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lunedì 25 settembre 2023

Hanno detto che i tedeschi hanno i cani da guerra

La Val Lerrone. Fonte: mapio.net

Verso sera [6 marzo 1945] al comando [della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] di Poggiobottaro si venne a sapere che a Cesio c'erano quattrocento tedeschi. La notizia meritava di essere considerata attentamente. Cesio era un piccolo paese sulla «28». Difficilmente si sarebbe prestato ad alloggiare tante persone oltre al normale presidio di Brigate Nere. Perché i tedeschi non avevano proseguito per Pieve? Una puntata nemica da Cesio sarebbe stata facile: dal paese partiva una carrozzabile per la Val Lerrone ed un'altra portava a Testico e di là, in cresta, fino ad Alassio. Più difficile era che il nemico conoscesse con esattezza la sede del comando, ma dopo tanto tempo di permanenza nello stesso posto, non si poteva escluderlo. Varie proposte consigliate dal buon senso vengono esaminate. Si potrebbe montare la guardia poiché tra noi e Cesio non c'è nessuna banda. Si potrebbe partire per una, meno minacciata, subito, o verso le tre di notte, dopo sorta la luna. Le varie soluzioni non vengono accettate, soffocate da una sorta di fatalismo, poi alla cosa viene dato un tono scherzoso, la minaccia viene volutamente accentuata per impressionare chi riteniamo più degli altri impressionabile.
«Hanno detto che hanno i cani da guerra, lo ha riferito un contadino che è arrivato ora da Cesio, è una cosa seccante». Guardo Vittorio, il padrone di casa che, in cambio dell'ospitalità, vuole essere considerato partigiano anche lui. Noi avevamo acconsentito volentieri perché in verità condivideva molti dei nostri rischi, però pensavamo, forse a torto, che in lui non vi fosse la stoffa del partigiano. Ho l'impressione che la notizia sia diretta a lui, vedo che si controlla bene, ma ha gli occhi lucenti, attenti. «E come li impiegano i cani da guerra? Non sentiranno mica i partigiani dall'odore?». Chiede con voce che sembra indifferente. «No, il cane non distingue il partigiano dal contadino» - spiega Livio - «i tedeschi quando giungono in paese di notte lanciano i cani lupo per le strade e chiunque esca di casa viene azzannato. I soldati intanto perquisiscono sicuri che nessuno possa scappare». «Anche ad Alba li hanno impiegati» - aggiungo io - «a Degolla li hanno lanciati contro i partigiani che sparavano distesi per terra: è un brutto affare, se stai in piedi i tedeschi ti vedono, se ti stendi i cani ti addentano alla gola». «Sapete la storia del Monco?». Racconta Giorgio. «In quel di Triora, prima dell'ultimo rastrellamento avevano detto che era un tedesco delle SS che aveva ammaestrato i cani da guerra. I cani sentivano l'odore dei partigiani e scoprivano i rifugi. Il Monco li seguiva e con un uncino, perché era mutilato di una mano, tirava fuori i partigiani dalle tane. Quando il rastrellamento comincia due partigiani, che sapevano la storia del Monco, si nascondono in un rifugio. Dopo qualche tempo sentono un cane ansare fuori dell'apertura. Che sia la bestia del Monco? Due mani escono dal rifugio, il cane è afferrato per la gola, strozzato, tirato dentro. Tre giorni sono vissuti i due nella tana con la bestia morta: era un povero cane da pastore perché il Monco non era mai esistito».
Era abitudine dei partigiani essere spietati con coloro cbe dimostravano qualche timore. Venivano spaventati al punto che non distinguevano più il vero dal falso. Ricordavo uno della Matteotti: Lupo; dopo averlo preparato a dovere con vari racconti di torture e fucilazioni avevamo finto un imminente attacco tedesco e lo avevamo mandato solo in esplorazione. Non era più tornato.
Pure quella sera i tedeschi di Cesio non erano una fantasia. Pensavo al rapporto che ci era pervenuto dopo Upega: «E' possibile dopo un anno di vita partigiana essere ancora sorpresi?». Era ancora possibile.
La notte passò tranquilla per quanto il mio sonno leggero venisse più volte interrotto dal canto di un gallo.
Il giorno 7 torno a Segua [Frazione di Casanova Lerrone (SV)] e l'8 vado al recapito staffette di Ginestro per vedere se hanno preparato i conti. Al recapito trovo un francese che giorni prima era passato da Segua. «Sei ancora qui?» gli chiedo. «Si è accorto che può mangiare e non far niente ed è ormai impossibile mandarlo via» mi dice una staffetta. Il francese era un giovane biondo, robusto, pareva più un tedesco che un latino, era un tipo singolare. Era passato da Segua con un telo da tenda sulle spalle. «Ho visto un contadino che batteva l'ulivo raccogliendo i frutti nel telo. Militare, gli ho detto io, ed ho preso il telo» - così aveva raccontato - «quello mi è corso dietro dicendo che lo aveva pagato, ma io sono stato buono e non gli ho dato niente».
«Poteva averlo pagato davvero» aveva detto Bertumelin indignato.
«E poi col mangiare e con l'alloggio che vi diamo mi sembra che possiamo averceli guadagnati dei teli e delle coperte militari che a voi non servono». «Potevo anch'io pagarlo con questa» aveva replicato il francese mostrando la rivoltella; «ma non l'ho fatto perché ero di buon umore».
«Come è che sei in Italia?», gli chiesi.« Affondato nel '40 con la mia nave presso Piombino. Fino al '43 prigioniero, adesso libero».
«Sarai contento di tornare a casa fra qualche mese a guerra finita?».
«Fra qualche mese? Troppo presto... Dovrò lavorare di nuovo, è più bello fare la guerra». «E gli altri cinque che vi ho mandato giorni fa?» chiesi alla staffetta.
«Li ho portati alla Cascione, avevano fretta di tornare in Francia. Appena fusa la neve cercheranno di passare».
Anche quelli li avevo visti a Segua: erano aviatori abbattuti: «Se i tedeschi ci prendono dico che sono canadese», aveva detto uno di loro. «Un mio compagno è stato tagliato con la sega circolare perché era francese».
La pattuglia dei ciclisti tedeschi continuò a percorrere la Val Lerrone sempre più spesso. Passò il 6, l'8, il 13. Il giorno 8 giunsero anche cani con tedeschi che requisivano fieno. La ricostruzione del ponte di Garlenda proseguiva lentamente, l'inattività partigiana cominciava a pesare, i borghesi, che all'inizio erano atterriti, temendo che tendessimo qualche imboscata alla pattuglia, cominciavano ora a parlare di accordi segreti, di compromessi fra noi ed i tedeschi. Una squadra della banda di Rostida, decisa a por fine a questo stato di inferiorità, si appostò a Case Soprane in attesa della pattuglia. I borghesi ripiombarono nel terrore e prima avvertirono i nostri dell'arrivo dei tedeschi, poi, visto che i partigiani non scappavano, andarono ad avvertire i tedeschi facendo fallire l'imboscata. Il Comando divisionale fece rientrare alla base la squadra che per rappresaglia stava requisendo galline e conigli.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980,  pp. 163-167, pp. 196-199

7 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 183, alla banda locale di Ginestro - Disponeva la presenza di una pattuglia sul Passo di Cesio per il giorno successivo dalle ore 23 alle ore 9 e la segnalazione di allarme al Distaccamento garibaldino più vicino una volta avvistati i nemici che lungo la strada di Testico, non transitabile da automezzi, sarebbero necessariamente saliti a piedi.
8 marzo 1945 - Dal comando del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che il 1 marzo il Distaccamento con l'ausilio di civili aveva effettuato il diroccamento del ponte di Degna e che il giorno 5 aveva fatto brillare con 3 mine il ponte di Garlenda "rendendolo inutilizzabile".
13 marzo 1945 - Dallo Stato Maggiore della Divisione "Silvio Bonfante" avviso n° 1 alla popolazione costiera - "Si invita la popolazione ad allontanarsi dagli obiettivi militari. Si consiglia di annotare i luoghi abitati da tedeschi e fascisti e di tenere sotto sorveglianza la Feldgendarmerie".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

martedì 22 agosto 2023

Quella mattina anche noi nel rifugio avevamo sentito alle 8.40 le prime raffiche di mitraglia forti e vicinissime

