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lunedì 18 settembre 2023

Lo sapete che Cipressa è circondata dai Mongoli che cercano i partigiani casa per casa?

Cipressa (IM): una vista sino alla zona di Sanremo

Un giorno, sul finire di giugno [1944], i tedeschi e i fascisti salirono da Montalto Ligure e Makallé mi disse di portarmi in cresta sopra la ripida mulattiera che portava al passo di Vena. Loro avrebbero nascosto i viveri e cancellato le tracce della nostra permanenza al Casone della «Scià Maria». Io, con la mia squadra, potevo prendere le decisioni che mi sarebbero parse opportune: l'importante era tenere la squadra unita. Arrivati in prossimità del passo notammo che questo era già occupato dai fascisti. Non ci restò altro da fare che disturbarli con qualche raffica, per renderli un po' più guardinghi, e quindi più lenti. Rìtornammo al casone e, dopo esserci consultati, decidemmo di andare a rifugiarci sulla costa, vicino al mare, e ci avviammo lungo la strada. Quasi subito sentimmo una nutrita sparatoria sopra Pietrabruna: chiesi ad un uomo, che stava salendo dal paese, se sapeva cosa stava succedendo e questi mi rispose: «è la banda di Tito che ha attaccato i tedeschi». Era una spia? O era un poveraccio che non sapeva cosa diceva? Noi, comunque, ci precipitammo a dare una mano a Tito. Quando vedemmo ì tedeschi, capii la mia stupidità; allora dissi a Giacò: «Tu con tre uomini cerca di fermarli, tanto da darci tempo di andare ad appostarci su quel costone là dietro; quando siamo arrivati ti ritiri e noi ti copriamo». Così fecero, ma prima di arrivare nel luogo dove avevo pensato di coprire Giacò, ecco farsi incontro uno strano tipo, che correva verso di noi. Gli chiesi chi era e dove andava; lui mi rispose: «Sono un comunista e un partigiano diretto al Comando, quando ho sentito sparare, e sono venuto a darvi una mano». Io gli dissi: «Bravo, non hai neanche un fucile, ma in compenso hai del fegato». Era Milan; sarebbe poi diventato il Comandante della IV Brigata della Cascione. Coprimmo Giacò e gli altri, finché non ci raggiunsero, allora gli dissi: «Ritirati finché non trovi un posto adatto per coprirmi coi fucili; adesso lo prendo io il mitragliatore». «Non ti conosce», mi rispose, «conosce soltanto me e allora è meglio che resti io: l'importante è che tu mi copra». Così facemmo e lo facemmo tanto bene che i tedeschi rallentarono il loro inseguimento e la distanza fra loro e noi aumentò. Quando raggiungemmo la «Casa del sergente», situata in mezzo a una vigna, sotto il passo di San Salvatore, i tedeschi non si vedevano più. Chiesi al vecchio sergente se aveva qualche cosa da mangiare: lui entrò in casa e ne uscì con due grossi pani, «adesso vado a prendervi da bere». Nel tempo della sosta mi era sembrato di udire degli spari dalla parte di Pompeiana, li avevano sentiti anche gli altri, tanto che tutti fecero silenzio: eravamo presi fra due fuochi; prendemmo i fiaschi di vino che frattanto il sergente aveva portato e, al coperto della vigna, entrammo nel vicino bosco di querce. Numerosi tedeschi erano sulla cresta del Passo di San Salvatore; gli altri salivano lentamente verso di loro.
Il boschetto di piccole querce, dove ci eravamo rifugiati, non dava molte possibilità di sopravvivenza in caso di rastrellamento. La cosa migliore da farsi era di cercare un riparo occasionale. Lo trovammo nella curva di un ruscello: l'acqua aveva allargato il letto del corso d'acqua e i bordi servivano da trincea. L'importante per noi era di non lasciare avvicinare gli inseguitori con il lancio di bombe a mano, sperando nell'oscurità della sera per sganciarci dalla nostra critica situazione. Il boschetto era fatto segno a continue raffiche di mitraglia e a colpi di mortaio che iniziarono al calare del sole. Buon per noi che i mortai non erano con l'avanguardia delle forze di rastrellamento. Pensai che, dopo aver martellato con i mortai, il nemico avrebbe cercato di farci uscire allo scoperto, approfittando delle ultime luci del giorno; pertanto decidemmo che appena i mortai avessero smesso ci saremmo ritirati. Così facemmo: noi uscimmo dal nostro riparo proprio mentre il nemico si addentrava nel boschetto. Ripiegammo verso Cipressa passando prima da una campagna dove speravamo di trovare pesche mature: ne trovammo poche e acerbe, ma furono gradite ugualmente da tutti.
Andammo a dormire a Cipressa, in un fienile di mio zio, in Vico Martini. Sapevo che in quel periodo gli zii non dormivano in paese, ma in una casetta in campagna vicino al mare. Tutte le mattine però mio zio saliva in Paese con l'asina carica d'erba per i conigli e le galline e, dopo aver scaricato la bestia, la faceva entrare nella stalla che si trovava proprio sotto il fienile. Al suo arrivo scesi nella stalla e, quando aprì la porta ed ebbe fatto entrare la bestia, mi vide. Non riuscì a parlare per lo stupore o per lo spavento? Allora gli dissi di chiudere la porta e di venire di sopra, che gli avrei spiegato; e mi allontanai su per la scala del rustico. Mi raggiunse immediatamente e quando vide tutti quei giovani sconosciuti e con le armi esclamò: «Siamo perduti» (Mi ricordava sempre queste due parole il partigiano di Piani di Imperia «Ninchi», ora defunto, tutte le volte che lo incontravo).
Gli risposi: «Senti «barba» (zio), abbiamo una fame da lupi, vai da Ernesto il panettiere (Ernesto Velio), digli che sono qui con una ventina di ribelli e fatti dare tutto il pane che può; prendi l'asina e ritorna da dove sei venuto». Mi rispose: «Va bene per Ernesto, ci si può fidare, ma lo sapete che il paese è circondato dai Mongoli che cercano i partigiani casa per casa?». «Stai tranquillo», gli dissi, «i Mongoli sono come i tedeschi, i partigiani li cercano solo nelle case dove vive la gente, dove si può rubare qualche oggetto di valore e, per male che vada, qualche cosa da bere».
Mio zio partì ed io risalii nel fienile. L'idea di rifugiarci in quel fienile era stata la mia, ma nessuno mi fece neanche lontanamente capire di volermene per quello che poteva essere un grosso sbaglio. Spiegai la situazione e anche a loro dissi che, per la mia esperienza, escludevo che i mongoli avrebbero setacciato anche i fienili e le case diroccate (lo erano ancora a causa del terremoto della fine dell'ottocento) e pertanto ero tranquillo. «è più probabile», dissi, «che incendino il paese, e allora certamente inizieranno da un fienile, in questo caso ci divideremo in due squadre; una la guiderà Giacò e l'altra io. Ci sono tre vie di uscita: una dalla porta della stalla, l'altra dalla porta del fienile e l'altra dai tetti, da dove ci si può allontanare per tutto il borgo».
Ogni tanto si sentiva una raffica in lontananza, ma niente altro. Arrivò infine anche mio zio con un sacchetto di panini e un paiolo di risotto. Ernesto aveva fornito una decina di chili di pane, ma aveva anche pensato che probabilmente eravamo senza fumare, e così ci aveva mandato pure alcuni pacchetti di «trinciato forte», le cartine ed i fiammiferi. Prima di partire mio zio fu pregato da Mauro Caprile e da Luciano, un altro ragazzo di Porto Maurizio, di avvisare le loro famiglie che erano in salvo e che stavano bene. Mio zio caricò l'asina e partì, assicurandoci che avrebbe pregato per noi. Nel pomeriggio arrivarono i mongoli: dopo aver sostato brevemente dinanzi alla stalla e rimosso la porta, proseguirono per fermarsi davanti all'abitazione di Giacomo Martini, a pochi metri da noi; entrarono e, per un bel po' di tempo, cercarono quanto loro interessava in quella casa. Da una piccola finestra li vedemmo entrare e uscire, ma nessuno di noi ne fu apparentemente impressionato. Il giorno dopo tornò mio zio, informò Luciano e Mauro che sua moglie, mia zia, era andata ad avvisare le loro due famiglie e ci informò sull'opera dei mongoli. Avevano visto due uomini far legna nella pineta, e avevano sparato su quei poveretti, uccidendo il Morscio di Costa Rainera; e ferito Paolo Velio il figlio di Ernesto il panettiere, (Lo avevano colpito alla schiena; riuscì a salvarsi, ma rimase con le gambe paralizzate per tutta la vita).
Lo zio mi disse: «Non mi sento di chiedergli ancora del pane dopo quello che è successo al figlio; gli chiederò di anticiparci il pane della tessera annonaria mia e della zia, e noi in qualche modo ci aggiusteremo». Poco dopo ritornò dicendoci che Ernesto era andato ad Imperia, ma aveva lasciato detto alla moglie di darci tutto il pane che ci serviva.
Questo era lo spirito della nostra gente. Cosa avremmo potuto fare noi senza la loro totale collaborazione? Nulla; i veri protagonisti della lotta di liberazione sono stati loro. Non bisogna mai dimenticarcene. Ancora oggi godo dell'amicizia di molti di loro, che incontro talvolta peregrinando dalla Valle Impero alla Val Prino, dalla Valle Argentina alla Valle d'Arroscia, dall'Alta Val Tanaro alla Valle Pennavaire, ad Alto ed a Nasino.
Con questo non voglio dire di aver avuto sempre riconoscenza per loro e di essermi sempre comportato bene nei loro confronti; certamente avrò sbagliato più di una volta, ma sempre in buona fede e mi scuso ancora se a qualcuno ho mancato di rispetto, oppure se qualche volta ho abusato del mio potere nei loro confronti.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 77-80

