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mercoledì 30 giugno 2021

Il parroco porta le lettere al capitano Cristin

Molini di Triora (IM) - Fonte: Comune di Molini di Triora

Ricavo i dati da miei appunti del tempo e da una relazione del parroco di Molini di Triora (IM), in Valle Argentina, di cui segno tra virgolette le parole.
"Quando si ebbero i primi scontri armati tra le truppe nazifasciste e le bande partigiane a Carmo Langan, a Badalucco, a Carpenosa, a Santa Brigida, Molini fu subito sospettato dai tedeschi come centro di bande e ciò creò in essi quello stato d’animo di avversione verso i suoi abitanti".
Il martirio di Molini iniziò il 3 luglio 1944. Colonne di tedeschi puntavano sul paese da ogni parte. Presa dal panico, la popolazione, quasi in massa, abbandonò l’abitato e si diresse verso Corte o giù nei fondovalle. Ovunque i tedeschi passavano, sparavano a scopo intimidatorio o per paura.
"Fu durante questa sparatoria iniziale che caddero le prime vittime. Maiano Antonio, padre di famiglia, raggiunto dalla mitraglia in località Euscio. Fu ferito al ventre per il che si trascinò faticosamente, aiutato da Capponi detto Tulalua, fino a casa ove spirò la mattina seguente; Basso Pietro,vecchio di 78 anni e . . . a fianco veniva atterrato Bronda Pietro di Triora, 53 enne … Sulla strada di Perallo cadeva Moraldo Giacomo ed il 73 enne Arnaldi Francesco".
Il parroco ed il Commissario Prefettizio tentarono di parlamentare con il comando tedesco senza alcun risultato.
"Agli spari si aggiunse il saccheggio. Penetrati nelle case i nazifascisti prescelsero gli oggetti di valore, vestiti, capi di biancheria; rinchiusero il tutto in valigie, in sacchi, in ceste, e I’asportarono. Nelle case bivaccarono, ruppero oggetti, insudiciarono. Urla e canti di ubriachi si alternarono tutta la notte con violente quanto inutili raffiche di mitragliatrice".
La casa Campoverde, in Via San Bernardo, dopo uno scoppio cominciò a bruciare. La scusa fu che vi si erano trovate armi.
"… Fattosi giorno, la soldataglia usciva dalle case ed invadeva tutte le strade, convertendo la pirateria in un vero carnasciale stomachevole: ubriachi fradici, indossando vesti femminili, cantando sguaiatamente e continuando a tracannare vino, i soldati si spargevano un po’ dovunque, pronti ai richiami che indicassero case di maggior bottino . . . I capi facevano comunella con la truppa e lo stesso capitano comandante non rimaneva indietro nell’opera dei gregari".
Il parroco, che troppo si interessava alla sorte dei suoi parrocchiani, fu rinchiuso in casa sua e guardato a vista.
"ll 5 luglio si iniziò con l’incendio della casa Caldani in località Gianchette. La motivazione era che vi avevano trovato armi".
I nazifascisti si consideravano “Padroni” ed il saccheggio veniva chiamato “Premio di guerra”. In mattinata fu ritrovato il corpo di Allaria G. B. Secondo, ucciso probabilmente la sera del 4 e buttato sotto strada vicino al fossato in località Fontanelle.
"Alcuni reparti, il giorno 5 luglio 1944, si accingevano a partire. Una trentina di camion, stracarichi di masserizie, biancheria, vestiti, asportati dalle case… Purtroppo però la tragedia non era finita. La truppa ladra aveva lasciato dietro di sé il reparto guastatori e questi si erano messi subito alla loro triste opera".
Il  parroco era andato a cercare i suoi parrocchiani nascosti. Quando giunsero. presso il paese sentirono scoppi in ogni casa. Nello spazio di un’ora il paese era tutto un rogo immane.
Il giorno 6 luglio i più ardimentosi cercarono di estinguere i fuochi e salvare il salvabile.
Nel loro ritirarsi i nazisti avevano fatto un’altra vittima: Allaria G. B., novantenne, trovato sepolto sotto le macerie della propria casa.
Durante questo rastrellamento fu compiuto dai nazisti uno degli episodi più esecrandi di criminalità.
Catturarono qua e là nove persone provenienti da Gavano. Due da Sanremo, nativi di Corte, ed uno di Badalucco. Tra esse una giovinetta di 16 anni. Rinchiusi in una stalla-scantinato, torturati, furono inzuppati di liquido infiammabile e bruciati. Dopo la loro morte fu fatta crollare su di esse, mediante tritolo, la casa. Le vittime furono scoperte quando i loro corpi ormai in putrefazione, segnalarono la loro presenza.
I loro nomi sono:
Allaria Olivieri G.B. di Gavano
Faraldi Enrico di Gavano
Faraldi Livio Antonio di Gavano
Moraldo Vincenzo di Gavano
Allaria Olivieri Gerolamo di Gavano
Aliaria Olivieri Giuseppe di Ant. di Gavano
Allaria Olivieri Giacomo di Gavano
Allaria Olivieri Giuseppe fu Antonio di Gavano
Moraldo Maria Caterina di Gavano
Anfossi Virgilio di Sanremo
Pastorelli Domenico di Corte
Donzella Angelo di Corte
Boeri Antonio di Badalucco.
don Ermando Micheletto, La V^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni” (Dal Diario di “Domino nero”  Ermando Micheletto), Edizioni Micheletto, Taggia (IM), 1975 

Molini di Triora, poco distante dal confine francese, era importante per i nazifascisti per la sua posizione strategica e l'aiuto elargito ai partigiani. Per tutti questi motivi, in occasione di un forte rastrellamento organizzato dai Tedeschi ai primi di luglio del 1944 per annientare le forze partigiane della provincia di Imperia, Molini di Triora era incluso nell'elenco dei paesi da punire e terrorizzare.
Il 3 luglio 1944 intorno a mezzogiorno si sparge la voce dell'imminente arrivo di truppe tedesche e la popolazione impaurita abbandona il paese, fuggendo precipitosamente. Gli abitanti si sparpagliano nelle zone limitrofe all'abitato, mentre il nemico investe il paese con due colonne convergenti da due direzioni (una scendendo dal Pizzo attraversando la frazione di Andagna e l'altra partita da Carmo Langan).
Verso le 17.30 le due colonne stringono il paese in una morsa. Cadono le prime vittime (Maiano, Basso, Bronda, Moraldo Giacomo).
Il parroco Don Ferdinando Novella e il Commissario prefettizio Carlo Viale cercano, a loro rischio, di trattare con il Comandante tedesco per indurlo alla clemenza sottolineando che non sono presenti formazioni partigiane e la popolazione è costituita da soli pacifici agricoltori. Malgrado le assicurazioni dell'ufficiale la sparatoria non cessa, anzi aumenta di intensità.
Occupato Molini di Triora, iniziano i saccheggi, le ruberie, le distruzioni e le gozzoviglie.
Il 4 luglio 1944 il parroco, dopo aver ottenuto il permesso dal comandante tedesco di uscire dall'abitato per andare a dar conforto agli abitanti fuggiti, per tre volte viene sempre bloccato dalle sentinelle.
Don Novella passando per il paese osserva inorridito gli effetti del saccheggio effettuato il giorno prima che non è ancora cessato, anzi inizia la distruzione e l'incendio di numerose case con la scusa di ritrovamento di armi da guerra da parte dei tedeschi.
Gravissimo il fatto avvenuto presso la Casa Campoverde in via San Bernardo (attualmente Via Nuova) - dal racconto del parroco Don Novella -: risulta che i nazifascisti avevano rastrellato dalle frazioni limitrofe 13 persone quasi tutti padri di famiglia, apolitici, laboriosi, tra i quali una ragazza di 16 anni (Moraldo Maria Caterina) rastrellata mentre portava le mucche al pascolo. Gli ostaggi furono rinchiusi in uno scantinato usato come stalla e dopo immancabili vessazioni si ipotizza che, dopo essere stati inzuppati di liquido infiammabile, furono bruciati vivi e quindi per occultare l'orribile delitto fu fatta crollare su di essi, con il tritolo, la casa. Furono ritrovati dopo quindici giorni dagli abitanti e dai parenti attirati dall'odore di cadaveri in decomposizione. Le salme furono sepolte nel Camposanto del paese.
Il 6 luglio 1944: non s'odono più scoppi e si placano gli incendi. La gente scende dalle alture e s'avvicina al paese. Molini di Triora si presenta in tutta la sua disperata desolazione: 104 case su 150 sono sinistrate ed interi gruppi di abitazioni sono crollati in blocco. La casa canonica è bruciata e con esso il suo archivio parrocchiale, il municipio è crollato sotto l'opera del tritolo, l'archivio municipale bruciato, distrutti l'oleificio, il mulino,l'ufficio postale, i due alberghi e la rimessa automobilistica Lantrua.
In questi orrendi primi giorni di luglio, gli altri piccoli centri non vivono molto più tranquilli del martoriato paese di Molini di Triora. Brucia Bregalla, spari su Andagna, su Creppo, alla Goletta, invasi Loreto, Corte, Cetta.
Ferro e fuoco anche nel Comune di Triora e le sue frazioni (2-5 luglio 1944). Reseconto finale dell'incendio: distrutte o rese inabitabili una settantina di case; cinquantadue famiglie restano senza tetto in un paese come Triora già spopolato dall'esodo. Alcune si sistemano presso i parenti; altre, che non possiedono nulla a Triora, s'allontanano per sempre.
Da “Storia della Resistenza imperiese” vol. II di Carlo Rubaudo (da pag. 177 a pag. 184 e pag. 193) e da “Il Martirio di Molini di Triora (3 luglio 1944 - 25 aprile 1945)” di Mons. Cav. Ferdinando Novella
Redazione, Episodio di Molini di Triora, 01-05.07.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia 
 
