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lunedì 25 settembre 2023

Hanno detto che i tedeschi hanno i cani da guerra

La Val Lerrone. Fonte: mapio.net

Verso sera [6 marzo 1945] al comando [della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] di Poggiobottaro si venne a sapere che a Cesio c'erano quattrocento tedeschi. La notizia meritava di essere considerata attentamente. Cesio era un piccolo paese sulla «28». Difficilmente si sarebbe prestato ad alloggiare tante persone oltre al normale presidio di Brigate Nere. Perché i tedeschi non avevano proseguito per Pieve? Una puntata nemica da Cesio sarebbe stata facile: dal paese partiva una carrozzabile per la Val Lerrone ed un'altra portava a Testico e di là, in cresta, fino ad Alassio. Più difficile era che il nemico conoscesse con esattezza la sede del comando, ma dopo tanto tempo di permanenza nello stesso posto, non si poteva escluderlo. Varie proposte consigliate dal buon senso vengono esaminate. Si potrebbe montare la guardia poiché tra noi e Cesio non c'è nessuna banda. Si potrebbe partire per una, meno minacciata, subito, o verso le tre di notte, dopo sorta la luna. Le varie soluzioni non vengono accettate, soffocate da una sorta di fatalismo, poi alla cosa viene dato un tono scherzoso, la minaccia viene volutamente accentuata per impressionare chi riteniamo più degli altri impressionabile.
«Hanno detto che hanno i cani da guerra, lo ha riferito un contadino che è arrivato ora da Cesio, è una cosa seccante». Guardo Vittorio, il padrone di casa che, in cambio dell'ospitalità, vuole essere considerato partigiano anche lui. Noi avevamo acconsentito volentieri perché in verità condivideva molti dei nostri rischi, però pensavamo, forse a torto, che in lui non vi fosse la stoffa del partigiano. Ho l'impressione che la notizia sia diretta a lui, vedo che si controlla bene, ma ha gli occhi lucenti, attenti. «E come li impiegano i cani da guerra? Non sentiranno mica i partigiani dall'odore?». Chiede con voce che sembra indifferente. «No, il cane non distingue il partigiano dal contadino» - spiega Livio - «i tedeschi quando giungono in paese di notte lanciano i cani lupo per le strade e chiunque esca di casa viene azzannato. I soldati intanto perquisiscono sicuri che nessuno possa scappare». «Anche ad Alba li hanno impiegati» - aggiungo io - «a Degolla li hanno lanciati contro i partigiani che sparavano distesi per terra: è un brutto affare, se stai in piedi i tedeschi ti vedono, se ti stendi i cani ti addentano alla gola». «Sapete la storia del Monco?». Racconta Giorgio. «In quel di Triora, prima dell'ultimo rastrellamento avevano detto che era un tedesco delle SS che aveva ammaestrato i cani da guerra. I cani sentivano l'odore dei partigiani e scoprivano i rifugi. Il Monco li seguiva e con un uncino, perché era mutilato di una mano, tirava fuori i partigiani dalle tane. Quando il rastrellamento comincia due partigiani, che sapevano la storia del Monco, si nascondono in un rifugio. Dopo qualche tempo sentono un cane ansare fuori dell'apertura. Che sia la bestia del Monco? Due mani escono dal rifugio, il cane è afferrato per la gola, strozzato, tirato dentro. Tre giorni sono vissuti i due nella tana con la bestia morta: era un povero cane da pastore perché il Monco non era mai esistito».
Era abitudine dei partigiani essere spietati con coloro cbe dimostravano qualche timore. Venivano spaventati al punto che non distinguevano più il vero dal falso. Ricordavo uno della Matteotti: Lupo; dopo averlo preparato a dovere con vari racconti di torture e fucilazioni avevamo finto un imminente attacco tedesco e lo avevamo mandato solo in esplorazione. Non era più tornato.
Pure quella sera i tedeschi di Cesio non erano una fantasia. Pensavo al rapporto che ci era pervenuto dopo Upega: «E' possibile dopo un anno di vita partigiana essere ancora sorpresi?». Era ancora possibile.
La notte passò tranquilla per quanto il mio sonno leggero venisse più volte interrotto dal canto di un gallo.
Il giorno 7 torno a Segua [Frazione di Casanova Lerrone (SV)] e l'8 vado al recapito staffette di Ginestro per vedere se hanno preparato i conti. Al recapito trovo un francese che giorni prima era passato da Segua. «Sei ancora qui?» gli chiedo. «Si è accorto che può mangiare e non far niente ed è ormai impossibile mandarlo via» mi dice una staffetta. Il francese era un giovane biondo, robusto, pareva più un tedesco che un latino, era un tipo singolare. Era passato da Segua con un telo da tenda sulle spalle. «Ho visto un contadino che batteva l'ulivo raccogliendo i frutti nel telo. Militare, gli ho detto io, ed ho preso il telo» - così aveva raccontato - «quello mi è corso dietro dicendo che lo aveva pagato, ma io sono stato buono e non gli ho dato niente».
«Poteva averlo pagato davvero» aveva detto Bertumelin indignato.
«E poi col mangiare e con l'alloggio che vi diamo mi sembra che possiamo averceli guadagnati dei teli e delle coperte militari che a voi non servono». «Potevo anch'io pagarlo con questa» aveva replicato il francese mostrando la rivoltella; «ma non l'ho fatto perché ero di buon umore».
«Come è che sei in Italia?», gli chiesi.« Affondato nel '40 con la mia nave presso Piombino. Fino al '43 prigioniero, adesso libero».
«Sarai contento di tornare a casa fra qualche mese a guerra finita?».
«Fra qualche mese? Troppo presto... Dovrò lavorare di nuovo, è più bello fare la guerra». «E gli altri cinque che vi ho mandato giorni fa?» chiesi alla staffetta.
«Li ho portati alla Cascione, avevano fretta di tornare in Francia. Appena fusa la neve cercheranno di passare».
Anche quelli li avevo visti a Segua: erano aviatori abbattuti: «Se i tedeschi ci prendono dico che sono canadese», aveva detto uno di loro. «Un mio compagno è stato tagliato con la sega circolare perché era francese».
La pattuglia dei ciclisti tedeschi continuò a percorrere la Val Lerrone sempre più spesso. Passò il 6, l'8, il 13. Il giorno 8 giunsero anche cani con tedeschi che requisivano fieno. La ricostruzione del ponte di Garlenda proseguiva lentamente, l'inattività partigiana cominciava a pesare, i borghesi, che all'inizio erano atterriti, temendo che tendessimo qualche imboscata alla pattuglia, cominciavano ora a parlare di accordi segreti, di compromessi fra noi ed i tedeschi. Una squadra della banda di Rostida, decisa a por fine a questo stato di inferiorità, si appostò a Case Soprane in attesa della pattuglia. I borghesi ripiombarono nel terrore e prima avvertirono i nostri dell'arrivo dei tedeschi, poi, visto che i partigiani non scappavano, andarono ad avvertire i tedeschi facendo fallire l'imboscata. Il Comando divisionale fece rientrare alla base la squadra che per rappresaglia stava requisendo galline e conigli.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980,  pp. 163-167, pp. 196-199

