalzi prendono la via del Piemonte, passano i valichi nevosi del Mongioia.

Il partigianesimo in Liguria è dunque stroncato? No, continua negli attentati ai fascisti per le vie cittadine. Ecco allora che avvampa il tuo generoso furore, indimenticabile Aldo Baggioli, eroe bello e spietato, e ti porta sfidando ogni pericolo a scaricare il tuo revolver nel petto dei traditori. Dietro a te Riccardo socchiude l'occhio mefistofelico: i fascisti hanno paura, sanno che a uno a uno cadranno sotto il tuo piombo giustiziere. Ma purtroppo presto sospireranno di sollievo sapendoti caduto crivellato dalle raffiche sul prato di San Romolo.

Intanto la divisione è tornata sui monti di Liguria: gli orrendi bersaglieri di Ceriana e di Baiardo se ne accorgono ben presto. Ma comincia l’inverno, il duro inverno partigiano: la neve è nemica della guerriglia. Ma gli uomini di Gino e di Figaro non si concedono riposo. I fascisti e i tedeschi di Molini pagano cara ogni loro sortita.

Oggi sul petto di chi passò l’inverno sui monti è appuntato un simbolico nastrino. Striscia rossa in campo bianco: sangue sulla neve. L'attesa primavera s'avvicina a poco a poco: è il momento dell’attacco? Potremo stanare dalla trista Baiardo i vili bersaglieri? No, il momento non è ancora giunto, occorre ritornare. Ma non ritornerai tu, Cardù [n.d.r.: Riccardo Vitali, caduto a Baiardo il 10 marzo 1945, commissario del Distaccamento mortaisti della V^ Brigata], caduto serenamente con la fronte al nemico per le vie del paese.

Ancora una volta i partigiani prendono la via del Piemonte, per armarsi, vestirsi, rinforzarsi questa volta: poi scenderanno e allora sarà un succedersi d'imboscate, di colpi, di sparatorie in tutte le valli e su tutte le strade contro i nazi-fascisti scoraggiati e disorientati. Ma gli eventi precipitano, siamo vicini alla meta. Fu proprio quando mancavano pochi giorni al traguardo, che ti presero e ti uccisero, ultimo dei caduti nostri, Tenore [n.d.r.: Gualtiero Zanderighi, caduto il 22 aprile 1945 a Poggio di Sanremo, della V^ Brigata]. E dovette essere triste morire in un mattino d'aprile, mentre nell'aria era un presagio della prossima vittoria.

Italo Calvino, Ricordo dei Partigiani vivi e morti, articolo apparso sul numero 13 de La voce della democrazia, Sanremo, martedì 1° maggio 1945
 
 
 