La popolazione di Molini fu aiutata dai paesi vicini con invio di viveri e vestiario. In settembre 1944 la calma ritorna perché un presidio partigiano veglia sul paese e sulla Alta Valle Argentina. Quando però i partigiani si devono ritirare in Piemonte, le truppe nazifasciste si insediano in paese.
"In novembre la permanenza dei reparti fascisti si fa quasi ininterrotta. Essi si insediano nelle poche case disponibili, facendone sloggiare i paesani: si fanno consegnare letti, materassi, stoviglie e viveri. … obbligano gli uomini a lavori pesanti… organizzano balli, obbligando, a mano armata, le fanciulle del paese ad intervenirvi ed inscenano il 2 novembre, giorno dedicato al ricardo dei morti, un vero carnasciale con schiamazzi, spari, ubriacature, a beffa degli affamati e terrorizzati abitanti".
Il prelievo di ostaggi è continuo e vessatorio. [...] Verso la metà di dicembre 1944 i nazisti vengono sostituiti da Granatieri Repubblichini, comandati dal capitano Cristin che colloca il suo comando in casa Daneri.
È lui, il presuntuoso, che la vigilia di Natale manda la circolare ai parroci, esigendo la lettura in chiesa, come è citato da me in un’altra parte. Ma fu anche autore di atti veramente criminali.
Tre giovani rastrellati dagli Alpini, i quali, incuranti della guarnigione di Molini [Molini di Triora (IM)], agivano per proprio conto, furono condannati a morte dal Cristin. La scena dell’esecuzione con i suoi preparativi crudeli e disumani fu vista da una buona parte della popolazione. […] "Allora il parroco si presenta al Cristin per chiedere la commutazione della pena, essendo i tre a lui noti come persone per bene. Il capitano risponde che ciò è impossibile e se vuole fare qualche cosa per essi può solamente annunziare ai condannati la sentenza irrevocabile e prepararli alla morte. Quantunque non ci sia nulla da sperare, il sacerdote tenta una seconda volta ed una terza, ma il capitano Cristin gli fa dire che attenda al suo ufficio di parroco e basta. I giovani accolgono la sentenza con pianti, si abbracciano tra di loro, protestano la loro innocenza, esibiscono la loro giovane età. Ma, confortati dal sacerdote, a poco a poco si calmano e si preparono da forti alla tragica fine. Si confessano, ricevono l’Eucarestia, quindi scrivono una lettera alle proprie famiglie. In esse, ognuno, per conto proprio, indipendentemente l’uno dall’altro, scrivono di andare verso la morte innocenti. Consegnano i documenti personali al parroco perchè li rimetta ai rispettivi parenti. Benché veda la situazione assolutamente disperata, il parroco porta le lettere al capitano Cristin e fa a lui notare la frase comune a tutti e tre “vado alla morte innocente”. Nel leggerla, il giustiziere sosta alquanto, poi, restituite le lettere dice di consegnarle ai rispettivi famigliari. Al parroco non rimane che accompagnare i tre giovani al luogo dell’esecuzione. D’altronde erano gli stessi a pregarlo di volerli assistere: “Venga almeno lei con noi”. Sono legate le loro mani, col filo di ferro, sul dorso e incolonnati tra due file di Cacciatori, quelli stessi che avevano eseguito il rastrellamento, il tragico corteo attraversa il paese per la via Grance e si porta nei pressi del cimitero in una fascia di proprietà di Adelina Sasso. Qui giunti sono disposti con la faccia rivolta verso il mare, prima però di alliniarsi, salutano ancora una volta il parroco. Un cacciatore interviene, li stacca dal parroco e li distanzia uno dall’altro, dieci centimetri circa. Quindi, dato da un sottotenente dei cacciatori l’ordine dell’esecuzione, una raffica di mitraglia li abbatte tutti e tre. Gli spari echeggiano giù fino al paese e si propagano lugubremente per tutta la valle. In ogni casa la gente, che era in attesa degli spari, rompe in singhiozzi. Le salme raccolte, dietro istanza del parroco, sono collocate in apposite casse e, poiché i caduti avevano espresso il desiderio di essere tumulati nel camposanto del proprio paese, ciò viene eseguito". Da una testimonianza di Don Ferdinando Novella, arciprete della Parrocchia di San Lorenzo Martire in Molini di Triora [ndr: dopo la pubblicazione di Don Micheletto, Op. cit. venne edito Cav. Ferdinando Novella, Il martirio di Molini Triora (3.07.44 - 25.4.1945), Comune di Molini di Triora, 2004]. Era il 16 gennaio 1945. Erano: Alberti Antonio, Verrando Domenico Quinto, Bova Giovanni, tutt’e tre di Agaggio Superiore. “Alcuni giorni dopo la suddetta esecuzione, il comandante Cristin, sfacciatamente, affiggeva un manifesto per il reclutamento dei giovani appartenenti alle classi dal 1914 al 1926, residenti a Molini di Triora. Redatto in forma altisonante e minacciosa, il manifesto ricordava i tre morti e terminava con le parole: Non avrete più pace”. Gli successe il ten. Renzo Barbieri delle Guardie Repubblichine, dominato da una paura indicibile."Fece costruire trincee stendere reticolati, alzare palizzate un po' ovunque, riducendo Molini una gabbia per le estese, quanto ridicole fortificazioni".  Il 17 febbraio 1945 per l’azione partigiana contro i guardiafili, in cui furono presi 10 repubblichini e tre tedeschi, furono rastrellati 20 ostaggi. ll comando tedesco ordinò il raduno dei parroci del Vicariato annunciando: se i tre tedeschi catturati non fossero stati restituiti, il comando si sarebbe sentito obbligato a far fucilare 14 banditi.  
Don Micheletto, Op. cit.

Barbieri Renzo nato a Golese (Pr) il 22 maggio 1916, Tenente e comandante di compagnia nel Raggruppamento Cacciatori degli Appennini
Interrogatorio del 4.9.1945: L’8 settembre mi trovavo quale S. Tenente di complemento nell’isola di Corfù presso il 41° Reggimento di Fanteria [...]
Verso la fine di novembre sono rientrato con la mia compagnia a Ceva ove sono rimasto sino ai primi di gennaio epoca in cui tutto il battaglione fu trasferito in Liguria ed io assegnato con la mia compagnia a Borgomaro, dove venne istituito un presidio da me comandato. Dopo circa dieci giorni di permanenza a Borgomaro sono passato con la mia compagnia a Molini di Triora. Effettivamente il Reggimento Cacciatori degli Appennini aveva il compito di effettuare rastrellamenti ma io non vi presi parte perché la mia compagnia aveva compiti di servizi interni. Alle mie dipendenze a Borgomaro avevo il Sottotenente Sacchetti, fervente fascista ed accanito antipartigiano il quale, di sua iniziativa, raccoglieva notizie ed effettuava fermi. Egli da solo si era arrogato il compito di certe operazioni di polizia né io potevo impedirglielo poiché il predetto era appoggiato dai comandi superiori. Una notte siamo partiti da Molini di Triora con l’intenzione di renderci conto della sicurezza del nostro presidio in relazione alla presenza di eventuali bande nei dintorni. A tale scopo pensammo di camuffarci da partigiani per attingere notizie. Faceva parte della spedizione anche il Sottotenente medico Corretti Francesco, accanito antipartigiani. Giunti in località S. Faustino, notammo una casa isolata e bussammo.
Ci trovammo in presenza di un signore che dichiarava essere un generale a riposo e di chiamarsi Mario Ferraroli. Il sottotenente medico Corretti gli disse che eravamo partigiani e gli chiese notizie su eventuali bande presenti in zona alle quali volevamo aggregarci. Il generale immediatamente spifferò che era sempre stato antifascista e genericamente disse che verso un determinato versante della montagna agiva una banda partigiana. Non avendo ottenuto altre informazioni ci allontanammo ma lungo la strada il Sottotenente Corretti mi fece osservare che bisognava provvedere al fermo del Ferraroli che si era dichiarato antifascista. Ritenni opportuno seguire il suo consiglio per evitare critiche al mio riguardo e mandai due militi a fermare il predetto generale. Il predetto venne trattenuto per due giorni in mia presenza da un tenente ed un maresciallo tedeschi e poi rilasciato. Ricordo che nell’aprile us, il Tenente Lazzari, alle mie dipendenze, si recò nella zona di Verdeggia per praticare accertamenti relativi al prelevamento di una pattuglia di militi. Il Lazzari ritornò portando circa dieci giovani che rastrellò nella zona ed accompagnò inoltre una certa Lanteri Maria e la figlia di lei, Rosa, perché il rispettivo marito e padre era stato indicato come partigiano. La Lanteri fu effettivamente interrogata in mia presenza dal tenente tedesco e dal Tenente Lazzari e fu picchiata con un frustino e minacciata con una pistola ma nego di averla io stesso minacciata o di averla malmenata. La Lanteri Maria fu poi rimessa in libertà mentre la di lei figlia Rosa fu trattenuta a lavorare presso il nostro presidio. Sono estraneo all’eccidio consumato dai tedeschi di cinque partigiani in Carpenosa. Escludo che miei uomini abbiano partecipato alla cattura ed all’uccisione dei cinque.
Nego di aver dato fra il 7 ed il 9 aprile us, ordini ad alcuni miei militi, mentre sostavo sulla piazza di Molini, di recarsi a prendere quattro individui a Carmo Langan e di metterli al muro. Non sono mai stato iscritto al PFR né al PNF.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 

Il 3 marzo 1945 a Grattino, frazione di Molini di Triora, minuscolo borgo della Valle Argentina, furono catturati, perché in possesso di armi, Quinto Verrando e Livio Maggi. I due partigiani furono rinchiusi a Molini di Triora in un scantinato, insieme al parroco di Molini Don Rodini e al ragioniere Zappa, accusato di risorse economiche alle bande che però viene presto liberato. I due partigiani vennero presumibilmente torturati. Dopo otto giorni i due giovani con le mani legate sul dorso furono condotti ad Agaggio Superiore, dove i Tedeschi pensavano fossero i partigiani, perché ne indicassero l'ubicazione precisa. Rifiutatisi di parlare, giunti in Pian Carré furono freddamente giustiziati con un colpo di pistola alla nuca.
Verrando morirà subito, mentre Maggi verrà lasciato agonizzante sul terreno. Soccorso da alcuni contadini, morirà dopo due settimane.  Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020

[n.d.r.: altri lavori di Giorgio Caudano: Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021;  La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944) (a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone), Comune di Pigna,  IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]

Nel mese di marzo gli ostaggi di turno subivano torture negli scantinati di casa Daneri e di casa Fognini.
Il 10 marzo 1945 il parroco veniva arrestato perché era salito sul campanile “per dar la corda all’orologio”,  scusa per fare segnalazioni ai banditi. Inoltre il diverso colore dei paramenti della messa, cambiato ogni giorno, era un messaggio ai partigiani. Venne rinchiuso nella cantina di casa sua. Fu liberato dopo molti giorni. Nella stessa prigione vennero rinchiusi due giovani partigiani: Verando Quinto di Agaggio e Maggi Lino di Genova, fucilati poi l’11 marzo presso Agaggio Superiore.
Il 18 marzo una ventina di ostaggi, prelevati dallo scantinato di casa Fognini, vennero condotti verso Taggia. Dodici venivano poi liberati e 6 fucilati o meglio mitragliati in una grotta sotto Carpenosa. Questi ultimi erano:
Lanteri Pierino di Verdeggia
Lombardo Calogero di Ravanusa (Sicilia)
Oliva Giovanni di Badalucco
Gamboni Pietro di Montello (Avellino)
Verrando Vincenzo di Agaggio
Cassini Vincenzo di Apricale
Il Verrando era il terzo morto della famiglia per cause belliche.
"Il Cassini era un vecchio cadente di oltre 72 anni dalla lunga barba bianca, mostrava numerose e profonde cicatrici dovute a sevizie e a torture. Fu accusato di rifornire olio alle bande partigiane. Niente di vero".
Il 14 aprile 1945 vengono rastrellati cinque uomini e mandati ai Ponti di Nava per lavori.
Il 19 aprile, dopo lo scoppio delle rocche di Drego, quasi tutti gli uomini validi vengono costretti, spinti come bestiame da lavoro, fin nei pressi di Drego per ripararvi una strada fatta saltare da bande partigiane.
Gli ultimi due giorni, il 24 e il 25 aprile 1945, sono giorni di inferno. La soldataglia, in ritirata, entra nottetempo nelle case; obbliga ammalati e poveri vecchi a cedere il letto; vi consuma pasti e porta via il rubabile.”
"Improvvisamente il presidio locale dei repubblichini, la sera del 25, lascia il paese. La poco gloriosa truppa, fedele e coerente fino all’ultimo all’insegna del ladro, cerca di improvvisare un mercato di tutta la mercanzia rubata; ma non trovando avventori, ammucchia il tutto e la da alle fiamme. Appiccano il fuoco anche ai rimanenti stabili delle caserme ancora intatti".
Ognuno lascia l’orma del suo operato. I nazifascisti lasciarono impronte infamanti, che non si cancelleranno più nel tempo e verranno perpetuate nella memoria storica.
Don Micheletto, Op. cit.