sabato 12 novembre 2022

Il fiuto del comandante partigiano Fra Diavolo per traditori e spie

Vessalico (IM). Fonte: Mapio.net

In quel periodo Milan [Carlo Montagna], con Bruno Battaglia, Bacistrasse [Giobatta Gustavino] ed altri valorosi, entrò [19 luglio 1944] nelle carceri di Imperia Oneglia e liberò i prigionieri politici e comuni, accompagnandoli al sicuro in territorio partigiano. Al Comando Divisione ne arrivarono cinque: un professore grassoccio chiamato subito Prof [Giuseppe Della Valle], che si dichiarò comunista da sempre e che, a suo dire, era in carcere per le sue convinzioni politiche, Vengo, di Sanremo, che era stato torturato brutalmente e ancora ne portava i segni su tutto il corpo, un romano già anziano detenuto comune, ed infine altri due che erano con i prigionieri comuni: Walter e Boll [
Pietro Secci] (due spie dei tedeschi, come il professore). Feci notare ai componenti del comando lo stato di Vengo, e quello del Prof. Lo stato di salute del secondo era splendido: ben pasciuto, senza un segno di percossa (quando tutti ben sapevamo come venivano trattati i sospettati di simpatie comuniste dai tedeschi e dai fascisti) perciò, a mio avviso, dovevamo diffidare di lui. Ma fu tutto inutile; il Prof. fu nominato addirittura Presidente del tribunale divisionale per il suo scilinguagnolo e il suo ruffianesimo e incominciai a vederne i risultati quasi subito. [...]
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 92-93
 
Intanto giunse a Fontane, Frazione di Frabosa Soprana (CN), Val Corsaglia [dove erano confluiti la maggior parte dei partigiani della I^ Zona Liguria per sfuggire al tremendo rastrellamento tedesco dell'ottobre 1944] l'ex sottotenente tedesco Otto Trostel, da tempo collaboratore dei garibaldini, che portò con sé le prove del tradimento di Giuseppe Della Valle (Prof), il quale da presidente del tribunale della Divisione "Felice Cascione" aveva provocato la morte di diversi giovani patrioti il 9 agosto 1944 a nord di Pieve di Teco, il 5 settembre a San Bernardo di Conio, il 19 settembre nel bosco di Rezzo, ancora il 17 ottobre ad Upega. Della Valle, riconosciuto colpevole dal tribunale militare partigiano, venne fucilato il 4 novembre 1944 a Fontane. Il 24 ottobre analoga sorte era già stata riservata alla moglie del "Prof", che aveva fatto da tramite tra il marito ed i nazisti.
Rocco Fava di Sanremo (IM), "La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)" - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998 - 1999  
 
Alcuni giorni prima di Natale [1944] si era presentato al Distaccamento partigiano, che era dalla parte di Ubaga, quel Walter, che aveva collaborato efficacemente coi tedeschi per tutta la Val d'Arroscia a danno dei partigiani.
Messo davanti alle sue responsabilità confessò ogni cosa, cercando di salvarsi e accusando il suo degno compare Bol; ma venne condannato a morte e fucilato. In quei giorni avevo saputo della morte, nell'eccidio di Torre Paponi, di un vecchio prete, Don De Andreis, parroco di Lingueglietta presso il quale da ragazzo ero andato a scuola. Caro e buon maestro: non ci aveva mai parlato di politica, ma nessuno di quei giovani che frequentarono la sua scuola fece mai parte delle formazioni repubblichine. Era stato bruciato vivo dalle SS, assieme ad un altro prete (Don...) e alla quasi totalità dei capi famiglia nel rogo di Torre Paponi, frazione di Pietrabruna. [p. 154]  [...] Una sera, nei primi giorni del gennaio 1945, mentre mi recavo da un nostro informatore, con il quale avevo appuntamento nei pressi del cimitero di Vessalico, incontrai Boll (il socio di Walter che avevamo fucilato) il quale, non avendo notizie del suo compare, veniva a cercarlo.
Non volevo ucciderlo senza fargli un regolare processo e così gli dissi che non potevo portarlo in azione con me perché era disarmato, ma che l'avrei fatto accompagnare al Distaccamento da Libero. Incaricai un partigiano che era con me di accompagnarlo, mi allontanai, e lui seguì l'uomo incaricato da me di fargli da guida. Forse aveva già intuito dal mio comportamento che sospettavo di lui: il fatto è che chiese al suo accompagnatore notizie di Walter e questi, con la più grande ingenuità, gli disse che lo avevamo processato e condannato a morte.
Boll capì di essere stato scoperto e, approfittando dell'oscurità, si allontanò dal suo accompagnatore, il quale solo allora capì la «fesseria» compiuta; ma ormai era cosa fatta.
Al mio rientro dall'incontro con l'informatore, fui informato di quanto era accaduto e ciò mi convinse che oramai i tempi erano maturi per un rastrellamento. Chiesi al Comando di Divisione l'autorizzazione provvisoria a lasciare la zona, proponendo alcune località dove avrei potuto spostare i miei Distaccamenti. L'autorizzazione non mi venne concessa: il Comando di Divisione non aveva nessuna segnalazione di rastrellamento imminente e riteneva che era meglio non fare circolare grossi gruppi di uomini con la possibilità che venissero segnalati al nemico. Ma il nemico ormai sapeva della nostra presenza: lo provavano l'arrivo di Walter e, dopo la fucilazione di quest'ultimo, quello di Boll, che io, come un principiante, m'ero fatto scappare.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Op. cit. , p. 156
 