7 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 183, alla banda locale di Ginestro - Disponeva la presenza di una pattuglia sul Passo di Cesio per il giorno successivo dalle ore 23 alle ore 9 e la segnalazione di allarme al Distaccamento garibaldino più vicino una volta avvistati i nemici che lungo la strada di Testico, non transitabile da automezzi, sarebbero necessariamente saliti a piedi.
8 marzo 1945 - Dal comando del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che il 1 marzo il Distaccamento con l'ausilio di civili aveva effettuato il diroccamento del ponte di Degna e che il giorno 5 aveva fatto brillare con 3 mine il ponte di Garlenda "rendendolo inutilizzabile".
13 marzo 1945 - Dallo Stato Maggiore della Divisione "Silvio Bonfante" avviso n° 1 alla popolazione costiera - "Si invita la popolazione ad allontanarsi dagli obiettivi militari. Si consiglia di annotare i luoghi abitati da tedeschi e fascisti e di tenere sotto sorveglianza la Feldgendarmerie".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

mercoledì 24 febbraio 2021

Colpo partigiano all'ospedale di Sanremo

Un rilievo topografico delle SAP di Sanremo - Fonte: A. Miroglio, op. cit. infra

Fra gli avvenimenti di maggiore risonanza verificatisi in città, occorre ricordare l'impresa compiuta dal "GAP Zamboni" di Sanremo avente lo scopo di far fuggire dall'Ospedale Civico di quel centro le garibaldine Bianca Pasteris e Anna Borgogno, unitamente al partigiano Nino Ronco, ivi sottoposti a rigorosa sorveglianza, perché in attesa della imminente esecuzione delle sentenze già pronunciate dai nazifascisti. Gli uomini della "Zamboni", fallito un primo tentativo effettuato il 6 aprile, ne eseguirono temerariamente un secondo tre giorni dopo, riuscendo infine a portare fuori dell'ospedale i compagni in pericolo e, con loro, anche i tre fascisti di guardia, due dei quali chiesero subito, ed ottennero, di combattere nelle formazioni partigiane mentre il terzo che tentava di dare l'allarme era ucciso. (Aveva indosso la bella somma di 24.900 lire).
Augusto Miroglio, La Liberazione in Liguria, Forni, Bologna, 1970
 
Nella notte tra il 7 e l'8 aprile 1945 si concretizzò il progetto di liberare 3 partigiani ricoverati all'ospedale di Sanremo.
Tale azione era già stata richiesta alcuni giorni prima (1).
L'operazione venne effettuata con molta lungimiranza in quanto (2) "il SIM [Servizio Informazioni Militari] del CLN di San Remo veniva avvertito dai suoi informatori che i 3 partigiani degenti all'ospedale civico (n.d.a.: Nino Rosso o il Lungo, Bianca Paseris o Luciana, ferita e catturata a Beusi, Anna Borgogno, sorella di Renatino fucilato dal nemico alcune settimane prima) avrebbero dovuto essere riconsegnati ai tedeschi, probabilmente per subire la pena capitale".
Data l'elevata sorveglianza (3) al nosocomio di Sanremo, gli uomini del Distaccamento GAP cittadino "Zamboni" al comando di "Dorio" (Mario Chiodo) dovettero tramite "Jean" contattare Egisto Sgorbini (4) "che a sua volta tratta con i militari Modena e De Bigò, che sono incaricati della sorveglianza all'ospedale".
I 10 uomini della formazione SAP si misero in cammino per raggiungere l'ospedale alle ore 2 dell'8 aprile 1945. Giunti all'interno dell'edificio "due uomini irrompono nella stanza di un terzo milite che non era stato possibile avvicinare perché notoriamente infido. Lo sorprendevano a letto... Dopo una breve lotta l'uomo veniva disarmato... La banda al completo coi 3 partigiani liberati ed i 3 prigionieri si riunisce sul piazzale e si porta in direzione Monte Bignone per raggiungere la staffetta De Maria che avrebbe dovuto condurre i sei alla Divisione "Felice Cascione".
Durante il tragitto il "terzo milite" tentò la fuga e venne ucciso. Gli altri due militi furono incorporati nelle formazioni garibaldine: avevano portato 2 moschetti ed una rivoltella.
Alcuni giorni dopo il CLN di Sanremo avvertì (5) il SIM della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione "Felice Cascione" che De Bigò era attivamente ricercato dalla GNR, in quanto accusato di essere la mente del riuscito colpo all'ospedale.
(1) Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. Alis, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'IsrecIm, pp. 289-290
(2) cfr. doc. n° 1069
(3) Mario Mascia, Op. cit., pp. 289-290
(4) cfr. doc. n° 1069
(5) cfr. doc. n° 1122

Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945). Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998 - 1999  

