domenica 8 ottobre 2023

Il 20 novembre 1943 il col. Giuseppe Bosio, comandante del distretto d'Imperia, fa affiggere i manifesti per la chiamata alle armi delle classi 1923-24-25

Sanremo (IM): Corso Imperatrice

Con l'occupazione germanica della Liguria Occidentale i fascisti che, il 25 luglio 1943, arrestato Mussolini ed abolito d'autorità il P.N.F. (Partito Nazionale Fascista), erano scomparsi, rialzano la testa e ricompaiono nella società protetti dalle truppe d'occupazione. I primi loro atti sono le vendette personali e quindi iniziano la riorganizzazione delle loro forze politiche e militari.
Al vertice del potere amministrativo in provincia di Imperia, come capo della provincia, viene insediato il console generale della milizia ecc. dott. Francesco Bellini (12), nato a Cecina nel 1899, già segretario federale a Bolzano, a Pola e a Gondar (Etiopa); console generale della M.V.S.N. (13), prefetto di Belluno e Gorizia nel 1939, fascista ligio alle proprie idee, che governerà fino alla metà del 1944 (14) emanando bandi e prendendo iniziative assai impopolari da causare non pochi drammi tra gli antifascisti ed i civili.
Alla nomina del nuovo prefetto seguono quelle dei segretari politici del nuovo Partito fascista repubblicano. Ad Imperia il cittadino Archi succede al dott. Domenico Filippi, segretario della Federazione locale; a San Remo la sede del Partito fascista repubblicano, con commissario politico Nino Nuvoloni, viene costituita in via Manzoni n. 2, ove si apre la sottoscrizione «pro mitra», e a Diano Marina, sulla piazza del Municipio, il cui nuovo segretario politico è  Enrico Papone.
Il Prefetto, su indicazione dei fascisti locali, insedia i commissari nei Comuni: nel capoluogo all'avv. Ambrogio Viale subentra, il 23 di settembre, il prof. Nardo Languasco; a San Remo il vice-prefetto dott. Alfonso Chiodo sostituisce l'avv. Mario Caraccioni; a Bordighera assume la carica il commendatore Emilio Pognesi [n.d.r.: in effetti, il cognome era Pognisi, un generale a riposo con contatti con antifascisti della zona, come Giuseppe Porcheddu, Pognisi, morto di lì a breve e che, comunque, fu podestà di Bordighera solo nel periodo "badogliano"] ed il 17 a Diano Marina il col. Alessandro Angioino sostituisce il dimissionario Mario Oreggia. In Questura il dott. Benedetti lascia la carica al  nuovo capo di polizia Ermanno Durante, un personaggio che, alla liberazione, fuggito a Milano e il 26 aprile catturato in un nascondiglio e incarcerato da una squadra del distaccamento «Carlo Rosselli», in seguito verrà rimesso in libertà in circostanze poco chiare. (G. Pesce, Quando cessarono gli spari, Ed. Feltrinelli, Milano, 1977, pag. 143). Si organizzano le prime formazioni armate della Repubblica Sociale Italiana. All'inizio la maggior parte dei fascisti, già appartenenti al 33° battaglione C.C.N.N. reduce dai Balcani e sfasciatosi l'8-9-1943, che rivestono la divisa, vengono inquadrati nella 33a legione M.V.S.N. «Generale Gandolfo» del 626° Comando Provinciale G.N.R. d'Imperia (15), comandata dal colonnello Gianni De Bernardi e dal vice, primo seniore colonnello Pier Cristoforo Bussi, capo dell'U.P.I.
La 33a legione suddivisa su tre compagnie O.P. (Ordine Pubblico) dislocate a Ventimiglia, a San Remo e a Imperia, con distaccamenti nei pressi di Bevera, Mortola inferiore, Bordighera, Dolceacqua, San Michele, Ceriana, Isolalunga, Taggia, Badalucco, Triora, Santo Stefano al Mare, Dolcedo, Diano Marina, Cervo, Pieve di Teco, Pornassio, Nava (16), è completata a novembre con l'incorporazione di circa 200 giovani reclutati dal federale Cesalo in Francia, dei quali:  33 a Nizza, 31 a Mentone, altri a Roquebrune, Antibes, Cagnes, St. Laurent du Var, Carnoles, Cap Martin, ecc., già quasi tutti appartenenti all'organizzazione fascista «Azione Nizzarda» (17).
Inizialmente comanda la compagnia O.P. d'Imperia il capitano Ferrari di cui avremo da parlare (18). L'Albenganese rimane sotto la giurisdizione militare del 627° Comando Provinciale G.N.R. di Savona, già 34a legione «Premuda» (Posta da campo n. 831) comandata dal maggiore F.M. originario di Porto Maurizio, da l'U.P.I., dal maggiore Previtera, con compagnie O.P. dislocate a Varazze, Cairo Montenotte, Albenga e, per guanto ci riguarda, con distaccamenti ad Alassio, Andora (con posto di blocco sulla via Aurelia), Casanova Lerrone e Ortovero (19).
Il 20 novembre 1943 il col. Giuseppe Bosio, comandante del distretto d'Imperia, fa affiggere i manifesti per la chiamata alle armi delle classi 1923-24-25, che prevedono la pena di morte per renitenti e disertori. Ma i detti manifesti  lasciano il tempo che trovano.
Altri giovani Italiani, figli di famiglie emigrate nella vicina Francia, allettati da mille promesse, per forza o con consenso, già organizzati nelle squadre fasciste degli Italiani all'estero, dette (oltre alla già citata «Azione Nizzarda») «Fronte Popolare Francese», «Milizia Francese» ecc., inquadrati nel battaglione «Nizza», vengono trasferiti nell'Imperiese.
Al termine del 1943 molti di questi fascisti importati o locali, tendono a costituirsi in reparti autonomi, come Compagnie di Ventura, in cui sono incorporati anche condannati comuni, tratti fuori dalla galera ed arruolati con la promessa della estinzione della pena, a guerra finita. Vi affluiscono pure fascisti fanatici. Fra i militi sono anche gli uomini che il fascismo aveva ingannati ed illusi; gli arrivisti astuti ed ambiziosi ma accorti, che non si  macchieranno di delitti; dei borsari neri che si serviranno della divisa per condurre a buon termine dei traffici illeciti; dei disoccupati; dei prototipi che vivevano ai margini della società, innocui o irresponsabili.
Comanda la Piazza d'Imperia il colonnello tedesco Major che sovrintende e sorveglia, diffidente, l'attività di queste formazioni fasciste (20). Il dott. Gercano diventa commissario capo delle guardie repubblicane.
Il grosso dell'esercito della R.S.I. viene addestrato in Germania dai Feldwebel tedeschi. È composto da coloro che, tra i deportati, avevano aderito alla R.S.I., uniti alle reclute che in Italia, ubbidendo ai bandi nazifascisti, si  erano presentati ai distretti militari.
La divisione di marina «San Marco» è addestrata nel campo di Grafenwohr, la divisione alpina «Monte Rosa» a Munzingen, la «Italia» (bersaglieri) a Hemberg, e la «Littorio» (fanteria motorizzata) nel Sennelager. Sono circa 16.000 uomini in forza organica per ogni divisione, ad eccezione della «Monterosa», con 20.000.
Diversamente, la divisione camicie nere «Tagliamento», i «Cacciatori degli Appennini», reparti paracadutisti «Nembo» e «Folgore», i battaglioni autonomi di difesa costiera, le divisioni rabberciate in forma precaria «Etna» (I divisione  antiparacadutisti e antiaerea «Etna», il cui 8° battaglione si troverà nel Savonese e nell'Imperiese nei primi mesi del 1945) e «Vesuvio», la X MAS del principe Valerio Borghese, le brigate nere, i reparti P.S., le compagnie di ventura «Koc», «Carità» ecc. sono organizzate in Italia.
Nell'Imperiese i fascisti, acquisita una minima organizzazione, dànno il via alle rappresaglie dirette contro le famiglie dei renitenti alla leva: a San Remo vengono tolte le licenze di commercio a varie famiglie e si ordinano i raduni di bestiame bovino per la requisizione (21).
Nella seconda decade del gennaio 1944 i G.A.P. sanremesi compiono le prime azioni di sabotaggio tagliando i fili telefonici del Comando tedesco. Con un discorso di padre Eusebio (ex cappellano della divisione «Julia») nel teatro «Verdi» a San Remo, è istituita una squadra fascista intitolata a Ettore Muti: è il primo embrione di organizzazione militare che darà vita alla «Brigata Nera» della provincia.
A Porto Maurizio nasce il circolo rionale fascista «Silvio Borra». Ad Albenga il Podestà comunica alle autorità nazifasciste i nominativi di n. 87 renitenti alla leva delle classi 1924-25-26. Il 10 febbraio a San Remo è istituito il Tribunale Federale di cui entrano a far parte, oltre al segretario del Fascio repubblicano, Ugo Ughetto ispettore federale per la zona di Mentone, ed Elio Piccioni segretario federale di Ventimiglia. Nasce pure un centro arruolamento  volontari comandato da Francesco Lanteri (22), simile a quello già in funzione presso la federazione dei Fasci repubblicani.
A Realdo, in valle Argentina, si hanno le prime vittime dello spionaggio: il maggiore della milizia fascista F.A., notata in paese la presenza di vari prigionieri inglesi, fuggiti l'8-9-1943 dai campi di prigionia del Piemonte, dal concittadino A.L. li fa consegnare ai carabinieri di Triora che, a loro volta, li dànno in mano ai Tedeschi; i due saranno fucilati dai partigiani come spie perché, senza dubbio, uguale sorte avrebbero questi ultimi subìto se fossero  stati catturati per delazione (23).
In marzo i prefetti d'Imperia e di Savona ordinano il ripristino dei motti del Duce, scritti sui muri, già cancellati dopo il 25-7-1943 (24).
Nella primavera del 1944 l'ufficio U.P.I. d'Imperia acquista una consistente organizzazione: dipende dalla G.N.R., ha per capo il colonnello Bussi, è composto da militi come il maresciallo Mangiapan, il brigadiere Maffei, l'agente Gallerini, il centurione Montefinale, il capo ufficio magg. Gastaldi, ecc. (25).
La compagnia O.P. della 33a legione ed altre formazioni, hanno il compito di mantenere l'ordine pubblico e di dare la caccia ai fuorilegge (partigiani), al tempo stesso si lamentano presso il Duce, informandolo che i figli della borghesia locale, invece di arruolarsi nelle forze della Repubblica Sociale, si sono imboscati nella Todt; gente che non ha mai lavorato e che per opportunità ha imbracciato il badile e la pala in luogo del fucile (26); segnalano che la maggior parte dei richiamati, specie quelli dei paesi montani, hanno già fatto causa coi «banditi» (20-6-1944) e che in provincia quasi ogni giorno si verificano assenze arbitrarie dai presidi costieri (23-6-1944).
La compagnia O.P. d'Imperia, composta di circa 150 uomini, è comandata, come abbiamo già detto, dal capitano Giovanni Ferrari, (ex ufficiale del 41° reggimento fanteria), molto quotato dai Tedeschi e decorato della croce di ferro di 2^ classe, che diventerà non poco famoso (27).
Dai reparti della G.N.R. nascono, in seguito, quelli antipartigiani (R.A.P.), composti da giovani di 18-25 anni, che dànno il via ai rastrellamenti sulle montagne della provincia. Giunti in un paese allacciato alla carrozzabile, a bordo di camions, ed attraversata qualche valle a piedi, sono raccolti altrove con gli stessi mezzi. Veramente non sono rastrellamenti eseguiti in ordine sparso, ma in colonna, pertanto poco efficaci. Anche la polizia del questore in carica  rastrella e, purtroppo, in  maggio infligge duri colpi alle organizzazioni antifasciste ed ai C.L.N. nelle zone di Ventimiglia, Bordighera, San Remo e Diano Marina (28).