[...] Il giorno 18 marzo 1945, dalla prigione di casa Fognini strapiena di innocenti detenuti sul far della sera vengono fatti uscire una decina di giovani legati, al solito, con le mani sul dorso e incolonnati tra due file di tedeschi e vengono diretti, lungo la strada provinciale, verso Taggia.
Guai ai paesani che facessero solo cenno di riconoscerli e tanto peggio se osassero indirizzare una parola agli stessi! Il fucile sarebbe stato sempre pronto con lo sparo! Lungo la strada però uno o due dei prigionieri furono rilasciati. Quando il gruppo fu nei pressi della frazione Glori, si fece una seconda scelta, sicché non rimasero che sei. Questi, legati l'uno all'altro furono sospinti, nei pressi , alla imboccatura di una caverna. Venne piazzata una mitragliatrice e senza alcuna formalità falciati. Da lontano i pochi abitanti di Carpenosa (Molini di Triora) potettero assistere all'eccidio. Nei giorni appresso si poté avvicinare i corpi delle vittime e procedere al loro riconoscimento.
Econe il triste elenco:
Lanteri Pierino di Verdeggia (Triora)
Lombardo Calogero di Revenusa (Sicilia)
Oliva Giovanni di Badalucco
Gambone Pietro di Montello (Avellino)
Verrando Vincenzo di Agaggio (Molini di Triora)
Cassini Vincenzo di Apricale
Il Verrando, fratello di Quinto, era già stato fucilato il giorno 11 Marzo 1945; con i due fucilati i morti della loro famiglia raggiungevano la terna, poiché un terzo fratello era già morto soldato.
Il “Cassini” era un vecchio cadente, di oltre 72 anni dalla lunga bianca barba, mostrava numerose e profonde cicatrici dovute a sevizie e a torture. Fu accusato di rifornire olio alle bande Partigiane. Niente di vero.
Da “I Testimoni raccontano” a cura di Don Nino Allaria Olivieri (archivista Curia) pagg. 118 e 119 [...].
Roberto Moriani, Episodio di Carpenosa, Molini di Triora, 18.03.1945, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia 

giovedì 8 aprile 2021

Il giorno successivo cade in combattimento il partigiano Licurgo Bardelloni

Licurgo Bardelloni

Licurgo Bardelloni, figlio di Giuseppe e Teresa Salvadori, nasce a Monterotondo Marittimo (GR) il 23 febbraio 1923. Operaio, celibe, risiede nel paese natio in via Cavallotti 2.
Alla data dell'8 settembre, Licurgo è soldato nel 1° Genio Minatori dislocato a Palombara Sabina (Roma). Non riuscendo a fuggire ai tedeschi viene deportato in un campo di concentramento in Germania. In condizioni durissime, sempre rifiutando il giuramento alla RSI, sopravvive al durissimo inverno ’43-’44 e, all’inizio della primavera, quando ormai era chiaro che le sorti della guerra erano segnate per i nazifascisti, nel tentativo di ricongiungersi alla famiglia, il 9 marzo, accetta di essere arruolato nell’esercito della RSI.
Viene nuovamente inquadrato nel 1° Genio Minatori, prima in Germania e poi trasferito a Casale Monferrato dove rimane fino al 9 agosto 1944. Il 10 agosto, attuando un piano a lungo studiato, fugge in montagna unendosi alla Resistenza nelle formazioni garibaldine IV Brigata, 2° battaglione della 2^ Divisione “Felice Cascione” con nome di battaglia “Tim”, ottenendo anche il grado partigiano di ‘sergente’ con l’incarico di “capo nucleo” come risulta dal “Certificato Alexander 168230”.
Arrestato dai fascisti il 17 gennaio 1945 in Liguria, località Molini Triora, viene fucilato il 19 gennaio in località Pizzo di Drego, “Ponte di Glori” a Molini di Triora (Imperia). Qui viene sepolto nel cimitero di Agaggio dai suoi compagni. La salma, riesumata nel maggio 1947, viene traslata nel cimitero di Monterotondo Marittimo.
Le circostanze della morte di Licurgo Bardelloni sono descritte da una testimonianza rilasciata l’8 febbraio 1946 da Nino Allaria, mulattiere:
"... con altri mulattieri della frazione di Andagna del comune di Molini di Triora, nonostante fossi febbricitante, fui requisito dai tedeschi per eseguire un trasporto col mulo da Molini di Triora a Pieve di Teco. A Passo Pizzo sorpassai un reparto di alpini di ritorno da un rastrellamento e vidi ammanettato assieme a loro un giovanotto. Continuai la strada lasciando dietro gli alpini. Giunto a Colle S.Bernardo,  a causa della febbre, che mi era aumentata, ottenni che quanto trasportava il mio mulo fosse caricato su una macchina tedesca che si trovava in detta località e potei così tornare indietro. Quando arrivai a Passo Pizzo vidi disteso sulla neve, ucciso, quel giovanotto che avevo visto ammanettato con gli alpini nell’andata. Appena giunto a Molini comunicai ai partigiani della zona che a Passo Pizzo si trovava un morto".
Come fu accertato e come risulta dagli atti ufficiali (Archivio ISCREC, sez II, cartella II t 97 Imperia). Il morto era il partigiano Licurgo Bardelloni:
" … giovane onesto, lavoratore instancabile da tutti conosciuto e apprezzato. Viveva la sua vita tranquilla ed onesta circondato dall’affetto dei genitori e dei fratelli. All’imposizione di recarsi alle armi della pseudo repubblica fascista si presentava come molti altri, allo scopo di risparmiare dispiaceri e dolori alla propria famiglia. Non appena possibile abbandonava quelle file che non erano per lui e correva al suo posto nelle Brigate Garibaldine. Il suo Comandante ci dice che 'è caduto eroicamente Licurgo Bardelloni!' Il tuo sacrificio unito a quello di tanti altri sarà l’unico mezzo che salverà l’Italia dal fango e dall’ignavia. Noi ti uniamo alla nobile legione dei nostri martiri e dei nostri eroi e la tua Monterotondo non scorderà mai il tuo nome!".
Significativa l’epigrafe sulla sua tomba nel cimitero di Monterotondo Marittimo:
Qui riposa Licurgo Bardelloni
Partigiano delle Brigate Garibaldine
Che fedele ai principi
Di libertà e giustizia sociale
Cadde combattendo da eroe
Contro le orde nazifasciste sui monti liguri
Appena ventunenne
Il 19.1.1945
Contribuendo con il proprio sangue
A redimere la Patria
Dell’onta repubblichina
(Scheda di Carlo Groppi. Collaborazione di Cesare Gennai. Per il materiale messo a disposizione si ringraziano Giuliana e Fernanda Bardelloni, nipoti del partigiano Licurgo)
Redazione, Licurgo Bardelloni, Tim, Radio Maremma Rossa

Carpasio, comune di Montalto Carpasio (IM): Foto: Mauro Marchiani

Il giorno 18 i nazifascisti fucilano il partigiano Alberto Guglielmi (Nino) a Sella Carpe di Baiardo durante una incursione, e il giorno successivo cade in combattimento il partigiano Licurgo Bardelloni (Tim) a Ponte di Glori (Molini di Triora) (4).
Il giorno 19 il presidio nemico di stanza a Badalucco lascia il paese per andare a rastrellare la zona di Carpasio. Il giorno successivo ritorna alla base dopo aver prelevato muli e bestiame. A Carpasio rimane una Compagnia di una diecina di uomini per presidiare il paese insieme ad una autoblinda tedesca che ha il compito di perlustrare la zona fino al torrente Auxentina. Un membro del CLN locale è catturato e passato per le armi. Agenti nemici in borghese, circa una ventina, preso alloggio nell'ex caserma dei carabinieri a Taggia, perlustrano la zona di Le Lone e domandano ai contadini notizie sui "banditi".
In uno scontro a fuoco con il Distaccamento partigiano comandato da Isidoro Faraldi (Serpe), avvenuto a Molini di Triora, il nemico perde due uomini (5).
Purtroppo lo stillicidio delle perdite partigiane della V Brigata continua, è un periodo cruciale per le forze della Resistenza. Il 20 a Bordighera viene catturato e fucilato il partigiano Attilio Obbia (Tamburino).
(4)- ISRECIM, Archivio, Sezione III, cartella 210.
(5)- Notizie avute dall'Archivio Storico del Comune di Sanremo.

Francesco Biga (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. IV. Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005 