La zona di Testico (SV). Foto: Eleonora Maini

"Che sarebbe stato se il nemico fosse riuscito a colpire [n.d.r.: a Testico (SV), il 15 aprile 1945] Giorgio [n.d.r.: Giorgio Olivero, comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] o Pantera [n.d.r.: Luigi Massabò, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"], a scoprire la sede del Comando catturando documenti e materiale? Come si sarebbe ripresa la Bonfante in pochi giorni, ora che l'azione decisiva sembra imminente?" Erano le domande che pose Mario [n.d.r.: Carlo De Lucis, commissario della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] nel pomeriggio di quel giorno. "Non ci ha insegnato nulla il disastro di Upega? Ricordate la circolare del Comando regionale di allora? E' mai possibile dopo un anno di lotta partigiana essere sorpresi? Così ad Upega, solo il caso e la fortuna vi hanno salvato oggi. Quando ieri sera ho chiesto chi voleva venire con me in rifugio non mi avete seguito. Vi pareva che fosse paura o eccesso di prudenza il non voler abbandonare ancora la tattica cospirativa. Avete visto. Non si tratta di paura o di coraggio, non siete padroni di esporvi senza ragione, le vostre vite sono troppo preziose per il movimento per sacrificarle per dormire in un letto".
Giorgio taceva, infatti non c'era nulla da opporre a quella requisitoria chiara ed inesorabile: il rifugio era stato costruito con ogni cura, era uno scavo di quattro metri per quattro, profondo due metri, rivestito di pietra, coperto di lamiera e di terra. Vi si accedeva per uno stretto corridoio la cui entrata era chiudibile con un cespuglio. La terra sopra il rifugio era coltivata. Nell'interno su telai in legno vi erano materassi per molte persone. Nelle pareti vi erano nicchie per le future radio trasmittenti. Come si vede si era ben lontani dalle umide tane in cui avevano vissuto per settimane i partigiani dei periodi più duri dell'inverno. Il rifugio era stato costruito da contadini cui il Comando aveva spiegato la delicatezza dell'incarico, l'alta prova di fiducia, le benemerenze che acquistavano nonché la possibilità di rappresaglie. Alcuni dei costruttori erano muti per sempre: erano tra gli ostaggi massacrati il giorno 15.
Se un appunto si può fare al rifugio era che era stato costruito troppo tardi. Il pericolo che gravava su Poggiobottaro era lo stesso che lo aveva minacciato da dicembre, da quando la circolare 23 aveva raccomandato la costruzione dei rifugi. Era ovvio che, dopo averne fatto a meno per tanti mesi, nel clima di euforia della primavera se ne sentisse meno la necessità. Io però l'avevo pensata diversamente. Tutte le volte che avevo dovuto dormire a Poggiobottaro mi ero trovato a disagio e mi era parso saggio, dato che dopo tanto un rifugio c'era, servirmene quella sera assieme a Mario.
Forse la situazione era migliorata, un attacco nemico poco probabile, ma non mi sarebbe piaciuto perdere alla vigilia della fine una vita che avevo salvato attraverso tante peripezie.
Quella mattina anche noi nel rifugio avevamo sentito alle 8.40 le prime raffiche di mitraglia forti e vicinissime. Eravamo rimasti stesi sui nostri materassi senza parlare, senza poter fare nulla. Fino alle 9.15 a brevi intervalli avevamo udito colpi, spari isolati ed altre raffiche. Chi soffriva di più era Sergio Sibelli del C.L.N. di Alassio che non pareva abituato ai rumori della guerra. "Come fate voi a restare calmi. Io vorrei non essermi mosso da casa", mi sussurrava a bassa voce. "E' questione di abitudine. Io è la prima volta che sento sparare sentendomi quasi al sicuro", gli risposi e aggiunsi "Non riuscirei invece a dormire come fate voi, in città con armi e manifestini nascosti in casa, sapendo che una spia potrebbe farmi prendere a letto".
Uscimmo alle 13.30 quando gli spari erano cessati e qualcuno da fuori si ricordò di noi e venne ad avvertirci.
L'incursione di Testico aveva rivelato che la potenza della Wehrmacht era al tramonto. Lo spionaggio del disertore tedesco e la conseguente condanna delle persone che ci avevano aiutato, se erano state condotte con abilità e prontezza, non raggiunsero, però, lo scopo che forse il nemico si riprometteva. La rapidità dello sgombero, l'essersi coperti con i civili, la mancanza di un bando, di un annuncio qualunque che dessero alla strage il carattere di una condanna, la brutalità stessa dell'esecuzione che dilaniò i cadaveri con proiettili esplosivi, diede all'azione un carattere di rabbiosa vendetta più che di giustizia, fu un gesto da banditi che rivelava una grave debolezza. I tedeschi per esercitare la loro legge dovevano adottare ormai anche loro i metodi che noi impiegavamo da tempo in Riviera, segno che la supremazia della loro forza si avvicinava al tramonto. In più noi portavamo, quando possibile, i colpevoli nelle nostre vallate per sottoporli a giudizio, mentre essi se ne erano coperti per sfuggire ai nostri colpi.
Non essendoci state né imboscate, né attacchi partigiani nei dintorni dagli abitanti la strage fu considerata un terrorismo selvaggio ed impotente. Ci si ricordava che il disertore tedesco aveva ordinato direttamente alle vittime di aiutare i malati partigiani quando era stato con noi, ciò aumentava ancora il risentimento e porterà in seguito la popolazione a tentativi di linciaggio di prigionieri da noi catturati.
I civili in preda al terrore abbandonarono i paesi della Val Lerrone passando le notti all'aperto, gli uomini chiedevano armi per unirsi a noi e difendere la loro vita, tornava così ad un anno di distanza il morale che aveva creato le bande locali. Il terrorismo nemico rendeva di nuovo i civili solidali con noi spingendoci alla lotta.
L'evolversi della situazione sui grandi fronti e la possibilità che incursioni nemiche contro la popolazione abbiano a ripetersi impongono ai partigiani un atteggiamento più deciso. L'opinione pubblica, orientata nettamente in nostro favore, l'afflusso continuo di nuove reclute e l'alto morale degli uomini decidono il Comando ad estendere il controllo finora limitato alla zona a sud della Val d'Andora a tutto lo spazio tra la «28» ed il mare. Dapprima si eliminerà il diaframma della Val Lerrone, poi collegheremo tra loro le bande creando uno schieramento quasi continuo sui due fronti della «28» e dell'Aurelia. I compiti verranno suddivisi tra le Brigate i cui effettivi sono in continuo aumento e dovrebbero già ora essere sufficienti.
Il timore delle rappresaglie nemiche non ci trattiene più: le popolazioni esasperate dal terrore e dalla vita nei boschi ci chiedono quando finirà quella situazione perché le notti passate all'aperto sono ancora fredde: "Per voi è appena cominciata, noi è più di un anno che facciamo questa vita", rispondiamo. "Ormai il tempo è buono, non abbiate paura, si può tirare avanti anche per dei mesi".
Una nostra occupazione sarebbe accolta con favore perché ormai ci ritengono in grado di respingere eventuali attacchi nemici.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 239-241
 
[...] Poco prima della Liberazione, il 15 aprile 1945, l’eccidio in assoluto più cruento, a Testico, nel quale perdono la vita 27 persone. All’alba di domenica due colonne tedesche giungono a Ginestro, frazione di Testico, per dare inizio a un rastrellamento: i militari catturano una ventina di civili, uomini e donne sorpresi nelle loro case, e li legano con corde. Poi, proseguendo la marcia, uccidono senza apparente ragione un contadino al lavoro. Alle 8.00, arrivati nei pressi della chiesa, irrompono nell’edificio, catturano altre persone e pongono tutti gli ostaggi lungo un muro sotto la sorveglianza di un soldato. Il resto della truppa, in parte, prosegue con il rastrellamento che porterà alla cattura di altri ostaggi; in parte si dirige verso Poggio Bottaro. Intorno alle 9.00 un gruppo di partigiani, dalla vicina frazione di Santa Maria di Stellanello, spara sui tedeschi permettendo a 3 degli ostaggi di fuggire. In risposta, i tedeschi tornano verso la chiesa, si appostano presso l’osteria del paese e catturano altri 3 contadini di Torria. Infine, la colonna riparte con i prigionieri al seguito. Durante la marcia, si arresta presso la frazione Zerbini per catturare altri ostaggi. L’ultima tappa è Costa Binella ove avviene la selezione dei progionieri. Vengono rilasciati 3 giovani di Ginestro, 4 donne e 4 ragazze. Queste ultime verranno poi condotte al carcere di Imperia, sottoposte a interrogatori e paestaggi e rilasciate almeno una dozzina di giorni dopo. Restano in mano ai tedeschi 27 persone: 25 uomini e 2 donne che vengono separate dagli altri prigionieri, seviziate e uccise a colpi di baionetta. I 25 uomini, legati 2 a 2 col fil di ferro, sono falciati a colpi di mitragliatrice. Dopo il massacro, i corpi risultano irriconoscibili [...]
Andrea Chiovelli, Quando i tedeschi massacravano i savonesi: ecco le 49 stragi che insanguinarono la provincia, IVG, 11 aprile 2016
 

domenica 28 novembre 2021

Il comando partigiano si spostò a Poggio Bottaro

Poggio Bottaro, Frazione di Testico (SV)