[...] nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione il giovane sanremese [Italo Calvino] si era attivamente prodigato nell'opera celebrativa e propagandistica messa in campo dalle forze comuniste, attraverso alcuni scritti polemici e apologetici apparsi sugli organi della stampa locale, <13 e contribuendo all'allestimento di un volume collettaneo dal titolo quanto mai emblematico della volontà di testimoniare "a caldo" la drammaticità della lotta partigiana nell'imperiese: L'epopea dell'esercito scalzo. <14
Al terzo capitolo era stata affidata una lunga e dettagliata descrizione della «particolare configurazione geografica» e «fisico-demografica» del territorio, in relazione alla «peculiare posizione militare» - cruciale per la sua perifericità di frontiera - e come fattore determinante dell'«alta drammaticità» del conflitto, di cui restituiva un dato oggettivo il «numero altissimo di caduti» (una percentuale, tra partigiani e civili, tra le più alte «se non la più alta di tutta l'Italia»): un paesaggio «che è, nello stesso tempo, alpestre e marino» racchiuso in una «estensione limitata» di cui la «fascia marittima» - con la sua «caratteristica vegetazione mediterranea e sub tropicale» - occupa soltanto una «striscia di territorio» lungo la costa e cede subito il passo al paesaggio «alpino» (il 90% del territorio), con la disordinata altimetria dei rilievi coperti da fitte zone boschive nella loro progressione ulivi-pini-castagni. Una configurazione territoriale che, a causa anche della «deficenza notevolissima di ricchezza idrica», era sempre stata di ostacolo per lo sviluppo agricolo dell'interno, a fronte della particolare «agricoltura industriale» sviluppatasi a «fascie» lungo la costa, «dove la popolazione si addensa in una successione di cittadine ricche di giardini, di ville e d'alberghi», considerata anche l'assenza di un efficiente sistema di comunicazione tra la riviera e il suo entroterra (poche strade «soggette a interruzioni» e «frane», con ponti e ponticelli «facilmente ostruibili»). <15
Se da un lato il territorio, «per la sua struttura fisica», si era prestato benissimo alla «guerriglia», garantendo la possibilità di «attacchi improvvisi, di ritirate fulminee, di agguati e di resistenze su posizioni formidabili per natura», dall'altro lato aveva riservato «svantaggi altrettanto grandissimi»: la «povertà della regione» e la «mancanza di grossi centri industriali nelle immediate vicinanze» avevano reso difficili i rifornimenti in loco di viveri e armamenti, a fronte della «facilità, per un nemico ben attrezzato, di presidiare punti strategici determinati, controllanti i nodi stradali più importanti, in modo da impedire un contatto stretto e continuo fra le diverse bande di guerriglia operanti nella zona». Senza contare che la presenza di «centri minuscoli» aveva reso le attività cospirative ancora più rischiose di quanto non lo fossero già nelle grandi città, in quanto maggiormente presidiati dal nemico e, di conseguenza, sottoposti anche alla «continua offesa bellica alleata, sia navale che aerea».
E tuttavia il territorio era abitato da «gente forte e dura come le rocce delle sue montagne», gente che «conosce la gioia ed il tormento di un lavoro asperrimo, che è una lotta insonne contro la natura avara, e che dal lavoro ha tratto l'amore per la libertà». <16
Veniva dunque messa in risalto la stretta rete di condizionamenti reciproci che si erano venuti a creare tra quel particolare paesaggio (l'elemento fisico-geografico), la popolazione locale con il proprio «carattere» (l'elemento antropico-demografico), e la loro azione-reazione di fronte all'irruzione delle vicende successive all'8 settembre (il dato storico e politico-militare).
[NOTE]
13 Si tratta degli articoli Ricordo dei partigiani vivi e morti e Primo maggio vittorioso, pubblicati il 1° maggio 1945 su «La voce della democrazia», ed Epurazione, uscito lo stesso giorno sulle colonne de «La nostra lotta», organo della sezione sanremese del PCI. Di non certa attribuzione è invece l'articolo Ventimiglia apparso sull'organo della Divisione Felice Cascione «Il Garibaldino» (cfr. FERRUA, Opere giovanili di Italo Calvino, cit., pp. 56-57).
14 L'epopea dell'esercito scalzo, a cura di Mario Mascia, A.L.I.S., Sanremo, s.d., ma del 1945 (firmati dal giovane Calvino sono i capitoli su Castelvittorio paese delle nostre montagne, pp. 49-50 e Le battaglie del comandante Erven, pp. 235-244).
15 Ivi, pp. 27-32.
16 Ibidem.

Alessandro Ottaviani, «Qualcosa di gelosamente mio»: paesaggi della Resistenza nella narrativa di Italo Calvino, Academia.edu
 