sabato 13 marzo 2021

Attacco partigiano alla postazione B7

Dintorni di Molini di Triora (IM) - Fonte: mapio.net

Il 3 o il 4 giugno [1944], qualche giorno prima dello sbarco alleato in Normandia, vi è l'attacco alla postazione «B7».
Vittò [Giuseppe Vittorio Guglielmo], Erven [Bruno Luppi], Tento e Marco [Candido Queirolo], sebbene già divisi nei due distaccamenti, decidono di attaccare insieme la postazione «B7», situata nella zona di Perallo [Frazione di Molini di Triora (IM)], villaggio che è su per giù a metà strada fra Molini di Triora e Carmo Langan.
Il comando dell'azione è affidato a Moscone (Basilio Mosconi), ora con Tento [Pietro Tento] e Marco, e già scelto per comandare un nuovo eventuale distaccamento. Egli diventerà infine comandante del Battaglione «Marco Dino Rossi» (2° Battaglione della V Brigata).
Il 4° distaccamento (Marco e Tento) scende da Gerbonte; il 5° (Vittò e Erven) scende dalle alture che sono sopra Carmo Langan; s'incontrano a Loreto.
Il distaccamento di Marco e Tento partecipa al completo, tutto in un solo gruppo, all'azione contro la «B7».
Il distaccamento di Vittò e di Erven viene diviso in due gruppi: uno di questi, nel quale vi sono Vittò ed Erven, partecipa direttamente all'azione contro la «B7», mentre l'altro viene mandato in Molini.
Il comando dell'azione, come si è detto, è affidato a Mosconi, del 4° distaccamento. Mosconi, ex sergente maggiore non di carriera del disciolto esercito, precisa con particolare accuratezza il modo di condurre l'attacco: spiega il compito di ogni uomo, di ogni arma, la prudenza per evitare le mine seminate intorno alla postazione, l'ora dell'inizio dell'attacco, il segnale (inizio: ore l2 esatte; segnale: un colpo di pistola).
La postazione è vicina alla strada, proprio dove questa disegna una curva; ed è all'interno della curva stessa.
I partigiani si portano sul posto e si dispongono a semicerchio, distribuendosi sopra, sotto e lateralmente, al di là della strada; in modo che la strada resta fra essi e la postazione.
Esattamente alle ore 12, come convenuto, Mosconi dà il segnale con un colpo di pistola, e viene iniziato l'attacco col mortaio da «45», con fucili e con bombe a mano tedesche dal manico lungo; il mortaio, affidato a Milorato, era piazzato presso un castagno, a monte della postazione.
Colti di sorpresa, i militi fascisti (forse 12 o 15) si rinchiudono nella capanna che è, press'a poco, al centro della postazione e nel punto più sporgente della curva; mentre due tedeschi corrono alle due mitragliatrici collocate una a monte e una a valle, e rispondono al fuoco.
Un proiettile spezza a Mosconi la penna del cappello alpino. Il castagno, dove stava Milorato col mortaio, era crivellato di colpi. Mentre un gruppo scelto di partigiani, cautamente a causa delle mine, si stava portando vicino alla baracca per assaltarla con le bombe a mano, Mosconi riesce a colpire con una bomba del mortaio la capanna. Avviene uno scoppio, che la fa saltare in aria, uccidendo i fascisti, che vi erano dentro; tutti gli altri uomini della postazione (due tedeschi e due italiani) sono fatti prigionieri; di essi, solo un italiano non è ferito, mentre sono feriti leggermente l'altro italiano e un tedesco, e gravemente l'altro tedesco.
Il tedesco gravemente ferito è portato nel vicino paese di Molini e affidato alle cure di un sacerdote; degli altri non si è potuto accertare se rimasero con i partigiani o se furono rimandati a casa; tuttavia si sa che non furono fucilati.
Marco, da Molini, manda un telegramma al Prefetto: «Comunichiamo espugnazione da parte nostra postazione B7 alt Provvedete voi ritirare vostri morti alt Noi sprovvisti becchini alt». Firmato: «I ribelli».
Nella notte vennero i pompieri a ritirare le salme dei fascisti caduti.
Frattanto, l'altro gruppo del 5° distaccamento, mandato in Molini prima dell'attacco alla «B7», nel suddetto paese aveva preso in consegna un camion, affidato ai partigiani dal proprietario allo scopo di sottrarlo ai tedeschi, che volevano requisirlo.
Dopo che la «B 7» fu presa, il sopra menzionato gruppo del 5° distaccamento fece passare il camion avuto in consegna, che venne quindi avviato alla montagna, e - passato il camion - fece saltare il ponte della strada fra Molini e Langan.
L'azione contro la «B7», di cui si è ora parlato, avvenne due o tre giorni prima dello barco alleato in Normandia; e quindi, come si è detto, il 3 o il 4 giugno.
Dopo l'azione contro la «B7», il 5° distaccamento (Vittò ed Erven) fa la sosta di un giorno; poi va a prendere accantonamento nelle caserme di Carmo Langan. In questa nuova sede si trasferisce il giorno dello sbarco in Normandia, quindi il 6-6-44.
I partigiani si stabiliscono anche in qualche casa, che poi verrà bruciata dai nazifascisti (casa di Lanteri Cesira). Compito del 5° distaccamento era di controllare la Val Roia e la Val Nervia, oltreché di fronteggiare la postazione tedesca di Monte Ceppo. Infatti in questa località, che in linea d'aria dista circa km.5 da Carmo Langan, i tedeschi avevano ancora ingenti forze; e d'altra parte la località stessa era di particolare importanza, perché da essa si domina la zona di Carmo Langan, che è un po' a nord ovest, e quella di Baiardo, che è un po' a sud ovest; e, in più, per Monte Ceppo passa una strada che collega le strade di Carmo Langan e di Baiardo, consentendo l'accesso alla montagna e all'interno da disparatissimi punti.
A sua volta il 4° distaccamento (Tento e Marco), subito dopo il fatto della «B7», prende posto a Triora. Carmo Langan è nodo stradale importantissimo, perché vi si incontrano le strade che vanno, fra l'altro, a Pigna, a Cima Marta, a Molini di Triora, a Baiardo.
Per dare, a questo punto, un'idea della situazione stradale in generale, giova richiamare l'attenzione sulle seguenti arterie principali:
1) strada Ventimiglia o Piani di Vallecrosia - Camporosso- Isolabona - Pigna - Carmo Langan - Molini di Triora - Passo della Teglia - Bosco di Rezzo - Rezzo - Pieve di Teco - Albenga;
2) strada  Isolabona - Apricale. Baiardo - Vignai - Badalucco;
3) strada Arma di Taggia - Badalucco - Molini di Triora;
4) strada Badalucco - Carpasio - Colle d'Oggia - San Bernardo di Conio - Bosco di Rezzo (fino alla prima delle arterie sopra elencate);
5) strada San Bernardo di Conio - Colle San Bartolomeo;
6) strada San Bernardo di Conio - Colle d'Oggia - Borgomaro - Chiusavecchia;
7) strada Colle San Bartolomeo - Caravonica - Chiusavecchia;
8) statale «28», che, partendo da Imperia, passa per Chiusavecchia, Colle San Bartolomeo, Pieve di Teco, e quindi permette di accedere da Imperia e dal Piemonte, oltre che da Albenga e da Ventimiglia, alle strade già menzionate;
9) strada che, partendo dalla statale «28» a valle di Chiusavecchia, passa per Gazzelli, Chiusanico e Torria, e si ricollega alla statale «28» a valle di Cesio;
10) strada Carmo Langan - Cima Marta - Galleria del Garezzo - San Bernardo di Mendatica - statale «28» (innesto presso Case di Nava);
11) strada Via Aurelia - Ceriana - Baiardo;
12) strada Sanremo - San Romolo - Case Morini - Baiardo;
13) strada Sanremo - San Romolo - Perinaldo;
14) strada Ospedaletti - San Romolo;
15) strada Via Aurelia - Vallecrosia - Perinaldo;
16) strada  Perinaldo - Apricale;
17) strada Camporosso - Ciaixe - Monte Baraccone -  Ponte Raggio - Ponte Barbaira - Isolabona;
18) strada Camporosso - Ciaixe - Monte Baraccone - Margheria dei boschi - Pigna;
19) strada statale n. 20 o strada statale della Val Roia;
20) strada che si stacca dalla statale n. 20, a pochi chilometri da Ventimiglia, e - per mezzo di due tronconi - si collega alla strada che, partendo da Camporosso, passa per Ciaixe;
21) strada di Bevera, che, partendo dall'Aurelia, passa per Bevera, e si im mette nella statale n. 20 a valle di Airole.
Dalla sopra descritta rete stradale appare quanto fosse facile una penetrazione nell'interno;  e risulta altresì come Carmo Langan fosse uno dei nodi più importanti per la penetrazione stessa.
Dopo lo sbarco in Normandia, il 5° Distaccamento (Vittò ed Erven) si ingrossa fino a raggiungere, entro il 15 giugno [1944], la forza di circa mezzo migliaio di uomini.
Cosa analoga avviene per il 4° Distaccamento (Tento e Marco), il quale, entro il 15 giugno, raggiunge la forza di circa 300 uomini.
Giovanni Strato, Storia della Resistenza Imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Editrice Liguria, Savona, 1976, ristampa del 2005 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp. 286-289


lunedì 8 marzo 2021

La granata ha colpito il capannone

Carpenosa, Frazione di Molini di Triora (IM) - Fonte: Google

Carpenosa: gruppo di case sparse, adagiate sulla strada che da Badalucco e Montalto Ligure porta a Molini di Triora e Triora. Al suo fianco scorre l'Argentina, quel torrente che dà il nome alla vallata e che tanta parte ha avuto nel corso della lotta resistenziale.
La valle Argentina è la zona della V^ Brigata di «Vittò» [Ivano, Giuseppe Vittorio Guglielmo], una formazione ed un comandante dal prestigio indiscutibili; un binomio legato ad una corona di successi popolari, di sacrifici, di somma determinazione e di umanità senza limiti.
L'Argentina ha conosciuto dei giovani indimenticabili, parte dei quali passati come splendide meteore dopo avere esaurito, in qualche mese, tulle le energie vitali di un'esistenza. Ma, molti di essi, sono sopravvissuti ad un'epopea irripetibile, passati sull'orlo degli abissi mortali presso cui hanno vissuto sempre, fino a quel 25 aprile conquistato con una determinazione inarrestabile.
Carpenosa è un piccolo punto e pochi fumaioli, quasi nascosti e timidi. Ma intorno a quelle poche case, più di una volta si intrecciano e si alternano le raffiche delle schiere nemiche e gli attacchi partigiani che, partendo come aquile dai punti più alti di Langan, Cima Marta, Triora, ogni tanto lasciano il segno sulla postazione nazifascista. Oltre che dai distaccamenti 4° e 5°, il presidio è frequentemente molestato anche dalla formazione di Gino Napolitano (Gino) che conta una cinquantina di uomini. Verso la metà di giugno «Gino» è pronto per uno scontro più impor­tante del solito. La presa della casermetta di Carpenosa gli permetterà di dare un'adeguata sede al suo distaccamento. «Gino» già da tempo esercita pressione sulla guarnigione di Carpenosa, affinché si arrenda. Ma la trattativa diventa lunga, sicché, spazientito il Comandante partigiano manda l'ultimatum al presidio: «Arrendersi entro la domenica successiva. In caso contrario i garibaldini passeranno all'attacco».
Domenica, diciotto giugno 1944, giornata splendida: il distaccamento di «Gino», della IX^ Brigata, è sul campo per sostenere la prima prova veramente dura, dopo le precedenti azioni ed i colpi di mano di minore entità. Ore 11 e 30: ora è alto il sole della morente primavera. Trentadue partigiani partecipano all'azione e preparano l'attacco alla postazione tedesca di Carpenosa.
Ore 12, ecco la notizia: sale un camion pieno zeppo di nazisti accorrenti in aiuto del presidio. La tensione è al massimo ed i garibaldini fremono, piazzati sul costone di un'altura donde è agevole dominare la strada ed il nemico.
Ma il camion non è isolato: è il primo di un'intera colonna composta di sette camion gremiti di soldati. Inoltre, ci sono due autoblinde ed altre truppe armatissime, appoggiate dal tiro di un cannone da 75 mm.
È proprio giunto per il distaccamento di «Gino» il battesimo del fuoco.
Anche gli uomini di «Marco» [Candido Queirolo] partecipano all'attacco e si battono bene sul campo di battaglia.
I garibaldini si dispongono a difesa in ordine sparso dietro i cespugli, mentre la staffetta Aldo Barbieri si reca in motocicletta verso Carmo Langan per chiedere rinforzi al 5° distaccamento. Ma il comandante «Vittò» non è presente, essendo già partito in missione per Pigna e Passo Muratone. Non sono rimasti all'accampamento che un centinaio di uomini.
«Erven» [Bruno Luppi] non esita un istante ed assume il comando dei garibaldini presenti anche perché, da tempo, sta ascoltando i colpi delle armi da fuoco di cui non conosce la località di provenienza. Ora è avvisato ed è giunto il momento dell'azione.
A Langan è in dotazione un mortaio da 81 mm giunto dal Piemonte privo del congegno di puntamento e della piastra di basamento. Ciò, nei giorni precedenti, aveva costretto «Erven» a complicate manovre per rendere l'arma funzionante. La formazione è dotata pure di un mortaio da 45mm, due mitragliatrici pesanti e vari mitragliatori.
Tutte le armi ed un certo numero di garibaldini sono ora sul camion che «Vittò» aveva sottratto ai Tedeschi in Val Gavano il 9 di giugno. L'automezzo si avvia veloce verso il luogo dello scontro. Agli altri, «Erven» dà l'ordine di raggiungerlo a piedi, il più rapidamente possibile.
Nel frattempo, la posizione dei partigiani impegnati nella battaglia si aggrava.
Attesa: i nazisti avanzano, piazzano il cannone e le autoblinde. Iniziano il fuoco con fracasso enorme. Bombardano anche case e casoni, né risparmiano San Faustino.
Il silenzio secolare di quei luoghi è interrotto dallo schianto delle bombe che, come sempre, incute terrore e causa distruzione e morte, mentre l'eco lugubre rimbalza tra le valli.
Agostino Moraldo, meglio conosciuto come «Luigi» o «Petrin di Creppo», giace sul campo di battaglia, ferito gravemente al ventre da una scheggia di mortaio.
Trascorre lento il tempo: un po' di tregua, un po' di quella musica dei cannoni. I reparti tedeschi avanzano lentamente e giungono vicini: ora le armi automatiche partigiane sono efficaci. Fuoco nutrito ed i Tedeschi arretrano, per poi avvicinarsi ancora. I partigiani riaprono il fuoco, ed i Tedeschi arretrano nuovamente. Poi, come un'altalena, ancora per varie volte.
Nel campo garibaldino c'è entusiasmo e decisione anche se la superiorità numerica e di mezzi dei nazisti è notevole, aggirandosi approssimativamente sulle quattrocento unità.
Il pomeriggio è già inoltrato. Il tempo passa lento. Le munizioni incominciano a mancare. Le armi automatiche dei garibaldini ora tacciono. Solamente la mitragliatrice di Nuvoloni e dei suoi aiutanti risponde ancora al nemico come il canto dell'ultima cicala. Un'ultima raffica ferma alcuni nazisti. Poi tace.
Ad un certo momento gli uomini di «Marco» e di «Gino» si trovano semiaccerchiati dai Tedeschi, i quali attendono l'occasione per schiacciarli. Sui partigiani incombe il pericolo della strage e della morte.
All'improvviso si scorge, ancora molto lontana, una fila di uomini armati. Interminabili momenti di incertezza. Poi giunge il camion con i rinforzi partigiani. Non tutti gli stati d'animo si possono descrivere. Certi fatti restano soltanto impressi negli occhi per tutta una vita e nella gola par quasi s'incrocino groppi che impediscono pianto, riso, pazzia di gioia e d'amore nel contempo. Tale è il momento dell'incontro. «Erven» rincuora «Marco» già stanco e demoralizzato. «Moscone» [Basilio Mosconi] e «Guido di Cetta» appena scesi dal camion si portano avanti e mettono in funzione le mitragliatrici ed i mitragliatori. È fermata l'avanzata dei Tedeschi, sorpresi dalla ripresa della lotta. Le perdite naziste aumentano.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) Vol. II: Da giugno ad agosto 1944, volume edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992, pp. 80-82