Verso la sera del 26 gennaio 1945 il Distaccamento "Giuseppe Catter" della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della Divisione "Silvio Bonfante" si portò con una marcia di quasi cento chilometri dalla Val Pennavaira alle pendici del Monte Torre. Giunti nei pressi della Cappella Soprana di Stellanello (SV), quattro garibaldini si accantonarono in un casone da cui avvistarono una colonna della Divisione repubblichina Monte Rosa.
Il commissario Gapon Renzo Scotto, il caposquadra Bruno Bruno Amoretti, i partigiani Marat Renzo Arbotti e Franco Dante del Polito combatterono eroicamente uccidendo il tenente a capo del pattuglione nemico, un sottufficiale e 4 soldati. Nel corso dello sganciamento morì Marat per le ferite riportate nello scontro.
[...] Durante le prime ore dell'11 febbraio 1945 una colonna di soldati tedeschi operò un rastellamento nella zona di Aurigo nella Valle del Maro, parte orientale della provincia di Imperia.
Il nemico riuscì ad accerchiare il Distaccamento "Giuseppe Maccanò" della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della Divisione "Silvio Bonfante", il quale si sottrasse all'attacco ma riportando un morto ed un ferito grave.
I nazisti subirono "dure perdite di cui non è possibile accertare l'entità".
[...] La sera del 12 febbraio, inoltre, un altro contingente di soldati tedeschi abbandonò la provincia dirigendosi in Piemonte.
Si trattava degli uomini del presidio di Borgo di Ranzo, che era l'unico rimasto in Valle Arroscia dopo i rastrellamenti di fine gennaio 1945.
Con la partenza di questi militari la zona Ortovero (SV)-Vessalico (IM) risultava sgombera, tanto che 'Pantera' [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] potè scrivere: "la situazione nemica nella zona della Divisione è molto precaria. I tedeschi si schierano lungo le vie di comunicazione principali allo scopo di proteggere il transito delle colonne ripieganti".
Infatti, i nazisti rinforzarono i presidi di Pieve di Teco e di Garessio (CN), paesi posti rispettivamente a sud e a nord del Colle di Nava lungo la statale n° 28.
[...] Elenco dei caduti della Divisione Bonfante nei primi giorni di febbraio 1945: Mario Michele Miscioscia (Mario), Redavelli, "Marat" [Renzo Arbotti, nato a Reggio Emilia nel 1920], Giuseppe, "Assassino" [Calcedonio Riccobono], "Brescia" [Matteo Zanoni], "Raspin" [Franco Piacentini], "Villa" [Antonio Gioffé], "Luis" [Luigi Vaghi], "Stendal", Gioé" [Joe, Giorgio Parmeggiani], "Lorano", "Bagatto" [Antonino Amato].
Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)” - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

14 febbraio 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava un rastrellamento avvenuto nella zona del I° Distaccamento con i nemici che arrivavano da tre direzioni, da Via Colletto di Pairola, da Diano Castello e da Chiusavecchia e che, individuato il nascondiglio i nemici, avevano prelevato 5 garibaldini in seguito fucilati a Chiusavecchia: Raspin, Luis, Stendhal, Joe ed un certo Villa.

14 febbraio 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Relazione sull'attività svolta a gennaio dai Distaccamenti dipendenti dalla Brigata, nella quale si riferiva che il 9 gennaio 1945 una squadra sulla strada 28 nei pressi di Pontedassio aveva attaccato una pattuglia tedesca, uccidendo 3 soldati e ferendone 2; che il 20 una squadra al comando di 'Gordon' [Germano Belgrano] aveva assalito una pattuglia tedesca uccidendo un soldato; che, ancora il giorno 20, il Distaccamento "Giovanni Garbagnati" aveva ferito 2 tedeschi facendo scoppiare delle mine.

14 febbraio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 116, al comando della I^ Brigata - Convocazione del comandante "Mancen" [Massimo Gismondi] e del commissario "Federico" [Federico Sibilla] per concertare l'impiego di alcuni Distaccamenti.

14 febbraio 1945 - Dal comando della I^ Zona Operativa Liguria al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Informava che presto avrebbe potuto avere luogo un lancio di materiale nella zona indicata da quel comando di Divisione, ma aggiungeva che occorrevano dati più precisi sulla natura del terreno, sulla distanza dai presidi militari più vicini e dalle abitazioni. Concludeva invitando a comunicare la lista del materiale ricevuto, per il quale aggiungeva la raccomandazione di un trasferimento in luogo sicuro.

15 febbraio 1945 - Dal comando della I^ brigata al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Riferiva dell'attacco subito il 9 gennaio 1945 dal Distaccamento "Giovanni Garbagnati" a Casanova Lerrone (SV) ad opera di reparti della Divisione repubblichina "Monterosa" e di quello del 27 gennaio, effettuato da reparti sia della "Monterosa" che della "Muti", che aveva causato la morte dei partigiani Mario Longhi (Brescia) e Silvio Paloni (Romano).

15 febbraio 1945 - Dal comando del Distaccamento "Silvio Torcello" della III^ Brigata Garibaldi "Libero Briganti" della I^ Divisione "Gin Bevilacqua" [II^ Zona Operativa Liguria] al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che 6 ex appartenenti alla Brigata scrivente, fuggiti a dicembre dopo il rastrellamento nemico, razziavano, continuando ad autodefinirsi garibaldini, civili, per cui, siccome "da ottime segnalazioni" risultava che i 6 si aggirassero nella zona della Bonfante, si chiedeva di arrestare quei sei, "Maciste", "Salvatore", "Cancarin", "Morello", "Brindisi", "Pianta", e di trasferirli nelle mani della Briganti.

15 febbraio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", Sezione SIM, a "Citrato" [Angelo Ghiron] - Comunicava che era stato nominato vice responsabile del servizio SIM e che in tale veste avrebbe dovuto "carpire notizie" sulle truppe tedesche dei vari presidii ed in transito sulla Via Aurelia, con particolari indagini sul semaforo di Capo Mele e sui posti di ascolto di Albenga (SV), Alassio Capo Mele e Capo Berta, nonché scoprire se il fiume Centa [ad Albenga] era nel suo ultimo tratto minato.

15 febbraio 1945 - Dal comando della I^ brigata "Silvano Belgrano" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Avvertiva che la famiglia di "Elettrico" aveva comunicato che l'abitazione era stata perquisita dai fascisti, che avevano asportato anche delle fotografie del partigiano.