Tuttavia non solo attraverso Pin l’autore [Italo Calvino] “si racconta” [n.d.r.: nel romanzo Il sentiero dei nidi di ragno]. Rileggiamo insieme il famoso capitolo IX, il capitolo “ideologico” tanto criticato <107, cui Calvino non ha voluto rinunciare. <108
Protagonisti di questo capitolo sono Kim, comissario politico, e Ferriera, comandante di brigata.
Benché Kim compaia solo in questo capitolo, l’importanza del personaggio è chiara fin da subito per il fatto che il romanzo è dedicato in primo luogo a lui. «A Kim, e a tutti gli altri», dice la dedica. Già da questo si comprende che c’è una verità storica di Kim, la quale tuttavia va decifrata nella sua complessità.
Vedremo come in Kim Calvino operi una fusione di tre persone distinte: in primo luogo se stesso, poi Nino Siccardi, nome di battaglia “u Curtu”, comandante della “Prima Zona Operativa Liguria” dai primi mesi del 1944, ed infine il commissario politico Ivar Oddone, nome di battaglia “Kimi”.
Asor Rosa è categorico nel dichiarare: «[Kim] trasparente travestimento dello stesso Calvino» (ASOR ROSA, A., 2009: 422), mentre Andrea Dini commenta: "Un protagonista forse difficile, per Calvino, da fermare sul foglio: e anche per questo per Kim il gioco delle identificazioni si fa molteplice. Kim è in prima istanza Calvino medesimo, visto che senza dubbio la ricerca di serenità del personaggio s’identifica con quella dell’autore del Sentiero; [...] Kim, infine, è il commissario partigiano Curto, che presta parte della propria fisionomia al personaggio e rivendica in tal modo una connessione. (DINI, A., 2007: 258)
Dini fa riferimento all’articolo firmato da Calvino, Ricordo di partigiani vivi e morti, pubblicato sul numero 13 de «La voce della democrazia» il 1º maggio 1945. Era appena finita la guerra e l’autore proseguiva “con altri mezzi” la lotta partigiana. C’è molta enfasi in questo scritto celebrativo, che però ci restituisce delle immagini importanti e insieme il clima del momento storico: "Chi canterà le gesta dell’armata errante, l’epopea dei laceri eroi, le imprese dell’esercito scalzo, chi canterà l’anno di gloria e sangue trascorso sui monti? [...] I primi morirono. Ma non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, piú generoso e piú valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è ora leggendario, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s’arruolarono sotto la tua bandiera. <109 [...] S’approssimava la primavera. Verso Rezzo era salito un uomo alto e flemmatico dall’occhio allucinante e dal vestito trasandato: il Curto. Verso Langan vagava un uomo tarchiato e biondo, dallo sguardo azzurro e freddo, magnetico e impassibile. Vittò. Intorno a ognuno d’essi si ingrossò la schiera". (CALVINO, I., 1945)
Trascuriamo per il momento la descrizione di Vittò che, come vedremo, nel Sentiero corrisponde al personaggio Ferriera e confrontiamo la descrizione del Curto, riportata sopra, e del Kim del Sentiero: «Kim è allampanato <110, con una lunga faccia rossiccia, e si mordicchia i baffi. [...] non è simpatico agli uomini perché li guarda sempre fissi negli occhi <111 come volesse scoprire la nascita dei loro pensieri». (CALVINO, 1991: 99)
Dunque i tratti fisiognomici di Kim sono effettivamente mutuati da quelli di Nino Siccardi <112, “u Curtu”, ma se dobbiamo invece stare a quanto scrive Ferrua, Kim è Ivar Oddone <113, “Kimi” <114, commissario politico della IV Brigata che a fine dicembre del 1944 diventa commissario della II Divisione Garibaldi «Felice Cascione» dove milita Calvino in questa fase:«S’è sovente pensato che Kim fosse l’autore camuffato, il porta bandiera dell’autore. Questi invece si cela dietro il personaggio di Pin e le idee di Kim son tanto di Calvino, quanto sono di Oddone, ovvero una somma di posizioni rispettive». (FERRUA, cit.: 169)
Ferrua dà credito a Calvino che nella Prefazione del ’64 parla del suo amico medico e ammette solo la comunanza ideale messa in evidenza anche da Ferrua, mentre rifiuta ogni identificazione con il personaggio, benché, come vedremo, con scarso successo.
Leggiamo un passo della Prefazione: "[...] nelle mie preoccupazioni di allora [c’era la] definizione di cos’era stata la guerra partigiana. Con un mio amico e coetaneo, che ora fa il medico, e allora era studente come me, passavamo le sere a discutere. Per entrambi la Resistenza era stata l’esperienza fondamentale [...] Il mio amico era un argomentatore analitico, freddo, sarcastico verso ogni cosa che non fosse un fatto; l’unico personaggio intellettuale di questo libro, il commissario Kim, voleva essere un suo ritratto; e qualcosa delle nostre discussioni d’allora, nella problematica del perché combattevano quegli uomini senza divisa né bandiera, dev’essere rimasta nelle mie pagine, nei dialoghi di Kim col comandante di brigata e nei suoi soliloqui". (CALVINO, 1991:1197)