In luglio il questore in carica è sostituito dal dott. Sergiacomi, altro capo cui seguirà nell'Imperiese un periodo di vita difficile. Viene istituito un robusto plotone arditi antipartigiani comandato dall'ufficiale superiore Delcaro, con cani lupo e ben fornito di mitra, pistole e bombe a mano. Gruppo di militi repubblichini ben noti a coloro che hanno subito le loro «sedute» d'interrogatorio (29).
Il primo luglio 1944  Mussolini detta la deliberazione per istituire le squadre d'azione camicie nere, il 26 luglio viene impartita a tutte le formazioni fasciste già esistenti la seguente ordinanza: «Gli appartenenti al partito, dai 16 ai 60 anni, devono far parte di queste squadre che assumono il compito di assicurare l'ordine e distruggere i partigiani ed i comunisti ovunque si trovino. Chi non aderirà, può andarsene. I capi devono essere uomini politici locali... » (30). Nascono così le brigate nere con capi fondatori. In esse si raccolgono i «scelti» delle già menzionate formazioni fasciste. Il raggruppamento di tali bande costituisce la «Brigata Nera».
Nel luglio 1944 nasce ad Imperia la 32a brigata nera «Antonio Padoan» ed a Savona la 34a brigata nera «Giovanni Briatore», ambedue dipendenti dall'Ispettorato B.B.N.N. della Liguria, con sede in Genova, di cui è capo il dott. Asti prima e Luigi Sangermano dopo.
La 32a brigata nera d'Imperia prende il nome dal prete Antonio Padoan. Eccone il motivo:
Durante gli anni del fascismo il Padoan era parroco di Creppo, in valle Argentina. Si dimostrava di idee liberali benché fosse figlio di un colonnello fascista. Poi venne trasferito nella parrocchia di Castelvittorio e durante la Repubblica di Salò le sue idee si adeguarono al momento per cui, divenuto uomo fidato della G.N.R. e dei Tedeschi occupanti, incominciò a fare propaganda in chiesa per i nazifascisti. A Pigna, come capitano della milizia, non disdegnò di sostituire don Bono protestatario, per far partecipe di funzioni religiose i partigiani Repetto e Faraldi morituri, fucilati poi dai fascisti.
Forse affrontato da partigiani della V brigata [n.d.r.: invero a quella data non ancora costituita] la sera del 7 maggio 1944 per indurlo a desistere dai suoi propositi e abbandonare Castelvittorio e forse, nata una colluttazione reciproca con spari da ambo le parti (pare che il partigiano detto «Albenga» abbia avuto la cassa del fucile fracassata da una pallottola, così che l'arma gli salvò la vita), il Padoan rimase ucciso (31).
I fascisti fecero del morto un martire ed una bandiera intitolando con il suo nome la brigata nera imperiese e resero gli onori militari alla salma durante i funerali che si svolsero a Ventimiglia.
La 32a brigata nera «A. Padoan» partecipa alla lotta antipartigiana fino alla liberazione. Dopo il 25 aprile 1945, in fuga, raggiunge Alessandria ove viene catturata.
Dislocata ad Imperia con posta da campo n. 779, durante tutto il periodo della lotta è comandata, tra gli altri, da Mario Massina e dal tenente colonnello Edoardo Baralis.
Comprende la Compagnia comando, il 1° battaglione su tre compagnie e il 2° battaglione con la 4^ compagnia «Alassio» comandata dal tenente Ferdinando Rey, la 5^ compagnia «San Remo» comandata dal tenente Renato Moretti, la 6^ compagnia «Ventimiglia» comandata dal tenente Elio Piccioni.  (32) [n.d.r.: si intendeva con ogni evidenza citare Renato Morotti, in ogni caso non tenente e neppure comandante, fucilato il 26 aprile 1945 presso il cimitero della Foce a Sanremo: in ogni caso, sia in Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 che nel Diario (brogliaccio) del Distaccamento di Sanremo (IM) della XXXII^ Brigata Nera Padoan (Documento in Archivio di Stato di Genova, ricerca di Paolo Bianchi di Sanremo), comandante di tale compagnia risulterebbe essere stato Mangano, così come sembrerebbero confermate, direttamente o in absentia, le scarne notizie di cui sopra, afferenti Renato Morotti].
La brigata nera viene munita di un proprio ufficio U.P.I. diretto da un certo P.G. I capi delle squadre d'azione diverranno tristemente famosi; sono gli ufficiali: R. M., E. M., A. D. R., P. G., L. B., V., A. impiccatore (33), i capitani I. D. (condannato a morte alla Liberazione ma poi assolto), F. M. giustiziato,  G. F., E. P. (giustiziato a Diano Marina il 4-10-1944), A. V. (già capitano della milizia) e A. C. (capitan Paella) giustiziati nei giorni della liberazione, ed altri (34). In concorso con le SS tedesche saranno responsabili di quanto è successo di grave a uomini, donne e bambini (35).
L'ordinanza del Duce sull'inquadramento delle brigate nere in funzione militare fa nascere non poche perplessità nei capi, tanto che ad Imperia il comandante della «A. Padoan» Mario Massina scrive in un suo rapporto del 16 luglio 1944:
«Il provvedimento della militarizzazione del partito ha provocato svariati commenti. È impressione generale che le squadre d'azione non saranno in grado di funzionare, sia per la deficienza di armi, sia per la mancanza di capi, sia, infine, perché il partito in provincia di Imperia non ha largo seguito. Ha destato ilarità il fatto che il Commissario federale prenderà il nome di Comandante di Brigata quando ai suoi ordini, in provincia d'Imperia, avrà sì e no una cinquantina di elementi».
In un altro rapporto del Massina del 28-7-1944: «Con l'ordine di costituzione delle brigate nere il fascismo d'Imperia ha chiaramente dimostrato la sua poca buona volontà di combattere. A tutt'oggi nessuna squadra d'azione è stata costituita, anzi, qualche fascista ha presentato le dimissioni e molti altri, pare, intendono fare lo stesso, non escluso qualche dirigente». (36)
L'11 luglio 1944 è costituita ad Alassio la 34a brigata nera «Giovanni Briatore» (Posta da campo n. 831), comandata da Francesco Girlaro, vicecomandante è Luca Dimora. Altri capi della brigata nera saranno: Mario D'Agostino fino al 22-10-1944, Paolo Pano fino al febbraio 1945, e quindi Quinto Aleardi. È composta da una compagnia comando e da tre battaglioni divisi in nove compagnie, a loro volta suddivise in squadre d'azione per un totale di circa 600 uomini. Le compagnie presidiano Alassio, Albenga, Varazze e Vado Ligure.
[NOTE]
(12) Il nuovo prefetto dott. Vincenzo Bellini sostituì l'8-10-1943 il collega dott. Froggio che, a sua volta, l'8-9-1943 aveva sostituito il prefetto dott. Tallarico.
(13) Dopo l'8-9-1943, la sigla M.V.S.N. non venne più usata dalle ricostituite forze armate fasciste.
(14) Vedi articolo nella cronaca d'Imperia del Corriere Mercantile dell'8-10-1943.
(15) Il 626° Comando Provinciale d'Imperia (Posta da campo n. 779), col 627° di Savona, 628° di La Spezia ed il 625° di Genova, dipendevano dall'Ispettorato Regionale Ligure della G.N.R.
(16) Da documento del Comando 33a legione «Generale Gandolfo», emesso ad Imperia il 20-ll-1943, prot. n. 29 segreto, relativo alla ricerca dei membri del Gran Consiglio del Fascismo che nel luglio votarono contro Mussolini.
(17) Tra gli altri, 14 militi della 33a legione caddero ad Imperia, 7 a San Remo, 5 a Bordighera, alcuni a Triora, a San Lorenzo al Mare, a Taggia e a Diano Marina.
(18) Una pattuglia della compagnia O.P. di Imperia il 20-11-1943 uccise nei pressi di Sant'Agata il partigiano Walter Berio, primo caduto della Resistenza Imperiese (vedi primo volume dell'opera di G. Strato).
(19) Vedi: «Storia delle forze armate della Repubblica Sociale» di G. Pisanò, fascicolo n. 81. Edit. F.P.E., Milano 1968. Tra gli altri, 7 militi del 627° Comando Provinciale caddero nella zona di Alassio; una dozzina in quella di Albenga, alcuni in val Merula, località «Cian du Belottu», nel giugno 1944. (vedi volume II dell'opera di C. Rubaudo).
(20) Con la dicitura: «la presente tessera vale come porto d'arme e come autorizzazione di libera circolazione in caso d'emergenza politica o militare per raggiungere le sedi del P.F.R.», riportata sulla tessera degli aderenti al Partito e da lui firmata, il colonnello tedesco Maior permette a questi ultimi di portare le armi.
(21) Raduni per la requisizione di bovini si tennero a Ventimiglia il 5.1-1945, a San Remo il 13-1-1945, a Borgomaro il 16-1.1945, a Pieve di Teco il 27-1-1945, a Diano Marina il 12-1-1945.
(22) Notizia tratta dal giornale «Eco della Riviera» del 10-2-1944.
(23) Da una testimonianza del comandante Nino Siccardi (Curto).
(24) Da circolare prefettizia del 25-3-1944, prot. n. 769/14/7 Gab. Savona.
(25) Da documento redatto dall'ex brigatista nero E.F.
(26) Vedi volume: Riservato a Mussolini, nota del 4-5-1944/P2/0. Edit. Feltrinelli, Milano 1974.
(27) Da testimonianza del brigadiere T. F. della G.N.R., fatta il 10-5-1945.
(28) Una squadra antipartigiana della P.S. era composta dagli agenti: Gi., Di C., An., La., Sa., Fa., Ai., Cu., Pu., An., Fa., Ba., Ge., Ca., quasi tutti meridionali, rimasti tagliati fuori dalla loro terra dopo lo sbarco alleato  in Sicilia. Vedi documento nel capitolo "Azioni nemiche controbanda", settembre 1944.
(29) Guardie di P.S. che fecero parte del plotone antipartigiani:  Gu.,  Ag., Me., Ne., Re., Te., Pu., ecc., anche questi, meridionali, rimasti in Ligurìa a causa degli eventi come a nota (28). Vedi lettera del S.I.M. di zona al servizio S.I.M. del Comando II^ divisione "F. Cascione" del 3-4-1945.
(30) Dal volume «Italia Partigiana» di G. Bocca, Edit. Laterza, Bari, 1967
(31) Da memorie orali di Bruno Luppi (Erven) e del comandante «Vittò». Per maggiori dettagli vedi l'opuscolo "Sangue a Castelvittorio" di Nino Allaria Olivieri, Edit. Sordomuti, Milano, 1997.
(32) Vedi: "Storia delle forze armate della R.S.I. di G. Pisanò", fascicolo n. 98. Edit. F.P.E., Milano, 1969.
(33) Il milite fascista A., in relazione alle dichiarazioni fatte dai suoi commilitoni, aveva impiccato nove partigiani in una volta. Vedi giornale «L'Unità» del 23-7-1946.
(34) Da relazione del responsabile S.I.M. divisionale al Comando operativo di Zona, del 4.4.1945 prot. n. 21/73
(35) S.S. = Schutzstaffel, che significa: Servizi Speciali. La formazione nacque nell'aprile 1925. Il nome fu dato ad una squadra di 8 uomini scelti, tra i più fanatici, destinata alla protezione personale di Hitler.
(36) Vedi a pag. 188 del volume "L'esercito di Salò" di G. Pansa. Edit. Oscar Mondadori, Milano, 1970.
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. La Resistenza nella provincia di Imperia da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio dell'Istituto Storico della Resistenza di Imperia, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977