Nell'Ospedale Civico di Sanremo erano degenti tre partigiani feriti: Nini Rosso (Il lungo), Bianca Pasteris (Luciana) e Annamaria Borgogno. Bianca Pasteris aveva partecipato al Convegno di Beusi del 9 febbraio 1945, ed era rimasta ferita in tale località durante un rastrellamento. La Borgogno aveva già avuto il fratello Renato fucilato dai tedeschi. Il 29 marzo, d'ordine del Comando SS germanico di Sanremo, la Guardia Nazionale Repubblicana doveva piantonare quest'ultima finché rimaneva nell'Ospedale, e quando sarebbe stata dimessa,  consegnarla alle SS. L'agente incaricato era Enrico Campelli. Il CLN della città decide di liberare i tre degenti perché correvano un estremo pericolo. È incaricato dell'azione il Distaccamento "Zamboni". Mario Chiodo (Dorio) riceve l'ordine di guidare l'azione. Bisogna agire subito perché i tre partigiani già dovevano essere trasferiti alla Villa Hober almeno entro il 9 aprile. Dieci uomini del Distaccamento SAP agli ordini del suo comandante Roberto Quadrio (Robinson) e guidati da "Dorio", il 7 raggiungono l'ospedale; ma a causa di inspiegabili ritardi l'operazione viene rimandata. Si tenta nuovamente la notte dell'8. Dopo momenti drammatici, si riesce a liberare i tre partigiani e tre militi di guardia cadono prigionieri. Durante la ritirata uno dei militi tenta la fuga, ma viene freddato da una raffica. In conclusione, con un'azione coraggiosissima della Resistenza Sanremese, tre partigiani che, di fatto, erano già in mano al nemico, sono messi in salvo (6).
(6) - Cfr., Mario Mascia, op. cit., pagg. 289-292. ISRECIM, Archivio, Sezione I, cartella 33, fascicolo 29, documento delle carceri giudiziarie di Sanremo.
Francesco Biga (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. IV. Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 248, 249 