In realtà in Kim c’è molto di Calvino stesso: «[...] la sua mente s’affolla di interrogativi irrisolti». (Ibid., 99) Tali interrogativi riguardano, sì, le ragioni della guerra, il perché si combatte da una parte o dall’altra, che senso abbia formare un distaccamento come quello del Dritto, insomma tutto quanto viene discusso con il comandante Ferriera - ciò di cui parleremo analizzando il personaggio di Ferriera stesso - ma gli interrogativi di Kim non sono solo politici, sono soprattutto esistenziali e sono gli stessi dell’autore, così come Kim finisce con assomigliare un po’ anche a Pin: "Kim cammina solo per i sentieri [...] I tronchi nel buio hanno strane forme umane. L’uomo porta dentro di sé le sue paure bambine per tutta la vita. «Forse, - pensa Kim, - se non fossi commissario di brigata avrei paura. Arrivare a non aver piú paura, questa è la meta ultima dell’uomo». Kim è logico [...], ma quando ragiona andando da solo per i sentieri, le cose ritornano misteriose e magiche <115, la vita degli uomini piena di miracoli. Abbiamo ancora la testa piena di miracoli e di magie, pensa Kim. Ogni tanto gli sembra di camminare in un mondo di simboli <116, come il piccolo Kim in mezzo all’India, nel libro di Kipling tante volte riletto da ragazzo. «Kim...Kim...Chi è Kim?...». (Ibid., 108).
Ritorna il senso del magico e del misterioso, che è anche di Pin; ritorna il simbolismo allucinato di Angoscia in caserma e l’interrogativo fondamentale: «Chi è Kim?», l’interrogativo sull’identità, l’interrogativo su di sé: "Perché lui cammina quella notte per la montagna, prepara una battaglia, ha ragione di vite e di morti, dopo la sua melanconica infanzia di bambino ricco, dopo la sua scialba adolescenza di ragazzo timido? [...] i suoi pensieri sono logici [...] Ma non è un uomo sereno. <117 Sereni erano i suoi padri, i grandi padri borghesi che creavano la ricchezza. Sereni sono i proletari che sanno quello che vogliono, i contadini che ora vegliano di sentinella ai loro paesi, sereni sono i sovietici che hanno deciso tutto [...] Sarà mai sereno, lui, Kim? <118 Forse un giorno si arriverà ad essere tutti sereni, e non capiremo piú tante cose perché capiremo tutto»". (Ibid., 108)
Anche Kim manifesta quella «rischiosa aspirazione di serenità» che per Pin consisteva nella speranza di trovare «il grande amico». La lettera a Scalfari già citata fornisce una chiave interpretativa fondamentale per intendere quel tanto di Bildungsroman che c’è nel Sentiero, in quanto ricerca e percorso individuale di guarigione da quella «ferita segreta per riscattare la quale combattiamo». (Ibid., 109)
Dovrebbe a questo punto essere chiara l’operazione di fusione tra le tre persone. Se i tratti fisiognomici di Kim sono mutuati da “u Curtu”-Siccardi e il ruolo politico-militare-ideologico da “Kimi”-Oddone, per il resto è lo stesso autore che si racconta, con le sue inquietudini, i suoi dubbi, le sue speranze, il suo passato.
Cosí come dovrebbe essere chiaro che Calvino è sia in Pin che in Kim, con una sorta di sdoppiamento che permette alle diverse parti dell’autore di raccontarsi. <119
Di piú semplice decifrazione ma non meno importante e autobiografica è l’altra figura del capitolo IX: il comandante Ferriera. È lui l’interlocutore di Kim nella discussione sulle ragioni della guerra e le valutazioni sul distaccamento del Dritto. Ferriera è una figura storica. In Ricordo di partigiani vivi e morti Calvino parlava di «un uomo tarchiato e biondo, dallo sguardo azzurro e freddo, magnetico e impassibile. Vittò». Nel Sentiero «Ferriera è tarchiato [...] ha due grandi occhi chiari e freddi che alza sempre a mezzo guardando di sottecchi». (Ibid., 99)
Il personaggio del romanzo riproduce fedelmente i tratti del Comandante Vittò <120 che nel dicembre del 1944 assume il comando della II Divisione d'assalto Garibaldi «Felice Cascione», nella I zona Liguria, dove combatte anche Calvino.
Di Ferriera Calvino mette in evidenza l’origine proletaria, le certezze ideali, l’efficacia militare: "Ferriera è un operaio nato in montagna, sempre freddo e limpido: sta a sentire tutti con un lieve sorriso d’assenso e intanto ha già deciso per conto suo [...] La guerra partigiana è una cosa esatta, perfetta per lui come una macchina, è l’aspirazione rivoluzionaria maturatagli nelle officine, portata sullo scenario delle montagne, conosciute palmo a palmo, dove può giocare d’ardire e d’astuzia". (Ibid., 99)
Con Kim Ferriera discute sul distaccamento del Dritto e che senso abbia la decisione di Kim di mettere insieme un gruppo tanto poco affidabile di uomini. Uomini che non hanno coscienza di classe, che non sanno bene perché combattono, ma che hanno - dice Kim - in comune con gli altri, tutti gli altri, anche i fascisti- «un furore», un elementare bisogno di riscatto umano.