Pigna (IM): Corso De Sonnaz

Nella tarda estate del '44 tornarono in Italia i primi reparti addestrati nel Reich, la divisione di fanteria San Marco e la divisione alpina Monterosa. Entrambe, assieme a tre divisioni tedesche, finirono per formare l'armata Liguria, la quale, raggruppata tra Imperia e La Spezia, aveva il compito di impedire uno sbarco alleato sulla costa nord-occidentale del Paese <1192: in realtà la sua funzione si orientò principalmente alla lotta partigiana, dato che i tedeschi non avevano alcuna intenzione di adoperare truppe italiane al fronte.
[...] Sempre alla prima sezione della Corte di Assise romana toccò giudicare un altro capo provincia della Rsi, dapprima stanziato a Rieti e successivamente, dal giugno del '44, ad Imperia, Ermanno Di Marsciano. Oltre alle accuse di collaborazionismo pesava sull'imputato il coinvolgimento nei rastrellamenti di Monte San Giovanni in Sabina del 7 aprile 1944 e di Leonessa (RI) del 10 marzo 1944. Con la sentenza 121/50 del 21 giugno 1950 il tribunale romano lo condanna all'ergastolo, all'interdizione dai pubblici uffici e al pagamento delle spese legali. La Cassazione, tuttavia, accolse la richiesta di conversione della pena avanzata dall'imputato, affidando l'onere del giudizio alla Corte d'Appello di Roma, la quale, il 12 maggio 1952, convertì l'ergastolo - già precedentemente condonato in 19 anni di reclusione - in 9 anni di reclusione. Di Marsciano, nel giugno del '44, aveva sostituito ad Imperia Francesco Bellini, il quale era stato trasferito a Treviso. Nominato prefetto durante la guerra per meriti politici, Bellini era come tanti suoi colleghi prefetti uno squadrista della prima che prese parte alla marcia su Roma. Fu console generale della Milizia e durante gli anni Trenta ricoprì la carica di segretario federale a Bolzano, Pola e a Gondar, in Etiopia. Fu nominato prefetto nel 1939 e destinato dapprima a Belluno e poi a Gorizia dove, nell'agosto '43, venne collocato a riposo da Badoglio <1374. Per il suo operato durante la Repubblica di Salò venne riconosciuto colpevole per i reati di collaborazionismo e omicidio dalla Corte d'Assise Straordinaria di Treviso e condannato a morte con sentenza emessa il 16 giugno 1945. La Corte di Cassazione di Milano, tuttavia, accolse il ricorso dell'imputato contro la sentenza, annullandone l'esito e rinviandola alla Corte d'Assise Straordinaria di Venezia. Non si conosce l'esito del processo.
[NOTE]
1192 F.W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, pp. 707-708
1374 M. Stefanori, Gli ebrei e la Repubblica sociale italiana, p. 131
Jacopo Bernardini, "Un confuso fermento di idee": politica, amministrazione e costituzione nell'ultimo fascismo (1943-1946), Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Torino, Anno accademico 2019-2020
 
Dopo l'8 settembre Marcianò ricostituì il suo battaglione a Vercelli, da cui il 30 marzo 1944 raggiunse Grafenwöhr per aggregarsi alla divisione San Marco. Al momento di partire per la Germania inviò un vibrante messaggio a Mussolini a cui esprimeva «la volontà di combattere e di morire per le rinnovate glorie della Patria», chiedendo che il suo gruppo venisse «lanciato contro il nemico, come i vecchi reparti d'assalto della Grande Guerra». <194 Una volta rientrato in Italia, il reparto di Marcianò, insieme ad un gruppo del 3° reggimento di artiglieria, fu posto sotto il comando della 34ª Infanterie Division, diretta dal generale Theo von Lieb. Il III gruppo esplorante, che poteva disporre di circa 700 uomini, <195 venne inviato nell'area di Imperia, con il compito di ripulire la zona dalle bande partigiane che minacciavano la sicurezza delle retrovie tedesche. Pur non essendo stricto sensu una vera e propria formazione di controbanda, tuttavia gli uomini di Marcianò applicarono brillantemente i principi della controguerriglia. Attacchi notturni con squadre non troppo numerose (venti o trenta uomini al massimo). Spostamenti continui. Incursioni a sorpresa nei paesi frequentati dai partigiani. Anche se non fu risparmiato dalle diserzioni - 79 alla data del 5 settembre 1944 <196 - il III gruppo esplorante dimostrò comunque una coesione disciplinare e uno slancio combattivo nettamente superiori al resto della divisione. A partire dal settembre 1944 gli uomini di Marcianò si installarono nel territorio al confine tra le province di Asti, Cuneo, Savona ed Alessandria [...]
[NOTE]
94 P. Baldrati, San Marco, San Marco..... cit. vol. II, documento 35, p. 744.
195 Ivi, documento 104, allegati 2, 3 e 4, pp. 856-858. Alla data del 5 settembre, il reparto di Marcianò poteva contare su 732 uomini, così ripartiti: 32 ufficiali, 50 sottufficiali e 650 soldati di truppa.
196 Ivi, documento 104, allegato 6, p. 860. Dei 79 militari che risultavano disertori alla data del 5 settembre, quattro erano sottufficiali e 75 soldati di truppa
.
Stefano Gallerini, "Una lotta peggiore di una guerra". Storia dell'esercito della Repubblica Sociale Italiana, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2021

Pagina 13 del Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.) del 19 giugno 1944. Fonte: Fondazione Luigi Micheletti

Il 10 corrente, alle ore una, in località Barcheto del comune di Imperia, circa 15 banditi armati prelevarono dalla propria abitazione, mediante violenza, il vice commissario federale del P.F.R. Adalberto Armelio, conducendolo per ignota direzione.
Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.) del 19 giugno 1944, pagina 13. Fonte: Fondazione Luigi Micheletti
 
Cortesia Angelo: nato a Vidor il 4 settembre 1927, squadrista della Brigata Nera “Padoan”
Interrogatorio del 3.7.1945:
[...] Solo nel mese di agosto del 1944 mi arruolai come fecero tutti gli altri che mi istigavano. Rimasi in servizio presso la 32^ Brigata nera “Padoan”, operante nella provincia di Imperia. Durante tale periodo presi parte a svariati rastrellamenti, circa 20, contro i partigiani. I rastrellamenti erano sempre diretti da componenti dell’ufficio politico investigativo dell’ex GNR. Molte volte vi prendevano parte anche truppe tedesche con elementi delle loro SS. Durante tali rastrellamenti da parte della brigata nera, cioè quando vi partecipavo io, non fu mai ucciso nessun partigiano: ne avremo catturati circa una decina che furono sempre consegnati alle SS tedesche. Non so quale fine facessero. In tutto da parte delle formazioni tedesche saranno stati uccisi circa 45 partigiani. Dei predetti parte rimasero uccisi in combattimento e parte furono fucilati sul posto [...] Il comandante della mia brigata si chiama Mario Massina, che nel Regio Esercito ricopriva il grado di caporale ma nella brigata nera era commissario federale. Il Capo di Stato Maggiore si chiama Baralis Edoardo che nel Regio Esercito rivestiva il grado di colonnello. Faceva parte della brigata pure certo Rizzitelli Gino che rivestiva il grado di Maggiore, lo stesso parlava con accento meridionale.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019

domenica 1 ottobre 2023

Cimitero ha mandato ai fascisti una sua fotografia che ora figura in tutti i posti di blocco