15 febbraio 1945 - Dal comando della I^ Zona Operativa Liguria al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Trasmetteva i ringraziamenti del "Capitano Roberta" [Robert Bentley, ufficiale alleato di collegamento] per la prontezza con cui il comando della Divisione aveva realizzato il collegamento con il colonnello Stevens ed il suo impegno a fare prendere in considerazione l'ipotesi di bombardare Ormea (CN), "in cui si trovano importanti obiettivi militari" e ribadiva la necessità di fare propaganda tra i soldati repubblichini per indurne il più alto numero possibile a passare con le armi nelle fila della resistenza.

da documenti IsrecIm in Rocco Fava, Op. cit., Tomo II


Il 18 febbraio giunse a tutti i distaccamenti il proclama del comando della Bonfante:
«Garibaldini, ormai insistente è la voce messa in giro dai nostri nemici, dai loro giornali, dalle loro radio, che i partigiani sono stati distrutti. Gongolano nelle loro caserme i traditori repubblicani. Abbiamo distrutto i partigiani e i nuovi partigiani, quelli che saranno stati i più furbi, saremo noi! Essi dicono. Così questi bastardi insultano i nostri morti, così questi rapinatori, che la nostra popolazione ha ben dolorosamente riconosciuti, credono di aver trovato la loro salvezza nel nostro sangue. Ma non è per loro che sono caduti i nostri compagni.
Tedeschi e fascisti sono riusciti a cacciarci dai paesi e ci siamo rifugiati nelle capanne, ci hanno incendiato le capanne, ma abbiamo dormito nella neve. Nulla potrà mai la loro ira bestiale contro la nostra fede. Sono i nostri caduti che ci indicano la via da seguire, sono i nostri fratelli che giacciono a centinaia nei crepacci gelati del Mongioie, ancora stretti l'uno all'altro per mano, quelli che riposano sotto la neve a piccoli gruppi e sparsi lontano a passo Saline.
Aspettare con calma, come belve in agguato, questo è il nostro compito ora. Rivelarci è fare il gioco tedesco. Troppo vale per loro aver la strada della ritirata libera, quella strada che hanno agognato per sei anni per non usare ogni mezzo per raggiungere i loro scopi. Invece dobbiamo aspettare silenziosi, non visti da nessuno, ignoti. E poi scatteremo con la violenza della nostra passione, con i nostri vent'anni, in giù verso il mare, combatteremo ovunque, nessuna tregua daremo ai fascisti, ai traditori, a tutti coloro che hanno tradito il popolo, che hanno scavato trincee contro di noi. E tutta questa sbirraglia, quando si sentirà ormai sola, senza l'appoggio tedesco, cadrà ai nostri piedi implorando quella pietà che loro hanno cancellato dalla nostra anima. Un pugno d'acciaio tratterà i vinti. Guai a loro!
Garibaldini! Questo è il momento del silenzio, dell'attesa! Ogni imprudenza può rovinare i nostri piani. Sparite dai paesi, marciate solo di notte. Eseguite gli ordini con la massima esattezza. Siete rimasti in pochi, i migliori. Unici tra le formazioni partigiane siamo riusciti con la nostra tattica ed una buona applicazione degli ordini a superare questo periodo tremendo con pochissime perdite che sarebbero state irrisorie se gli ordini fossero stati eseguiti a   tempo, anche là dove ciò non è avvenuto.
In alto gli sguardi, la nostra ora non può tardare. Morte all'invasore tedesco! Morte ai traditori!
P.S.: Distruggete il presente appena data lettura nei distaccamenti.
Il COMANDANTE
Giorgio [Giorgio Olivero
Dal proclama [n.d.r.: documento (Isrecim in Rocco Fava, Op. cit.) in data 17 febbraio 1945, Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 124, a tutte le formazioni dipendenti] di Giorgio possiamo vedere quale era lo stato d'animo del Comando e di parte della Bonfante superato il rastrellamento, quali erano le direttive immediate, quale il giudizio che dava il Comando sul rastrellamento.
Malgrado le recenti prove subite si vede che il dramma dei badogliani di Fontane era sempre assai vivo nel nostro cuore che non dimenticava il sacrificio di tanti fratelli di lotta.
Le direttive della  tattica invernale semicospirativa venivano ribadite e rafforzate nella loro necessità dalla recente esperienza.
Più importante è l'ultima parte del proclama: le nostre perdite erano state esigue ed avrebbero potuto essere minori: merito degli ordini dati e colpa degli errori fatti.
Più di due terzi delle perdite ci furono inflitte infatti nel primo giorno. Ciò è imputabile al mancato funzionamento delle sentinelle di Degna, alla inerzia delle staffette del recapito e di ciò non è responsabile il Comando divisionale. E' imputabile al mancato pattugliamento della cresta che era stato ordinato alla III Brigata e di ciò è responsabile Fra' Diavolo [Giuseppe Garibaldi] che disse a sua discolpa che aveva gli uomini senza scarpe idonee. In realtà vedemmo come il 19 gennaio fossimo alla ricerca affannosa di una partita di scarpe.
La sorpresa è imputabile al tradimento di Carletto [Amleto De Giorgi, un ex partigiano passato alle dipendenze della Feldgendarmerie di Albenga] che condusse le colonne nemiche alle spalle dei nostri, che segnalò l'intendenza di Ubaghetta, ciò il comando avrebbe potuto impedire sopprimendo Carletto senza indugio la sera del processo. E' però da tener presente che, anche in tale ipotesi, parte delle informazioni Carletto le aveva già date. Sarebbe stato bene cambiare posizioni alle intendenze: ed alle squadre e ciò non venne fatto. Se i partigiani avessero  adottato già in precedenza le misure precauzionali prese in seguito, avessero dormito nei rifugi o all'aperto, la sorpresa sarebbe mancata. La data precisa del rastrellamento era stata comunicata alle bande, bisogna però riconoscere che  erano mesi che la minaccia si rinnovava periodicamente.
Un buon servizio di guardia avrebbe potuto salvare le squadre? Forse, ma sarebbe stato necessario che le sentinelle fossero numerose e controllassero tutte le vie di accesso e poste in modo tale da avvistare il nemico a sufficiente  distanza, in modo da dare il tempo ai compagni di prepararsi a resistere o ad occultarsi. Ciò non era mai stato nelle abitudini partigiane ed era ancor più difficile ora con le squadre ad effettivi ridotti.
«Se pensassimo che ogni notte rischiamo la vita e che il nemico può ucciderci nel sonno non chiuderemmo occhio», mi disse un partigiano in quei giorni. L'abitudine al pericolo era un bene, perché altrimenti la nostra vita sarebbe diventata insostenibile; era però un danno perché ci portava a trascurare precauzioni essenziali. Era necessario arrivare ad un compromesso che fu raggiunto da qualche banda e solo in parte, tra queste fu il Garbagnati.
Se le squadre di Bosco e di Degolla avessero avuto la combattività del Garbagnati o del Catter avrebbero potuto sganciarsi? Forse a Degolla Franco con i suoi tentò un'estrema difesa. Il fatto però che due terzi degli effettivi venissero fucilati a Pieve di Teco fa supporre che dopo la morte di Franco la lotta disperata venisse abbandonata.
L'esempio della banda di Stalin [Franco Bianchi, comandante del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" della I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano"] ci fa pensare che una decisione estrema avrebbe permesso uno sfondamento, sicuramente avrebbe inflitto al nemico perdite gravi.
Bisogna però riconoscere che quei di Bosco e Degolla non disponevano del volume di fuoco del Garbagnati e vennero colti completamente di sorpresa, perché nessuno di loro sospettava un attacco alle spalle, ciò non accadde più alle altre bande.
Avrebbe potuto il nemico infliggerci perdite maggiori, annientarci?
Commise errori gravi e fatali alla buona riuscita dell'operazione?
Non credo. Se avesse prolungato il rastrellamento nel tempo, se avesse intensificato le puntate, adottato la tattica della controbanda certo la nostra situazione si sarebbe aggravata, ma tenendo conto che la sorpresa del primo giorno non poteva ormai più ripetersi, che la probabilità di incontrare i partigiani in transito sulle mulattiere era minima, credo di poter concludere che le nostre perdite non sarebbero state molto maggiori.
Avrebbe potuto crollare il nostro morale? Portarci allo sbandamento definitivo, alla resa? Non era la minaccia di un rastrellamento, sempre limitata nel tempo,    che avrebbe potuto piegarci.    
Ricordo una minaccia ben più grave che mi aveva fatto meditare in quei mesi. Ero a Pairola per Natale, quando era giunta la notizia della controffensiva tedesca sul fronte belga. Le notizie come al solito erano state ingrandite, si diceva cbe i tedeschi avessero sfondato e puntassero sul mare e su Parigi, che avanzassero anche sul nostro fronte ed avessero ripreso Nizza, che avessero impiegato nuove armi misteriose e decisive.
«Che farai figlio? - mi chiese mia madre portandomi queste belle notizie - se i tedeschi vinceranno ci sarà sicuro qualche amnistia e tu potrai tornare a casa». Sentii un brivido interno. In tanti mesi non avevo mai considerato l'ipotesi di una vittoria tedesca.
«Vedremo - risposi - non è ancora detto che vincano. Una sola cosa posso dirti fin d'ora, se dovessero vincere a casa non ci torno mai più. Cercheremo di sconfinare in Francia, piomberemo su Oneglia e ci impadroniremo di qualche nave per andare in Corsica, ma la resa mia e dei miei compagni non l'avranno mai». Sentivo che se non proprio tutti, la maggioranza l'avrebbe pensata come me.
Il nostro morale malgrado tutto era ancora abbastanza saldo per non considerare la possibilità di una resa. Certo, senza il bando emesso nelle vallate, molti partigiani sarebbero tornati alla vita civile, si sarebbero confusi con i giovani che lavoravano nei paesi, ma finito il pericolo, forse dopo soli pochi giorni, sarebbero riaccorsi nelle bande. Il nemico ci aveva tolto anche questa possibilità contribuendo a mantenerci uniti, armati e vigilanti.
Il nemico fu sorpreso di non scontrarsi con uno schieramento difensivo, di non subire un contrattacco organizzato: i Cacciatori degli Appennini erano un corpo specializzato in rastrellamenti: era la prima volta, dicevano, che i  partigiani non reagivano. Un nostro contrattacco fu temuto a lungo, ciò impedì al nemico di aumentare il numero dei presidi a scapito della loro forza numerica, di operare in colonne più numerose, ma meno forti, di disperdere sentinelle e pattuglie a tutti gli incroci, sui passi, nei passaggi obbligati, occultandole e tendendoci agguati.
Il nemico comprese che i colpi che ci aveva inflitto avevano eliminato due o al massimo tre squadre e che tutte le altre nostre bande erano intatte ed inafferrabili. Non comprese la nostra tragica debolezza, la mancanza di capi, di armi e di collegamenti.
Certo che se avessimo usato di tutte le nostre forze, se tutte le bande, le squadre ed i partigiani isolati avessero sempre agito con freddezza e coraggio come i quattro di Cappella Soprana ed avessimo attaccato il nemico ad ogni occasione, avremmmo potuto infliggergli duri colpi se avesse commesso l'imprudenza di lasciare nuclei esigui ed isolati. Ciò lo indusse alla prudenza e contribuì alla nostra salvezza.
Il nemico volle attaccarci contemporaneamente alla Cascione per impedire uno spostamento, un appoggio reciproco che in pratica non sarebbero stati possibili, ciò ridusse gli effettivi impiegati.
Questo il giudizio che è possibile dare del rastrellamento di gennaio, atteso da molti mesi come il colpo di grazia della Bonfante.   
In conclusione le nostre possibilità di resistenza avevano superato le previsioni.
Terminato il rastrellamento, il Comando cercò di prendere in mano la Divisione. Giorgio e Boris [Gustavo Berio, vice-commissario della Divisione] tornarono dal territorio della Cascione confermati nei loro incarichi. In base a quali elementi il Comando Zona abbia operato la sua scelta  non saprei dire. E' probabile che abbia tenuto conto che le difficoltà erano sorte in massima parte proprio per la decisione di Giorgio di rendere operanti le circolari e le disposizioni del Comando Zona, sostituirlo avrebbe minato per sempre l'autorità dei comandi superiori. Giorgio, Boris e Pantera [Luigi Massabò, vice-comandante della Divisione] si unirono al S.I.M. nella sede di Poggiobottaro o Poggio Bottaro, nel comune di Testico (SV)], che d'ora in avanti sarà la nuova base clandestina del Comando della Bonfante. Osvaldo [Osvaldo Contestabile], ancora malato, venne ricoverato  a Meneso presso privati e sostituito da Mario [Carlo De Lucis, commissario]  [...]
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980,  pp. 163-167