«Dorio» (Chiodo Mario) racconta:
Verso la fine di marzo il SIM del Comitato di Liberazione di Sanremo veniva avvertito dai suoi informatori che i tre partigiani degenti all'ospedale civico (Nino Rosso, «il lungo», Pasteris Bianca, «Luciana», ferita e catturata ai Beusi  e Anna Borgogno, sorella di Renatino Borgogno, fucilato alcune settimane prima) avrebbero dovuto essere riconsegnati ai tedeschi, probabilmente per subire la pena capitale. La madre della Luciana inviava continui, disperati appelli, perché si salvasse la figlia. Il Comando Divisionale chiedeva che un'azione decisiva fosse tentata a tutti i costi. L'impresa non era facile: si sapeva che l'ospedale era guardato da militi armati; inoltre le strade erano sotto continua  sorveglianza notturna da parte dei nazi-fascisti, la cui posizione militare si era fatta disperata e che temevano un colpo di mano partigiano nella città da un momento all'altro. Era necessario, perciò, agire con la massima circospezione allo scopo di risparmiare i nostri uomini e di non rendere la posizione dei detenuti più grave di quanto già non fosse con un colpo non riuscito.
Mimosa [Emilio Mascia], responsabile del SIM, ebbe l'incarico di studiare il piano nei suoi dettagli. Egli decise di valersi non degli uomini delle SAP, facilmente individuabili, ma del Distaccamento GAP Zamboni che operava sopra S. Giacomo e, nello stesso tempo, di porsi in contatto con due dei militi di guardia che sembravano, da informazioni assunte, esser disposti a collaborare seguendo poi i partigiani in montagna.
«Dorio» (Mario Chiodo) ufficiale di collegamento del Distaccamento Zunino, viene chiamato a rapporto ed incaricato di guidare la spedizione.
«Jean» (Alpinolo Rossi), l'infaticabile e coraggioso organo di collegamento del C.L.N., si pone in contatto con Egisto Sgorbin che, a sua volta, tratta con i militi Modena ed Ervedo De Bigò, che sono appunto incaricati della sorveglianza all'ospedale.
Durante tutta l'ultima settimana di marzo e i primi giorni di aprile, il piano si concreta. Il 5 aprile «Mimosa» viene informato che il 7 i tre partigiani saranno trasportati a Villa Auberg. Contemporaneamente tanto Dorio quanto Jean comunicano che tutto è pronto. Nel pomeriggio del sei aprile Mimosa impartisce l'ordine di agire.
Dorio si reca in montagna nei pressi della Cardellina, ove trasporta qualche arma automatica, giunta quel giorno stesso da Ospedaletti, e alcuni caricatori che il sappista Nino Lombardi smista in città in pieno giorno. Vengono impartite le ultime istruzioni. Alle due di notte, condotti da Dorio, dieci uomini del Distaccamento GAP agli ordini del suo Comandante «Robinson» (Roberto Quadrio), armati di tre sten, due mitra e diverse pistole automatiche, si mette in marcia. Nell'oscurità profonda, dopo due ore di faticosa discesa, su sentieri malagevoli, il gruppo raggiunge il piazzale dell'ospedale e prende posizione in attesa del milite che avrebbe dovuto guidarlo, come d'accordo, verso un cancello che immette sul retro dell'edificio. Le ore trascorrono lente. La notte è fredda. Gli uomini battono i denti e sentono, a distanza suonare le ore interminabili dai campanili delle chiese lontane. Dorio si porta al cancello, ne tenta la serratura, si prova a chiamare: nulla. Si teme un agguato, ma si resta nel posto pronti alla difesa ed all'offesa. Alle quattro e trenta ogni speranza di entrare nell'ospedale senza colpo ferire è sfumata. L'alba avanza e un'operazione di forza sarebbe pericolosa. Dorio e Robinson decidono di ritornare. Si dividono in due gruppi: uno risale verso la montagna, l'altro ritorna in direzione della città.
Il gruppo comandato da Dorio giunge a Baragallo senza incidenti quando, attraversando un beodo», sente intimare un sonoro «chi va là» seguito immediatamente da una scarica di mitra. «Moro» (Birarelli Bruno) cade con una coscia attraversata da una palla; un altro proiettile ferisce Dorio alla caviglia; mentre «Baldo» (Ubaldo Lenzi) rialza Moro. Tuono (Gavitelli Remo) con ammirevole sangue freddo, s'accoscia fra i cespugli e scarica ripetutamente il suo sten verso il lampeggiare che sorge alla sua sinistra. S'odono, in distanza, grida e bestemmie e poi il rumore di un numeroso gruppo di uomini che s'allontana.
Moro vien sorretto ed i nostri, protetti da Tuono alla retroguardia, riescono a sganciarsi e rientrare all'alba nei rifugi.
La mattina appresso Dorio, malgrado la sua ferita, si porta personalmente a fare il suo rapporto a Mimosa. Si teme che i partigiani, dopo l'allarme notturno, siano senz'altro trasferiti alle carceri, ma Jean, che riprende  immediatamente il suo lavoro per riorganizzare i contatti con i militi attraverso Sgorbin, riferisce che i nazi-fascisti hanno rimandato il trasferimento al giorno nove.
Urge provvedere senza indugio. Si stabilisce un convegno con uno dei militi la sera dell'otto a S. Pietro. Dorio e Jean si rimettono in moto e la sera dell'otto, alle ore 21, il De Bigò incontra Dorio. Ad evitare eventuali sorprese il milite viene trattenuto e la banda si porta a Verezzo dove resta, nei boschi, fino alle due. A quell'ora gli uomini lasciano la località, ed alle 3.30 sono di nuovo sul piazzale dell'ospedale. Dorio impartisce le disposizioni necessarie per la buona riuscita del colpo.
Due uomini fanno il giro dell'edificio, penetrano nell'atrio centrale, immobilizzano il portiere e bloccano il telefono. Altri due vengono messi di guardia ai cancelli laterali con l'ordine di tirare su chiunque si presenti. Gli altri scavalcano i cancelli insieme al milite che viene tenuto, ad evitare sorprese, sotto la minaccia delle rivoltelle; rare luci brillano nell'edificio ove tutti sembrano addormentati. Gli uomini penetrano a pianterreno. Due suore, sulla soglia di una corsia, si fermano esterrefatte, impietrite, senza un grido. Un'infermiera che attraversa il corridoio scorge gli uomini e tenta fuggire. Un gesto imperioso la inchioda al muro, bianca di paura.
Si lasciano due armati nel corridoio ed altri due penetrano nel guardaroba dove prelevano gli abiti del ferito.
Gli ultimi due salgono al piano superiore, silenziosi come fantasmi, e irrompono nella stanza di un terzo milite che non era stato possibile avvicinare perché notoriamente infido. Lo sorprendono a letto. Il fascista si desta di soprassalto al rumore, balza a sedere tentando d'impugnare la pistola. Una breve lotta silenziosa e l'uomo viene disarmato. Da un'altra porta esce improvvisamente un milite pallido come un cadavere. Gli s'ingiunge di tacere. Egli, senza un moto di resistenza, segue i nostri.
Intanto la Luciana, la Borgogno ed il Lungo, che erano stati nel frattempo avvertiti dagli uomini rimasti nel corridoio, della loro liberazione, si uniscono al grosso della banda e si armano. Si avvertono gli armati di stazione in portineria e si esce all'aperto in fretta e silenziosamente. Tutta l'operazione non era durata che pochi minuti, ed era stata condotta con tale sincronia che nessuno nell'ospedale, oltre al portiere, all'infermiera, ed alle due suore, ebbe ad accorgersi di alcunché di anormale.
La banda al completo, coi tre partigiani liberati ed i tre prigionieri, si riunisce sul piazzale.
I militi vengono posti nel mezzo e si parte in direzione di Monte Bignone per raggiungere un punto di convegno con la staffetta De Maria, che avrebbe dovuto condurre i liberati ed i prigionieri al Comando della Divisione.
Due militi avevano nel frattempo dichiarato di votersi unire ai nostri uomini: era stato restituito loro l'armamento. Un terzo, invece, si manteneva muto, e soltanto la minaccia delle armi lo costringeva a marciare.
S'era lasciata la strada carrozzabile e si saliva su per un impervio sentiero da capre, in fila indiana. Albeggiava, ed una luce incerta si diffondeva nel cielo terso.
I nostri uomini, dopo la notte insonne e l'eccitamento dell'azione, erano stanchi ed assonnati, e la loro vigilanza si era andata rilassando. Fu allora che il terzo milite, nel passare sull'orlo di una fitta boscaglia, con un balzo disperato, scavalcò i rovi e rovinò verso un burrone inestricabile che si disegnava in una breve valle come una macchia scura.
Gli si intimò di fermarsi; ma l'uomo continuava a correre ed a saltare. Un momento ancora e sarebbe sparito nell'intrico delle erbe alte e folte.
Una scarica risuonò nella fredda mattinata risvegliando l'eco delle colline.
L'uomo cadde sul volto e più non si mosse.
Un'ora dopo il gruppo raggiunse Monte Bignone e s'incontrò con la staffetta De Maria nella capanna di un pecoraio.
I tre liberati ed i due militi proseguirono la strada verso i monti, mentre il Distaccamento riprendeva la via del ritorno.
L'impresa - che suscitò allarme vivissimo fra le file nazi-fasciste - ebbe così termine, e per molti giorni il personale dell'ospedale parlò con spavento di uomini selvaggi che sembravano essere scaturiti dalla notte e che nella notte tornarono, terribili e paurosi come un'apparizione di tregenda.
Mario Mascia, L'Epopea dell'Esercito Scalzo, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp. 289-292

 

3 aprile 1945 - Dal CLN di Sanremo, prot. n° 531/CL, alla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione "Felice Cascione" e p.c. C.O. I^ Zona Militare Delegazione Militare Imperia - Segnalava che il 4 o il 5 aprile si sarebbe tentato di liberare dall'ospedale "Luciano", "Lungo" e la sorella di "Bergonzo". "Vi terremo informati al proposito. Stiamo attuando alcune importanti operazioni... C.L.N. San Remo - il segretario, Albatros [Mario Mascia]". 