Il partigiano Cimitero è il primo a sinistra. Fonte: Gino Glorio, op. cit. infra

Il giorno 13 [marzo 1945] sono di nuovo a Ginestro [Frazione del comune di Testico in provincia di Savona]: al centro staffette si è sempre informati degli ultimi avvenimenti. A Ginestro sono in allarme perché sulla carrozzabile per Testico è in transito una macchina nemica; poi i tedeschi si allontanano e tutto torna normale. Vedo Venezia: la staffetta per la Cascione che si sposta a cavallo di un mulo: «Eri tu il partigiano cui la pattuglia tedesca ha sparato addosso?».
«Esatto, e me la sono cavata con una storta».
Venezia era contento per l'incidente. Compresi solo allora quale incubo fosse per lui passare tutti i giorni la «28» [n.d.r.: statale del Col di Nava] pattugliata dal nemico. Mai una volta si era lamentato di quell'incarico, pure l'incidente che lo immobilizzava e che da tutti noi era temuto perché l'esser bloccati in caso di attacco poteva essere la fine, faceva brillare di gioia gli occhi di Venezia. Conobbi la nuova staffetta, provvisoria perché appena guarito Venezia avrebbe ripreso il suo servizio. «Mancen [n.d.r.: Massimo Gismondi, comandante della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"] ci ha chiamato tutti», mi aveva detto. «C'è bisogno di una staffetta per la Cascione, ci ha detto. E' una cosa rischiosa perché c'è da passar la strada tutti i giorni. Chi si offre? Nessuno ha risposto. Benissimo allora va tu. Ed ha preso me. Dir di no non potevo. Avrebbe detto che avevo paura e sarebbe stata la verità. Al posto del moschetto ho la pistola, dà meno nell'occhio e spara lo stesso», ha detto Mancen. «Se ti vuoi sparare poi è più comoda. Se ci penso mi sento sudare... Dirlo è facile... Ma certo vivo non mi faccio prendere». Almeno Venezia guarisse presto!
Al pomeriggio lasciai Ginestro accompagnando fin quasi a Testico la staffetta della I^ Brigata. Mi raccontò un episodio di pochi giorni prima nella Valle di Diano.
Uno sbandato si era presentato al parroco di Diano Arentino. Il prete gli aveva dato un biglietto indirizzandolo a suo nome a chi gli avrebbe dato dei viveri; lo sbandato era caduto nelle mani dei fascisti ed il biglietto era stato sequestrato. Il giorno dopo, mentre il parroco diceva la Messa, venne uno di corsa ad avvertirlo che una macchina saliva per lo stradone: erano fascisti che venivano a cercare lui. Il prete cercò di affrettarsi ma l'auto era più veloce ed in pochi minuti fu in paese e si fermò sulla piazza della chiesa. Ad Arentino c'erano Mancen e suo fratello, udirono il rumore della macchina, i fascisti su un'auto non potevano essere molti ed attaccando risolutamente... Mancen piombò sulla piazza spianando il mitra: «Arrendetevi!». Due fascisti che stavano uscendo dall'auto cercarono di sparare, ma vennero fulminati da una scarica, gli altri due si arresero. Il parroco uscì di chiesa. Mancen lo chiamò: «Reverendo cercano di voi». «Eravamo venuti per una informazione... Una cosa amichevole...» balbettò il commissario di polizia.
«Per una informazione siete venuti con tutte queste armi?» ribattè il parroco. Il bottino era di due mitra, quattro pistole Berretta ed una Mauser. I due prigionieri vennero portati al Comando e fucilati, malgrado le loro implorazioni. Il parroco si rese irreperibile. Il giorno dopo i fascisti tornarono ad Arentino, incendiarono la canonica e altre case; ripiegarono poi rapidamente prima dell'arrivo di Mancen con i suoi. Gli eventi della Val di Diano indicavano che il morale dei partigiani andava migliorando, che a poco a poco tornava il desiderio di misurarsi col nemico direttamente, non limitandosi più alla tattica dell'imboscata.
Le imboscate erano pur sempre le azioni più redditizie e provocavano al nemico un lento stillicidio di perdite, un'inquietudine per ogni spostamento.
Il nemico aveva terrore di noi e resisteva ad oltranza. Non era facile catturar vivo un repubblicano ed un fascista come l'anno scorso. Russo [n.d.r.: Tarquinio Garattini, comandante del Distaccamento "Angiolino Viani" della già citata I^ Brigata] con i suoi intimò la resa a due repubblicani, quelli estrassero le armi e vennero uccisi. Un tedesco sorpreso da quei di Pippo [n.d.r.: detto anche Bill, Giuseppe Saguato, comandante del Distaccamento "Francesco Agnese" della I^ Brigata] in Diano S. Pietro si fece ammazzare ma non si arrese. Un altro, appostato da quei di Stalin [n.d.r.: Franco Bianchi, comandante del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" della I^ Brigata] sulla «28» mentre passava in motocicletta frenò bruscamente alla prima raffica, sterzò e si gettò nella cunetta trincerandosi dietro alla macchina. Di là rispose al fuoco dei partigiani appostati a semicerchio finché un camion di truppe ci obbligò a sgomberare. Ricordavo che Stalin aveva preso in giro un altro capobanda perché aveva appostato gli uomini ai due lati della strada: «Al momento buono, per non colpirsi fra di loro, avevano dovuto rinunciare a sparare!», aveva commentato. Se quella volta però avesse avuto anche lui qualcuno oltre la «28» avrebbe preso il tedesco alle spalle.
Lasciata la staffetta della I presso Testico raggiungo Poggiobottaro [Frazione del comune di Testico (SV)].
Mi fermo pochi minuti perché trovo solo Livio [n.d.r.: Ugo Vitali responsabile SIM, Servizio Informazioni della Divisione "Silvio Bonfante"] e Citrato [n.d.r.: Angelo Ghiron, vice responsabile SIM della citata Divisione], poi prendo la mulattiera a fondovalle che porta a Degna [Frazione del comune di Casanova Lerrone (SV)]. A poco a poco, inavvertitamente, riprendiamo confidenza con le mulattiere, con le strade battute dal nemico, qualcosa però dentro di noi si mantiene sempre in allarme, ad ogni curva sostiamo istintivamente attenti se udiamo dei passi. A fondovalle, ad una curva, sento due che salgono: uno scatto fuori strada, ma è troppo tardi: i due mi compaiono di fronte ed uno abbassa il mitra in posizione di sparo. L'altro gli tocca il braccio: «E' l'amministratore!» Il compagno solleva l'arma, fa un passo avanti e mi tende la mano: «Sono Cimitero. Due occhi neri, profondi, una capigliatura corvina che gli scende ad onde sulle spalle, statura alta, torace d'atleta. Tale mi apparve quella sera Cimitero [n.d.r.: Bruno Schivo, capo di una squadra del Distaccamento "Filippo Airaldi" del Battaglione "Ugo Calderoni" della II^ Brigata "Nino Berio"] che avevo visto in agosto, ma che più non ricordavo. «Hanno ucciso suo padre e sua madre, mi avevano detto». Hanno preso la sua fidanzata e le hanno ucciso davanti un uomo: «Così finirai anche tu se non ci dai modo di prenderlo!». Le avevano detto, poi, visto che taceva, l'avevano uccisa.
Cimitero ha mandato ai fascisti una sua fotografia che ora figura in tutti i posti di blocco. «Ora lo conoscono ma non lo prenderanno mai!».
Arrivato a Degna trovo la popolazione in subbuglio: «E' passato Cimitero con un compagno tranquilli per lo stradone, poco dopo di loro sono passati i tedeschi della pattuglia, se si incontravano succedeva un macello!».
A poco a poco nella fantasia e nell'affetto popolare la figura di Cimitero con la giacca di telo da tenda, la capigliatura fluente, il nome funebre come il destino dei suoi fa presa ed ingigantisce.
La sera del 13 radio Londra manda l'atteso messaggio: il lancio è per questa notte. Le staffette partono dai posti di ascolto, il dispositivo di sicurezza entra in funzione, i distaccamenti incaricati occupano i passi, il Catter  [n.d.r.: distaccamento della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della richiamata Divisione Bonfante] si schiera sul campo di lancio.
Scesa la notte, un aereo volteggia nel cielo di Capraùna, in basso palpitano nel buio le luci accese dai partigiani. I paracadute si aprono l'uno dopo l'altro, poi in cielo si accende una piccola luce: è il segnale che il lancio è finito. L'aereo si allontana rombando. Recuperati ed aperti febbrilmente i bidoni vengono estratti Sten, fucili, caricatori e pacchi di munizioni. Luci sospette vengono segnalate, le nuove armi vengono caricate febbrilmente al chiarore dei tizzoni che si spengono, partigiani si alternano nella difesa e nella raccolta, le armi vengono distribuite perché il campo di lancio deve esser difeso ad oltranza fino a raccolta ultimata.
Recuperato il materiale scompaiono anche le luci sospette. I partigiani rientrano a Capraùna.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 199-202

15 marzo 1945 - Da "Marco" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che occorreva avvisare "Cimitero" dei rischi di delazione che stava correndo.
15 marzo 1945 - Da "K. 20" alla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante" - Informava che era giunto "a Diano Marina un numero consistente di soldati appartenenti alla fanteria tedesca che si fermeranno per la notte"; che, oltre alle 3 compagnie della GNR, ne agiva un'altra, O.P., al comando del capitano Ferraris; che ad Imperia vi era un'altra compagnia ancora dell'esercito repubblichino.
17 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della Divisione "Silvio Bonfante" ["Livio", Ugo Vitali, responsabile], prot. n° 1/96, al comando della Divisione "Silvio Bonfante" ['Giorgio' Giorgio Olivero, comandante] - Riportava le notizie ricevute il 12 marzo da un informatore ed aggiungeva che il maresciallo Groot, addetto al controspionaggio tedesco, era stato trasferito da Pieve di Teco a Pontedassio e, ancora, che sempre il 12 il comando della II^ Brigata "Nino Berio" aveva condannato e fatto giustiziare il commissario di P.S. Santo Miglietta e l'agente Attilio Sorbara, che erano stati catturati armati di mitra nella zona di Diano Marina.
17 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Svolgeva una lunga relazione soprattutto sul tema degli aviolanci alleati [n.d.r.: di cui si riportano qui di seguito significativi stralci]: "... il giorno 13 u.s. si è effettuata l'operazione lancio nella località convenuta [Piano dell'Armetta nei pressi di Alto (CN)]; sono stati lanciati 33 colli di cui 28 recuperati nella serata ed i restanti 5 nella successiva mattinata. Non è stato possibile per il disturbo alle stazioni radio ricevere il messaggio per il lancio del giorno successivo. Tutte le tracce del lancio sono state cancellate anche grazie alla popolazione, di modo che i tedeschi non hanno trovato nulla. Data l'esperienza si consiglia di potenziare l'ascolto messaggi mediante l'aumento delle apparecchiature sulle 3 linee, visto che si è ordinata la revisione dell'impianto di Nasino. È da evitare inoltre il lancio in giorni consecutivi, poiché vi è un'unica via di deflusso rappresentata da una mulattiera ed è, quindi, impossibile creare una colonna eccessivamente grande di muli, perché desterebbe sospetti ed in quanto l'occultamento del materiale va eseguito a spalla. Il luogo si è mostrato idoneo allo scopo, per cui per il prossimo lancio si richiedono 150-180 colli. Non servono fucili, ma armi automatiche, mortai leggeri, bombe anti-carro. Il collo indirizzato a 'Roberta' [n.d.r.: capitano del SOE britannico Robert Bentley, ufficiale di collegamento degli alleati con il comando della I^ Zona Operativa Liguria] contiene 2 R.T. [radiotrasmittenti]: si prega di inviare degli uomini a prelevarle...".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