5 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 92, ai comandi delle Brigate dipendenti - Si trasmetteva l'ordine ricevuto dal Comando della I^ Zona circa la necessità di comunicare tempestivamente qualsiasi azione intrapresa contro il nemico.
5 gennaio 1945 - Dal comando della I^ Zona Operativa Liguria al comando della Divisione S.A.P. "Giacinto Menotti Serrati" - Venivano trasmesse le descrizioni fisiche di due spie da prelevare: il primo, zoppo, aveva circa 35-40 anni, l'altro, dai "piedi dolci", era di piccola statura.
6 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Brigata - Invito ad inviare uomini e muli ad Onzo (SV) per ritirare castagne secche e a mandare mine ed olio per fucili al Distaccamento di "Fra Diavolo" [Giuseppe Garibaldi].
8 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" - Il comando rispondeva negativamente alla richiesta di armi automatiche a causa della scarsità delle medesime e rimarcava che il comandante Fra Diavolo [Giuseppe Garibaldi] risultava irreperibile.
8 gennaio 1945 - Dal S.I.M. della I^ Zona Operativa Liguria al comando della Divisione "Silvio Bonfante" ed ai Distaccamenti di Fra Diavolo - Informazioni militari. Sul transito in Caramagna [Frazione di Imperia] di 2 camion con 40 tedeschi a bordo: 3 delatori (Musso, Ozenda ed un terzo di cui era solo indicata la descrizione fisica) avevano indicato la strada per Vasia (IM). Da Ceva (CN) erano giunti 60 fascisti a Porto Maurizio [Imperia]. Ad Albenga (SV) erano arrivati molti tedeschi: era probabile un rastrellamento nella zona ingauna.
10 gennaio 1945 - Dalla sezione S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] della Divisione "Silvio Bonfante" [sezione comandata da "Livio", Ugo Vitali] al Comando della I^ Zona Operativa Liguria - Veniva fatto un elenco di 11 nominativi di spie, di cui 2 appartenenti alle Brigate Nere, 6 alla G.N.R. [Guardia Nazionale Repubblicana], 2 alle SS italiane ed 1 definito "squadrista della prima ora". 
18 gennaio 1945 - Da "Dario" [Ottavio Cepollini] alla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della Divisione "Silvio Bonfante" - Informava che "da parte dei tedeschi continua l'interrogatorio di 'Giulio' e 'Dek'. 'Boll' collabora con i tedeschi, viene messo spesso con gli arrestati e con il pretesto di essere caduto anche lui in trappola cerca di carpire notizie utili da riferire ai tedeschi. Si cercherà di fare eliminare 'Boll' proprio dai tedeschi. I tedeschi a Pieve di Teco stanno ricostruendo il ponte crollato". 
31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione sui rastrellamenti subiti il 10 ed il 20 gennaio 1945 "... Il giorno 20 gennaio avveniva il temuto rastrellamento a catena ad opera di forze della RSI e di alcuni reparti tedeschi. Furono attaccate formazioni della II^ e della III^ Brigata; a Bosco il nostro presidio venne dopo una battaglia catturato quasi al completo. Dei 16 garibaldini arrestati, 12 riuscivano a fuggire, evitando la fucilazione. Contemporaneo a questo attacco vi fu quello di Degolla, in cui i garibaldini ebbero 3 morti, 1 ferito e 8 uomini presi prigionieri. A Gazzo un'altra colonna, guidata dall'ex garibaldino 'Boll', catturava l'intera famiglia di 'Ramon' [Raymond Rosso], ma non riusciva a sorprendere il nostro capo di Stato Maggiore. A Nasino il Distaccamento "Giannino Bortolotti" infliggeva alcune perdite al nemico e poteva ritirarsi..."
da documenti IsrecIm in Rocco Fava Op. cit. - Tomo II
 
Intorno al 20 gennaio 1945 era segnalato da Ottavio Cepollini (Dario) del SIM l'imminente rastrellamento affidato a "Cacciatori degli Appennini", Alpini del "Cadore", "Monterosa", sanmarchini, e Brigate Nere, che avrebbero setacciato anche i territori e le vallate circostanti Casanova Lerrone. Effettivamente, dietro la guida di spie ex partigiani voltagabbana, come ad esempio il sardo Pietro Secci (Boll), "Carletto il cantante" o il "Pisano", era attuata una sconvolgente bonifica fascista, fatta di omicidi, esecuzioni, furti e arresti.
Le consistenti somme lucrate dai traditori erano non poco allettanti per individui del genere, pronti a rinnegare il periodo ribelle fatto di stenti e privazioni per abbandonarsi a una vita molto più piacevole e remunerativa, specie in fatto di letti caldi e buona tavola. Vi era poi la soddisfazione, disponendo di molti soldi guadagnati senza fatica con le delazioni di ostentare un'eleganza vistosa e un contegno strafottente da sfoggiare nei ritrovi o nei caffè alla moda.
Francesco Biga e Ferruccio Iebole (a cura di Vittorio Detassis), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria) - vol. V, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2016 
 
31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione sui rastrellamenti subiti il 10 ed il 20 gennaio 1945 "nelle valli di Caprauna, Arroscia, Lerrone e Andora. Dopo l'arresto del comandante Menini ebbe inizio l'atteso rastrellamento nelle valli suddette. Il 10 gennaio una colonna di tedeschi, partita da Pieve di Teco, circonda Gavenola e rastrella il paese, catturando il garibaldino 'Carletto', il quale ha tradito i propri compagni facendo giungere i tedeschi presso la sede del capo di Stato Maggiore ma con esito per loro sfavorevole...".
da documento IsrecIm in Rocco Fava, Op. cit.  - Tomo II
 
Nel corso di un rastrellamento a Nasino (SV) il 20 marzo 1945 vennero uccisi Costante Brando (Rustida) e Francesco Pescatore. Brando era un ex sergente della Divisione San Marco che aveva disertato per entrare nelle file partigiane. Comandante del distaccamento De Marchi, tentò da solo di fermare i tedeschi per permettere ai suoi uomini di mettersi in salvo. Ferito gravemente da un colpo di mortaio, per non cadere in mano nemica, si sparò un colpo di pistola alla testa. Il rastrellamento condotto da militari tedeschi e militi della RSI aveva avuto come guida un ex-partigiano, Amleto De Giorgi, detto "Carletto il cantante", che li aveva indirizzati presso l'accampamento garibaldino sito in località “Scuveo”. Il De Giorgi venne ucciso dal boia di Albenga il 26 dello stesso mese.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020
 
[ n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944-8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]
 

sabato 6 agosto 2022

Peletta con un gruppo di partigiani prese posizione al torrente Barbarossa

La parte occidentale del territorio comunale di Imperia, vista dalla spiaggia di San Lorenzo al Mare