8 aprile 1945 - Dal C.L.N. di Sanremo (IM), prot. n° 558/SIM, al comando della Divisione S.A.P. "Giacinto Menotti Serrati" e p.c. C.O. I^  Zona Militare ed al SIM della V^ Brigata - Comunicava che il Distaccamento "Zamboni" delle SAP della città di Sanremo aveva, al comando di "Dorio" [Mario Chiodo], effettuato un colpo di mano all'ospedale civile di Sanremo, liberando 3 garibaldini degenti, "Luciana", "Borgogno", "Lungo", catturando i 3 militari che erano stati di guardia ai partigiani - due militari salirono in montagna, uno, invece, fu ucciso nel suo tentativo di fuga -,  recuperando 2 moschetti ed una rivoltella. "[...] L'azione, effettuata di sorpresa, ha avuto pieno effetto. Catturati i militi di guardia, bloccato il telefono e tutte le uscite, i tre garibaldini venivano messi in salvo ed avviati alle formazioni di montagna. Due dei militi collaboravano alla fuga e si univano ai nostri uomini, raggiungendo con essi le formazioni per proseguire la lotta contro i nazi fascisti. Il terzo milite che in un secondo momento aveva tentato di fuggire rimaneva ucciso. L'azione, oltre alla liberazione di tre garibaldini, alla adesione dei due militi ed alla soppressione di un terzo, fruttava la cattura di due moschetti ed una rivoltella. Sul milite venivano sequestrate £. 24.900, versate al Comando S.A.P. e da questo destinate al fabbisogno del distaccamento Zamboni. Il distaccamento in parola è composto di uomini audaci e provati e si accinge ad operare altre azioni. Ancora non si è precisata la reazione al colpo. Sembra, peraltro, che il Comando della G.N.R. abbia ordinato l'arresto di alcuni innocenti padri di patrioti e che voglia procedere alla fucilazione di uno od alcuni di essi. SI STANNO STUDIANDO DA QUESTO COMANDO LE EVENTUALI CONTROMISURE. Vi informiamo pure che la mattina del 6 aprile, nel primo tentativo fatto dal distaccamento Zamboni, tentativo abortito per un seguito di circostanze, una squadra del distaccamento aveva uno scambio di fuoco con una pattuglia armata. Nello scontro il G.A.P. Moro veniva ferito ad una coscia ed  il G.A.P. Dorio di striscio ad un piede. Non si conoscono le perdite nemiche. Fraterni saluti. C.L.N. SANREMO -  il responsabile del SIM, Mimosa [Emilio Mascia, ufficiale della Brigata SAP "Giacomo Matteotti"]". 

9 aprile 1945 - Dal comando della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione "Felice Cascione" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava la liberazione dei 3 garibaldini dall'ospedale di Sanremo...

10 aprile 1945 - Dal PCI di Sanremo alla Federazione PCI di Imperia - Comunicava che... l'8 aprile un gruppo di partigiani avevano liberato alcuni patrioti degenti, sorvegliati dal nemico, all'ospedale di Sanremo...

13 aprile 1945 - Dal CLN di Sanremo, prot. n° 580, al SIM della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione "Felice Cascione" - Segnalava che era meglio che il garibaldino "De Bigò" non scendesse sulla costa in quanto ricercato dalla G.N.R. perché accusato di essere l'ideatore del colpo partigiano all'ospedale di Sanremo...

da documenti IsrecIm  in Rocco Fava, Op. cit., Tomo II

venerdì 10 luglio 2020

Lo scontro di Vessalico (IM) è concluso, l'ultimo prima del grande rastrellamento

Vessalico (IM) - Fonte: Wikipedia
 
Per attenuare la cronica penuria di armi e di munizioni nei primi giorni di ottobre 1944 vennero condotte dai partigiani della II^ Divisione "Felice Cascione" diverse azioni contro alcune caserme occupate dal nemico.
Intensificando la battaglia per la distruzione  dei ponti per ostacolare il previsto grande rastrellamento nemico, la notte del 5 ottobre 1944 gli uomini del Distaccamento di Raymond (Ramon) Rosso [il quale diventerà in seguito capo di Stato Maggiore della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della  Divisione "Silvio Bonfante"] fecero saltare il ponte di Borgo di Ranzo, nel comune di Ranzo (IM).
Doveva seguire la stessa sorte il ponte di Vessalico (IM), già distrutto il 4 luglio 1944.
I tedeschi, per riattivarlo, avevano dislocato un presidio di sessanta uomini con cinque mitragliatori. Decisi ad attaccarlo, il giorno 8 ottobre 1944 i comandanti “Cion” [Silvio Bonfante], Giorgio, [Giorgio Olivero, comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] e Stalin [in seguito Franco Bianchi, comandante del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"] radunano gli uomini: trenta garibaldini del Distaccamento d'assalto “Giovanni Garbagnati”, che sostavano a Pieve di Teco (IM) dopo l'attacco a Cesio (IM), e quindici uomini del Distaccamento "Giuseppe Maccanò" della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo", comandati da Fra Diavolo [anche Garibaldi, Giuseppe Garibaldi, già a capo nell'autunno 1943 di un piccolo gruppo partigiano in Cipressa (IM), verso la fine della guerra comandante della IV^ Brigata "Domenico Arnera" della Divisione "Silvio Bonfante"] ...
Rocco Fava, La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999 

Intanto i cittadini di Vessalico, temendo una rappresaglia, inviano presso il Comando partigiano il civile Giovanni Aicardi con il compito di farlo desistere dall'impresa e con l'offerta di settemila lire.
Ma il comando risponde che non può rinunciare all'impresa, data la drammatica situazione incombente.
L'avvicinamento a Vessalico è compiuto all'indomani alle 6 antimeridiane. 
A Perinetti [Frazione di Vessalico (IM)] i garibaldini si dispongono su tre colonne, ciascuna composta da due squadre, con armamento complessivo di sette mitragliatori, due lanciagranate e alcune armi automatiche di vario genere. Fra i partigiani alcuni sono militi che hanno abbandonato il battaglione “San Marco”: riceveranno per la prima volta il battesimo del fuoco.
Come convenuto, raggiunte le posizioni a loro assegnate a cento metri di distanza e a quaranta metri circa di quota sopra il ponte, alle 7 due squadre garibaldine si appostano per una buona mezz'ora in attesa del colpo di pistola che sarebbe dovuto partire dalla colonna centrale come segnale d'attacco. Però quest'ultima, impossibilitata a seguire la strada troppo scoperta e a portarsi dietro la prima, fa mancare il segnale convenuto.