Negli ultimi giorni di gennaio [1945] in una meravigliosa giornata di sole (con noi c'era anche Rustida [Costante Brando] che coi suoi ci aveva nel frattempo raggiunto) andavamo verso Nasino [(SV)] senza nessuna meta particolare, quando vediamo venire verso di noi un uomo. Lello [Raffaele Nante, in seguito vice comandante della IV^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Domenico Arnera" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] con il suo solito umorismo dice: «Sento odore di C.L.N. Questo qua è uno di loro».Quando lo incrociamo si ferma e domanda di Fra Diavolo [Giuseppe Garibaldi, già a capo nell'autunno 1943 di un piccolo gruppo partigiano in Cipressa (IM), poi comandante della IV^ Brigata]. A mia volta gli chiedo cosa vuole.  Replica che può dirlo solo all'interessato.Uno dei ragazzi allora gli chiese se era del C.L.N. di Albenga [(SV)] e lui rispose di no, che era un rappresentante del C.L.N. di Ormea [(CN)]. Tutti scoppiammo in una grossa risata, che disorientò alquanto il nostro amico.Allora mi presentai e gli spiegai il motivo di tanta ilarità. Ci aveva portato alcuni pacchetti di sigarette e ce li offrì. Mi appartai con lui, che era latore di una lettera del Comandante della I^ Zona Liguria, una lettera di Curto [Nino Siccardi]. Prima di aprirla gli chiesi se ne conosceva il contenuto. «Parzialmente sì» mi rispose. Gli dissi che quello che non conosceva non mi interessava, perché certamente sarebbero state parole poco lusinghiere per me. Aggiunse che era certo che mi sbagliavo e iniziò a spiegarmi il perché della sua visita.Il Comitato Liberazione Nazionale di Garessio [(CN)] e quello di Ormea [(CN)] avevano deliberato di dar vita ad una formazione Garibaldina Ligure-Piemontese che operasse nell'alta Val Tanaro e nell'alta Val d'Arroscia, nella quale far confluire tutti i giovani desiderosi di combattere contro i tedeschi e i fascisti, ma che per vari motivi non intendevano farlo nelle formazioni Autonome (che noi allora chiamavamo Badogliani, come loro ci chiama­vano Stelle Rosse). Tradotto in pratica, tutto questo poteva voler dire che gli Autonomi non davano grande importanza al C.L.N. e che, per questo motivo, molto probabilmente, lo stesso aveva deciso di creare o di favorire la formazione di una Brigata garibaldina. E proprio a me, che ero il «rompiballe» della I^ Zona Liguria, affidava la gatta da pelare. Giuseppe Garibaldi (Fra' Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, p. 166

martedì 18 agosto 2020

L'eccidio di Testico del 15 aprile 1945

Testico (SV) - Fonte: Wikipedia
 
Con l'aiuto di spie i tedeschi, venuti a conoscenza del rientro da San Gregorio a Poggio Bottaro (in valle Andora) [comune di Testico (SV)] del Comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", il mattino del 15 aprile 1945 tentano di sorprenderlo e catturarlo al completo. Nella notte tra il 14 e il 15 aprile il commissario divisionale Carlo De Lucis (Mario) insieme ad alcuni compagni va a dormire nel rifugio sotterraneo del Comando Divisione, uno dei numerosi scavati nella terra durante l'inverno in base alle istruzioni emanate con la circolare n. 23 del 24 novembre 1944 emessa dal comandante delle Zone 1^ e 2^ Liguria, Carlo Farini (Simon). Gli altri componenti del Comando, invece, confidando nella sorveglianza delle sentinelle dei Distaccamenti dislocati nei dintorni del passo di San Damiano, decidono di dormire nel casone della sede amministrativa del Comando stesso. Solo per fortuito caso ciò non risulta loro fatale.
Francesco Biga  (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. IV. Da Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Grafiche Amadeo, 2005