Imperia: la Torre di Prarola vista da Località Barbarossa

I pozzi minati di Garbella, subito dopo Villa Ludovici fra Imperia e San Lorenzo [San Lorenzo al Mare (IM)] erano presidiati [luglio 1944] da un piccolo reparto tedesco, comandato da un sottufficiale. I tedeschi avevano preso in custodia i pozzi minati dopo che un intero reparto di fascisti era stato catturato dai partigiani. Era quasi impossibile attaccare in quelle condizioni; a monte della via Aurelia il terreno era minato con ogni tipo di ordigno, e difatti erano saltati in aria dei cani che si erano avventurati giù per la scarpata. Per prendere d'assalto la posizione nemica bisognava comunque transitare sull'Aurelia sbarrata da intrecci di filo spinato e da cavalli di frisia per obbligare le vetture e gli autocarri a transitare uno per volta. Luisa Barnato, una ragazza di Imperia, era transitata molte volte davanti al posto di blocco per vedere se c'era una qualche possibilità per un colpo di mano, ma la conclusione era sempre la stessa: senza un aiuto dall'interno, era impensabile attaccarli con qualche possibilità di riuscita. Non c'era altro da fare che cercare collaborazione all'interno del reparto di guardia. Dissi a Luisa di fare amicizia con tutti, ma di non scoprirsi con nessuno, tanto meno con i militari provenienti dai territori occupati dai tedeschi, che erano, secondo me, peggio dei tedeschi. Non c'era, però, nessuno di costoro; c'erano solo tedeschi e austriaci. Uno di questi si era innamorato di Luisa e lei, rischiando grosso, si era qualificata partigiana, invitandolo a disertare. Lui chiese di incontrarsi con un rappresentante della guerriglia, e fissò un appuntamento nei dintorni di Piani d'Imperia. Con Luisa ci recammo all'appuntamento; dissi all'austriaco che, per poterlo accettare nelle nostre file, era necessario un suo atto di collaborazione, che ci avrebbe garantito da un suo eventuale tradimento e l'austriaco si dichiarò disposto a qualsiasi prova. Gli dissi che era necessario al nostro Comando far saltare i pozzi minati, ai quali era di guardia; mi feci descrivere come si svolgeva il servizio, convenimmo che l'orario a noi propizio era quello dalla mezzanotte alle 4. In quel periodo la strada veniva totalmente chiusa al traffico e rimaneva un solo militare di guardia, protetto dagli sbarramenti che ho già descritto. Per transitare era necessario un permesso speciale, alla presentazione del quale veniva informato telefonicamente il sottufficiale nel Comando il quale con altri tre uomini, provvedeva alle previste misure di sicurezza.
Per aiutarci era necessario che il nostro amico fosse comandato di guardia da mezzanotte alle quattro. Lui ci disse che lo avrebbe saputo il mattino. Luisa, che ormai era conosciuta da tutti i militari e della quale nessuno sospettava anche per la giovane età, tutte le mattine sarebbe passata in bicicletta in attesa del giorno a noi favorevole; quindi avrebbe avvisato noi della «volantina», e noi avremmo provveduto ad avvisare il Comandante del distaccamento, Peletta [Giovanni Alessio], che sarebbe sceso con gli uomini necessari a bloccare la Via Aurelia in località Barbarossa e presso Villa Ludovici, appena oltre Garbella. Mi recai sopra Tavole, in alta Val Prino, per riferire a Peletta l'accordo concluso e per una sua approvazione del piano preparato. Tutto bene. L'unico inconveniente fu l'arrivo di Giulio Briganti, poi caduto a Upega. Conoscevo Giulio dal breve periodo di lotta in città, svolto quando ero nei Vigili del Fuoco. Appena mi vide, il suo volto espresse il piacere di rivedermi, ma riprese immediatamente il suo fare burbero e mi chiese: «Cosa fai qui?» «E tu cosa fai qua?» fu la mia risposta. «Io sono il commissario Politico delle formazioni Garibaldi che operano nella zona». «Ne sono proprio felice», risposi [...] Gli dissi poi dei colpi di mano ai pozzi di Garbella che stavamo preparando e di un altro alla Villa Salvo dove era prigioniera una Missione alleata. Avevo già parlato con un autista di Porto Maurizio, Ansaldi Aladino, che lavorava nell'autorimessa delle SS. Giulio mi disse: «Credo che non rimarrai molto da queste parti; comunque ti faremo avere istruzioni». Giulio tornò a fare il Commissario e io tornai a Dolcedo, in attesa che al nostro amico austriaco fosse assegnato il turno di guardia propizio alla nostra azione.
Il 25 luglio del 1944 giunse finalmente il momento. Peletta con un gruppo di partigiani prese posizione al torrente Barbarossa: doveva impedire il transito sull'Aurelia a chiunque avesse avuto intenzione di farlo proveniente da ponente. Si sarebbe ritirato solo all'arrivo di un partigiano proveniente dai pozzi con l'OK.
Banò comandava l'altro gruppo che prese posizione alla Villa Ludovica; doveva (come quello che aveva preso posizione a Barbarossa) impedire il transito verso i pozzi minati. Io con Luisa, mi recai all'appuntamento con l'austriaco. Andammo soli, nell'eventualità che l'uomo fosse stato sostituito per un qualsiasi magari sciocco motivo. Se così fosse stato, avremmo cercato di catturare la sentinella quando la stessa si fosse trovata vicino ai reticolati dalla nostra parte. Nel caso che avesse tentato di reagire l'avrei ucciso con una raffica di Sten, ma in tal caso l'operazione sarebbe comunque fallita. Non era neanche da pensare di poter riuscire da soli ad impadronirci del drappello tedesco, forte di una decina di uomini. Se, al contrario, si fosse arreso, era ancora possibile il buon esito dell'operazione. Per questo ci avvicinammo silenziosamente; era una notte chiara di luglio, e raggiungemmo lo sterrato a ridosso del muro; attendemmo l'arrivo della sentinella dalla nostra parte. Non eravamo sicuri che fosse il nostro uomo forse perchè, come dice il vecchio detto popolare, di notte tutti i gatti sono bigi; o forse perchè avevamo paura, tanta paura.
Quando la sentinella, raggiunti i reticolati, si voltò verso San Lorenzo, balzai in mezzo alla strada e gli ordinai di alzare le mani. Alzò le mani e disse: «Pensavo che non sareste più venuti»; era il nostro uomo. Luisa lo accompagnò da Banò ed arrivarono i rinforzi, io entrai nella baracca dove dormiva il sergente e altri andarono nel bunker dove dormivano i suoi soldati.
Il sergente si comportò da buon militare quale era stato e, dietro mio ordine, iniziò a vestirsi; avevo preso il suo mascin pistola e la P.38. In quel momento arrivò un partigiano che mi disse: «l tedeschi nel bunker non capiscono i nostri ordini e continuano a stare coricati nei loro castelli». Gli dissi: «Sorveglia questo mentre si veste; al primo movimento brusco sparagli senza parlare, ti mando subito qualcuno ad aiutarti, non portatelo via: deve insegnarci a far saltare i pozzi». Gettai il mascin pistola e la P.38 vicino alla porta d'uscita e presi alcune bombe a mano tedesche che erano su un tavolino. Andai verso il bunker e dissi agli occupanti: «In un minuto vi voglio tutti fuori, uscite con le mani sulla testa; se non avete capito peggio per voi, tiro il cordino di queste bombe e le mando a farvi compagnia». Per incanto avevano compreso al volo (sembra incredibile) e iniziarono a uscire: i primi con la divisa e gli stivaletti ammucchiati sul capo. Quando tornai dal Comandante del drappello, vidi che già era vestito di tutto punto, con le sue brave decorazioni sulla giubba. Non vidi più il mascin pistola nel posto dove lo avevo lasciato, ne chiesi notizie ai due guardiani del sottufficiale e mi dissero: «L'avrà preso qualcuno dei nostri». Replicai: «Prendete tutto quello che può essere utile e portatelo da Banò» ed iniziai a parlare col prigioniero, cercando di essere convincente: gli illustrai la situazione, gli promisi salva la vita se avesse collaborato per la riuscita della operazione: se cioè mi avesse insegnato a far brillare i pozzi.
Mi rispose con tutta tranquillità: «Vedi, io so di aver sbagliato in qualche cosa nel disporre il servizio di guardi, vi ho sottovalutato, e adesso è giusto che paghi il mio sbaglio; ma non chiedetemi di sbagliare ancora, non lo farò mai, tu al mio posto cosa faresti?». Capii che da lui non avrei ottenuto alcuna collaborazione. Lo feci portar via, e mandai a dire a Peletta che aspettasse ancora dieci minuti dall'arrivo del messaggero e dopo di ritirarsi: ci saremmo trovati ai Poggi.
Cercai nella baracca del sergente e nel bunker se trovavo il sistema per far brillare le mine, non trovai niente e, avendo gli addetti finito di prelevare le munizioni e le armi con tutto l'altro materiale trasportabile, pensai bene di abbandonare l'idea di far esplodere le mine. Il bottino era  stato ingente: fucili automatici, tapun, un mascingavert, materiale vario. L'unico rimpianto era il mascin pistola e la P.38. Una squadra di un altro Distaccamento aveva saputo del colpo e, quando oramai non c'era più nulla da rischiare, era arrivata ai pozzi e aveva approfittato dell'occasione per prenderseli, erano partigiani e avevano bisogno come noi di armi e munizioni. L'unico a essere scontento ero io, perché non ero riuscito ad interrompere il transito sulla Via Aurelia.
I tedeschi risposero rabbiosamente alla nostra azione, riempirono la zona di manifesti con la promessa di un milione di lire (di allora) a chi avesse dato notizie atte ad identificare e a catturare gli autori del colpo di mano.
Subito dopo, con un rastrellamento immediato in tutta la zona dell'alta Val Prino, vollero dare prova della loro potenza militare.
Ai primi di agosto del 1944 il nostro Servizio Informazioni Militare (SIM) avvisò mia madre e mio fratello di allontanarsi immediatamente dal paese perchè i nazifascisti avevano programmato la loro cattura. L'indomani mattina all'alba, dopo la loro partenza, un nutrito gruppo di nazifascisti già circondava la casa e, non trovando nè mia madre nè mio fratello, distruggevano quanto nella stessa era contenuto e non potevano asportare.
Mia madre, con le sue bestie, si rifugiò ad Andagna nella casa materna: mio fratello, anche per la conoscenza che aveva delle nostre montagne, si arruolò subito come staffetta presso il Comando Divisione. Io avevo ancora rimandato il trasferimento al Comando di Divisione per organizzare la liberazione della missione alleata, prigioniera delle SS nella Villa Salvo, dietro il palazzo della Provincia di Imperia, viale Matteotti.
Un mattino, sul finire della prima decade di agosto, ero con la «Volantina» a dormire in un casone nei pressi di Dolcedo, in compagnia di Mareri (del quale non ricordo il nome di battaglia, forse Max) di Corradi (Ninchi) di Bagascin (il cognome mi sembra Corradi), tutti di Piani di Imperia e di altri due partigiani (dei quali non ricordo il nome), quando venimmo svegliati dal rumore di autocarri che salivano verso Molini di Prelà: erano carichi di tedeschi e di fascisti. Ci recammo a Dolcedo e, dalla moglie del farmacista e dagli abitanti delle case sulla strada, fummo informati del numero di autocarri e delle vetture di scorta scoperte e armate di mitragliatrici che li seguivano. Era un numero consistente di mezzi: calcolando una trentina di uomini per autocarro, stabilimmo che le forze nemiche dovevano essere composte da circa duecento uomini. Decidemmo di attaccarli alla sera, quando sarebbero discesi, organizzando una bella imboscata. La nostra sorpresa fu grande quando, poco tempo dopo, l'autocolonna ritornò indietro con gli autocarri vuoti e con solo gli addetti alle mitragliatrici seduti sulle camionette di scorta. Questo poteva voler dire che il nemico aveva deciso di lasciare un presidio in Alta Val Prino, oppure che avrebbe fatto dimostrazione di forza transitando sulla mulattiera che da Tavole conduceva a Pietrabruna, con la speranza di trovare qualche piccolo gruppo di Partigiani lungo il cammino. Poco tempo dopo, calcolando il tempo necessario agli autocarri per raggiungere Pietrabruna, telefonai al centralino del paese ed ebbi la conferma; gli autocarri, con pochissimi uomini, erano appena arrivati a Pietrabruna. La cosa migliore da fare era quella di attendere i tedeschi sulla via del ritorno, sotto Civezza, e ci avviammo. Nei pressi di Costa di Dolcedo incontrammo una squadra comandata da Peletta; non ricordo quale obiettivo avesse, ma quando l'informai del nostro intento si unì a noi. Era una squadra più numerosa della nostra, dei componenti della quale ricordo solo il mitragliere Giacò e il partigiano Ramirez. Giacò lo ricordo perché eravamo paesani e avevamo fatto molte azioni insieme, Ramirez perché era un partigiano della «Libertas», della quale portava con fierezza il distintivo. Degli altri, escluso Peletta, non ricordo nessuno. In tutto saranno stati una ventina di uomini, con due fucili mitragliatori Saint'Etienne, e fucili da guerra di tutti i tipi: dal moschetto, al novantuno, al tapun. Io avevo uno Sten. Prendemmo posizione su uno spuntone sotto Civezza. La distanza dalla strada che i nazifascisti dovevano percorrere al ritorno era notevole, circa settecento metri. Con lo alzo graduato giusto si poteva colpire il bersaglio, ma con lo Sten era inutile sprecare munizioni. Decisi dunque che non potevo fare da spettatore, scesi a fondovalle e attraversai il fiume; mi riparai dietro un muretto di protezione della strada e iniziò l'interminabile attesa. Con Peletta e gli altri eravamo rimasti d'accordo che avrei iniziato io il fuoco.
Arrivarono a modesta velocità cantando. Cantavano la loro macabra canzone: «Camerati di una guerra, camerati di una sorte, chi divide pane e morte, no non muore sulla terra».
Lasciai passare la camionetta di scorta e scaricai tre caricatori da trenta sul primo autocarro. Che magnifica arma lo Sten! Non c'era proprio il rischio che si inceppasse. Mi allontanai e riuscii ad attraversare il torrente, prima di sentire fischiare le prime raffiche. Dopo fu dura, ma ce la feci lo stesso a raggiungere illeso i miei compagni che continuavano ad impegnare i nazifascisti. Non sapevo ancora che essi (i nazifascisti) avevano ucciso molti contadini inermi che erano nei prati di Dolcedo e di Pietrabruna a falciare il fieno, facendo una vera e propria strage. Le urla dei feriti che cominciai a sentire mi facevano star male, non mi rendevano orgoglioso dell'imboscata; ma era la guerra, la maledetta guerra che aveva coinvolto anche mia madre, allo sbaraglio, profuga sui monti con due mucche e un mulo, e mio fratello non ancora sedicenne al quale venivano affidate le lettere più rischiose che partivano dal Comando di Divisione. Per la sua giovane età egli non era affatto soggetto agli obblighi di leva e poteva recarsi ovunque senza destare eccessivi sospetti. Il lavoro rischioso ed importante, direi essenziale, di tanti di questi ragazzi e ragazze non viene oggi più considerato dagli storici del movimento partigiano, come a mio avviso invece dovrebbe essere fatto per la giusta considerazione che merita.
 