lunedì 25 settembre 2023

Hanno detto che i tedeschi hanno i cani da guerra

La Val Lerrone. Fonte: mapio.net

Verso sera [6 marzo 1945] al comando [della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] di Poggiobottaro si venne a sapere che a Cesio c'erano quattrocento tedeschi. La notizia meritava di essere considerata attentamente. Cesio era un piccolo paese sulla «28». Difficilmente si sarebbe prestato ad alloggiare tante persone oltre al normale presidio di Brigate Nere. Perché i tedeschi non avevano proseguito per Pieve? Una puntata nemica da Cesio sarebbe stata facile: dal paese partiva una carrozzabile per la Val Lerrone ed un'altra portava a Testico e di là, in cresta, fino ad Alassio. Più difficile era che il nemico conoscesse con esattezza la sede del comando, ma dopo tanto tempo di permanenza nello stesso posto, non si poteva escluderlo. Varie proposte consigliate dal buon senso vengono esaminate. Si potrebbe montare la guardia poiché tra noi e Cesio non c'è nessuna banda. Si potrebbe partire per una, meno minacciata, subito, o verso le tre di notte, dopo sorta la luna. Le varie soluzioni non vengono accettate, soffocate da una sorta di fatalismo, poi alla cosa viene dato un tono scherzoso, la minaccia viene volutamente accentuata per impressionare chi riteniamo più degli altri impressionabile.
«Hanno detto che hanno i cani da guerra, lo ha riferito un contadino che è arrivato ora da Cesio, è una cosa seccante». Guardo Vittorio, il padrone di casa che, in cambio dell'ospitalità, vuole essere considerato partigiano anche lui. Noi avevamo acconsentito volentieri perché in verità condivideva molti dei nostri rischi, però pensavamo, forse a torto, che in lui non vi fosse la stoffa del partigiano. Ho l'impressione che la notizia sia diretta a lui, vedo che si controlla bene, ma ha gli occhi lucenti, attenti. «E come li impiegano i cani da guerra? Non sentiranno mica i partigiani dall'odore?». Chiede con voce che sembra indifferente. «No, il cane non distingue il partigiano dal contadino» - spiega Livio - «i tedeschi quando giungono in paese di notte lanciano i cani lupo per le strade e chiunque esca di casa viene azzannato. I soldati intanto perquisiscono sicuri che nessuno possa scappare». «Anche ad Alba li hanno impiegati» - aggiungo io - «a Degolla li hanno lanciati contro i partigiani che sparavano distesi per terra: è un brutto affare, se stai in piedi i tedeschi ti vedono, se ti stendi i cani ti addentano alla gola». «Sapete la storia del Monco?». Racconta Giorgio. «In quel di Triora, prima dell'ultimo rastrellamento avevano detto che era un tedesco delle SS che aveva ammaestrato i cani da guerra. I cani sentivano l'odore dei partigiani e scoprivano i rifugi. Il Monco li seguiva e con un uncino, perché era mutilato di una mano, tirava fuori i partigiani dalle tane. Quando il rastrellamento comincia due partigiani, che sapevano la storia del Monco, si nascondono in un rifugio. Dopo qualche tempo sentono un cane ansare fuori dell'apertura. Che sia la bestia del Monco? Due mani escono dal rifugio, il cane è afferrato per la gola, strozzato, tirato dentro. Tre giorni sono vissuti i due nella tana con la bestia morta: era un povero cane da pastore perché il Monco non era mai esistito».
Era abitudine dei partigiani essere spietati con coloro cbe dimostravano qualche timore. Venivano spaventati al punto che non distinguevano più il vero dal falso. Ricordavo uno della Matteotti: Lupo; dopo averlo preparato a dovere con vari racconti di torture e fucilazioni avevamo finto un imminente attacco tedesco e lo avevamo mandato solo in esplorazione. Non era più tornato.
Pure quella sera i tedeschi di Cesio non erano una fantasia. Pensavo al rapporto che ci era pervenuto dopo Upega: «E' possibile dopo un anno di vita partigiana essere ancora sorpresi?». Era ancora possibile.
La notte passò tranquilla per quanto il mio sonno leggero venisse più volte interrotto dal canto di un gallo.
Il giorno 7 torno a Segua [Frazione di Casanova Lerrone (SV)] e l'8 vado al recapito staffette di Ginestro per vedere se hanno preparato i conti. Al recapito trovo un francese che giorni prima era passato da Segua. «Sei ancora qui?» gli chiedo. «Si è accorto che può mangiare e non far niente ed è ormai impossibile mandarlo via» mi dice una staffetta. Il francese era un giovane biondo, robusto, pareva più un tedesco che un latino, era un tipo singolare. Era passato da Segua con un telo da tenda sulle spalle. «Ho visto un contadino che batteva l'ulivo raccogliendo i frutti nel telo. Militare, gli ho detto io, ed ho preso il telo» - così aveva raccontato - «quello mi è corso dietro dicendo che lo aveva pagato, ma io sono stato buono e non gli ho dato niente».
«Poteva averlo pagato davvero» aveva detto Bertumelin indignato.
«E poi col mangiare e con l'alloggio che vi diamo mi sembra che possiamo averceli guadagnati dei teli e delle coperte militari che a voi non servono». «Potevo anch'io pagarlo con questa» aveva replicato il francese mostrando la rivoltella; «ma non l'ho fatto perché ero di buon umore».
«Come è che sei in Italia?», gli chiesi.« Affondato nel '40 con la mia nave presso Piombino. Fino al '43 prigioniero, adesso libero».
«Sarai contento di tornare a casa fra qualche mese a guerra finita?».
«Fra qualche mese? Troppo presto... Dovrò lavorare di nuovo, è più bello fare la guerra». «E gli altri cinque che vi ho mandato giorni fa?» chiesi alla staffetta.
«Li ho portati alla Cascione, avevano fretta di tornare in Francia. Appena fusa la neve cercheranno di passare».
Anche quelli li avevo visti a Segua: erano aviatori abbattuti: «Se i tedeschi ci prendono dico che sono canadese», aveva detto uno di loro. «Un mio compagno è stato tagliato con la sega circolare perché era francese».
La pattuglia dei ciclisti tedeschi continuò a percorrere la Val Lerrone sempre più spesso. Passò il 6, l'8, il 13. Il giorno 8 giunsero anche cani con tedeschi che requisivano fieno. La ricostruzione del ponte di Garlenda proseguiva lentamente, l'inattività partigiana cominciava a pesare, i borghesi, che all'inizio erano atterriti, temendo che tendessimo qualche imboscata alla pattuglia, cominciavano ora a parlare di accordi segreti, di compromessi fra noi ed i tedeschi. Una squadra della banda di Rostida, decisa a por fine a questo stato di inferiorità, si appostò a Case Soprane in attesa della pattuglia. I borghesi ripiombarono nel terrore e prima avvertirono i nostri dell'arrivo dei tedeschi, poi, visto che i partigiani non scappavano, andarono ad avvertire i tedeschi facendo fallire l'imboscata. Il Comando divisionale fece rientrare alla base la squadra che per rappresaglia stava requisendo galline e conigli.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980,  pp. 163-167, pp. 196-199

7 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 183, alla banda locale di Ginestro - Disponeva la presenza di una pattuglia sul Passo di Cesio per il giorno successivo dalle ore 23 alle ore 9 e la segnalazione di allarme al Distaccamento garibaldino più vicino una volta avvistati i nemici che lungo la strada di Testico, non transitabile da automezzi, sarebbero necessariamente saliti a piedi.
8 marzo 1945 - Dal comando del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che il 1 marzo il Distaccamento con l'ausilio di civili aveva effettuato il diroccamento del ponte di Degna e che il giorno 5 aveva fatto brillare con 3 mine il ponte di Garlenda "rendendolo inutilizzabile".
13 marzo 1945 - Dallo Stato Maggiore della Divisione "Silvio Bonfante" avviso n° 1 alla popolazione costiera - "Si invita la popolazione ad allontanarsi dagli obiettivi militari. Si consiglia di annotare i luoghi abitati da tedeschi e fascisti e di tenere sotto sorveglianza la Feldgendarmerie".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

lunedì 18 settembre 2023

Lo sapete che Cipressa è circondata dai Mongoli che cercano i partigiani casa per casa?

Cipressa (IM): una vista sino alla zona di Sanremo

Un giorno, sul finire di giugno [1944], i tedeschi e i fascisti salirono da Montalto Ligure e Makallé mi disse di portarmi in cresta sopra la ripida mulattiera che portava al passo di Vena. Loro avrebbero nascosto i viveri e cancellato le tracce della nostra permanenza al Casone della «Scià Maria». Io, con la mia squadra, potevo prendere le decisioni che mi sarebbero parse opportune: l'importante era tenere la squadra unita. Arrivati in prossimità del passo notammo che questo era già occupato dai fascisti. Non ci restò altro da fare che disturbarli con qualche raffica, per renderli un po' più guardinghi, e quindi più lenti. Rìtornammo al casone e, dopo esserci consultati, decidemmo di andare a rifugiarci sulla costa, vicino al mare, e ci avviammo lungo la strada. Quasi subito sentimmo una nutrita sparatoria sopra Pietrabruna: chiesi ad un uomo, che stava salendo dal paese, se sapeva cosa stava succedendo e questi mi rispose: «è la banda di Tito che ha attaccato i tedeschi». Era una spia? O era un poveraccio che non sapeva cosa diceva? Noi, comunque, ci precipitammo a dare una mano a Tito. Quando vedemmo ì tedeschi, capii la mia stupidità; allora dissi a Giacò: «Tu con tre uomini cerca di fermarli, tanto da darci tempo di andare ad appostarci su quel costone là dietro; quando siamo arrivati ti ritiri e noi ti copriamo». Così fecero, ma prima di arrivare nel luogo dove avevo pensato di coprire Giacò, ecco farsi incontro uno strano tipo, che correva verso di noi. Gli chiesi chi era e dove andava; lui mi rispose: «Sono un comunista e un partigiano diretto al Comando, quando ho sentito sparare, e sono venuto a darvi una mano». Io gli dissi: «Bravo, non hai neanche un fucile, ma in compenso hai del fegato». Era Milan; sarebbe poi diventato il Comandante della IV Brigata della Cascione. Coprimmo Giacò e gli altri, finché non ci raggiunsero, allora gli dissi: «Ritirati finché non trovi un posto adatto per coprirmi coi fucili; adesso lo prendo io il mitragliatore». «Non ti conosce», mi rispose, «conosce soltanto me e allora è meglio che resti io: l'importante è che tu mi copra». Così facemmo e lo facemmo tanto bene che i tedeschi rallentarono il loro inseguimento e la distanza fra loro e noi aumentò. Quando raggiungemmo la «Casa del sergente», situata in mezzo a una vigna, sotto il passo di San Salvatore, i tedeschi non si vedevano più. Chiesi al vecchio sergente se aveva qualche cosa da mangiare: lui entrò in casa e ne uscì con due grossi pani, «adesso vado a prendervi da bere». Nel tempo della sosta mi era sembrato di udire degli spari dalla parte di Pompeiana, li avevano sentiti anche gli altri, tanto che tutti fecero silenzio: eravamo presi fra due fuochi; prendemmo i fiaschi di vino che frattanto il sergente aveva portato e, al coperto della vigna, entrammo nel vicino bosco di querce. Numerosi tedeschi erano sulla cresta del Passo di San Salvatore; gli altri salivano lentamente verso di loro.
Il boschetto di piccole querce, dove ci eravamo rifugiati, non dava molte possibilità di sopravvivenza in caso di rastrellamento. La cosa migliore da farsi era di cercare un riparo occasionale. Lo trovammo nella curva di un ruscello: l'acqua aveva allargato il letto del corso d'acqua e i bordi servivano da trincea. L'importante per noi era di non lasciare avvicinare gli inseguitori con il lancio di bombe a mano, sperando nell'oscurità della sera per sganciarci dalla nostra critica situazione. Il boschetto era fatto segno a continue raffiche di mitraglia e a colpi di mortaio che iniziarono al calare del sole. Buon per noi che i mortai non erano con l'avanguardia delle forze di rastrellamento. Pensai che, dopo aver martellato con i mortai, il nemico avrebbe cercato di farci uscire allo scoperto, approfittando delle ultime luci del giorno; pertanto decidemmo che appena i mortai avessero smesso ci saremmo ritirati. Così facemmo: noi uscimmo dal nostro riparo proprio mentre il nemico si addentrava nel boschetto. Ripiegammo verso Cipressa passando prima da una campagna dove speravamo di trovare pesche mature: ne trovammo poche e acerbe, ma furono gradite ugualmente da tutti.
Andammo a dormire a Cipressa, in un fienile di mio zio, in Vico Martini. Sapevo che in quel periodo gli zii non dormivano in paese, ma in una casetta in campagna vicino al mare. Tutte le mattine però mio zio saliva in Paese con l'asina carica d'erba per i conigli e le galline e, dopo aver scaricato la bestia, la faceva entrare nella stalla che si trovava proprio sotto il fienile. Al suo arrivo scesi nella stalla e, quando aprì la porta ed ebbe fatto entrare la bestia, mi vide. Non riuscì a parlare per lo stupore o per lo spavento? Allora gli dissi di chiudere la porta e di venire di sopra, che gli avrei spiegato; e mi allontanai su per la scala del rustico. Mi raggiunse immediatamente e quando vide tutti quei giovani sconosciuti e con le armi esclamò: «Siamo perduti» (Mi ricordava sempre queste due parole il partigiano di Piani di Imperia «Ninchi», ora defunto, tutte le volte che lo incontravo).
Gli risposi: «Senti «barba» (zio), abbiamo una fame da lupi, vai da Ernesto il panettiere (Ernesto Velio), digli che sono qui con una ventina di ribelli e fatti dare tutto il pane che può; prendi l'asina e ritorna da dove sei venuto». Mi rispose: «Va bene per Ernesto, ci si può fidare, ma lo sapete che il paese è circondato dai Mongoli che cercano i partigiani casa per casa?». «Stai tranquillo», gli dissi, «i Mongoli sono come i tedeschi, i partigiani li cercano solo nelle case dove vive la gente, dove si può rubare qualche oggetto di valore e, per male che vada, qualche cosa da bere».
Mio zio partì ed io risalii nel fienile. L'idea di rifugiarci in quel fienile era stata la mia, ma nessuno mi fece neanche lontanamente capire di volermene per quello che poteva essere un grosso sbaglio. Spiegai la situazione e anche a loro dissi che, per la mia esperienza, escludevo che i mongoli avrebbero setacciato anche i fienili e le case diroccate (lo erano ancora a causa del terremoto della fine dell'ottocento) e pertanto ero tranquillo. «è più probabile», dissi, «che incendino il paese, e allora certamente inizieranno da un fienile, in questo caso ci divideremo in due squadre; una la guiderà Giacò e l'altra io. Ci sono tre vie di uscita: una dalla porta della stalla, l'altra dalla porta del fienile e l'altra dai tetti, da dove ci si può allontanare per tutto il borgo».
Ogni tanto si sentiva una raffica in lontananza, ma niente altro. Arrivò infine anche mio zio con un sacchetto di panini e un paiolo di risotto. Ernesto aveva fornito una decina di chili di pane, ma aveva anche pensato che probabilmente eravamo senza fumare, e così ci aveva mandato pure alcuni pacchetti di «trinciato forte», le cartine ed i fiammiferi. Prima di partire mio zio fu pregato da Mauro Caprile e da Luciano, un altro ragazzo di Porto Maurizio, di avvisare le loro famiglie che erano in salvo e che stavano bene. Mio zio caricò l'asina e partì, assicurandoci che avrebbe pregato per noi. Nel pomeriggio arrivarono i mongoli: dopo aver sostato brevemente dinanzi alla stalla e rimosso la porta, proseguirono per fermarsi davanti all'abitazione di Giacomo Martini, a pochi metri da noi; entrarono e, per un bel po' di tempo, cercarono quanto loro interessava in quella casa. Da una piccola finestra li vedemmo entrare e uscire, ma nessuno di noi ne fu apparentemente impressionato. Il giorno dopo tornò mio zio, informò Luciano e Mauro che sua moglie, mia zia, era andata ad avvisare le loro due famiglie e ci informò sull'opera dei mongoli. Avevano visto due uomini far legna nella pineta, e avevano sparato su quei poveretti, uccidendo il Morscio di Costa Rainera; e ferito Paolo Velio il figlio di Ernesto il panettiere, (Lo avevano colpito alla schiena; riuscì a salvarsi, ma rimase con le gambe paralizzate per tutta la vita).
Lo zio mi disse: «Non mi sento di chiedergli ancora del pane dopo quello che è successo al figlio; gli chiederò di anticiparci il pane della tessera annonaria mia e della zia, e noi in qualche modo ci aggiusteremo». Poco dopo ritornò dicendoci che Ernesto era andato ad Imperia, ma aveva lasciato detto alla moglie di darci tutto il pane che ci serviva.
Questo era lo spirito della nostra gente. Cosa avremmo potuto fare noi senza la loro totale collaborazione? Nulla; i veri protagonisti della lotta di liberazione sono stati loro. Non bisogna mai dimenticarcene. Ancora oggi godo dell'amicizia di molti di loro, che incontro talvolta peregrinando dalla Valle Impero alla Val Prino, dalla Valle Argentina alla Valle d'Arroscia, dall'Alta Val Tanaro alla Valle Pennavaire, ad Alto ed a Nasino.
Con questo non voglio dire di aver avuto sempre riconoscenza per loro e di essermi sempre comportato bene nei loro confronti; certamente avrò sbagliato più di una volta, ma sempre in buona fede e mi scuso ancora se a qualcuno ho mancato di rispetto, oppure se qualche volta ho abusato del mio potere nei loro confronti.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 77-80