Agaggio Inferiore, Frazione di Molini di Triora (IM) - Fonte: Mapio.net

Episodio raccontato da «Gino» (Gino Napolitano)
:
Nel mese di giugno del ’44 m’ero portato ad Agaggio inferiore col mio distaccamento composto da cinque uomini. Eravamo poco armati, ma pieni di entusiasmo: numerose piccole azioni, agguati e colpi di mano ci erano riusciti benissimo e avevano messo in noi la smania di affrontare il nemico in forze, certi di poterlo battere. In verità sino a quel momento lo avevamo sempre vinto: numerose piccole stazioni di tedeschi e di fascisti erano state eliminate e ovunque incontravamo le pattuglie nemiche le volgevamo in fuga, tant’era l’ardore che i miei uomini ponevano nella lotta. Si mangiava poco, ma si faceva il proprio dovere “senza mugugni”. E se si riusciva a catturare un moschetto da carabiniere, di quelli con la cinghia bianca, era per noi una festa. Ero dunque ad Agaggio. Avevo intavolato trattative col presidio nemico di Carpenosa composto di sette guastatori e di due tedeschi per convincerli ad arrendersi: avevo bisogno di far riposare i miei uomini in un luogo decente e Carpenosa faceva al caso mio. Il nemico tergiversava. Io cominciavo a diventar furioso. Un venerdì inviai un mio garibaldino a Carpenosa con l’incarico di riferire al Presidio che se entro la domenica successiva non avesse capitolato avrei sferrato l’attacco. Ci risposero che avrebbero meditato sull’ultimatum. La notte fra il sabato e la domenica feci i preparativi e la domenica mattina alle 11,30 ero in posizione. Si trattava del mio primo attacco in forze e volevo vincere ad ogni costo. Avevamo con noi un mortaio da 45 che Minorato mi assicurava di saper manovrare molto bene, il che si dimostrò vero durante l’azione. Piazzai il mortaio su un’altura dove scaglionai i miei uomini in modo da dominare il nemico e la rotabile. Temevo una sorpresa e, infatti, la sorpresa venne. Alle 11,50 sulla strada sotto di noi apparve un camion pieno di tedeschi che veniva su arrancando. Evidentemente il presidio di Carpenosa, invece di arrendersi, aveva chiesto rinforzi per tentare di eliminarci. Decisi di rimanere sul posto anche se tutta la forza nemica della provincia fosse venuta su: il pensiero di dare una lezione memorabile ai nazifascisti sommergeva ogni prudenza: ne ero ossessionato e i miei uomini mostravano la stessa volontà. Ordinai a Minorato di aprire il fuoco. Fu un colpo magnifico: al primo sparo il camion venne preso in pieno. Scorgemmo il proiettile scoppiare con un gran rombo sul cofano e i tedeschi saltar giù in preda al panico. Urlammo di entusiasmo mentre il nemico si buttava in un tombino della strada. Lanciai un gruppo di uomini innanzi. I miei ragazzi scesero di corsa come se andassero a una festa: pugnale fra i denti, le bombe a mano pronte. S’arrestarono a pochi metri dalla strada e lasciarono cadere una pioggia di bombe sul nemico che non tentò alcuna reazione. Scorsi però in distanza altri camion nemici che risalivano la strada. Li contai: erano nove e tutti fortemente carichi e, fra l’altro, uno di essi trasportava un cannoncino da 75. L’affare cominciava a diventar grosso. La mia sola forza non sarebbe bastata a tenere testa a tre o quattrocento uomini armati di artiglieria. Disposi la mia truppa in posizione di resistenza, scaglionandola tra gli alberi, al coperto delle rupi e inviai una staffetta veloce al comandante Vittò perché mi inviasse rinforzi. Ed attesi. Il nemico non osava avanzare. Aveva arrestato i suoi veicoli a qualche chilometro da noi spostando lentamente le sue truppe avanti, fuori dal tiro delle nostre armi ponendo il cannone in postazione. Poco dopo cominciò il tiro. I colpi scoppiavano tra gli alberi con un rumore che gli echi della valle centuplicavano. Noi tirammo due o tre volte col mortaio, ma le munizioni erano scarse ed il nemico troppo lontano perché il nostro tiro potesse essere efficace e perciò ordinai di cessare il fuoco. Le ore passavano: i tedeschi continuavano a bombardarci ad intervalli. Essi avanzarono ancora fino a giungere a tiro delle nostre armi automatiche. Le impugnammo immediatamente ed il nemico si ritirò. La manovra venne ripetuta parecchie volte, ma, ogni volta, il tedesco fu costretto a ripiegare subendo perdite. Le nostre erano leggere: Petrino era stato ucciso e qualche ferito giaceva al suolo.
Il nostro morale era altissimo. Balzavamo di riparo in riparo come dannati, noncuranti dello scoppio dei proiettili avversari e freschi malgrado l’azione continuasse per ore ed ore. Nel tardo pomeriggio vedemmo spuntare su una cresta al di sopra di noi un gruppo di uomini: erano i rinforzi di Vittò che giungevano. E giungevano portandoci un aiuto prezioso: un mortaio da 81!
Credo ballassi dalla gioia! Ero esultante. Ponemmo il mortaio in postazione ed iniziammo un tiro accelerato. Nello stesso tempo mandai avanti gruppi di garibaldini per impegnare il nemico in combattimento ravvicinato. Scendevo con loro allo scoperto, tra le palle che sibilavano: l’ebbrezza della lotta ci aveva fatto perdere il senso della realtà. Si andava incontro alla morte con passo franco e cuor leggero e la vita, pur sotto la minaccia fatale, ci sembrava una bella e magnifica avventura. Il nemico non ci attese. Lo vedemmo sbandarsi, abbandonare le sue posizioni, correre disordinatamente verso le macchine ferme, montarvi sopra, abbandonando il cannone che recuperammo, sebbene inservibile, e fuggire a tutta velocità inseguito dai nostri colpi. Alle 9 occupammo Carpenosa completamente abbandonata. Il nemico ebbe numerose perdite: trovammo tutto l’equipaggio del primo camion ucciso sulla strada. I resti del camion stesso sono ancora abbandonati sulla scarpata. Nel complesso i tedeschi perdettero oltre 80 uomini fra morti e feriti: un quarto almeno delle forze impegnate nel combattimento.
Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp. 119-121