Accortisi dell'insidia, i tedeschi danno l'allarme abbandonando il ponte in costruzione.

Attuato da Cion un lancio di manifestini invitanti alla resa gli Slavi e gli Austriaci presenti nel presidio - desiderosi di disertare - e inviata la ragazza Domenica Delfino per persuaderli a farlo veramente, viene sferrato un attacco violentissimo.

Totalmente disorganizzato e sprovveduto, il nemico non reagisce immediatamente e si richiude nel frantoio di Giobatta Aicardi.
Raggiunto intanto il fianco sinistro della Valle all'altezza del paese, la terza colonna partecipa all'attacco effettuato dai due lati del fiume che, in piena, ritarda l'azione delle colonne agenti a destra.
Riusciti a penetrare nell'abitato avanzano in piedi sotto le raffiche nemiche e tra la meraviglia e il terrore degli ex “San Marco”.

Guidati da Cion, Stalin e Fra Diavolo, i partigiani a colpi di bombe a mano snidano alcuni nemici: i superstiti si danno prigionieri.

Tra i garibaldini il primo a rimanere ferito è Calogero Madonia (Carlo Siciliano): colpito sotto il ginocchio mentre guada il fiume, riesce con i lacci di una scarpa a legarsi stretta la gamba sinistra e, abbandonatosi alla corrente, è raccolto e salvato dal compagno d'armi Agostino Guglieri (Barba).

E' difficile snidare il nemico che, trinceratosi nelle case, tira dalle finestre.
Ormai le munizioni scarseggiano e, dopo tre ore e mezza di fuoco, lasciato il comando a Giorgio  Olivero, che continua l'azione per un'altra ora, Cion rientra a Pieve di Teco (IM) per accompagnare il ferito e i sette prigionieri.
Anche Giorgio con i suoi uomini si ritira, presupponendo un arrivo di rinforzi da Pogli [Frazione di Ortovero (SV)] e da Cesio (IM), nel quale ultimo paese la guarnigione della brigata nera era stata rinforzata.

Ha luogo una tregua alle ore 11, durante la quale vengono trovati due tedeschi caduti ed il cadavere del civile Giuseppe Gandolini ucciso accidentalmente.
Non ancora soddisfatto dell'azione, liberatosi dei prigionieri e del ferito, fedele al suo temerario impulso, con un mitragliatore e seguito da quattro coraggiosi compagni per continuare la lotta, Cion ritorna verso Vessalico (IM) per catturare ancora altri soldati.

Riordinate le file, il nemico ora è all'erta in attesa del ritorno offensivo dei garibaldini.

Giunti nei pressi di una segheria dei Piana posta nelle vicinanze del paese, i patrioti iniziano l'attraversamento del torrente Arroscia per condurre l'azione di attacco.

Cion è il primo della fila. Poi vengono Alessandro Nuti (Scrivan), Primo Cei (Wan Stiller), Vittorio  Amoretti (Vittore), Franco Bianchi (Stalin).
Dal campanile della chiesa partono delle raffiche di Mayerling.
Cion viene colpito alle gambe, fa un giro su se stesso ed urla "Non lasciatemi qui!
Sotto le raffiche tedesche riescono a trascinarlo al sicuro.

Poi è la volta di Sandro Nuti (Scrivan) di Oneglia, che armato di Saint-Etienne deve attraversare un piccolo fossato, che un tedesco appostato batte dal campanile. Quando un partigiano deve passare, un mitragliatore partigiano in postazione dall'alto lato del fossato tira una raffica sul campanile obbligando il nemico a nascondersi per un istante. Scrivan compie un balzo portandosi dietro ad un cespuglio per raccogliere un caricatore, ma una raffica nemica lo investe e gli sbriciola un gomito in modo grave.  Cade e rimane quasi dissanguato, ma i compagni riescono a trarlo in salvo, coprendolo col fuoco delle loro armi e trascinandolo attraverso l'acqua corrente legato ad un nastro di mitragliatrice.

La popolazione sfolla sui monti per timore della rappresaglia nazista.

Rientrati a Pieve di Teco, i garibaldini, dopo aver medicato i feriti, attuano un forte pattugliamento per coprire la ritirata dei feriti, portati a Mendatica (IM) con un camion e da lì a Piaggia [Frazione di Briga Alta (CN)] verso le 2 di notte.
Totalmente sgomberato Vessalico, Raimondo Rosso (Ramon) controlla il movimento nemico tra Pogli e il suddetto paese.

La sera del giorno stesso del combattimento un forte nucleo di tedeschi, guidati da due capitani e da due subalterni, invade il paese, rastrella i pochi civili rimasti e libera i tedeschi ancora nascosti nell'abitato.
Nonostante le minacce non viene compiuta alcuna rappresaglia nel timore che i partigiani possano giustiziare i sette tedeschi in loro mani.

Cinque ostaggi, Francesco Degola, Domenico Aicardi, Domenico Gerini e Giacomo Guido, portati a Bastia d'Albenga (SV), verranno rilasciati il 19 ottobre 1944.

Allontanatisi i tedeschi e giunta la notizia di un croato ferito, il parroco don Angelo Cervetto si reca nel frantoio dell'Aicardi dove si trova questo ferito assistito da un commilitone. Prestate le cure, i due vengono internati all'ospedale di Piaggia (CN).

Accanto al frantoio è rivenuto il cadavere di un altro tedesco, che viene restituito al comando tedesco di Villanova d'Albenga (SV).

I tedeschi, che hanno intanto abbandonato Vessalico (IM), compiono puntate oltre Ormea (CN) e San Bernardo di Conio [nel comune di Borgomaro (IM] con la speranza di rintracciare i partigiani. Nell'azione hanno avuto quindici soldati caduti, dodici feriti, cinque prigionieri, perduti i muli e i cavalli delle salmerie.

Il ponte viene definitivamente distrutto da una squadra del Distaccamento “Giovanni Garbagnati”.

I prigionieri, Slavi, Austriaci, Croati, di cui uno ferito, giungono il giorno seguente al comando Divisione per l'interrogatorio. Seguono il 10 di ottobre altri due Slavi che avevano disertato.