Dolcedo (IM): uno scorcio del centro abitato

Giuseppe Garibaldi
(Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 84-91

venerdì 6 marzo 2020

Il comandante partigiano Fra Diavolo doveva rimanere in Val Tanaro


Ormea (CN) - Fonte: Wikipedia
Negli ultimi giorni di gennaio [1945] in una meravigliosa giornata di sole (con noi c'era anche Rustida * [Costante Brando] che coi suoi ci aveva nel frattempo raggiunto) andavamo verso Nasino [(SV)] senza nessuna meta particolare, quando vediamo venire verso di noi un uomo. 
Lello ** [Raffaele Nante, in seguito vice comandante della IV^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Domenico Arnera" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] con il suo solito umorismo dice: «Sento odore di C.L.N. Questo qua è uno di loro». 
Quando lo incrociamo si ferma e domanda di Fra Diavolo [Giuseppe Garibaldi, già a capo nell'autunno 1943 di un piccolo gruppo partigiano in Cipressa (IM), poi comandante della richiamata IV^ Brigata].
A mia volta gli chiedo cosa vuole. 
Replica che può dirlo solo all'interessato.
Uno dei ragazzi allora gli chiese se era del C.L.N. di Albenga [(SV)] e lui rispose di no, che era un rappresentante del C.L.N. di Ormea [(CN)]. 
Tutti scoppiammo in una grossa risata, che disorientò alquanto il nostro amico.
Allora mi presentai e gli spiegai il motivo di tanta ilarità.
Ci aveva portato alcuni pacchetti di sigarette e ce li offrì. 