La discussione serve a Calvino per chiarire i presupposti ideologici che stanno alla base della sua scelta di campo.
[NOTE]
107 A cominciare da Pavese, il quale nella lettura editoriale per Einaudi scrive: "Grande stonatura il capitolo del commissario Kim che ragiona sul distaccamento di carogne dov’è il ragazzo. Si rompe l’angolo di visuale del ragazzo, e quello di Kim non è ingranato nell’avventura, è un’esigenza intellettualistica". (CALVINO, 1991: 1243)
108 Sempre nella Prefazione del ’64 Calvino spiega: "Per soddisfare la necessità dell’innesto ideologico, io ricorsi all’espediente di concentrare le riflessioni teoriche in un capitolo che si distacca dal tono degli altri, il IX, quello delle riflessioni del commissario Kim, quasi una prefazione inserita in mezzo al romanzo. Espediente che tutti i miei primissimi lettori criticarono, consigliandomi un taglio netto del capitolo; io, pur comprendendo che l’omogeneità del libro ne soffriva [...], tenni duro: il libro era nato cosí, con quel tanto di composito e di spurio". (Ibid., 1189)
109 Non si dimentichi che l’autore chiese l’iscrizione al PCI quando seppe della morte di Felice Cascione, medico e partigiano, nonché autore nel 1943 del testo di «Fischia il vento», famosa canzone partigiana sulla musica di quella popolare russa «Katjusha».
110 Il corsivo è nostro.
111 Il corsivo è nostro.
112 Nino Siccardi, nato a Porto Maurizio (Imperia) il 25 febbraio 1902, era un macchinista navale. Giovanissimo socialista, era passato al Partito Comunista e per la sua attività di antifascista aveva dovuto riparare in Francia. Tornato in Italia nel 1936, sarà tra i primi organizzatori dei GAP di Imperia. Quando si costituiscono le prime Brigate Garibaldi, è "u Curtu" (il nome di battaglia era ironicamente in contrapposizione con la sua statura) e comanda la IX Brigata d'Assalto. Diventerà il comandante della Prima Zona partigiana Liguria. Dopo la guerra continuerà il suo impegno politico nel PCI e nell’ANPI.
113 Ivar Oddone, nato a Imperia il 26 ottobre 1923, era ancora studente in medicina quando, dopo l'8 settembre 1943, era entrato nelle file della Resistenza ligure. Per le sue doti di combattente e di organizzatore divenne, come dicevamo, commissario politico della II Divisione "Felice Cascione" e, successivamente, dell'intero gruppo di divisioni che operavano nella provincia di Imperia. Dopo la Liberazione, Ivar Oddone riprese gli studi, si laureò brillantemente e si dedicò agli studi di medicina del lavoro.
114 Interessante l’annotazione di Ferrua: «[...] la verità letteraria di Calvino con Kim supera la verità storica. Infatti, il partigiano si è scelto il nomignolo di Kim leggendo le vicende del ragazzo indiano creato da Ruyard Kipling. Ma questo nome di battaglia rassomigliava troppo all’abbreviazione di chilometro e risultava ostico a tutti in montagna, venne perciò corretto, diventando Kimi in tutti i documenti ufficiali».
(FERRUA, 1991: 168)
115 Il corsivo è nostro.
116 Il corsivo è nostro.
117 Il corsivo è nostro.
118 Il corsivo è nostro.
119 Domenico Scarpa sostiene: «Pin, bambino precocemente invecchiato, e Kim, ragazzo precocemente maturo, sono le due opposte figure nelle quali l’autore del Sentiero si specchia e si sdoppia. [...] Ha notato Claudio Milanini che Pin e Kim non si incontrano mai. Forse non potevano incontrarsi: il loro incontro avviene fuori dal romanzo, nella persona che lo scrive, ed era la condizione necessaria perché fosse scritto: 'Il sentiero dei nidi di ragno è anche un’autobiografia implicita trasposta'» (SCARPA, D., 1999: 222)
120 Guglielmo Giuseppe Vittorio (comandante Vittò) nasce a Sanremo il 2 febbraio del 1916. Emigra giovanissimo in Francia per lavoro e, avendo già una radicata coscienza antifascista, si arruola nelle Brigate internazionali e combatte nella guerra di Spagna. Dopo la sconfitta della Repubblica, ripara in Francia attraverso i Pirenei. Internato in campo di concentramento, viene rimpatriato nel 1940. Condannato per renitenza alla leva, viene inviato sul fronte greco-albanese e successivamente a Creta. Rientrato in licenza nel ’43, salirà in montagna all'indomani dell'8 settembre dove, forte di un’esperienza di otto anni di guerra, organizzerà i primi partigiani. Il 25 Aprile 1945, al comando di circa 2000 uomini occupa Ventimiglia, Sanremo, Bordighera, Taggia e porto Maurizio. E' stato insignito di Medaglia d'Argento al V.M.

Annalisa Piubello, Calvino racconta Calvino: l'autobiografismo nella narrativa realistica del primo periodo, Tesi di dottorato, Universidad Complutense de Madrid, 2016