Ricercate dal nemico fuggono a Piaggia  [Frazione di Briga Alta (CN)] anche le famiglie di Massimo Gismondi (Mancen) e di Cion.
Grazie all'attività della staffetta Secondino Rovere (Uliano), che cade in mano nemica, ma poi si libera, da Albenga riesce a portare a Piaggia, col lasciapassare dei tedeschi, il professore Abbo per amputare la gamba di Cion: la gamba, invece, viene salvata con profonde incisioni ed efficaci disinfezioni.

Due brigatisti neri, catturati in borghese con l'aiuto di un contadino presso Casanova Lerrone (SV), sono fucilati.

Lo scontro di Vessalico (IM) è concluso: l'ultimo prima del grande rastrellamento che ormai sta per avere inizio, mentre la pioggia, il nevischio e il freddo continuano ad imperversare.

Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Milanostampa Editore - Farigliano, 1977
 

Fonte: Fondazione Luigi Micheletti

[n.d.r.: quasi a conferma del momento di difficoltà attraversato dai partigiani della Divisione Cascione esiste un promemoria, messo all'attenzione dello stesso Mussolini, indicato quale capo di Stato Maggiore della G.N.R., e relativo ad una copia di una circolare della Brigata "Belgrano", riportante la dislocazione dei distaccamenti garibaldini, trasmesso perlomeno nel bollettino giornaliero della G.N.R., come si evince, per l'appunto, dal Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del 4 ottobre 1944, pp. 28-29 (Fonte: Fondazione Luigi Micheletti)] 



sabato 11 gennaio 2020

Ho scritto al parroco di consegnare ai tedeschi il nostro ultimatum

Silvio Cion Bonfante a Pieve di Teco (IM) nell'autunno del 1944

Il fatto che quelli della Muti pochi giorni prima avessero soggiornato all'Angelo per poi ritirarsi a Cesio [IM] faceva intuire un nuovo possibile attacco.
[...]
C'erano Stalin [Franco Bianchi, comandante di Distaccamento], Giorgio [Giorgio Olivero, poi da dicembre 1944 comandante della nuova - ancora senza numero - Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] e Fra Diavolo [Giuseppe Garibaldi, pochi mesi dopo i fatti qui descritti comandante di un raggruppamento di garibaldini sul finire della guerra infine denominato IV^ Brigata "Domenico Arnera" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"], che pendevano dalle labbra del capo [Cion, Silvio Bonfante, vice comandante della II^ Divisione  "Felice Cascione"].
[...]
La discussione riprese. Al tavolo c'era anche Wan Stiller [o Van Stiller, Primo Cei, in seguito commissario di squadra della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"] uno degli uomini più attivi a Montegrande [località di San Bernardo di Conio, Frazione di Borgomaro (IM), importante battaglia partigiana dei primi di settembre 1944].
[...]
Mancen [Massimo Gismondi, comandante già allora della I^ Brigata] era risoluto e sapeva quanto Cion fosse deciso a farla pagare cara a chi aveva ucciso i suoi partigiani, i suoi amici.
Quei ragazzi che avevano scelto di combattere per ridare all'Italia giustizia e libertà.
[...]
Era il 7 ottobre 1944.
[...]
"domani sarà la nostra vittoria." Cion non aggiunse altro.
[...]
"Ho scritto al parroco di consegnare ai tedeschi il nostro ultimatum. Devono arrendersi."
[...] Il primo a lasciare la stanza per scendere in strada fu Fra Diavolo. [...] Erano pronti, seduti sotto gli antichi portici della strada principale di Pieve di Teco [IM] .
Occorreva soltanto attendere l'ordine di Cion, poi sarebbe scattata la marcia verso Vessalico [IM] . [...]
Attraversarono la prima passerella.
Tante tavole di legno fissate le une alle altre e legate con corde erano il passaggio obbligato per attraversare il torrente Arroscia.
[...] L'eventualità che le spie avessero già fatto il loro lavoro non poteva essere esclusa.
[...] Wan Stiller guardò verso le mura del paese e vide qualcosa muoversi sul campanile.
Fissò meglio l'immagine ed apparve nitida la sagoma di un uomo.
[...] Fra Diavolo si sdraiò a terra, imbracciò il fucile e fece fuoco. Non una parola.
Un tedesco, quello appostato sul campanile, volò giù colpito a morte. [...]
La battaglia era iniziata. 
Il fuoco di sbarramento dei tedeschi non si fece attendere. [...]
Il comandante non smetteva neppure per un attimo di sparare. Faceva fuoco continuando ad avanzare.
Due partigiani caddero a terra feriti. Cion lanciò una bomba. [...]
Vessalico era accerchiata ma la battaglia non era finita. [...]
Era la tregua, seppur temporanea.
I due ragazzi colpiti, Saladino [Giovanni Tagliabue] e Uccello [forse Lorenzo Abbo, classe 1928], vennero portati a Pieve di Teco.[...]
A dare manforte ai tedeschi anche gruppi di fascisti giunti da Ranzo [IM] .
La sortita di Cion non aveva avuto grande successo.
Due feriti tra i partigiani e sei tra le fila tedesche. [...]
"Dobbiamo tornare a Vessalico il più presto possibile..." [...]
Era necessario aprire una strada sicura verso Albenga [SV].
Daniele La Corte, Il coraggio di Cion. La vera storia del partigiano Silvio Bonfante, Fusta Editore, 2016