Mi appartai con lui, che era latore di una lettera del Comandante della I^ Zona Liguria, una lettera di Curto [Nino Siccardi]. 
Prima di aprirla gli chiesi se ne conosceva il contenuto. «Parzialmente sì» mi rispose. 
Gli dissi che quello che non conosceva non mi interessava, perché certamente sarebbero state parole poco lusinghiere per me.
Aggiunse che era certo che mi sbagliavo e iniziò a spiegarmi il perché della sua visita.
Il Comitato Liberazione Nazionale di Garessio [(CN)] e quello di Ormea [(CN)] avevano deliberato di dar vita ad una formazione Garibaldina Ligure-Piemontese che operasse nell'alta Val Tanaro e nell'alta Val d'Arroscia, nella quale far confluire tutti i giovani desiderosi di combattere contro i tedeschi e i fascisti, ma che per vari motivi non intendevano farlo nelle formazioni Autonome (che noi allora chiamavamo Badogliani, come loro ci chiama­vano Stelle Rosse).
Tradotto in pratica, tutto questo poteva voler dire che gli Autonomi non davano grande importanza al C.L.N. e che, per questo motivo, molto probabilmente, lo stesso aveva deciso di creare o di favorire la formazione di una Brigata garibaldina.

E proprio a me, che ero il «rompiballe» della I^ Zona Liguria, affidava la gatta da pelare.

La zona del Bosco di Rezzo -  © 2020 - Ente Parco delle Alpi Liguri  - Foto: A. Biondo in Parks.it
 
Allora pensai a quanto mi aveva raccontato Italo Cordero [in seguito autore di Ribelle: Esperienze di vita partigiana dalla Val Casotto alle Langhe, dalla Liguria alle colline torinesi, tipografia Fracchia, Mondovì, 1991], uno degli artefici della difesa della Val Casotto, quando per divergenze coi Comandi Autonomi s'era allontanato con sua moglie, rifugiandosi nel bosco di Rezzo [(IM)].

Aprii la lettera di Curto [Nino Siccardi, comandante della I^ Zona Operativa Liguria] che mi presentava il compagno «Etienne» del C.L.N. di Ormea [(CN)], con il quale mi sarei accordato per l'Alta Val Tanaro e dal quale avrei avuto tutto l'aiuto necessario e anche la presentazione al C.L.N. di Garessio [(CN)].
Il mio vecchio Distaccamento G. Maccanò mi avrebbe seguito in Val Tanaro, senza però il suo comandante Libero che sarebbe stato destinato invece ad altri incarichi.
Di quanto successo davanti al castello di Alto [(CN)] neanche una parola, come se niente fosse accaduto. Con Etienne prendemmo appuntamento per il giorno seguente a Barchi, frazione di Ormea, dove iniziammo i contatti con alcuni partigiani locali che chiedevano di essere arruolati nella costituenda Brigata Alpina «Domenico Arnera». Nella lettera di Curto mi si autorizzava, se lo credevo necessario per il buon andamento della nuova formazione in allestimento, a dipendere direttamente dal Comando I^  Zona.

Fra i partigiani che incontrai a Barchi [Frazione divisa tra Garessio ed Ormea (CN)] ricordo Renzo, Plastico [Tirreno Meacci, comandante di distaccamento], Arturo [Walter, Gravagno, poco dopo vicecommissario di Brigata], King Kong [Secondo Bottero, comandante di distaccamento] ed altri dei quali non rammento più il nome. Dall'incontro capii che il loro desiderio era proprio quello di combattere nella loro valle, sino alla liberazione totale di tutta la zona. Non intendevano abbandonare la loro terra come era già stato loro richiesto, quando in settembre pen­savamo di scendere sulla costa.
Li assicurai subito in proposito e compilammo una carta nella quale tutti quanti ci impegnavamo a combattere in zona fino alla liberazione dell'Alta Val Tanaro: non avremmo permesso a nessuno di giudicare i componenti della Brigata che avessero sbagliato: li avremmo giudicati noi stessi, con un rappresentante per Distaccamento. Presidente del Tribunale sarei stato io, quale Comandante di Brigata.

Rientrarono così in Alta Val Tanaro gli uomini del Distaccamento Giuseppe Maccanò, e dagli stessi venni a sapere che Commissario della sesta divisione Silvio Bonfante era stato nominato allora Mario De Lucis [Carlo De Lucis].
Lo conoscevo e lo stimavo immensamente e la sua nomina a Commissario, con il comandante Giorgio [Giorgio Olivero, comandante, appunto, della Divisione "Silvio Bonfante"], mi dava la certezza di un futuro corretto e leale rapporto. Informai Curto della mia scelta di dipendere dal Comando della Sesta Divisione inviando nel frattempo la prima relazione sul lavoro svolto. Mario Commissario di Divisione voleva dire la certezza che intromissioni come quelle di Bosco e Degolla non si sarebbero più verifi­cate.
Colgo l'occasione per rammentare che la I^ Zona Liguria ha avuto i due validissimi Commissari in Libero [Giulio] Briganti [Libero Remo Briganti, commissario politico del distaccamento garibaldino costituito il 22 febbraio 1944 alla Maddalena di Lucinasco (IM) e della IX^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Felice Cascione" che, da quello, il 20 giugno 1944 si sviluppò, con sede nel bosco di Rezzo (IM), e infine commissario politico della II^ Divisione "Felice Cascione" germinata dalla IX^ Brigata il 7 luglio 1944], morto a Upega [(CN)], e Mario De Lu­cis  [Carlo De Lucis], ambedue di Savona; assurdamente nessuno parla molto di loro, io dirò soltanto che entrambi sono fra gli uomini che più ho stimato e amato nella I^ Zona Liguria.
Dopo l'incontro di Barchi ci trasferimmo definitivamente in Val Tanaro; il nostro compito non era dei più facili ma, grazie a Etienne, a Lucia, anch'essa rappresentante del Partito Comunista nel C.L.N. di Garessio (CN), ai partigiani già ricordati in precedenza e al figlio di Etienne, Aldo, per il 15 di febbraio [1945] avevamo già costituito tre Distaccamenti effettivamente operanti in Alta Val Tanaro. 

Nel dicembre-gennaio precedenti erano stati effettuati grossi rastrellamenti in tutta la provincia di Imperia e pure nel savonese. Molti giovani renitenti alla leva e numerosi partigiani arrestati furono trasferiti a Ceva [(CN)], oppure a Cuneo, e lì incarcerati. I fascisti chie­devano loro in extremis di arruolarsi e giurare fedeltà alla Repubblica Sociale: solo così avrebbero potuto evitare la deportazione nei campi di prigionia nazisti. Dopo un breve periodo di istruzione militare sarebbero stati impiegati nei rastrellamenti, oppure al fronte. 
Venivo a conoscenza di tutto ciò dai parenti che transitavano lungo le mulattiere da noi controllate quando si recavano a trovarli. Questi viandanti sceglievano la stra da meno battuta perché portavano sempre con sè un po' d'olio che servi­va ad alleviare le pene della detenzione ai loro congiunti.
Lucia, la rappresentante del C.L.N. di Garessio [(CN)], decise di intervenire sui giovani che avevano già aderito alla Repubblica di Salò per invitarli a disertare ed a unirsi a noi.
Dai parenti che transitavano nella nostra zona, si facevano dare gli indirizzi, e Lucia poteva così presentarsi ai giovani dando loro tutte le indicazioni per raggiungere le nostre formazioni.

Ricordo sempre l'arrivo del cugino di Cion, Bonfante (nome di battaglia «Automatico»), nativo di Cenova [Frazione di Rezzo (IM)]...