La cava di Carpenosa. Foto: Eraldo Bigi

Ormai è chiaro: la Resistenza non sarà battuta malgrado la sua solita inferiorità in numero e mezzi.
Ora i garibaldini sviluppano un fuoco nutrito che provoca scompiglio tra le fila naziste. «Erven», intanto, non perde tempo e piazza da posizione arretrata il suo mortaio da 81. È vicino alla Fereira. Pepin Lantrua, da un rifugio del sottostrada, lo avvisa che c'è un gruppo di partigiani circondati. Il Lantrua, padre di due garibaldini, indica anche ad «Erven» la posizione in cui si trovano i Tedeschi (che, a loro volta, tentano di colpire il mortaio con colpi di cannone) e lo invita a puntare l'arma in direzione di un olmo distante circa trecento metri.
Inizia il tiro dei mortai ed una vedetta segnala ad «Erven» di allungare la traiettoria di una cinquantina di metri. Il colpo successivo centra un camion di truppa. È il primo sostanzioso successo.
Ma i colpi del cannone nemico si avvicinano ed il mortaio è continuamente spostato per non essere colpito.
Quello che accade poco dopo ha dell'incredibile. Un altro colpo e poi si ode un fragore immenso e dal luogo dove sono i Tedeschi si leva una grande colonna di fumo. La granata ha colpito il capannone in cui era situato il dispositivo per il brillamento del campo presso la casermetta di Carpenosa, precedentemente minato dai nazifascisti. Gli effetti sono terribili. Salta pure un tratto di strada.
Intanto, dopo un altro paio di colpi sparati con bombe a grande capacità, il mortaio perde la sua stabilità e diventa inservibile. In mezzo all'immane scoppio, incalzati dal fuoco delle mitraglie, ai Tedeschi non resta che abbandonare il campo dopo aver caricato sugli automezzi tutto il possibile. «Erven» scende verso il basso, con «Marco» attraversa la passerella sull'Argentina e sale a San Faustino per avere una visione del campo di battaglia. I due, affamati, chiedono del pane di cui sentono un fragrante profumo. Un vecchio gliene offre uno grosso, invitandoli a desistere dalla lotta per il timore che i Tedeschi li uccidano tutti. Poi, da una posizione elevata si recano ad osservare la zona. Ai loro occhi si presenta un vero e proprio paesaggio bellico: sul terreno, sconvolto dalle bombe di mortaio, giacciono sparsi corpi umani. I Tedeschi in quel giorno non nuocera nno alle popolazioni dei nostri paesi. Sono fuggiti tutti precipitosamente con il ricordo di una sconfitta vera e propria.
Ore 21: la Resistenza entra in Carpenosa tra l'incredulità degli abitanti dei paeselli all'intorno che temevano veramente per la vita di quei giovani. Ma il miracolo è accaduto e c'è il ritorno agli accampamenti, nella notte, accompagnati dalle canzoni dei «ribelli». (5)
Il 20 di giugno nell'ospedale di Triora cessa di vivere Agostino Moraldo, rimasto gravemente ferito nella battaglia. Il democratico e libero Comune di Triora sostiene le spese del funerale in segno di perenne riconoscenza verso colui che, vittima di una nobile scelta di vita, onorando i suoi concittacUni, tutto ha dato senza nulla chiedere per la causa della libertà. Quando la salma esce dalla chiesa rintoccano le campane e  portano tanta tristezza nel cuore di  tutti.
Il distaccamento di «Gino» si trasferisce a Carpenosa.
Un altro importante punto strategico dell'Argentina è liberato in quell'esaltante mese di giugno per le forze della Resistenza.
Le perdite dei Tedeschi nello scacco subito a Carpenosa sono state variamente segnalate: Gino Napolitano afferma che il nemico ha lasciato sul terreno oltre 80 uomini tra morti e feriti. Da un racconto di Italo Calvino i morti risultano 72. Da una relazione scritta e non firmata le perdite naziste ammontano a 173 uomini, un camion, cinquanta litri di benzina e materiale vario. Gino Glorio (Magnesia) nel suo diario fa risalire ad alcune decine il numero dei Tedeschi messi fuori combattimento. A noi, sinceramente, alcune cifre appaiono un po' gonfiate. Ma diciamo che le perdite tedesche a Carpenosa non furono poche.
(5) A detta di Ernesto Corradi (Nettù) *, anche il 7° distaccamento ha preso parte alla battaglia, in forma autonoma dalle altre formazioni partigiane.
Riviviamone le vicende attraverso una relazione scritta dal Comandante stesso: "Due giorni prima la banda «Nettù» era partita da Carmo Langan per una missione a Baiardo. Il giorno dopo, sulla via del ritorno, a causa di un violento temporale, gli uomini, inzuppati e fradici per l'acquazzone sopravvenuto, sono costretti a pernottare in un casone semidistrutto. All'alba, confortati dal tempo rimesso al bello, si rimettono in marcia. Arrivati all'accampamento chi ha la possibilità di farlo si cambia gli abiti. All'improvviso giunge una staffetta per chiedere urgenti rinforzi. «Nettù» raduna i partigiani disponibili, i quali, alla svelta, si incammminano per una destinazione non ancora ben precisata a sud di Molini di Triora. «Nettù» si presenta a «Erven» ed a «Marco» e riceve l'ordine di portarsi su San Faustino con l'aiuto di una guida. Questa conduce i garibaldini nei pressi del luogo destinato e si allontana. Il Comandante si inoltra nella borgata e vede alcuni Tedeschi scendere precipitosamente verso il fondovalle. Con i suoi uomini cerca di inseguirli. Ad un tratto scorge, sull'altra riva del torrente, dei nazisti che stavano sparando da un bosco di castagni. Il distaccamento «Nettù» apre il fuoco con la mitragliatrice ed avanza verso i nemici. Mentre attraversa il ponticello vicino alla caserma di Carpenosa s'ode uno spaventoso fragore di esplosione. Un lungo tratto di strada è distrutto. Gli uomini entrano poi nel boschetto e trovano un gran disordine, zaini, elmetti forati, chiazze di sangue. Sulla carrozzabile, dietro la curva, un camion inservibile ma con un serbatoio di scorta pieno di benzina (che in seguito si recupererà). La sera la banda «Nettù» è invitata dalla popolazione a Molini di Triora ed il mattino seguente ritorna a Carmo Langan..."
Carlo Rubaudo, Op. cit., pp. 82-84  

* [Sulla controversa figura di Ernesto Netu/Netù Corradi si possono leggere alcuni significativi passi in La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944) (a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020]

Dintorni di Carpenosa, Frazione di Molini di Triora (IM) - Fonte: Google

Gli uomini di Vittò si preparano velocemente le armi per l’azione. Il distaccamento possedeva allora un mortaio da 81 […] le squadre mortai e mitraglieri, al comando di Erven, scendono in camion […] Cosa succede intanto a Carpenosa? I tedeschi, con quattro o cinque cannoni e lanciabombe, tirano sulla parte superiore del costone […].
Fu allora che cadde, ferito dalle scheggie, il garibaldino Petrin di Creppo. Le sorti della battaglia arridono ai nazisti […]. Alle nostre mitraglie non resta che ritirarsi. Solo una, la più avanzata, […] tra i cespugli rimane isolata: era la mitragliatrice del futuro eroe garibaldino Luigi Nuvoloni [Grosso] […] i tedeschi riguadagnano i camions e stanno per prendere la via del ritorno, quando, a un dato momento, il mortaio tace.
Cosa era successo?
Facciamo un passo indietro e torniamo ad Erven […].
Che cosa è successo? […] Una fila di uomini stracciati, vestiti delle divise più disparate, i partigiani insomma che scendono verso Carpenosa. Marco e Erven si precipitano per unirsi a loro e avanzare insieme. Sulla strada si imbattono in un camion sfasciato in mezzo a pozze di sangue, brandelli di carne umana, scheggie di mortai, mitragliatori, elmetti, fucili […] La grande esplosione era dovuta alla strada saltata in aria […]
La sera vede il trionfo dei garibaldini vincitori tributato loro dalla popolazione d’Agaggio. Suggestivo è il ritorno: nella notte la fila dei partigiani si snoda verso gli accampamenti al canto dei loro inni.
Fu questa una delle più cruenti sconfitte tedesche nella nostra zona. Settantadue morti ed un numero imprecisato di feriti ne segnano il sanguinoso bilancio.
Mario Mascia, Op. cit., pp. 236-238

sabato 5 dicembre 2020

Il comandante Vitò ed i suoi partigiani al ballo di Perallo, ma anche in una vana ricerca di sale

                                                       Perallo - Fonte: Mapio.net
 
Fu un momento veramente entusiasmante. Si celebrava in Perallo [Frazione di Molini di Triora (IM)] il 19 marzo 1944 la festa patronale di San Giuseppe.
Le funzioni religiose della Messa e della processione erano fondamentali, ma dopo, nel pomeriggio, specie ad opera dei giovani, si organizzava il ballo. Ed al ballo interveniva la gioventù di tutti i paesi limitrofi ed anche da paesi distanti. 
 
Su tutte le strade dell'Alta Valle Argentina, in posizioni strategiche, i nazifascisti avevano organizzato posti di blocco e piccoli fortilizzi in previsione di un attacco dei partigiani, in realtà non ancora costituitosi in forze organizzate, ma tutti erano convinti che lo fossero. 
 
Correva anche la voce che sulle alture, a corona dei monti, da Margheria dei Boschi a Torraggio, a Prea Veglia, a Cima Marta, a Colle Sanso, al Saccarello il principe di Piemonte, con più di quattromila uomini si fosse posto a difesa ed in lotta contro i tedeschi. Ma era semplice fantasia o propaganda depressiva ed inganno. Su quei monti vi erano solo contadini del luogo, che sudavano per ricavare dal taglio del fieno e degli alberi concessi, il pane quotidiano. 
 
Alla Goletta avvenivano i preparativi per la prima uscita. Vitò ["Ivano", Giuseppe Vittorio Guglielmo] parlava ai suoi. "Ragazzi, nel pomeriggio, andremo al ballo di Perallo". Tutti applaudirono entusiasti, ma dopo qualche momento apparvero le prime incertezze.
"Andremo armati?" "Certo. Tutti devono vederci in perfetto assetto di guerra". "E non ci sarà pericolo?". "Chi non risica non rosica". Tutti si prepararono ad arma a tracolla, si tennero pronti per le istruzioni. "Vi raccomando di obbedire a tutti i miei ordini. Cammineremo in fila indiana, a qualche distanza gli uni dagli altri. Non si devono usare le armi senza il mio ordine". "Le teniamo cariche le armi?" "Certo. Non vi sono guardiacaccia. Potremo però incontrare i fascisti o tedeschi. Ciascuno deve coprire con la sua arma il compagno davanti". "E in caso di ritirata come ci dobbiamo comportare?" "Dobbiamo fare una avanzata e non una ritirata. Nessuna imprudenza e nessuna spavalderia. Comportiamoci come bravi ragazzi che vanno ad una festa". 
 
Sulla carrozzabile Carmo Langan - Molini di Triora il gruppo incontrò una pattuglia di fascisti che si stavano recando al loro accampamento. L'incontro improvviso e non previsto non fu drammatico. Vitò fermò i suoi uomini. "Non usate le armi se prima non sparerò io. Nessuno dia segni di nervosismo. Calma". 
Avanzò lui col mitra a tracolla e si comportò come un comune passante. I fascisti, sette o otto, erano disarmati. Solo alcuni avevano la rivoltella. "Buongiorno, ragazzi. Come mai non andate al ballo?"
Non risposero e si fermarono tutti, perchè vedevano arrivare gli altri partigiani. Era dipinto sul loro viso un certo timore. "Non abbiate paura. Non veniamo con intenzioni aggressive. Voi andate per la vostra strada e lasciateci in pace. Siamo l'avanquardia di un battaglione di partigiani che sta dirigendosi verso queste parti". I fascisti non si mossero. Avevano davanti uomini armati tutti di mitra. 
 
Dice Vitò: "I fascisti erano giovani di prima leva. Si vedeva. Inesperti e impauriti. Li accerchiamo ma con fare di amici. Non dovevamo metterli nella condizione di usare le armi, anche se ne avevano poche e non adatte a contrastare i mitra. Avevano delle belle pistole alla cintola ed anche i miei uomini le guardavano con cupidigia. Avremmo potuto disarmarli facilmente, ma mi premeva far sapere che i partigiani erano forti e soprattutto che volevano combattere i tedeschi e non gli italiani, anche se fascisti a meno che..."

Parlai a loro: "Vedo che siete giovani, appena arruolati. Siete italiani e contro di voi non abbiamo alcun rancore; il fatto che siate fascisti non comporta ancora per noi di considerarvi nemici, a meno che... non siate voi i primi a farvi nemici. Come vedete non abbiamo intenzione aggressive. Se un giorno vi troverete a disagio, venite da noi. Vi accoglieremo come amici, se così vi dimostrerete. Una sola raccomandazione vi debbo fare: Acqua in bocca. Voi non avete visto nessuno".
 
Quei giovani fascisti non avevano mosso, dall'incontro, nessun passo. Erano meravigliati e scossi. Qualcuno, quando Vitò accennò ad avviarsi, abbozzò un saluto fascista, qualche altro quello militare. Risposero anche al saluto dei partigiani, alla voce. 
 
Forse nel loro animo era nato un seme di visione realistica delle condizioni della guerra e produceva l'ingradire del desiderio di cacciare i tedeschi e di finirla con le atrocità. Fu strano, ma non diedero l'allarme, anche perchè l'ammonimento dell'arrivo del battaglione di partigiani, creava in loro una grande paura ed il bisogno di attendere vigilando.

A Perallo i giovani partigiani erano conosciuti e furono accolti come amici. Avevano messo al sicuro le armi con una buona scorta alternata da ciascuno di loro. Furono presentati ai tedeschi ed ai fascisti presenti come conterranei. 
 