mercoledì 6 settembre 2023

Il nuovo Comitato era subito riconosciuto dal CLN Regionale Liguria e durerà in carica dal primo febbraio 1944 alla Liberazione, con giurisdizione su tutta la Provincia di Imperia e sul Circondario di Albenga

Imperia: uno scorcio di Porto Maurizio

Il 10 settembre 1943, dopo una prima riunione in Imperia di quadri comunisti, seguita da una seconda, alla quale, oltre ai comunisti parteciparono uomini politici delle altre correnti antifasciste, venne formato un "triangolo militare", composto da Nino Siccardi, Felice Cascione e Carlo Aliprandi, con l'incarico di inviare altri uomini in montagna, aiutare con viveri, armi e munizioni quelli che già vi si trovavano, organizzare militarmente anche gli uomini della città. Contemporaneamente, con militari rimasti sul posto, si sarebbe provveduto ad asportare armi, munizioni e vestiario dalle caserme. Così, prima dell'arrivo dei tedeschi furono ricuperate cinque mitragliatrici, oltre cento fucili, alcune decine di rivoltelle, parecchie migliaia di cartucce, cassette di bombe a mano, coperte, scarponi e così via.
Due giorni dopo, il 12 settembre, i tedeschi giungevano ad Imperia prendendo possesso della città. Il Centro sopraddetto, con i suoi collaboratori, funzionava e teneva i collegamenti con quello di Genova, svolgendo altresì una funzione di raccordo tra la città della Lanterna e i centri minori di Albenga, Alassio, Diano Marina e Sanremo. Il materiale di propaganda proveniente dal Centro di Genova veniva regolarmente diffuso nella zona.
Verso la fine di settembre 1943, Gian Carlo Paietta giunse ad Imperia, inviato dal Centro di Genova per prendere contatto con l'organizzazione comunista locale. Scopo della riunione era quello di lanciare tutta l'organizzazione comunista nella lotta di liberazione, trattandosi, tra l'altro, di una rete politicamente già ben ramificata nella Provincia.
[...] Dopo l'eroica morte di Felice Cascione in montagna (Alto, 27.1.1944), il Comitato decideva di inviare Nino Siccardi (Curto) a prendere il comando delle formazioni partigiane della I Zona Operativa Liguria. Il primo febbraio 1944 il primo CLN Provinciale veniva modificato in quanto, essendo stati individuati dai nazifascisti, i membri Viale e Berio dovettero allontanarsi, mentre Giacomo Castagneto, per disposizione del PCI, si trasferiva a Cuneo a dirigere la Federazione del Partito in quella Provincia, in sostituzione del compagno Barale, caduto durante l'incendio di Boves da parte dei tedeschi. Lasciò infine il CLN Giacomo Amoretti, pur restando nelle file dell'organizzazione della Resistenza a Imperia, per trasferirsi poi nei primi giorni di settembre 1944 a Genova, a far parte del Comando della Delegazione delle Brigate Garibaldi della Liguria.
Il nuovo Comitato era subito riconosciuto dal CLN Regionale Liguria e durerà in carica dal primo febbraio 1944 alla Liberazione, con giurisdizione su tutta la Provincia di Imperia e sul Circondario di Albenga. Questa la formazione del nuovo Comitato: Gaetano Ughes (PCI), presidente; Ernesto Valcado (PSIUP), Carlo Folco (DC), (Ugo Frontero (PSIUP), Carlo Aliprandi (PCI) e Amilcare Ciccione (DC), tutti e tre addetti militari.
Allo scopo di coordinare l'azione militare, che andava oramai assumendo un ruolo di prim'ordine nella lotta di liberazione nazionale, veniva pure costituito alle dirette dipendenze del CLN un centro militare che riprendeva le funzioni del "triangolo militare", creato subito dopo l'armistizio e poi sciolto a fine novembre 1943, quando i suoi più attivi componenti erano stati inviati in montagna per organizzare le formazioni partigiane. Del Centro Militare, strettamente integrato nel gruppo politico del CLN e da questo dipendente, fecero parte, fino alla Liberazione, i tre addetti militari del CLN stesso, Carlo Aliprandi (Il Lungo), Amilcare Ciccione (Milcoz) e Ugo Frontero (Ugo).
Nell'intento di garantire la clandestinità dell'organizzazione e sventare i continui tentativi della polizia nemica di annientarne gli organismi dirigenti, nonché onde evitare inutili dispersioni di energie, venne deciso di accentrare, per quanto possibile, nelle mani del presidente e segretario la gran parte dell'organizzazione politica (stampa e propaganda, organizzazione locale e gli svariati e delicati servizi di collegamento), anche in considerazione del fatto che il presidente era in grado di valersi, nell'espletamento delle sue funzioni, della già esistente organizzazione del PCI e dei suoi principali terminali nella Provincia. Anche gran parte della finanza venne affidata alle cure del segretario, il quale poteva così disporre sia dei fondi che giungevano saltuariamente dal Centro di Genova, sia di quelli raccolti o prelevati nella città di Imperia e nei Centri della Provincia, e quindi provvedere di volta in volta, anche nei casi di emergenza, ai necessari finanziamenti, si trattasse delle forze operanti in città o delle formazioni partigiane in montagna, le cui esigenze si andavano facendo sempre più onerose e complesse con il crescere delle loro file.
I membri del Comitato di Liberazione si riunivano periodicamente, quasi sempre con la presenza di uno o di tutti gli addetti militari. Nei primi mesi del 1944 le riunioni avvenivano una o due volte la settimana, poi, quando i tempi divennero più duri e la situazione si fece pericolosa, in media ogni quindici o venti giorni. Generalmente le riunioni avevano luogo nell'abitazione del segretario. Talvolta, quando si sospettava un pericolo, presso quella dell'avvocato Folco, di Valcado, o di uno degli addetti militari. In alcune occasioni, convegni vennero tenuti in caffè cittadini.
[...] Il segretario, nello svolgimento della sua complessa e difficile attività politica e finanziaria, d'informazione e di collegamento, era affiancato da numerosi organi, generalmente collegiali, alcuni con proprie organizzazioni autonome, di cui egli stesso si serviva. Si deve all'instancabile attività di questi organi ausiliari se la rete cospirativa poté funzionare efficacemente fino alla Liberazione. I primi organismi ausiliari del CLN imperiese, costituiti nella primavera del 1944, furono la squadra politica e finanziaria, ed il gruppo di collegamento e staffette. La costituzione di tali organi coincise con il riconoscimento del CLN di Imperia quale organo di Governo per la Provincia, riconoscimento che il CLN di Genova fece pervenire, su autorizzazione del CLN Alta Italia, nei primi giorni di aprile 1944. La costituzione della squadra politica e finanziaria, e del gruppo collegato a staffette, si rese necessaria
per il continuo accrescersi dei bisogni inerenti alla lotta partigiana in montagna e a quella clandestina nei centri della Provincia.
Infatti con la costituzione definitiva della IX Brigata d'assalto Garibaldi (metà giugno 1944) sulle montagne dell'entroterra, sotto il comando di Nino Siccardi (Curto) ed il commissario Libero Briganti (Giulio), brigata elevata poi il primo luglio successivo a II Divisione d'assalto Garibaldi "Felice Cascione", si rese opportuno un collegamento regolare ed efficiente con la montagna, non solo, ma anche un intensificato invio di danaro, viveri, armi, munizioni, vestiario e medicinali, e l'organizzazione di un vero e proprio servizio d'informazione (SIM), diretto da uomini preparati a questo compito, essenziale per lo sviluppo ulteriore di una lotta fatta principalmente di colpi di mano, sorprese, agguati.
Francesco Biga e Ferruccio Iebole (a cura di Vittorio Detassis), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria) - vol. V, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2016 
 
I C.L.N. locali con l'approssimarsi della fine del 1944 avevano suddiviso il territorio di competenza della I^ Zona Operativa Liguria in tre parti. La "A" comprendeva il territorio da Ventimiglia (IM) a Santo Stefano al Mare (IM), comprese  tutte le vallate. La "B" i paesi tra Imperia e Cervo (IM) e vallate. La "C" riguardava il territorio tra Andora (SV) ed Albenga (SV).
I Comitati di Liberazione Nazionale, benché clandestini e perseguitati, si prefiggevano l'obiettivo di condurre con ogni mezzo la lotta per la liberazione di tutto il territorio occupato, cooperando con le squadre di montagna e supportandole con apporti di tipo economico, logistico e politico-militare.
I C.L.N. locali si facevano, inoltre, carico, della propaganda antifascista, di aiutare le famiglie dei combattenti partigiani e di raccogliere notizie sugli spostamenti delle truppe nazifasciste.
Il C.L.N. di Sanremo (IM), avendo, come sottolineato poco sopra, il proprio raggio d'azione dalla frontiera con la Francia a Santo Stefano al Mare (IM), intrattenne rapporti quasi giornalieri con il comando della II^ Divisione "Felice Cascione". E furono molto stretti anche i rapporti tra il  CLN di Taggia (IM) con il comando del III° Battaglione "Candido Queirolo" della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

lunedì 28 agosto 2023

Bersaglieri fascisti a Baiardo

Baiardo (IM)