Coi nuovi arrivati da Cuneo e da Ceva [(CN)], e coi primi lanci degli alleati, organizzammo altri due Distaccamenti funzionanti. 
Al Comando di uno di questi fu destinato Franco Bonello, un ragazzo di Rezzo [(IM)] che era stato fatto prigioniero ai primi di gennaio del 1945 e che, quindi, era fuggito anche lui da Ceva [(CN)], il mese dopo. Per il secondo Distaccamento, non avendo accettato Rustida * [Costante Brando] il comando, lo convinsi a farne le veci fino a che gli uomini non avessero trovato un altro Comandante...

Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994
 
Il 13 marzo 1945 truppe tedesche partono [da Ormea] verso Ceva su autoblindo. Il 14 vengono iniziati lavori di gallerie e rifugi dietro il municipio e dietro il palazzo delle scuole. Il 15 marzo alcuni apparecchi in picchiata lanciano centinaia di manifestini sulla cartiera in lingua tedesca. Intanto continuano gli spari di molestia da parte dei partigiani. Il 4 aprile Ormea è quasi deserta ed il comando tedesco ordina il coprifuoco, perchè nessuno si è presentato a lavorare nei rifugi in costruzione.
Guida di Ormea, a cura delle "Campane di San Martino", 1986

2 marzo 1945 - Dal commissario [Mario, Carlo De Lucis] della Divisione "Silvio Bonfante" al Comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione politica sull'attività di febbraio 1945: ... i primi giorni sono stati impiegati per riorganizzare i Distaccamenti  dopo i rastrellamenti di fine gennaio... inviato Frà Diavolo in Val Tanaro per riorganizzare gruppi garibaldini...

3 marzo 1945 - Dal capo di Stato Maggiore [Ramon, Raymond Rosso] della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che a Fra Diavolo, che chiedeva se doveva tornare, aveva risposto di rimanere in Val Tanaro, e poneva il quesito se nominare di nuovo Fra Diavolo comandante della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo"...

4 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 170, al capo di Stato Maggiore della Divisione - Comunicava che... "Fra Diavolo" doveva continuare, anche se in disaccordo con "Martinengo"  [Eraldo Hanau, comandante della Brigata 'autonoma' Val Tanaro della IV^ Divisione Alpi del Iº Gruppo Divisioni Alpine 'autonome' che facevano riferimento al maggiore Enrico Martini 'Mauri'], la sua opera in Val Tanaro...

10 marzo 1945 - Dal comando del Distaccamento divisionale "Mario Longhi" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Informava che Frà Diavolo aveva preso contatto con un rappresentante del CLN di Garessio e che quest'ultimo aveva assunto l'impegno a rilasciare un'autorizzazione alla presenza di reparti garibaldini in Val Tanaro...

25 marzo 1945 - Da "Pantera" [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava... il 22 marzo 1945 "Fra Diavolo" aveva compiuto un attentato sulla strada 28 in cui avevano trovato la morte un maggiore tedesco ed altri soldati...

26 marzo 1945 - Dal Comando Operativo [comandante "Curto", Nino Siccardi] della I^ Zona Liguria al comando [comandante "Giorgio", Giorgio Olivero] della Divisione "Silvio  Bonfante" - Comunicava che per ordine del Comando Militare Unificato Regionale [CMURL] la Divisione veniva rinominata "VI^ Divisione d'assalto Garibaldi Silvio Bonfante" e chiedeva notizie sull'imminente riunione tra CLN e garibaldini.

28 marzo 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava che... il 22 marzo il Distaccamento divisionale "Mario Longhi", comandato da "Fra Diavolo" aveva ucciso sulla strada 28 in Val Tanaro un maggiore tedesco e 3 soldati.

15 aprile 1945 - Dal commissario della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"  al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Informava che: ... Frà Diavolo ha attaccato nei giorni scorsi una macchina tedesca ferendo un tenente colonnello: la formazione colà stanziata funziona bene e continua ad arruolare nuovi volontari...

17 aprile 1945 - Dal comando della II^ Brigata "Nino Berio" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" alla "formazione in Val Tanaro" [non era ancora stata ufficializzata la IV^ Brigata "Domenico Arnera"] - Chiedeva la presenza del comandante "Fra Diavolo" [Giuseppe Garibaldi] ad una riunione ad Alto per discutere un piano con "Basco" [anche "Blasco", Giacomo Ardissone, vice comandante della II^ Brigata].

19 aprile 1945 - Dal Comando Operativo [comandante Curto Nino Siccardi] della I^ Zona Liguria al comandante Martinengo [Eraldo Hanau] -  Si rispondeva ad una comunicazione affermando che "l'offerta delle munizioni per i St. Etienne è la più bella dimostrazione dello spirito di collaborazione e amicizia che ci lega e che deve essere sempre più perfezionato. L'alta Val Tanaro non deve essere un elemento di discordia, ma il campo per la lotta comune per poi ricostruire insieme la pace".

19 aprile 1945 - Dal Comando della I^ Zona Operativa Liguria al comandante della IV^ Divisione  'autonoma' Alpi - Si dichiarava che il capitano Bentley [ufficiale alleato di collegamento con i partigiani della I^ Zona] aveva richiesto le armi nascoste a Viozene. Che le armi, anche se recuperate, non erano mai state consegnate al richiedente. Che non era veritiera l'affermazione del "maggiore" secondo la quale "disposizioni superiori stabiliscono che tutto il Piemonte è di giurisdizione dei gruppi 'Mauri'. Che le suddivisioni amministrative non risultavano attendibili quanto "la demarcazione fisica" rappresentata dalle Alpi. Che tutta la zona a sud delle Alpi era indispensabile alle formazioni Garibaldi per poter difendere l'Alta Val Tanaro. Che nella Val Tanaro le richiamate organizzazioni autonome non avevano organici sufficienti per procedere ad un'adeguata occupazione del territorio. Che di conseguenza lo scrivente comando della I^ Zona aveva deciso di fare agire alcune sue strutture nella zona di Garessio-Ormea-Ponti di Nava. Che si prendeva nota del desiderio di collaborare fraternamente nella lotta. Che il capitano Bentley era già addivenuto tramite incontro ad un accordo con la missione inglese presso le formazioni 'Mauri' per ottenere una proficua collaborazione più generale.

19 aprile 1945 - Dal Comando [comandante Curto Nino Siccardi] della I^ Zona Operativa Liguria al comando della VI^ Divisione d'assalto Garibaldi "Silvio Bonfante" - Segnalava che aveva stabilito di inviare presso le formazioni 'Mauri'  un ufficiale di collegamento, pensando di conferire tale incarico a Giovanni 'Gino' Fossati, comandante della II^ Brigata "Nino Berio", da sostituire con Giacomo 'Basco' Ardissone o "altro elemento capace".

23 aprile 1945 - Da "Boris" [Gustavo Berio, vice commissario della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della VI^ Divisione - Scriveva che "Frà Diavolo ha effettivamente 150 uomini... la val Tanaro è completamente nostra politicamente, lo deve essere anche militarmente".