La festa faceva nascere una certa amicizia. Bevvero insieme a tutti gli altri, cantarono le canzoni dei loro paese. Anche i tedeschi facevano circolo con loro e a loro volta cantarono le loro canzoni. Forse, e senza forse, anche nella loro mente si profilava la gioia per una pronta fine della guerra. 
 
Lo scopo era raggiunto. I partigiani si erano fatti vedere. Occorreva ancora che li osservassero partire armati.
 
A mezzanotte Vitò, per prudenza, invitò i suoi a ritornare. Tedeschi e fascisti presenti erano brilli. Ad un segnale di Vitò, le vedette portarono le armi. Due di essi puntarono i mitra e Vitò parlò: "Vi ringraziamo per la festa. Siamo partigiani, ma non combattiamo gli amici festaioli. Nessuno si muova finchè noi non saremo lontani. Siate prudenti perchè siete circondati. Come vedete i partigiani non sono banditi ed abbiamo pagato tutte le nostre consumazioni. Arrivederci!"

Il fatto della apparizione partigiana si divulgò vicino e lontano. La gente diceva: "I partigiani ci sono. Li hanno veduti festaioli a Perallo".  "Erano armati e non avevano paura, ma ne hanno messo ai tedeschi e ai fascisti".  "Pare che sui monti siano a centinaia, forse migliaia". "Erano alla festa coi tedeschi e coi fascisti e non è successo nulla". "Presto prenderanno il comando della zona".

E quelle parole corsero nelle vallate, ingrandendosi e moltiplicandosi e da Arma corsero fino a Ventimiglia e tutti le udirono, le commentavano e le moltiplicarono ancora.
 
Era diventato un mito il partigiano e nel cuore di ciascuno cresceva la speranza della fine della guerra per mezzo degli uomini della montagna.

Anche i partigiani lassù alla Goletta fremevano di gioia di soddisfazione e guardavano Vitò come un comandante naturale e naturalmente riconosciuto da tutti, perchè sapeva parlare e sapeva agire. Aveva dichiarato ai fascisti gli scopi dei partigiani. Se quelli avessero capito, a frotte, avrebbero dovuto lasciare le armi dell'esercito ed arruolarsi con Vitò. Non ci fu nessun rastrellamento, né i nazisti osarono avanzare verso la terra da cui doveva venire il Battaglione partigiano.
 
I giovani affluirono alla Goletta con sempre maggior ritmo, anzi raggiunsero un numero talmente considerevole da decidere la formazione di numerosi distaccamenti. 
 
I problemi dell'organizzazione aumentavano, ma primo si imponeva quello del vettovagliamento. I giovani che erano dei paesi lassù andavano a casa a mangiare o se ne portavano anche in più, ma ai giovani che erano giunti dalla riviera o da paesi lontani bisognava provvedere per le esigenze dei loro stomaci divoratori.

don Ermando Micheletto *La V^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni” (Dal Diario di Domino nero Ermando Micheletto), Edizioni Micheletto, Taggia (IM), 1975, pp. 40-43
* ... Don Micheletto per tutta la guerra si adoperò per i partigiani, generalmente in contatto con i gruppi di Vitò, che accompagnò spesso nei loro spostamenti. Esplicherà la sua attività specialmente nell'assistenza e per captare messaggi radio. Giovanni Strato, Storia della Resistenza imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Sabatelli Editore, Savona, 1976 
 
[...] i tedeschi sono in agguato alla ricerca di arruolamenti di militari sbandati o fuggiti. Il compagno Pino mi ospita a casa sua. Non devo farmi vedere. I compagni cercano di farmi raggiungere i primi nuclei partigiani che si vanno formando. Vi è discussione tra i compagni, in quanto alcuni ritengono che dovrei lavorare per il P.[ artito ] in città. Insisto per andare in montagna. Prima tappa, accompagnato dal panettiere Floriardo, è Garessio, per raggiungere Valcasotto. Dopo Valcasotto, Valle d'Inferno, Trappa. Dopo uno sbandamento della formazione, raggiungo Alto e nuovamente la zona di San Remo. Il compagno Manetti Oreste mi accompagna a Molini dal farmacista, nel cui negozio ha sede di riferimento la formazione partigiana organizzata da Vittò. È domenica, sono accompagnato a Cetta. Sul terrazzo di un piccolo locale vedo i primi partigiani della zona che ballano. Vedo Vittò, Guido, uomo di fiducia, e altri della zona. Sono presentato a Vittò. Mi guarda, mi scruta, pare che voglia leggere nel mio animo. Mi sollecita a ballare, rispondo che non sono capace. "Devi essere o un grande lavativo o un gran bravo ragazzo", mi dice Vittò, "vedremo". Incomincia la grande esperienza della Resistenza, che mi farà diventare uomo, che mi fa conoscere la generosa gente di montagna, i tanti altri giovani che hanno scelto di combattere, di sopportare freddo, fame, sacrifici [...] Entrato nella banda, il primo atto è quello di scegliere il nome di battaglia. È una misura che garantisce soprattutto la tranquillità e la sicurezza delle famiglie. Tra noi non ci si conosce per cognome, vale il nome di battaglia. D'ora in poi mi chiamerò Gino. Sono assegnato al distaccamento di Guido da semplice garibaldino. In seguito diventerò capo-squadra comandante del 2° distaccamento "G. Repetto", comandante del 1° battaglione "N. Bini" e infine vice comandante della 5^ brigata "L. Nuvoloni". 
Gino Napolitano (1), La semplicità della politica. Scritti autobiografici, lettere, immagini, a cura di Saverio Napolitano, Arma di Taggia, 2012
(1) [Luigi "Gino" Napolitano di Sanremo (IM). Dalle formazioni autonome di “Mauri” a marzo 1944 passò definitivamente alle formazioni Garibaldi dell’estremo ponente ligure. Per le sue doti di coraggio e spirito combattivo veniva subito nominato comandante di un Distaccamento che, per l’aumentato numero di volontari, divenne poi Battaglione. Come risulta da un rapporto, era considerato dai nazi-fascisti “elemento assai pericoloso”. Protagonista di un gran numero di battaglie tra le quali: Carpenosa, Giugno 1944; Badalucco, 29 giuno 1944; Ceriana, Agosto 1944; Carmo Langan, 8 ottobre 1944 e febbraio 1945; Baiardo, marzo 1945. Ferito in combattimento a Baiardo. Commissario politico del I° Battaglione “Mario Bini” della V^ Brigata. Da fine gennaio 1945 vice comandante della V^ Brigata d’Assalto Partigiana Garibaldi “Luigi Nuvoloni”. Insignito di Medaglia d’argento al V.M. Vittorio Detassis su Isrecim].
 
Vitò racconta:
Ero dislocato con la mia banda nella zona di Cima Marta.
Si viveva come si poteva prelevando qua e là scarso cibo che i contadini ci offrivano fraternamente: ma le provviste erano sempre insufficienti e la fame era spesso l'indivisibile compagna dei nostri giorni.
Più di tutto sentivamo la mancanza del sale: mangiar erbe scondite o fagioli semi-crudi non è certamente piacevole, ma doverlo fare senza nemmeno un pizzico di sale era al di là delle possibilità del nostro stomaco. Eravamo affamati di sale, divenuto in quegli ultimi tempi quasi introvabile, tanto più che esso era usato come un prodotto di scambio e sostituiva spesso la moneta.
Decisi di procurarmene a qualunque costo.
Ero stato informato che avrei  potuto ottenerne in Francia: si trattava di un viaggio di qualche giorno in una zona impervia fra boschi e burroni, in un territorio occupato dal nemico che controllava sentieri e passi.
Partimmo: un piccolo gruppo di uomini decisi, con tutte le armi migliori che ci era stato possibile racimolare.
Una marcia lunga e faticosa ci portò sul Col D'Anan.
Qui fermai il distaccamento, lo alloggiai in due casoni abbandonati in una posizione che stimai fortissima e con sette elementi scelti proseguii per
il paese.
Lungo la strada m'informai se vi fossero tedeschi nella zona, ma si rispose che nessun nemico vi si trovava.
Eravamo allegri, si cantava e si rideva, come al solito, incuranti del pericolo che incombeva tutto intorno a noi.
Ed infatti nel superare una curva proprio all'entrata nel paese scorgemmo una postazione nemica. Essa era stata piazzata presso una chiesetta di montagna, trasformata in fortilizio: intorno si stendevano fitti reticolati, alcune  mitragliere allungavano le loro canne verso la strada ed una sentinella repubblicana, fucile in spalla, passeggiava sullo spiazzo antistante la chiesa [...]
Noi scavalcammo il filo di ferro spinato, stracciandoci gli abiti e la pelle e ci buttammo sulle mitragliere voltandole verso il fortino.
Il nemico non tentò nemmeno una resistenza seria [...]
Il posto era ben fornito: armi, munizioni, viveri e indumenti... ma sale nulla.
I repubblicani si erano riformati sulla cresta delle colline e tiravano su di noi di quando in quando. Colpi sprecati ai quali non si faceva caso. D'altra parte rimanere sul posto era pericoloso: il nemico avrebbe potuto ricevere rinforzi, aggirarci e distruggerci. Pazienza... saremmo  ritornati senza sale [...] Passava in quel momento un contadino con una mula [...] Lo bloccammo, requisimmo la mula, vi caricammo le armi e riprendemmo la strada del ritorno [...] per molto tempo ancora fummo costretti a mangiare minestre insipide...
Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp. 105, 106
 
 

giovedì 5 novembre 2020

La morte dei fratelli partigiani Arena

Francesco e Raffaele Arena - Fonte: L'Alba della Piana

L'8 febbraio 1945 l'ispettore di zona Carlo Simon Farini sollecitò il comando della II^ Divisione d'Assalto Garibaldi "Felice Cascione" ad effettuare azioni concordate su Molini di Triora (IM) e San Bernardo di Conio, Frazione di Borgomaro (IM). Qualche giorno dopo giunse la risposta con la quale veniva chiarito che i motivi dell'inazione erano da ricercarsi nella penuria di colpi da mortaio e nel mancato aiuto da parte dei nostri amici (gli alleati), come recitava il documento. 
Il 16 febbraio il Comando della I^ Zona Operativa Liguria rassicurò la II^ Divisione sulla assoluta affidabilità degli alleati e sulla loro sincera volontà di cooperazione.
Durante la notte del 9 febbraio una colonna formata da soldati tedeschi, bersaglieri e militi delle Brigate Nere, guidati dietro informazioni e con la presenza di un ragazzo quattordicenne [Dino] precedentemente catturato dai bersaglieri di Bajardo, circondarono Argallo, Frazione di Badalucco (IM), sorprendendo nel sonno 5 garibaldini, Martinetto (Martino Blancardi, di Bordighera, capo squadra), Chimica, Biondo, Ba e Lucia, quest'ultima, staffetta, del I° Battaglione "Carlo Montagna" della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione. Solo Martinetto riusciva, pur essendo ferito, a salvarsi, fuggendo. Gli altri partigiani, catturati, vennero in seguito fucilati. Un altro garibaldino, Masiero, era già stato ucciso mentre si stava allontanando da una casa privata.
Il 10 febbraio ci furono altri rastrellamenti, nel corso dei quali un reparto fascista, avvistati 2 fratelli garibaldini intenti ad aiutare il padre nei campi in Località San Faustino di Molini di Triora (IM), li raggiunsero e li uccisero sul posto. Si trattava dei fratelli Arena, Francesco (Fuoco) di 24 anni e Raffaele (Fulmine), di 22 anni.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998 - 1999