Avevamo accennato nei capitoli precedenti alla formazione di bersaglieri fascisti che era stata dislocata nel paese di Baiardo.
La decisione presa dalle Autorità nazifasciste, nell'ambito del piano strategico relativo all'occupazione di tutti i paesi del retroterra per isolare le forze partigiane dai centri di rifornimento, creò nella zona una situazione particolare e difficile che ebbe modo di ripercuotersi, con tutte le sue drammatiche conseguenze, sulla popolazione civile locale per tutto il periodo che va dal 20 dicembre 1944 al 25 aprile 1945.
Abbiamo sintetizzato il suddetto periodo nei fatti che seguono, per ricordare il contributo di sangue dato dalla popolazione di Baiardo alla lotta di liberazione, testimonianza gloriosa da consegnare alla storia e alle generazioni di oggi e di domani, e per mettere in evidenza quale è stato il vero volto del fascismo e gli effetti dell'occupazione tedesca.
Il 20 dicembre 1944 i bersaglieri fascisti della «9^ Compagnia della Morte» di stanza a Baiardo, comandati da un tenente di nome F. B., di Corniglio (Parma), incominciano ad usare violenza, a spargere terrore e morte, a torturare e a macchiarsi d'infami delitti.
Spalleggiano il tenente nelle azioni criminose aguzzini come i sott'ufficiali G. C. M., G. T., C. C., T., e militi come S. G., V. R., A. F., G. S., L. A., O. T., M. e V.
Hanno la sede nell'albergo «Miramonti» e nei momenti cruciali della lotta non esitano a farsi scudo con la popolazione civile inerme. Altrimenti irrompono nelle case asportando ogni cosa, compiono prelievi notturni, interrogatori forzati, sevizie brutali contro persone ritenute favorevoli ai partigiani.
Un giorno arrestano i giovani Silvio Laura di Silvio, Mario Laura di Eugenio, Silvio Laura di Luigi, Giobatta Laura di Gio. B. Il tenente B. ne ordina l'interrogatorio eseguito dai suddetti ufficiali e soldati. Dopo indicibili torture, tradotti a San Remo, dove sono obbligati a scavarsi la fossa, vengono trucidati dalle S.S. tedesche (21-1-1945).
Oltre che dai Tedeschi, la 9^ compagnia è coadiuvata nei rastrellamenti da due o tre spie locali, tra cui l'amante del B., il quale non risparmia mai le persone da lei segnalate e su cui inveisce con crudele malvagità. La compagnia opera scassi e furti, rapina le scorte alimentari della popolazione, saccheggia il negozio di Eugenio Laura, padre di un caduto.
Per mesi i bersaglieri tengono forzatamente presso di loro donne e ragazze (M. Giovanna, L. Lidia, M. Giovanna, G. Luciana, L. Maria Rosa, L. Maria Caterina, T. Giovanna, L. Petronilla, L. Caterina, R. Giovanna, R. Maria, T. Caterina, ecc.) che seviziano in ogni modo.
Anche parecchi uomini subiscono la stessa sorte, rinchiusi nelle carceri dell'albergo trasformato in caserma. Per lungo tempo tengono prigionieri i cittadini: Luigi Laura, Gio. B. Chierico, Sergio Boeri, Giacinto Moriano, Michele Laura, Bartolomeo Novelli, Eugenio Chierico, Antonio Aurigo, G. B. Taggiasco, Antonio Moirano, Eugenio Laura, Nicola Rosafino, Antonio Pannaudo, Marco Taggiasco, ecc.
Danversa Giuseppe uscirà dalle carceri col volto irriconoscibile per le sevizie subite.
Il 10 marzo 1945 i carnefici fascisti legano per due giorni ad un palo i garibaldini Gaetano Cervetto (Nino) fu Guglielmo, e Matteo Perugini (Iena) fu Antonio, catturati in rastrellamento, dopo di che sfilano loro davanti, tempestandoli di pugni, bastonate e pedate. Al termine delle sevizie i martiri hanno le tibie fratturate, gli zigomi asportati, il mento senza carne, le mandibole spaccate. «Iena» viene esposto al pubblico ridotto in condizioni tali da essere irriconoscibile.
Dopo essere stati seviziati e fucilati nel cimitero di Baiardo, vengono oltraggiati e sputacchiati dalla soldataglia prima che le mani pietose di alcuni civili diano loro sepoltura.
In seguito, altri partigiani caduti nelle mani dei bersaglieri subirono la stessa sorte. Nel seviziare i garibaldini «Iena» e «Nino» si distinsero il sergente A. e il soldato G. S. Nel marzo del 1945 lo S. uccise personalmente il garibaldino Riccardo Vitali (Cardù), (vedi: «Battaglia di Baiardo»). Fu sanguinario e crudele, solo secondo al B. e, per ironia della sorte..., venne insignito di medaglia al valor militare.
Però la 9^ compagnia bersaglieri pagò cari i suoi misfatti con la perdita di oltre un centinaio di «camerati» tra morti, prigionieri e disertori (1).
[NOTA]
(1) I dati e i nomi riportati nel capitolo sono stati tratti da una denuncia fatta dalla popolazione di Baiardo il 29-10-1945 contro gli autori dei vari crimini menzionati (Archivio [Isrecim], Mazzo di dicembre del 1944, copia).

Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con patrocinio Isrecim, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977

Nella vicina Sanremo (IM) la notte successiva vennero fucilati presso Villa Junia cinque partigiani della V^ Brigata “Luigi Nuvoloni” della II^ Divisione, che erano stati arrestati a Baiardo (IM) il 17 gennaio.  Quattro di essi portavano il cognome Laura: Gio Batta Paolo, Luigi Gino, Mario Mario e Silvio Antonio. Come segnalato anche da  "Mimosa" [Emilio Mascia] alla Sezione SIM del CLN di Sanremo, il quale avvertiva che dopo l'uccisione di "Bacucco" e l'arresto della moglie le brigate nere avevano ucciso in Sanremo 4 persone tutte di cognome Laura e che altre 20 erano state arrestate e trasferite a Sanremo dove sarebbero state processate dal nemico per connivenza con i patrioti.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Il 17 gennaio 1945 nella zona di Baiardo bersaglieri repubblicani catturano i sapisti Laura Giobatta, Laura Mario, Laura Silvio Antonio, Laura Silvio Luigi e Laura Luigi “Miccia”. I cinque partigiani con il medesimo cognome, facenti parte della banda locale di Baiardo furono incolpati di aver trasportato un carico di farina da Baiardo a Passo Ghimbegna e a Vignai per rifornire i partigiani. Vennero portati a Sanremo nella Villa Negri, situata vicino alla Chiesa Russa, dove c'erano delle piccole celle. Il partigiano Laura Luigi Miccia riesce a fuggire durante un allarme aereo e a mettersi in salvo [riuscì a salire su di un tram per andare a rifugiarsi in un casolare in Località Tre Ponti di Sanremo]. Gli altri quattro partigiani furono trasferiti in un primo tempo nella Villa Ober [Oberg, Auberg...] e successivamente in un luogo poco distante, Villa Junia, dove dai Bersaglieri furono obbligati a scavarsi la fossa e quindi dagli stessi fucilati il 24 gennaio 1945.                                                                   Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV. Da Gennaio 1945 alla Liberazione, 2005, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia  

Fioriti Italo: nato a Coldirodi il 20 aprile 1924, squadrista della Brigata Nera “Padoan”, distaccamento di Sanremo.
Interrogatorio del 27.7.1945: [...] Giunto al ponte di Badalucco fui preso da alcuni tedeschi in servizio di guardia, i quali mi condussero al comando delle SS di Sanremo. Li mi volevano uccidere perché ero fuggito dalla brigata nera e per essere andato con i partigiani. I militari delle SS tedesche mi malmenarono per costringermi a rivelare dove si trovassero i partigiani ma io mi limitai a dire che i partigiani si trovavano sparsi sopra la località Vignai. Indi fui caricato su un camion fino a Baiardo da dove con una trentina di soldati tedeschi ci portammo a Ciabaudo dove i tedeschi effettuarono un rastrellamento fermando tutti gli uomini che si trovavano in paese che fecero sfilare davanti a me chiedendomi di ognuno se fossero o meno partigiani. Io dichiarai che tutti quegli uomini erano contadini e nessuno di essi era un partigiano.
[...]
Anfossi Amedeo: nato a Sanremo il 27 novembre 1915, milite della GNR in servizio presso il Comando Provinciale della GNR, compagnia di Sanremo
Interrogatorio dell’8.6.1945: Mi sono arruolato nella GNR nel mese di febbraio del 1944 e dal Comando provinciale di Sanremo fui destinato in servizio a Sanremo, prima a Villa al Verone e poi all’ex caserma dei carabinieri.
[...] Verso il 20 febbraio 1945 ho preso parte al rastrellamento effettuato nella zona di Baiardo unitamente ad una quindicina di altri militi, un reparto di bersaglieri, brigate nere e soldati tedeschi. Noi della GNR eravamo al diretto comando del Tenente Salerno Giuseppe. Io ero adibito al servizio di conducente di una carretta per il trasporto dei rifornimenti. Il rastrellamento è durato circa 8 giorni [...]
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 

Nel pomeriggio del 5 febbraio 1945 l'VIII° Distaccamento del II° Battaglione "Marco Dino Rossi" della V^ Brigata, comandato da Giovanni "Piacenza" Giacobbi, Distaccamento che si trovava a nord di Agaggio, Frazione di Molini di Triora (IM), avvistò una colonna di tedeschi che dal centro di Molini puntava verso Rezzo (IM). Il comandante ordinò di occultare le armi e di nascondersi. Alcuni uomini vennero, tuttavia, arrestati. Tra questi 3 olandesi, Domenica, Martedì e Pablo. I primi due tradirono i compagni, indicando dove erano celate le armi. Andarono persi "un Breda con 3 caricatori", un Saint Etienne con 10 caricatori, un Ocis con 10 caricatori".
Durante la notte del 9 febbraio 1945 una colonna, formata da soldati tedeschi, bersaglieri repubblichini e militari delle Brigate Nere, "guidati dietro informazioni e con la presenza di un ragazzo quattordicenne precedentemente catturato dai bersaglieri di Bajardo", circondò il paese di Argallo, sorprendendo nel sonno 5 garibaldini: 'Martinetto', 'Chimica', 'Biondo', 'Ba' e 'Lucia'. Solo il primo riusciva a salvarsi. Un altro partigiano, 'Masiero', veniva ucciso mentre si stava allontanando da una casa privata del paese. Sottolineava un rapporto garibaldino che "le 8 persone catturate furono rilasciate e 2 tedeschi furono feriti incidentalmente dai loro ed uno dei due risulta poi deceduto".
Con una missiva, in data 17 febbraio, la Sezione SIM della V^ Brigata (prot. n° 288) chiedeva al commissario "Orsini", Agostino Bramè, informazioni sui partigiani arrestati ad Argallo, per poter fornire a sua volta notizie ai familiari.
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I 