Attendemmo l'arrivo del prete con la lettera che intimava ai tedeschi di arrendersi. Consegnato il messaggio, l'ufficiale tedesco aprì la busta; al primo sguardo, ordinò ai suoi uomini di mettersi al coperto, facendo lui stesso altrettanto, e iniziò il combattimento.
Nell'entrare in paese per assolvere i compiti affidatici, vidi lanciarci una bomba tedesca, di quelle a tempo; mi gettai indietro per ripararmi dietro l'angolo che avevo appena oltrepassato. Così fecero Franco e Mosca, ma Uccello, che era l'ultimo della fila, tardò a mettersi al riparo e rimase colpito dalle schegge della bomba in più parti del corpo.
Affacciatomi all'angolo, colsi di sorpresa con una raffica di mitra il tedesco che aveva lanciato la bomba. Uccello si lamentava a terra per le ferite; lo feci accompagnare da Mosca al sicuro e, con Franco, proseguimmo per assolvere il nostro compito. Ci recammo subito sotto la finestra, dove era in postazione un mascingaver che sparava contro la formazione partigiana sul lato destro del fiume.
Lanciammo alcune bombe a mano greche che centrarono il bersaglio, rendendo innocua la postazione. Nel frattempo alcuni partigiani, assottigliando le difese da me predisposte, vennero a darci una mano; erano «Saladino»,(un ragazzo di Monza, Gianni Tagliabue, che poi rimase ferito mentre intimava la resa a un gruppo di tedeschi) e Timoscenko (Francesco Semeria di Montegrazie di Imperia) il quale cooperò alla cattura di un gruppo di militari tedeschi, comandati da un ufficiale.
La nostra posizione non era delle migliori perché, anche se eravamo in quattro, io dovevo rimanere a controllare la postazione (in modo che non potessero ripristinare la mitragliatrice alla finestra).
Appostato sul tetto di un casone per controllare la casa della postazione, sentii muovere dietro laschiena; mi voltai e inquadrai Cion, Carlo delle Piane, e Stalin che venivano verso di me. Mi accorsi che Carlo delle Piane aveva un braccio ingessato. Mi avvicinai a loro e chiesi come mai erano arrivati soltanto in tre. Cion mi rispose che erano venuti solo per rendersi conto della situazione e per poter quindi ritornare con i rinforzi necessari. Feci una breve relazione di quanto accaduto, e con loro rientrai in paese. I tedeschi cercavano di riunirsi nelle case in piccoli gruppi. Ne agganciai due che si stavano spostando: ne colpii uno con una raffica, ma l'altro si mise al riparo dietro l'angolo di casa. Nel mitra avevo l'ultimo caricatore: non potevo rimanere senza nemmeno più una raffica da sparare, sarei rimasto presto senza colpi; decisi così di servirmi della pistola e, mentre si svolgeva lo scontro, pistola contro mascin pistola, arrivò Stalin che mi chiese perchè non adoperavo il mitra. «Perchè non ho più colpi!» «Tienilo tu impegnato che passo dall'altra parte» mi disse. Dall'altra parte c'era una scala esterna che saliva al primo piano di un fienile e di lassù, quando il tedesco si mostrò per far fuoco nella mia direzione, lui lo eliminò.
Raggiunsi Cion che era andato avanti verso il centro del paese e gli feci presente che, se non faceva arrivare i rinforzi che già dal mattino avrebbero dovuto trovarsi in paese, noi, senza munizioni, non potevamo più continuare. Lui mi rispose: «Vado a prenderli, tanto accompagno i prigionieri dall'altra parte e li faccio portare a Pieve di Teco. Dopo con i rinforzi, ci impossessammo dell'armeria, eliminammo quei pochi tedeschi rimasti in paese e andammo via». Ciò detto si allontanarono tutti e tre coi prigionieri e noi rimanemmo dentro il paese senza bombe a mano e con poche munizioni: ci limitavamo a controllare la situazione; se i tedeschi non si facevano vedere, certo noi non saremmo andati a cercarli. Ogni tanto qualche tedesco isolato cercava di raggiungere un luogo più sicuro; purtroppo per lui quando usciva per le vie del paese, la sua sorte era segnata. Dei rinforzi di Cion, di Stalin, di Carlo delle Piane, neanche l'ombra. Mandai allora Timoscenko dai nostri che circondavano il paese a farsi dare un po' di bombe a mano. Ritornò poco dopo con quanto richiesto e un partigiano della sua squadra, mi informò che Saladino era stato ferito ad un braccio da una raffica, per fortuna non gravemente; lo avevano accampagnato da Uccello, l'altro ferito.
La nostra situazione non era delle più prospere. Controllavamo il paese, ma se i tedeschi avessero saputo la scarsità di munizioni nella quale ci trovavamo, non avrebbero avuto alcuna difficoltà a farci ritirare.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 119,120
 
Intensificando la battaglia per la distruzione dei ponti per ostacolare il previsto grande rastrellamento nemico, la notte del 5 ottobre 1944 gli uomini del Distaccamento di Raymond (Ramon) Rosso [il quale diventerà in seguito capo di Stato Maggiore della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della  Divisione "Silvio Bonfante"] fanno saltare il ponte di Borgo di Ranzo, nel comune di Ranzo (IM).
Doveva seguire la stessa sorte il ponte di Vessalico (IM), già distrutto il 4 luglio 1944.
I tedeschi, per riattivarlo, avevano dislocato un presidio di sessanta uomini con cinque mitragliatori. Decisi ad attaccarlo, il giorno 8 ottobre 1944 i comandanti “Cion” [Silvio Bonfante], Giorgio, [Giorgio Olivero, comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] e Stalin [in seguito Franco Bianchi, comandante del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"] radunano gli uomini: trenta garibaldini del Distaccamento d'assalto “Giovanni Garbagnati”, che sostavano a Pieve di Teco (IM) dopo l'attacco a Cesio (IM), e quindici uomini del Distaccamento “Giuseppe Maccanò” della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo", comandati da Fra Diavolo [anche Garibaldi, Giuseppe Garibaldi, già a capo nell'autunno 1943 di un piccolo gruppo partigiano in Cipressa (IM), verso la fine della guerra comandante della IV^ Brigata "Domenico Arnera" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] ... Rimanevano feriti gravemente Cion, Calogero Madonìa (Carlo Siciliano) e Sandro Nuti (Scrivan). Sei  tedeschi uccisi e cinque altri fatti prigionieri e in seguito scambiati con altrettanti ostaggi civili in mano al nemico...
L'avvicinamento a Vessalico è compiuto all'indomani alle 6 antimeridiane... A Perinetti, Frazione di Vessalico (IM), i garibaldini si dispongono su tre colonne, ciascuna composta da due squadre... Accortisi dell'insidia, i tedeschi danno l'allarme abbandonando il ponte in costruzione ...
Rocco Fava, La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999