 
Francesco Arena - Fonte: L'Alba della Piana
 
Francesco e Raffaele Arena. Figli di Antonio Arena e di Maria Giuseppa Franco, nacquero entrambi a Melicucco (RC) nella casa posta all’inizio della via Provinciale, ai n. 2 e 4. Francesco venne alla luce il 13 ottobre 19211 mentre il fratello Raffaele il 17 agosto 1923. Pressoché nulle sono le notizie sui loro genitori negli archivi dei comuni di Melicucco e Polistena da noi consultati e nei quali, per motivi diversi, non si trova alcuna documentazione.
Ci vengono incontro i documenti custoditi dagli archivi del Comune di Taggia (Imperia) e dall’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea per la Provincia di Imperia grazie ai quali cercheremo di ricostruire la vicenda umana della famiglia Arena.
Il padre, agricoltore, era nato nel comune di Polistena il 5 gennaio 1895 da Giuseppe e Caterina Fonti, e si era trasferito in Liguria a Taggia (Imperia) il 16 agosto 1931. Il 5 aprile 1935, lo raggiunsero a Taggia la moglie ed i tre figli Francesco, Raffaele e Giuseppe. Il nucleo familiare si stabilì nella casa in Piazza San Benedetto al n. 10.
La famiglia versava in precarie condizioni economiche. Dopo pochi mesi, il 26 giugno 1935, all’età di 34 anni, moriva Maria Giuseppa Franco ed il marito si ritrovò da solo a crescere i tre ragazzi orfani di madre.
Gli Arena, come tutti gli Italiani, dovettero, loro malgrado, fare i conti con la guerra che aggiunse ulteriori disagi.
Francesco aveva conseguito la 3a elementare e svolgeva il mestiere di segantino mentre Raffaele, che aveva conseguito la 5a elementare, lavorava da panettiere.
Il fratello maggiore Francesco venne chiamato alle armi nella Regia Marina e al momento dell’armistizio era impegnato nelle operazioni in Jugoslavia. Raffaele invece era un civile.
I due giovani emigrati calabresi, evidentemente mal sopportavano i soprusi e le angherie del Regime fascista e, in momenti diversi, decisero di entrare a far parte delle Divisioni Partigiane “Garibaldi”.
Raffaele vi aderì il 5 maggio 1944 ed assunse il nome di battaglia di “Fulmine”, raggiungendo il grado di Capo squadra.
Il 9 agosto successivo venne raggiunto dal fratello Francesco, il quale assunse il nome di battaglia di “Fuoco” o “Sputafuoco” come semplice Garibaldino. Entrambi facevano parte del II Distaccamento del I Battaglione “Mario Bini”, inquadrato nella 5a Brigata “Luigi Nuvoloni” della 2a Divisione d’Assalto “Felice Cascione”.
Giovanni Quaranta, L'Alba della Piana

La compagnia di Cacciatori degli Appennini al completo effettuò un rastrellamento nella zona del Govo (San Faustino di Triora). Nell’entrare in paese, avendo visto due borghesi fuggire, il Ten.Cazzardo diede ordine di far fuoco su di loro. Uno dei due riuscì a dileguarsi, inseguito però da una squadra di militi, mentre l’altro, si fermò alzando le mani, ma al sopraggiungere dei miei compagni, riprese la fuga ed i militi, sparatogli addosso, lo uccisero sul colpo. Al rientro dell’altra squadra che era andata alla ricerca dell’altro fuggiasco, riferirono che lo avevano anche ucciso perché riconosciutolo come partigiano. (dichiarazione rilasciata da Tofanari Luciano, milite del Raggruppamento Cacciatori degli Appennini). Il partigiano Natale Massai (Mompracem) così ricorda quel giorno [...]
Giorgio Caudano [ Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016  ]
 
Il 9 febbraio 1945, i fratelli Francesco e Raffaele Arena trovarono insieme la morte in seguito a un rastrellamento da parte di una formazione di Cacciatori degli Appennini: i due vennero catturati e fucilati sul posto dopo essere stati sottoposti a torture.
Per conoscere meglio i particolari sulla morte dei due giovani ci affidiamo a due memorie compilate dal partigiano Natale Massai (Monpracen): 
Eravamo arrivati al mese di febbraio 1945, ed i Nazifascisti che perdevano su tutti i fronti di guerra, si accanivano sempre di più sui civili che uccidevano senza pietà, mentre contro noi partigiani facevano continui rastrellamenti, sfogando pure la loro rabbia contro quei bravi contadini dei luoghi, che, a rischio della propria vita, ci hanno aiutato in qualsiasi situazione, combattendo anche al nostro fianco. Il 9 febbraio 1945, sembrava una giornata tranquilla, senza rastrellamenti in vista. I due fratelli partigiani [Arena] che avevano il padre nella borgata di San Faustino, dove coltivava un po' di verdura in un piccolo appezzamento di terra, decisero di scendere in paese a dargli una mano nel lavoro. Quel giorno un gruppo di fascisti impegnati in un’azione di rastrellamento si era spinto nei dintorni del paese raggiungendo un’altura nella località detta “Gumbe” da dove si poteva dominare dall’alto il paese e le campagne sottostanti, piazzandovi una mitraglia.
Un altro gruppetto di tre o quattro fascisti, intanto, si addentrava in avanguardia nel paese sotto la guida dei colleghi dall’alto.
Avvistata la pattuglia, qualcuno del luogo si affrettò subito ad avvisare del pericolo imminente i due partigiani intenti a coltivare la terra e questi, nella vana speranza di trovare salvezza, pen-sarono di scappare verso due direzioni opposte: Raffaele verso la località “Naculetta” e Francesco verso la località “Murghetta”.
Maria Bianco (Fiora), testimone di quella giornata funesta, raccontò che appena i fascisti si accorsero della presenza di Francesco, lo puntarono con la mitraglia e gli spararono alcune raffiche.
Il fuggitivo, ogni volta che sentiva le sventagliate di proiettili fischiargli vicino, si fermava alzando le braccia in segno di resa. Ma appena i colpi cessavano, tentava nuovamente di sottrarsi al fuoco nemico riprendendo la corsa. Dopo alcuni tentativi di fuga, una raffica lo colpì al ventre e si accasciò al suolo. Raggiunto immediatamente dal gruppo di fascisti fu finito con un colpo alla testa.
Fu spogliato delle scarpe e dell’orologio. Gli presero il portafogli con i documenti. Giunti in paese li mostrarono alla gente del posto chiedendo loro se lo conoscevano. Naturalmente, nonostante lo conoscessero bene, tutti negarono.
 
Fonte: L'Alba della Piana
Fonte: L'Alba della Piana
Fonte: L'Alba della Piana
 
Nel frattempo, l’altro fratello Raffaele, raggiunta la località “Naculetta”, cercava riparo in un incavo di una roccia semi nascosta da un roveto. Il gruppo dei fascisti posizionato sull’altura scorse il malcapitato e, non potendolo colpire con la mitraglia perché lontano, indirizzò a voce la pattuglia che era entrata in paese all’inseguimento del fuggitivo fino a farlo catturare.
Il sergente che comandava la pattuglia chiese a gran voce a quelli in alto se il prigioniero doveva essere ucciso subito. La risposta fu negativa. Si diedero appuntamento tutti insieme in paese dove erano attesi dal loro tenente [...] Giunti in paese con il prigioniero, i fascisti si congiunsero con il grosso del gruppo.
Ma ormai anche per Raffaele la sorte era segnata.
I fascisti chiesero ancora una volta alla gente del posto se lo conoscevano e, mentre il prigioniero faceva segno col capo di dire
No, tutti risposero negativamente.
I fascisti sempre più imbestialiti, uccisero subito il giovane Raffaele con tre colpi: uno alla nuca facendogli saltare un pezzo, un altro ad un braccio e l’ultimo al cuore".
Così morirono i fratelli Francesco e Raffele Arena di Melicucco, trucidati dai fascisti, caduti per l’ideale di Libertà [...]
Giovanni Quaranta, L'Alba della Piana
 
Tofanari Luciano: nato a Carrara il 12 aprile 1924, milite del Raggruppamento Cacciatori degli Appennini - Interrogatorio del 10.11.45: [...] Quindi ci trasferimmo a Montalto Ligure (IM). Colà la mia compagnia al completo effettuò un rastrellamento nella zona di Aigovo (San Faustino). Nell’entrare in paese, avendo visto due borghesi fuggire, il Ten. Cazzardo diede ordine di far fuoco su di loro. Uno dei due riuscì a dileguarsi, inseguito però da una squadra di militi, mentre l’altro, colpito dalla nostra sparatoria, si fermò alzando le mani, ma al sopraggiungere dei miei compagni, riprese la fuga ed i militi, sparatogli addosso, lo uccisero subito. Al rientro dell’altra squadra che era andata alla ricerca dell’altro fuggiasco, riferirono che lo avevano anche ucciso perché riconosciutolo come partigiano. I due uccisi credo si chiamassero Arena [...] Deposizione di Lanza Ernestina:
«Il giorno 9 febbraio 1945 mi trovavo nella mia abitazione di Aigovo quando sentii piangere per la strada. Guardai dalla finestra e vidi passare Arena Raffaello che passava con alcuni soldati repubblicani dei Cacciatori degli Appennini, fra i quali notai un graduato che non sono in grado di indicare quale grado rivestisse. In quel mentre notai che i soldati picchiavano l’Arena col calcio del moschetto, chi con pugni e spintoni in modo da farlo cadere a terra e sentii che disse “Mamma mia”. Inoltre ho sentito che diceva “non statemi ad uccidere per rispetto a mio papà”. A seguito di tali parole ho sentito che il graduato gli rispose con la bestemmia "Porca Madonna, non farmi arrabbiare". Non sentii altro perché gli stessi proseguirono ed io non ebbi il coraggio di uscire sulla strada per vedere cosa succedeva. Dopo circa un quarto d’ora sentii quattro colpi d’arma da fuoco sparati a circa 300 metri da casa mia su una collina chiamata Carmo. Non vidi più ritornare i soldati perché passarono da un’altra strada. Appena questi si erano allontanati vennero in casa mia altri soldati a farsi dare da bere e rivoltisi a me dissero: “Signorina, andate a vedere vostro fratello che lo abbiamo ucciso sulla collina”. Io risposi che fratelli non ne avevo. Mi domandarono allora di dove era quello che avevano ammazzato e risposi che non lo avevo mai visto. Dopo di che uscirono e si allontanarono. Appena i soldati si allontanarono da Aigovo, assieme a mia mamma, ci recammo sulla collina sopradetta dove trovammo l’Arena Raffaele ucciso a terra bocconi e notai che dalla testa gli uscivano le cervella. Rimase sul posto fino al 12 febbraio. Avvisati i parenti questi poi ottennero il permesso di rimozione. Dalla finestra vidi anche Arena Francesco che scappava in direzione della mia casa oltrepassandola. I soldati lo inseguivano sparando con il mitra ed un soldato gli gridava dietro “Fermati porco che ti uccido”. So che appena allontanatisi i soldati anche l’Arena Francesco è stato trovato ucciso a circa mezzo chilometro da casa mia. Non sono in grado di indicare il nome di nessuno dei soldati che erano ad Aigovo, se mi fosse presentato sarei forse in grado di riconoscere quello che mi disse che aveva ucciso mio fratello».
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9,  StreetLib, Milano, 2019