Nella notte del 9 febbraio 1945 elementi, appartenenti a reparti della Brigata Nera, Tedeschi e bersaglieri - circa centosessanta uomini - e partiti da Baiardo la sera precedente verso le ore 22, effettuano un rastrellamento nella zona di Vignai-Argallo: rimane ucciso Mario Bini (Cufagna) del II° Battaglione, e quattro altri partigiani vengono catturati, Chimica, Biondo, Bà, e Martinetto del I° Battaglione, nonché la staffetta Lucia.
[...] Rastrellamento, iniziato intorno al 20 febbraio 1945, effettuato nella zona di Baiardo, Monte Ceppo e Cima Marta da una quindicina di militi della compagnia di Sanremo della GNR al comando del Tenente Salerno Giuseppe, un reparto di bersaglieri, brigate nere e soldati tedeschi. Il rastrellamento durò circa una settimana senza che i nazifascisti riuscissero ad ottenere esiti positivi, fino al giorno in cui un lancio paracadutato alleato di armi e di viveri fu effettuato nella zona di Cima Marta.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020

[ n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944-8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016 

Alcuni reparti, composti da tedeschi e da bersaglieri repubblichini, provenienti da Sanremo, Taggia, Ceriana (IM) e Baiardo (IM), durante le prime ore del 18 febbraio "condotti da spie circondavano il comando Battaglione ed il Distaccamento di Tito; attendevano l'alba e verso le ore 8,30 attaccavano improvvisamente e catturando una delle nostre sentinelle si portavano nei pressi dominanti ed aprivano il fuoco con armi automatiche" (così nella testimonianza di Cipriano, Raffaele Alberti, commissario di Battaglione). I garibaldini tentarono la fuga, ma per molti di loro non vi fu scampo.
Badalucco il 18 febbraio 1945, il giorno dopo aver subito il rastrellamento dei tedeschi e dei Cacciatori delle Alpi, dovette subire anche un bombardamento aereo alleato, precisamente alle ore 15.45: caddero 5 ordigni di cui (dalla sezione SIM della V^ Brigata, prot. n° 291 in data 19 febbraio 1945, al comando della I^ Zona Operativa Liguria ed al comando della II^ Divisione) 3 cadevano nelle campagne e 2 cadevano nell'abitato causando il crollo di 2 case e la morte di una decina di persone. "Dai discorsi sentiti tra la gente si intuisce che essa è contrariata in quanto a Badalucco non vi era alcun obiettivo militare".
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I

martedì 22 agosto 2023

Quella mattina anche noi nel rifugio avevamo sentito alle 8.40 le prime raffiche di mitraglia forti e vicinissime

La zona di Testico (SV). Foto: Eleonora Maini

"Che sarebbe stato se il nemico fosse riuscito a colpire [n.d.r.: a Testico (SV), il 15 aprile 1945] Giorgio [n.d.r.: Giorgio Olivero, comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] o Pantera [n.d.r.: Luigi Massabò, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"], a scoprire la sede del Comando catturando documenti e materiale? Come si sarebbe ripresa la Bonfante in pochi giorni, ora che l'azione decisiva sembra imminente?" Erano le domande che pose Mario [n.d.r.: Carlo De Lucis, commissario della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] nel pomeriggio di quel giorno. "Non ci ha insegnato nulla il disastro di Upega? Ricordate la circolare del Comando regionale di allora? E' mai possibile dopo un anno di lotta partigiana essere sorpresi? Così ad Upega, solo il caso e la fortuna vi hanno salvato oggi. Quando ieri sera ho chiesto chi voleva venire con me in rifugio non mi avete seguito. Vi pareva che fosse paura o eccesso di prudenza il non voler abbandonare ancora la tattica cospirativa. Avete visto. Non si tratta di paura o di coraggio, non siete padroni di esporvi senza ragione, le vostre vite sono troppo preziose per il movimento per sacrificarle per dormire in un letto".
Giorgio taceva, infatti non c'era nulla da opporre a quella requisitoria chiara ed inesorabile: il rifugio era stato costruito con ogni cura, era uno scavo di quattro metri per quattro, profondo due metri, rivestito di pietra, coperto di lamiera e di terra. Vi si accedeva per uno stretto corridoio la cui entrata era chiudibile con un cespuglio. La terra sopra il rifugio era coltivata. Nell'interno su telai in legno vi erano materassi per molte persone. Nelle pareti vi erano nicchie per le future radio trasmittenti. Come si vede si era ben lontani dalle umide tane in cui avevano vissuto per settimane i partigiani dei periodi più duri dell'inverno. Il rifugio era stato costruito da contadini cui il Comando aveva spiegato la delicatezza dell'incarico, l'alta prova di fiducia, le benemerenze che acquistavano nonché la possibilità di rappresaglie. Alcuni dei costruttori erano muti per sempre: erano tra gli ostaggi massacrati il giorno 15.
Se un appunto si può fare al rifugio era che era stato costruito troppo tardi. Il pericolo che gravava su Poggiobottaro era lo stesso che lo aveva minacciato da dicembre, da quando la circolare 23 aveva raccomandato la costruzione dei rifugi. Era ovvio che, dopo averne fatto a meno per tanti mesi, nel clima di euforia della primavera se ne sentisse meno la necessità. Io però l'avevo pensata diversamente. Tutte le volte che avevo dovuto dormire a Poggiobottaro mi ero trovato a disagio e mi era parso saggio, dato che dopo tanto un rifugio c'era, servirmene quella sera assieme a Mario.
Forse la situazione era migliorata, un attacco nemico poco probabile, ma non mi sarebbe piaciuto perdere alla vigilia della fine una vita che avevo salvato attraverso tante peripezie.
Quella mattina anche noi nel rifugio avevamo sentito alle 8.40 le prime raffiche di mitraglia forti e vicinissime. Eravamo rimasti stesi sui nostri materassi senza parlare, senza poter fare nulla. Fino alle 9.15 a brevi intervalli avevamo udito colpi, spari isolati ed altre raffiche. Chi soffriva di più era Sergio Sibelli del C.L.N. di Alassio che non pareva abituato ai rumori della guerra. "Come fate voi a restare calmi. Io vorrei non essermi mosso da casa", mi sussurrava a bassa voce. "E' questione di abitudine. Io è la prima volta che sento sparare sentendomi quasi al sicuro", gli risposi e aggiunsi "Non riuscirei invece a dormire come fate voi, in città con armi e manifestini nascosti in casa, sapendo che una spia potrebbe farmi prendere a letto".
Uscimmo alle 13.30 quando gli spari erano cessati e qualcuno da fuori si ricordò di noi e venne ad avvertirci.
L'incursione di Testico aveva rivelato che la potenza della Wehrmacht era al tramonto. Lo spionaggio del disertore tedesco e la conseguente condanna delle persone che ci avevano aiutato, se erano state condotte con abilità e prontezza, non raggiunsero, però, lo scopo che forse il nemico si riprometteva. La rapidità dello sgombero, l'essersi coperti con i civili, la mancanza di un bando, di un annuncio qualunque che dessero alla strage il carattere di una condanna, la brutalità stessa dell'esecuzione che dilaniò i cadaveri con proiettili esplosivi, diede all'azione un carattere di rabbiosa vendetta più che di giustizia, fu un gesto da banditi che rivelava una grave debolezza. I tedeschi per esercitare la loro legge dovevano adottare ormai anche loro i metodi che noi impiegavamo da tempo in Riviera, segno che la supremazia della loro forza si avvicinava al tramonto. In più noi portavamo, quando possibile, i colpevoli nelle nostre vallate per sottoporli a giudizio, mentre essi se ne erano coperti per sfuggire ai nostri colpi.
Non essendoci state né imboscate, né attacchi partigiani nei dintorni dagli abitanti la strage fu considerata un terrorismo selvaggio ed impotente. Ci si ricordava che il disertore tedesco aveva ordinato direttamente alle vittime di aiutare i malati partigiani quando era stato con noi, ciò aumentava ancora il risentimento e porterà in seguito la popolazione a tentativi di linciaggio di prigionieri da noi catturati.
I civili in preda al terrore abbandonarono i paesi della Val Lerrone passando le notti all'aperto, gli uomini chiedevano armi per unirsi a noi e difendere la loro vita, tornava così ad un anno di distanza il morale che aveva creato le bande locali. Il terrorismo nemico rendeva di nuovo i civili solidali con noi spingendoci alla lotta.
L'evolversi della situazione sui grandi fronti e la possibilità che incursioni nemiche contro la popolazione abbiano a ripetersi impongono ai partigiani un atteggiamento più deciso. L'opinione pubblica, orientata nettamente in nostro favore, l'afflusso continuo di nuove reclute e l'alto morale degli uomini decidono il Comando ad estendere il controllo finora limitato alla zona a sud della Val d'Andora a tutto lo spazio tra la «28» ed il mare. Dapprima si eliminerà il diaframma della Val Lerrone, poi collegheremo tra loro le bande creando uno schieramento quasi continuo sui due fronti della «28» e dell'Aurelia. I compiti verranno suddivisi tra le Brigate i cui effettivi sono in continuo aumento e dovrebbero già ora essere sufficienti.
Il timore delle rappresaglie nemiche non ci trattiene più: le popolazioni esasperate dal terrore e dalla vita nei boschi ci chiedono quando finirà quella situazione perché le notti passate all'aperto sono ancora fredde: "Per voi è appena cominciata, noi è più di un anno che facciamo questa vita", rispondiamo. "Ormai il tempo è buono, non abbiate paura, si può tirare avanti anche per dei mesi".
Una nostra occupazione sarebbe accolta con favore perché ormai ci ritengono in grado di respingere eventuali attacchi nemici.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 239-241
 
[...] Poco prima della Liberazione, il 15 aprile 1945, l’eccidio in assoluto più cruento, a Testico, nel quale perdono la vita 27 persone. All’alba di domenica due colonne tedesche giungono a Ginestro, frazione di Testico, per dare inizio a un rastrellamento: i militari catturano una ventina di civili, uomini e donne sorpresi nelle loro case, e li legano con corde. Poi, proseguendo la marcia, uccidono senza apparente ragione un contadino al lavoro. Alle 8.00, arrivati nei pressi della chiesa, irrompono nell’edificio, catturano altre persone e pongono tutti gli ostaggi lungo un muro sotto la sorveglianza di un soldato. Il resto della truppa, in parte, prosegue con il rastrellamento che porterà alla cattura di altri ostaggi; in parte si dirige verso Poggio Bottaro. Intorno alle 9.00 un gruppo di partigiani, dalla vicina frazione di Santa Maria di Stellanello, spara sui tedeschi permettendo a 3 degli ostaggi di fuggire. In risposta, i tedeschi tornano verso la chiesa, si appostano presso l’osteria del paese e catturano altri 3 contadini di Torria. Infine, la colonna riparte con i prigionieri al seguito. Durante la marcia, si arresta presso la frazione Zerbini per catturare altri ostaggi. L’ultima tappa è Costa Binella ove avviene la selezione dei progionieri. Vengono rilasciati 3 giovani di Ginestro, 4 donne e 4 ragazze. Queste ultime verranno poi condotte al carcere di Imperia, sottoposte a interrogatori e paestaggi e rilasciate almeno una dozzina di giorni dopo. Restano in mano ai tedeschi 27 persone: 25 uomini e 2 donne che vengono separate dagli altri prigionieri, seviziate e uccise a colpi di baionetta. I 25 uomini, legati 2 a 2 col fil di ferro, sono falciati a colpi di mitragliatrice. Dopo il massacro, i corpi risultano irriconoscibili [...]
Andrea Chiovelli, Quando i tedeschi massacravano i savonesi: ecco le 49 stragi che insanguinarono la provincia, IVG, 11 aprile 2016