23 aprile 1945 - Dal comando [comandante "Fra Diavolo", Giuseppe Garibaldi] della IV^ Brigata "Val Tanaro" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al comando della VI^ Divisione - Comunicava che "poiché dell'ultimo lancio non è giunto nessun rifornimento bellico alla Brigata in indirizzo, nonostante si fosse fatto presente che i suoi 4 Distaccamenti sono disarmati, potete fare conto che la Brigata non esista più. Sospendiamo il nostro lavoro di organizzazione fino ad una vostra risposta... è inutile assegnare delle zone senza delle armi per poterle controllare". 

da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999
 
Alcuni giorni dopo [a fine marzo 1945] ricevetti l'ordine di mandare un Distaccamento a Viozene, a disposizione del Comando Zona. Decisi di andare con cinque squadre, una per distaccamento e col vice Comandante di Brigata Lello **. Credevo che Osvaldo [Osvaldo Contestabile], il Commissario, ormai completamente ristabilito, prendesse contatto con i vari Distaccamenti e anche con i componenti del C.L.N. perchè, è doveroso dirlo, i contatti con i vari componenti degli stessi non erano sempre improntati alla più schietta cordialità, (anche se, nel caso del C.L.N. dell'alta Val Tanaro, avevamo sempre trovato la massima comprensione.) Per Osvaldo invece le sue esperienze antecedenti (Commissario della quinta Brigata della Cascione e Commissario della Divisione Bonfante) lo avevano lasciato assai diffidente.
Arrivammo a Viozene e ci sistemammo in una frazione del paese. Subito dopo mi recai a salutare Curto. Mi feci accompagnare da alcuni garibaldini, ma lasciai Lazzaro con Lello e gli altri, raccomandando loro di fare in modo che non rimanesse mai solo. Curto mi chiese notizie della Brigata alpina, dei Distaccamenti, dei loro Comandanti. Lo informai di Rustida *, forse era stato il primo ex Sanmarco a diventare Comandante di Distaccamento, gli raccontai della sua eroica morte e il duro Curto mi disse: «Immagino quello  che provi, perché so che eravate uniti; il tuo grande difetto è che ti affezioni troppo ai tuoi uomini migliori, e in guerra, in special modo nella guerra partigiana, questo porta indubbiamente dei vantaggi. Ma si corre anche il rischio, nel caso della perdita di uno di questi, di non essere abbastanza sereni». Capii che lui, in quel momento, pensava alla morte di Giulio e di Cion e al suo errato comportamento a Carnino; lo interruppi e gli disssi: «Tu pensi a Upega; ma io sono certo che, se non avessimo avuto la disgrazia di avere con noi il Prof., le cose sarebbero andate in altro modo. «Puoi anche avere ragione», rispose.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Op. cit., p. 187
 
* Costante Rustida Brando. Nato a Milano il 25 ottobre 1925. Ex sergente sanmarchino, fa esperienza organizzativa al comando di Massimo Gismondi “Mancen” e di Nino Siccardi “Curto”; in seguito si unisce a Giuseppe Garibaldi “Fra Diavolo”. Molto stimato dal comando partigiano e da “Fra Diavolo”, dopo i rastrellamenti del gennaio 1945, è mandato a capo del distaccamento “Gian Francesco De Marchi” a Nasino, zona ritenuta più tranquilla. Il 20 marzo i tedeschi puntano su Nasino, accompagnati da una spia borghese che li porta direttamente presso l’accampamento del distaccamento sito in località Scuveo. Gli attaccanti a causa della scarsa visibilità possono scendere indisturbati verso il casone. L’allarme non viene dato in tempo e i garibaldini sono colti di sorpresa; “Rustida”, tenendo a bada i nemici con la sua arma automatica permette ai compagni di allontanarsi; è raggiunto da un colpo di mortaio che gli squarcia il ventre e gli causerà una fine atroce: ha la gamba quasi staccata dall’anca. Esaurite le munizioni, rompe l’arma e si uccide con un colpo di rivoltella per non cadere vivo in mano dei tedeschi, i quali non permetteranno ai fascisti di togliergli le scarpe. A Costante Brando è intitolato un Distaccamento della II^ Brigata "Nino Berio" della VI^ Divisione.
Arrivano i Partigiani, inserto, I RESISTENTI, ANPI Savona, 2011

** La sorella di Lello, Angela Nante, Angioletta, fu aiutante sanitaria della II^ Brigata "Nino Berio" della VI^ Divisione; il fratello Libero, Meghettu, dirigente sanitario, invece, della già richiamata II^ Brigata. A Libero Nante, che dopo la guerra divenne un insigne clinico, venne dedicato, su Scuola Igiene e Sanità dell'Università di Siena, un forte profilo, che ci si ripromette di pubblicare qui schematicamente in una prossima occasione, ma dal quale si riprende ora una premessa, concernente i genitori dei fratelli Nante: ...  Ad Oneglia (Imperia)... padre, Nicola (“Coluccio”), era stato Vice-Sindaco  di  quella  città, nonché  Segretario  locale  del  Partito  Socialista,  che  in  Oneglia ebbe i natali, e aveva fondato una cooperativa di pescatori improntata agli ideali del socialismo; aveva sposato Giovanna  (“Nannina”) ...
 

Angioletta Nante, staffetta partigiana - Fonte: I Trucioli

Sabato 7 dicembre, l’Istituto Storico per la Resistenza e l’età Contemporanea della Provincia di Imperia - ISRECIM ha dedicato il suo prestigioso Archivio con una targa (allegata) alla memoria dei Fratelli Libero, Angioletta e Lello Nante, distintisi nella guerra partigiana combattuta sulle montagne della nostra I Zona Liguria (geograficamente compresa tra Ventimiglia e Ceriale).
Lo storico Ferruccio Iebole ha arricchito la cerimonia con una interessante commemorazione.
All’inizio del 1944, sfuggiti alla persecuzione nazifascita, con i genitori Coluccio e Nannina, dalla natia Oneglia a Viozene, i tre ragazzi vennero reclutati dal mitico Comandante Partigiano Nino Siccardi (Curto) ed adibiti i primi due (Libero, ventiquattrenne, studente di Medicina, Angioletta, quindicenne) all’organizzazione di un ospedaletto da campo ed il terzo (ventenne) alla prima linea.
A seguito del terribile rastrellamento di Upega, che costrinse i Partigiani, decimati, ad una epica ritirata tra le montagne ghiacciate, la famiglia, in ordine sparso, si ritrovò sul versante piemontese, a Fontane, in val Corsaglia. Qui Lello venne nominato Vice Comandante della neocostituita VI Brigata del celebre Fra Diavolo e Libero venne inviato, con compiti ufficialmente sanitari e, meno dichiarati, informativo-esplorativi, ad Alto in Val Pennavaire.
Iebole ha raccontato di quando Libero, in missione, sfuggì ad un agguato, avendo incontrato nel bosco una ambigua donna, che fungeva da guida ad una colonna nazifascista. Della donna in seguito si persero le tracce. In assoluta anteprima Iebole ha svelato, per l’occasione, l’identità della donna. Le sue ricerche, infatti, lo hanno portato ad identificarla in Oliva Fioretta Cordella, nata 1913 nel Bellunese, coniugata e residente a Vado Ligure, impiegata nella Croce Rossa savonese: essa si trovava ausiliaria della suddetta colonna nazifascista, dalla quale veniva anche utilizzata come spia per la sua fisica avvenenza e per il suo bilinguismo italiano e tedesco. Come tale venne in seguito giustiziata in segreto, tanto che nemmeno gli stessi Comandi partigiani seppero riferirne a Libero a fine guerra.
Di Lello, oltre al valore militare, Iebole ha raccontato l’equilibrio, quando Presidente del Tribunale Partigiano, emise nei confronti di un informatore fascista un giudizio di “pacatezza sconosciuta per quei tempi per la gravità delle colpe”. La sentenza di morte fu, infatti, tramutata da Lello in ammenda di 200.000 lire, molto utili al sostentamento della Brigata. “Che  differenza tra giustizia partigiana e giustizia fascista ! Semi di una pacificazione già presenti prima che fossero deposte le armi; l’impiego della ragione precedeva le vendette e i giorni  difficili dell’ira!” Libero concluse la sua militanza ribelle scendendo, il 25 aprile 1945, ad Albenga con il suo distaccamento ed organizzando, nell’ospedale cittadino, corsie per soccorrere i partigiani feriti. Poi ivi rimase come Medico Condotto dell’entroterra ed in seguito creatore delle due case di cura Villa Salus e Clinica San Michele. Angioletta (che in montagna gli era stata “staffetta” e “aiutante”) si fermò con lui ad Albenga, mentre Lello tornò, operaio, ad Imperia [...]
Redazione, Svelata targa alla memoria dei fratelli Nante: anche la città di Albenga presente alla cerimonia, La Voce di Genova.it, 9 dicembre 2019