15 aprile 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al comando della VI^ Divisione - Avvisava che in quella mattinata si erano sentite, provenienti da Testico (SV), alcune raffiche di mitra; che il comandante ["Mancen", Massimo Gismondi] era subito partito con una squadra del Distaccamento "Angiolino Viani" per "portare aiuto in caso di necessità"; che i garibaldini si erano disposti nel seguente modo: una squadra del Distaccamento "Angiolino Viani" sotto il cimitero di San Gregorio per fermare i tedeschi in caso di fuga, il Distaccamento "Franco Piacentini" a difesa del Passo del Merlo e del Passo dei Pali, il Distaccamento "Francesco Agnese" rimaneva a San Damiano; che l'azione dei tedeschi era durata 2 ore.
senza data - Testimonianza sull'eccidio di Ginestro, frazione di Testico (SV) - Relazionava che "i tedeschi, a seguito di una delazione, tentarono di sorprendere nella notte tra il 14 ed il 15 aprile 1945 il comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante". Il commissario 'Mario' [Carlo De Lucis] diede ordine di dormire nel rifugio sotterraneo del comando. Al mattino del 15 i tedeschi da Cesio attaccarono Testico e Poggio Bottaro [Frazione del comune di Testico (SV)], ma il comando della VI^ Divisione riuscì a fuggire nei boschi. I tedeschi per rappresaglia catturarono 10 civili a Ginestro ed altri a Poggio Bottaro. Il medico austriaco Jakob Unkelbach (Antonio), che era entrato nelle fila partigiane il 18-02-45, ritornando al nemico l'11-04-45, guidò i tedeschi presso le case dei contadini che avevano aiutato i partigiani. I nazisti, avendo fretta, presero gli ostaggi a caso. Intervenne 'Mancen' [Massimo Gismondi, comandante della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione] in aiuto del comando della VI^ Divisione. I tedeschi si fecero scudo con i 30 ostaggi. I tedeschi dissero ai prigionieri di andare via, ma poi li uccisero con scariche di mitra alle spalle". 
da documenti Isrecim  in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998 - 1999

15 aprile
Un reparto di 200 SS tedesche opera un vasto rastrellamento nella zona di Testico-Ginestro-Poggio Bottaro. Fallito il loro obiettivo di aggiarare e annientare il Comando della Divisione Bonfante, i nazisti catturano 37 civili i quali saranno successivamente trucidati...
Augusto Miroglio, La Liberazione in Liguria, Forni, Bologna, 1970 
 
[...] Poco prima della Liberazione, il 15 aprile 1945, l’eccidio in assoluto più cruento, a Testico, nel quale perdono la vita 27 persone. All'alba di domenica due colonne tedesche giungono a Ginestro, frazione di Testico (SV), per dare inizio a un rastrellamento: i militari catturano una ventina di civili, uomini e donne sorpresi nelle loro case, e li legano con corde. Poi, proseguendo la marcia, uccidono senza apparente ragione un contadino al lavoro. Alle 8.00, arrivati nei pressi della chiesa, irrompono nell'edificio, catturano altre persone e pongono tutti gli ostaggi lungo un muro sotto la sorveglianza di un soldato. Il resto della truppa, in parte, prosegue con il rastrellamento che porterà alla cattura di altri ostaggi; in parte si dirige verso Poggio Bottaro. Intorno alle 9.00 un gruppo di partigiani, dalla vicina frazione di Santa Maria di Stellanello, spara sui tedeschi permettendo a 3 degli ostaggi di fuggire. In risposta, i tedeschi tornano verso la chiesa, si appostano presso l’osteria del paese e catturano altri 3 contadini di Torria. Infine, la colonna riparte con i prigionieri al seguito. Durante la marcia, si arresta presso la frazione Zerbini per catturare altri ostaggi. L’ultima tappa è Costa Binella ove avviene la selezione dei progionieri. Vengono rilasciati 3 giovani di Ginestro, 4 donne e 4 ragazze. Queste ultime verranno poi condotte al carcere di Imperia, sottoposte a interrogatori e paestaggi e rilasciate almeno una dozzina di giorni dopo. Restano in mano ai tedeschi 27 persone: 25 uomini e 2 donne che vengono separate dagli altri prigionieri, seviziate e uccise a colpi di baionetta. I 25 uomini, legati 2 a 2 col fil di ferro, sono falciati a colpi di mitragliatrice. Dopo il massacro, i corpi risultano irriconoscibili [...] 
Andrea Chiovelli, Quando i tedeschi massacravano i savonesi: ecco le 49 stragi che insanguinarono la provincia, IVG.it, 11 aprile 2016

Funesta ironia della sorte volle che il massacro dei prigionieri... fosse favorito da un tale Jacob Unkelbach, un austriaco finto disertore, accolto [dai partigiani] sotto il nome di Antonio e accudito per diversi mesi proprio dalla popolazione di Testico, Poggio Bottaro, Ginestro e dintorni. In realtà, secondo la testimonianza dell'ex sapista Bernardo Augeri (Pio), in banda con Franco Bianchi (Stalin), l'austriaco era stato catturato e interrogato da Ramon [Raimondo Rosso, capo di Stato Maggiore della VI^ Divisione]. L'esito dell'interrogatorio non aveva del tutto convinto il comandante svizzero [Rosso era in effetti nato il 13/03/1913 a Naters nella Confederazione Elvetica e più propriamente di nome faceva Raymond], che parlava correntemente il tedesco. Purtroppo, per una somma di circostanze più o meno casuali all'austriaco era stata risparmiata la vita soprattutto per via della solerzia e della perizia dimostrate nella medicazione di alcuni partigiani feriti, comportamento, forse calcolato, che aveva destato simpatia e comprensione un po' in tutto l'ambiente della banda.  
Francesco Biga e Ferruccio Iebole (a cura di Vittorio Detassis), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), vol. V, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2016

... il tradimento dell'ex-garibaldino austriaco Jakob Unkelbach * che fu tra le cause dell'eccidio di Testico-Poggio Bottaro del 15 aprile 1945...  
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I
* 18 febbraio 1945 - Dal comando del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che era stato inquadrato nel Distaccamento come infermiere il sergente sanitario dell'esercito tedesco Jakob Wonkelbach  (Antonio), che aveva disertato e che era stato accolto tra i partigiani in base alle notizie rassicuranti fornite dalla popolazione di Villa Faraldi (IM).
da documento Isrecim  in Rocco Fava, Op. cit. - Tomo II   

Anche nelle formazioni della provincia di Imperia, alle dipendenze del comando operativo I zona-Liguria, è segnalata la presenza di partigiani stranieri, tra cui anche disertori tedeschi e austriaci, nella brigate sottoposte alla 2ª divisione garibaldina “Felice Cascione” e alla 6ª, “Silvio Bonfante” (468).
Francesco Corniani, "Sarete accolti con il massimo rispetto": disertori dell'esercito tedesco in Italia (1943-1945), Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2016-2017
(468) Francesco Biga, Storia della Resistenza imperiese (I zona Liguria), edizioni Isrecim, Farigliano, 1978, vol. III, pp. 495-507. A pp. 506-507 l'autore scrive anche che a seguito dell'eccidio di Testico causato sembra dalla delazione di un disertore tedesco che si era aggregato al distaccamento partigiano G. Garbagnati, il comando I^ Zona Liguria aveva dato ordine a tutte le brigate di fucilare i soldati tedeschi presenti nelle formazioni che fossero in qualche modo sospetti.

Altra tragica ironia della sorte, Luigi Pantera Massabò, vicecomandante della Divisione "Silvio Bonfante" - autore di Cronistoria militare della VI^ Divisione “Silvio Bonfante” (diario inedito nel 1999, conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, studiato anche da Rocco Fava per Op. cit.)- aveva disposto misure preventive, quali "Per le 4 <del 15 aprile 1945> il Distaccamento "Garbagnati" si trovi a Testico in posizione favorevole con la mitragliatrice pesante e controlli il movimento a Cesio e Casanova... Al fine di non causare disgrazie, ogni movimento fatto di propria iniziativa e contrario agli ordini impartiti, sarà punito severamente, ritenendone direttamente responsabile il comandante di Distaccamento che l’eseguirà..." 
Adriano Maini

18 aprile 1945 - Dall'ispettorato [ispettore "Giulio", anche "Mario", Carlo Paoletti] del Comando Operativo della I^ Zona Liguria alla Delegazione Regionale Ligure delle Brigate d'Assalto Garibaldi - Comunicava che... l'ultimo atto barbarico compiuto dai tedeschi era avvenuto a Ginestro-Testico-Poggio Bottaro con l'uccisione di 37 civili prelevati nelle case e in chiesa...
da documento Isrecim  in Rocco Fava, Op. cit. - Tomo II 
 
Il giorno della strage, avvenuta il 15 aprile del 1945, si annuncia come una domenica particolarmente tranquilla. Nei giorni precedenti non si è infatti dato alcun episodio allarmante, né la presenza di tedeschi o fascisti ha inquietato i paesani: segni, questi, di un lento ma inesorabile processo di esaurimento delle forze degli occupanti e del regime repubblicano.
Tuttavia, fin dalle sei del mattino, due colonne di soldati tedeschi muovono da Cesio e Vellego, località che distano rispettivamente poco più di 4 e di 7 km da Ginestro, la frazione di Testico presso cui, alle sette, si arrestano per dare inizio a un rastrellamento.
Catturano circa una ventina fra uomini e donne, i più sorpresi nel sonno, legandoli con corde.
Poi proseguono la marcia. Un giovane contadino (Costante Vairo) intravede la colonna e corre verso la
chiesa per avvertire del pericolo i compaesani riuniti per la messa. La sua azione risulta però inefficace.
Alle otto i tedeschi, dopo aver ucciso senza apparente motivo un anziano contadino che sta innestando un castagno, circondano la chiesa e alcuni vi fanno irruzione catturando diversi fedeli. Il parroco, don Mantello, seguito da qualche chierichetto, si mette in salvo salendo sul campanile e dando ordine al sacrestano, non appena i tedeschi si sono allontanati, di chiudere a chiave la porta della chiesa. Gli ostaggi sono allineati lungo il muro che circonda la piazza e posti sotto la sorveglianza di un soldato armato di mitra, mentre il resto della colonna in parte prosegue nell’azione di rastrellamento presso le abitazioni vicine, in parte si dirige verso Poggio Bottaro. Poco prima delle nove un gruppo di partigiani spara alcuni colpi di fucile dalla frazione di Santa Maria di Stellanello dov’è stanziato, permettendo a tre ostaggi (fra cui il Vairo) di fuggire. I tedeschi ritornano verso la chiesa e, secondo una testimonianza, per rispondere ai colpi dei partigiani improvvisano una postazione dall’osteria del paese. Quando la sparatoria ha termine, catturano tre contadini di Torria e tornano a vigilare sugli ostaggi. Ma uno di loro entra nuovamente nel locale per farsi dare del cibo. L’oste glielo porge e poi fugge via spaventato. Il tedesco non reagisce e lo lascia scappare. Analoga sorte tocca a Giobatta Vairo.
Costui, nascostosi nella cantina, uscendo si trova di fronte al soldato tedesco e teme per la sua vita.
Questi però si limita a indicargli un sentiero e a incitarlo a correre via il più velocemente possibile. Pronuncia quindi un’espressione-chiave, specie alla luce di quanto sta per accadere: “Stasera, kaputt!” La colonna, diretta verso Ginestro (o forse Cesio), si arresta nella frazione Zerbini per imprigionare altre persone.
Si accende un’improvvisa discussione fra i tedeschi, che i testimoni presumono riguardi la sorte da riservare agli ostaggi. L’ultima tappa è Costa Binella, raggiunta tramite una mulattiera. Qui la colonna si ferma e avviene la selezione dei prigionieri. In un primo momento vengono liberati tre giovani di Ginestro, che si allontanano rapidamente; poi è la volta di quattro donne e, infine, di quattro ragazze, in
seguito condotte al carcere di Imperia e sottoposte a interrogatori e pestaggi per essere da ultimo liberate dopo una dozzina di giorni. Restano 26 persone: 24 uomini e 2 donne, che sono legati a due a due, schiena contro schiena, con del fil di ferro. Le donne, appartate sul lato sinistro della mulattiera, subiscono violenze e sevizie e vengono poi uccise con le baionette.
Gli uomini, posizionati sul lato destro, sono trucidati a colpi di mitraglia. Dopo il massacro, i corpi degli ostaggi sono così sfigurati da risultare irriconoscibili.
Nel pomeriggio della domenica e il lunedì seguente, quando i compaesani raggiungono Costa Binella, per identificare le vittime dovranno fare appello a particolari legati al loro abbigliamento. Armando Zerbone e Leonardo Arduino ricorderanno infatti di aver riconosciuto i loro padri “solo dalle scarpe”. Lunedì 16 aprile i corpi delle vittime sono caricati su carri trainati da buoi e, su suggerimento di don Mantello, portati nell’oratorio, dove vengono adagiati sulla paglia e coperti per essere poi, in parte, seppelliti in una fossa comune, in parte, posizionati entro bare improvvisate e condotti così presso le famiglie d’origine.
La strage di Testico, ricostruita tramite la memoria dei sopravvissuti, lascia a tuttora parecchi punti oscuri: fra questi, il principale è senz’altro il fine per il quale avvenne. Viene allora da chiedersi chi fosse realmente Jacob Unkelbach e se e quali informazioni su di lui siano state raccolte. Certo, la strage di Testico per anni è stata circondata da uno strano silenzio. Ma, poiché questo punto merita particolare attenzione, per chiarirlo è opportuno ricorrere alla memoria scritta, ossia alla ricostruzione che è possibile effettuare tramite il ricco materiale documentario sulle azioni dei partigiani della I zona Liguria conservato presso l’IsrecIm.
Dagli archivi sulla Resistenza risulta che nei giorni immediatamente precedenti la strage 15, e in particolare sabato 14, nell’area compresa fra Pogli, Garlenda e Albenga i Distaccamenti della zona mettono in atto numerosi attacchi alle postazioni nazifasciste causando fughe, danni ai materiali e alcuni morti. In risposta, gli occupanti effettuano rastrellamenti lungo la statale tra Imperia e Garessio per impedire che i partigiani creino difficoltà ai reparti che, prevedendo la ritirata strategica, si stanno muovendo verso nord. Luigi Massabò, detto “Pantera”, vicecomandante della Divisione d’assalto Garibaldi intitolata a “Silvio Bonfante”, nel diario militare riporta che: “Dato l’arrivo improvviso di truppe nazifasciste al ponte del Molino Nuovo di Andora, si prevede un attacco domattina all’alba, per cui i Distaccamenti devono così disporsi”. Seguono puntuali indicazioni e, nello specifico, che: “Per le 4 il Distaccamento ‘G. Garbagnati’ si trovi a Testico in posizione favorevole con la mitragliatrice pesante e controlli il movimento a Cesio e Casanova”. Conclude il comunicato sottolineando che: “Al fine di non causare disgrazie, ogni movimento fatto di propria iniziativa e contrario agli ordini impartiti, sarà punito severamente, ritenendone direttamente responsabile il comandante di Distaccamento che l’eseguirà”.
Così, come previsto, all’alba del 15 aprile duecento SS tedesche danno inizio a un impegnativo rastrellamento fra Testico, Ginestro e Poggio Bottaro. Tramite l’ausilio di spie, gli occupanti hanno infatti notizia che il Comando della Divisione “Bonfante” è rientrato da San Gregorio a Poggio Bottaro; per questo, muovendosi da Cesio prima dell’alba, puntano sui partigiani con ampio dispiego di mezzi per sorprenderli e catturarli. Ma il Comando della “Bonfante”, pur con difficoltà, si sottrae all’accerchiamento e si pone in salvo fra gli ulivi. I tedeschi allora ripiegano su Ginestro e poi Testico trattendo diversi ostaggi.
Il Distaccamento “Garbagnati” e Massimo Gismondi, detto “Mancen”, comandante della I Brigata “Silvano Belgrano”, in posizione logistica vantaggiosa, attaccano i tedeschi che, non riuscendo a rispondere ai colpi dei partigiani e non avendone catturato alcuno, si accaniscono allora contro i civili. Ne imprigionano almeno 10 a Ginestro, altri a Testico, sulla piazza della chiesa, altri ancora a Poggio Bottaro.
Il rastrellamento prosegue, casa per casa, soprattutto grazie all’intervento di un medico tedesco, Jacob Unkelbach, soprannominato “Antonio”. Costui si era rifugiato presso il Distaccamento “Garbagnati” dichiarando di aver disertato dalla Wehrmacht dove lavorava in qualità di sergente sanitario. Nella relazione del 18 febbraio del ’45 sull’incorporazione di Unkelbach al Distaccamento, il comandante Franco Bianchi (“Stalin”) riporta che Jacob aveva disertato “per non servire un padrone che lotta per una causa ingiusta” e che su di lui le informazioni fornite dagli abitanti di Tovo e di Villa Faraldi erano buone. I tedeschi in realtà cercano “Mancen” che, per mantenere la promessa fatta al comandante della “Bonfante” d’intervenire in caso di attacco nemico, entra in Testico con i compagni. I tedeschi riescono però a sfuggire proteggendosi la ritirata grazie agli ostaggi che fungono loro da scudo. Così “Mancen” e i suoi, per non colpire i civili, sospendono il fuoco. Allora i tedeschi, che hanno raggiunto il loro scopo, una volta arrivati al valico di Ginestro, non traendo più vantaggio dai prigionieri catturati, se ne liberano massacrandoli.
Dalle relazioni dei partigiani risulta che le vittime siano una quarantina e non 26 come viene riportato sulla lapide del passo del Ginestro, né 27 come si evince dall’elenco dei caduti. Confrontando i nomi delle vittime riportati sulla lapide con i nomi citati da Francesco Biga, si dà corrispondenza nel caso delle vittime di Ginestro (in tutto 10), di Testico (11), di Alassio (1), di Torria/Chiusanico (3) e di Cesio (1).
Dall’elenco di Biga risultano altri 18 nominativi su cui occorerebbe raccogliere altre informazioni.
Secondo la testimonianza di “Stalin”, in seguito a questo spaventoso massacro, il Comando operativo della I Zona emanò l’ordine di fucilare, all’interno delle formazioni che ne avessero accolto anche uno soltanto nelle lora fila, tutti i tedeschi disertori come Jacob (“Antonio”). Ciò avvenne in quasi tutti i casi: si salvò soltanto un tedesco da molti mesi in montagna come gregario nella V Brigata “L. Nuvoloni” che aveva dato prova di sincera fedeltà.
Ci troviamo dunque di fronte a due ricostruzioni della strage: l’una, quella orale, è affidata alla testimonianza dei sopravvissuti; l’altra, scritta, riguarda le vicende narrate attraverso le relazioni dei partigiani.
Dal confronto, i fatti nella sostanza si confermano; ciò che cambia è piuttosto il punto di vista che configura le due memorie. In primo luogo i sopravvissuti, che non hanno conoscenza della strategia bellica dei partigiani e degli occupanti, ricordano i giorni che hanno preceduto la strage come “particolarmente tranquilli”, senza che attacchi di ribelli o repressioni nazifasciste si siano abbattuti sulla comunità.
Esaminando i documenti dei partigiani, invece, si prende atto che proprio in quei giorni l’attività di lotta è frenetica e che gli scontri fra le parti si intensificano a misura che il “vento della Liberazione” si fa più prossimo. Evidentemente, quasi al termine del conflitto, sono in gioco due prospettive opposte: i paesani interpretano la strage più alla luce dell’imminente liberazione, quindi con la “memoria del poi”, dei giorni successivi al 25 aprile e del ritorno alla normalità, che in relazione al loro presente storico.
I partigiani, al contrario, guardano esattamente al momento in cui l’evento accade. Il loro è lo sguardo di chi combatte attivamente ed è perciò preparato a ogni evenienza. Per questo il termine che ricorre più
spesso nello scarno lessico delle realzioni è “prevedere”. In questo senso, i giorni che precedono la strage si intrecciano strettamente alle imprese già compiute e a quelle ancora da venire, in rimandi che sembrano tutt’altro che casuali. Chi combatte la guerra rispetto a chi, come i civili, è costretto a subirla, trova la sua forza tanto nell’uso delle armi quanto nell’attenzione al presente, alle concatenazioni di fatti da cui esso proviene e verso cui, nella ratio militare, tende a dirigersi. Così, da un lato le formazioni partigiane (ma questo vale anche per i tedeschi) anticipano con precisione l’accadere; dall’altro i civili fanno i conti con l’imprevedibile, con la fatalità che la strage rende assoluta e inspiegabile. In secondo luogo, nel racconto dei sopravvissuti i partigiani, benché presenti in carne e ossa nell’azione scenica, appaiono tuttavia “lontani”, quasi sfuggenti. Si muovono sulle alture, compaiono fugacemente fra gli ulivi, si fanno sentire per via dei colpi di fucile sparati ma, di fatto, risultano quasi sempre altrove, come fossero “invisibili” e “disincarnati”, e le loro operazioni non sono discernibili. Al contrario i tedeschi, sia per l’estraneità delle loro figure (la divisa, i corpi slanciati, il portamento altero, i tratti somatici segnati dall’algida durezza) sia per la brutalità che si associa alle loro azioni e sia pure anche per certi incomprensibili gesti di pietà a cui può capitare che diano luogo, sono invece visibilissimi e carnali. C’è infine un punto in cui le due versioni si incontrano: penso alla figura di Jacob/Antonio. Il disertore che ha vissuto tanto fra i tedeschi, nelle vesti del sergente sanitario Unkelbach, quanto fra i partigiani, che lo ricordano come “u megu”, forse inviso ormai a entrambe le parti, costituisce tuttavia il trait d’union fra le due memorie.

Giosiana Carrara, Stragi nazifasciste di civili nella provincia di Savona in Savona in guerra. Militari e vittime della provincia di Savona caduti durante il secondo conflitto mondiale (1940-'43/1943-'45), ISREC Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Savona, 21 gennaio 2013 

Tornando sui loro passi i Tedeschi si fermano davanti alla chiesa di Ginestro. Qui, minacciano di fucilare tutti e probabilmente qui doveva avvenire l’esecuzione. Nasce però una discussione tra gli stessi soldati Tedeschi che degenera in una lite (non sappiamo esattamente tra chi) ma alla fine l’esecuzione viene rimandata. Questa discussione era probabilmente tra chi voleva liberarsi dei contadini e compiere subito il massacro e chi, non sentendosi ancora sicuro, voleva tenerli come scudo e garanzia contro eventuali attacchi. La colonna dunque, riprende il cammino verso Cesio, ma al poggio di Costa Binella i prigionieri vengono fermati e fatti sedere. Qualcosa succede e i Tedeschi prendono le loro decisioni. Tre giovani di Ginestro vengono liberati e fatti allontanare; con loro anche quattro donne e altre quattro ragazze vengono mandate al carcere di Imperia per essere interrogate. Gli altri vengono legati a due a due con il filo di ferro schiena contro schiena. Difficile comprendere il motivo di queste scelte, a meno che le indicazioni su chi interrogare, chi liberare e chi uccidere non venissero da quel “megu” che ormai ben conosceva uomini e cose di quel territorio. E così vengono uccisi tutti quelli rimasti a Costa Binella. Gli uomini con raffiche di mitra da distanza ravvicinata sul lato destro del sentiero (oggi poco distante dalla provinciale). Sul lato sinistro le donne vengono seviziate e poi uccise a colpi di baionetta. La strage è dunque compiuta e i Tedeschi tornano a Cesio mentre gli abitanti del paese rimangono alcune ore nell’incertezza e nella speranza finché qualcuno prende coraggio e decide di andare a cercare i compaesani. Fatta la terribile scoperta, arrivano altri dal paese. Molti dei fucilati sono talmente massacrati che i paesani hanno difficoltà a riconoscere i loro cari. E’ per alcuni una altalena di speranza e dolore. Arrivano poi i carri tirati da buoi e i corpi sono caricati e trasportati in paese. Qui vengono sistemati nell’oratorio, distesi su della paglia e sommariamente coperti. Una parte dei caduti verrà provvisoriamente interrata in una fossa comune. Sono state trucidate ventinove persone in tutto. Venticinque di Testico e delle sue frazioni, tre di Chiusanico, frazione di Torria, e una di Alassio, in un paese che conta poco più di trecento abitanti. Tutto ciò conferisce all’azione il chiaro carattere di una rappresaglia in tutto tristemente simile alle centinaia di massacri di civili compiuti dai nazifascisti negli ultimi mesi di guerra. Quasi ogni famiglia è colpita dal lutto: la follia di quelle poche ore ha distrutto e ha gettato nel dolore un intero paese per molti anni. La storia dell’eccidio è stata ricostruita facendo parlare alcuni testimoni diretti, altri che hanno partecipato all’evento e parenti e conoscenti delle vittime. Questa forma ha il pregio di essere diretta e di rendere la terribile esperienza umana di quelle persone. Per chiudere mi pare che la più chiara descrizione del senso tragico dell’evento sia riassunto nelle parole di Armando Zerbone: “Quando sono andato il giorno dopo sul posto ho potuto riconoscere mio padre solo dalle scarpe, lo avevano massacrato.”
Riccardo Aicardi, 15 aprile 1945: l'eccidio di Testico in “Storia e Memoria”, anno XVII, n. 2, 2008, Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea