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lunedì 25 settembre 2023

Hanno detto che i tedeschi hanno i cani da guerra

La Val Lerrone. Fonte: mapio.net

Verso sera [6 marzo 1945] al comando [della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] di Poggiobottaro si venne a sapere che a Cesio c'erano quattrocento tedeschi. La notizia meritava di essere considerata attentamente. Cesio era un piccolo paese sulla «28». Difficilmente si sarebbe prestato ad alloggiare tante persone oltre al normale presidio di Brigate Nere. Perché i tedeschi non avevano proseguito per Pieve? Una puntata nemica da Cesio sarebbe stata facile: dal paese partiva una carrozzabile per la Val Lerrone ed un'altra portava a Testico e di là, in cresta, fino ad Alassio. Più difficile era che il nemico conoscesse con esattezza la sede del comando, ma dopo tanto tempo di permanenza nello stesso posto, non si poteva escluderlo. Varie proposte consigliate dal buon senso vengono esaminate. Si potrebbe montare la guardia poiché tra noi e Cesio non c'è nessuna banda. Si potrebbe partire per una, meno minacciata, subito, o verso le tre di notte, dopo sorta la luna. Le varie soluzioni non vengono accettate, soffocate da una sorta di fatalismo, poi alla cosa viene dato un tono scherzoso, la minaccia viene volutamente accentuata per impressionare chi riteniamo più degli altri impressionabile.
«Hanno detto che hanno i cani da guerra, lo ha riferito un contadino che è arrivato ora da Cesio, è una cosa seccante». Guardo Vittorio, il padrone di casa che, in cambio dell'ospitalità, vuole essere considerato partigiano anche lui. Noi avevamo acconsentito volentieri perché in verità condivideva molti dei nostri rischi, però pensavamo, forse a torto, che in lui non vi fosse la stoffa del partigiano. Ho l'impressione che la notizia sia diretta a lui, vedo che si controlla bene, ma ha gli occhi lucenti, attenti. «E come li impiegano i cani da guerra? Non sentiranno mica i partigiani dall'odore?». Chiede con voce che sembra indifferente. «No, il cane non distingue il partigiano dal contadino» - spiega Livio - «i tedeschi quando giungono in paese di notte lanciano i cani lupo per le strade e chiunque esca di casa viene azzannato. I soldati intanto perquisiscono sicuri che nessuno possa scappare». «Anche ad Alba li hanno impiegati» - aggiungo io - «a Degolla li hanno lanciati contro i partigiani che sparavano distesi per terra: è un brutto affare, se stai in piedi i tedeschi ti vedono, se ti stendi i cani ti addentano alla gola». «Sapete la storia del Monco?». Racconta Giorgio. «In quel di Triora, prima dell'ultimo rastrellamento avevano detto che era un tedesco delle SS che aveva ammaestrato i cani da guerra. I cani sentivano l'odore dei partigiani e scoprivano i rifugi. Il Monco li seguiva e con un uncino, perché era mutilato di una mano, tirava fuori i partigiani dalle tane. Quando il rastrellamento comincia due partigiani, che sapevano la storia del Monco, si nascondono in un rifugio. Dopo qualche tempo sentono un cane ansare fuori dell'apertura. Che sia la bestia del Monco? Due mani escono dal rifugio, il cane è afferrato per la gola, strozzato, tirato dentro. Tre giorni sono vissuti i due nella tana con la bestia morta: era un povero cane da pastore perché il Monco non era mai esistito».
Era abitudine dei partigiani essere spietati con coloro cbe dimostravano qualche timore. Venivano spaventati al punto che non distinguevano più il vero dal falso. Ricordavo uno della Matteotti: Lupo; dopo averlo preparato a dovere con vari racconti di torture e fucilazioni avevamo finto un imminente attacco tedesco e lo avevamo mandato solo in esplorazione. Non era più tornato.
Pure quella sera i tedeschi di Cesio non erano una fantasia. Pensavo al rapporto che ci era pervenuto dopo Upega: «E' possibile dopo un anno di vita partigiana essere ancora sorpresi?». Era ancora possibile.
La notte passò tranquilla per quanto il mio sonno leggero venisse più volte interrotto dal canto di un gallo.
Il giorno 7 torno a Segua [Frazione di Casanova Lerrone (SV)] e l'8 vado al recapito staffette di Ginestro per vedere se hanno preparato i conti. Al recapito trovo un francese che giorni prima era passato da Segua. «Sei ancora qui?» gli chiedo. «Si è accorto che può mangiare e non far niente ed è ormai impossibile mandarlo via» mi dice una staffetta. Il francese era un giovane biondo, robusto, pareva più un tedesco che un latino, era un tipo singolare. Era passato da Segua con un telo da tenda sulle spalle. «Ho visto un contadino che batteva l'ulivo raccogliendo i frutti nel telo. Militare, gli ho detto io, ed ho preso il telo» - così aveva raccontato - «quello mi è corso dietro dicendo che lo aveva pagato, ma io sono stato buono e non gli ho dato niente».
«Poteva averlo pagato davvero» aveva detto Bertumelin indignato.
«E poi col mangiare e con l'alloggio che vi diamo mi sembra che possiamo averceli guadagnati dei teli e delle coperte militari che a voi non servono». «Potevo anch'io pagarlo con questa» aveva replicato il francese mostrando la rivoltella; «ma non l'ho fatto perché ero di buon umore».
«Come è che sei in Italia?», gli chiesi.« Affondato nel '40 con la mia nave presso Piombino. Fino al '43 prigioniero, adesso libero».
«Sarai contento di tornare a casa fra qualche mese a guerra finita?».
«Fra qualche mese? Troppo presto... Dovrò lavorare di nuovo, è più bello fare la guerra». «E gli altri cinque che vi ho mandato giorni fa?» chiesi alla staffetta.
«Li ho portati alla Cascione, avevano fretta di tornare in Francia. Appena fusa la neve cercheranno di passare».
Anche quelli li avevo visti a Segua: erano aviatori abbattuti: «Se i tedeschi ci prendono dico che sono canadese», aveva detto uno di loro. «Un mio compagno è stato tagliato con la sega circolare perché era francese».
La pattuglia dei ciclisti tedeschi continuò a percorrere la Val Lerrone sempre più spesso. Passò il 6, l'8, il 13. Il giorno 8 giunsero anche cani con tedeschi che requisivano fieno. La ricostruzione del ponte di Garlenda proseguiva lentamente, l'inattività partigiana cominciava a pesare, i borghesi, che all'inizio erano atterriti, temendo che tendessimo qualche imboscata alla pattuglia, cominciavano ora a parlare di accordi segreti, di compromessi fra noi ed i tedeschi. Una squadra della banda di Rostida, decisa a por fine a questo stato di inferiorità, si appostò a Case Soprane in attesa della pattuglia. I borghesi ripiombarono nel terrore e prima avvertirono i nostri dell'arrivo dei tedeschi, poi, visto che i partigiani non scappavano, andarono ad avvertire i tedeschi facendo fallire l'imboscata. Il Comando divisionale fece rientrare alla base la squadra che per rappresaglia stava requisendo galline e conigli.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980,  pp. 163-167, pp. 196-199

7 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 183, alla banda locale di Ginestro - Disponeva la presenza di una pattuglia sul Passo di Cesio per il giorno successivo dalle ore 23 alle ore 9 e la segnalazione di allarme al Distaccamento garibaldino più vicino una volta avvistati i nemici che lungo la strada di Testico, non transitabile da automezzi, sarebbero necessariamente saliti a piedi.
8 marzo 1945 - Dal comando del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che il 1 marzo il Distaccamento con l'ausilio di civili aveva effettuato il diroccamento del ponte di Degna e che il giorno 5 aveva fatto brillare con 3 mine il ponte di Garlenda "rendendolo inutilizzabile".
13 marzo 1945 - Dallo Stato Maggiore della Divisione "Silvio Bonfante" avviso n° 1 alla popolazione costiera - "Si invita la popolazione ad allontanarsi dagli obiettivi militari. Si consiglia di annotare i luoghi abitati da tedeschi e fascisti e di tenere sotto sorveglianza la Feldgendarmerie".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

lunedì 18 ottobre 2021

Aveva già aiutato i 360 prigionieri jugoslavi

Roberto Lepetit - Fonte: Wikipedia

[...] Robert Georges Lepetit, di natali francesi, fonda la Lepetit&Dollfus nel 1868 con il cognato Albert (poi allargata ad un altro socio Auguste Gansser nel 1878). Nel 1915 nasce la Ledoga dalle iniziali dei tre cognomi. Nel 1894 sorge lo stabilimento di Garessio, per produrre il tannino, ricavato dalle cortecce e dal legno del castagno, utilizzabili nel settore dei coloranti per la concia delle pelli.
A questa lavorazione si affianca e prende rilevanza commerciale e industriale l’attività farmaceutica. Nasce infatti a Garessio nel 1903 il primo farmaco di sintesi italiano, l’Almateina, un disinfettante intestinale cui fanno seguito efficaci medicinali antinevralgici e antireumatici. Mancato il capostipite Robert, subentrano i figli Roberto e Emilio: il primo fautore di grandi ricerche scientifiche e il secondo brillante e coraggioso nella gestione amministrativa.
Alla morte di Emilio nel 1919 e di Roberto nel 1928, proprio Roberto Enea Lepetit, figlio ventiduenne di Emilio - nato a Lezza di Erba nel 1906 - si assumerà la responsabilità di dirigere l’azienda. Il geniale imprenditore riuscirà a imporre sui mercati la Lepetit che conquista posizioni di leadership del settore. Vanto dello stabilimento di Garessio, che nel 1940 occupava 200 maestranze, anche quello di aver avviato la produzione del Tiazene il primo sulfamidico italiano. Negli anni successivi uscirà il Cloramfenicolo, il primo antibiotico di sintesi realizzato in Italia. Il prodotto è stato trattato per trent’anni nello stabilimento di Garessio, venduto in Italia con marchio Sintomicetina, prescritto per combattere tifo, paratifo e brucellosi.
Condizionato e sempre più insofferente al regime fascista, a partire dal 1942 Roberto Lepetit dalla sede centrale di Milano decide di aderire alla lotta partigiana prendendo contatti con il Comitato di Liberazione Alta Italia. Dopo il bombardamento di Milano del 24 ottobre del 1942 con la moglie Hilda e i due figli Emilio (nato nel 1930) e Guido (classe 1932) si trasferisce a Garessio.
Successivamente nel settembre 1943, nei giorni successivi all’Armistizio, Lepetit, come scrisse sua moglie Hilda nel diario: "aveva già aiutato i 360 prigionieri jugoslavi che erano detenuti nel campo del Miramonti, facilitandone la fuga quando si era intuito l’arrivo dei tedeschi…".
Lo racconta anche Francesco Chiancone, ex direttore del laboratorio della ricerca medica e biologica alla Lepetit, nel libro “Un uomo da Milano a Ebensee”, precisando: «Il Cappellano don Divina, il col. Vincenzo Ardù comandante del campo e altri ufficiali avevano lasciato il campo, vestendo abiti borghesi e radunando gli sbandati sulle montagne. La gente di Garessio li ospita e li nasconde in casa e nei seccatoi; Lepetit dona loro abiti, medicinali e viveri. Gli incontri con i partigiani della Valle Casotto - sempre con il fidato Paolo Odda - si fanno frequenti, con la scusa della visita ai castagneti della fabbrica. Il colonnello Rossi (Paolo Ceschi) e poi il maggiore Mauri (Enrico Martini) gli chiedono viveri, indumenti, medicinali e con lui elaborano piani di difesa e di azione. La sua partecipazione attiva alla lotta partigiana diventa sempre più intensa. “Roby” è il nome di battaglia da lui assunto».
Chiancone fa riferimento anche agli scontri tra nazifascisti e partigiani del febbraio ’44 quando sotto al Miramonti perì tragicamente il dipendente, Leonardo Esposito, barese, che stava rientrando all’Albergo Giardino dove alloggiavano tutti i lavoratori Lepetit arrivati da Milano. «Garessio, che pareva lontano dalle implicazioni della guerra diventa teatro di scontri ravvicinati tra partigiani e occupanti tedeschi che controllano la cittadina. Così agli allarmi aerei di Milano si sostituiscono i rastrellamenti degli operai che vengono spediti in Germania come lavoratori; la cittadinanza parteggia naturalmente per i nostri e diventano più frequenti e ossessive le perquisizioni nelle case, alla ricerca di partigiani nascosti o per punire chi li ha aiutati.. ».
Nel maggio del 1944 la situazione a Garessio si fa sempre più pericolosa e Lepetit decide di rendere più diretti i contatti con la Resistenza in Lombardia. Qui, con l’amico Sandro Piantanida raccoglie informazioni, organizza campi di atterraggio per paracadutisti sul lago di Como a Volesio. Viene arrestato il 29 settembre 1944 nel suo ufficio di Via Tenca, ora via Lepetit, la strada dedicata a sua memoria dal Comune di Milano. Viene accusato per una serie di messaggi con dati in codice, subisce interrogatori estenuanti e violenze fisiche nell’Albergo Regina da parte delle SS e viene imprigionato nel carcere di San Vittore.
Il 16 ottobre ‘44 il trasporto a Bolzano, perché aveva rifiutato di firmare una supplica che gli avrebbe concesso la libertà. Resta per un mese nel campo di concentramento in Alto Adige da cui riesce a scrivere ed a fare avere di nascosto una ventina di lettere per la moglie - che andrà alcune volte a trovarlo per portargli pacchi -; forte in lui il “terrore di andare più a nord di qui”. Riesce a far installare nel campo una farmacia per convogliare medicinali e viveri per i 1.400 prigionieri, ma il 18 novembre viene destinato alla Germania.
Entra nel terribile lager di Mauthausen, poi in quello Melk (dove 8.000 internati lavoravano nelle gallerie ricavate dai tedeschi per nascondere le officine belliche) e il 13 aprile 1945 avviene l’ultimo trasferimento nel campo di sterminio di Ebensee, in Austria. Il 27 aprile viene ricoverato in infermeria forse per tubercolosi e morirà il 4 maggio. Tre giorni dopo il campo sarebbe stato liberato dagli Alleati. Quattro giorni prima, il 30 aprile, Hitler si era suicidato nel bunker di Berlino.
Ferruccio Parri, capo del primo governo italiano del dopoguerra ispirato dai movimenti della Resistenza, ricordando l’incontro clandestino a Milano con Roberto Lepetit nella primavera del ’44 ebbe a dichiarare: «Intendevo dietro di lui un ambiente ed energie nuove ancora per me, o quasi, nel panorama sociale che il movimento della resistenza veniva tumultuosamente abbozzando. E ascoltando le sue informazioni mi studiavo, quasi involontariamente, di capire la mentalità, l’educazione, le ascendenze spirituali di quest’uomo, semplice e schivo, cordiale e riservato. L’umanità del suo sorriso disarmava la mia diffidenza quasi professionale e lo rivelava meglio delle parole, quasi pudiche della generosità e determinazione che erano il fondo del suo carattere. Era un signore».
La vedova Hilda fece erigere nel campo di Ebensee, opera dell’amico Gio’ Ponti, celebre architetto e designer, un’alta croce, recentemente restaurata e conservata dall’ANED, l’Associazione nazionale ex deportati, con la scritta: “Al marito qui sepolto, compagno eroico dei mille morti che insieme riposano e dei milioni di altri martiri di ogni terra e di ogni fede, affratellati dallo stesso tragico destino, una donna italiana dedica, pregando perché così immane sacrificio porti bontà nell’animo degli uomini”.
Redazione, Garessio dedica la Giornata della Memoria a Roberto “Roby” Lepetit, IDEAWEBTV.IT, 26 gennaio 2021
 
[...] Roberto Lepetit, nasce il 29 agosto 1906 a Lezza (oggi Comune di Ponte Lambro). Lasciati presto gli studi classici per lavorare nell’azienda di famiglia, ne divenne unico responsabile nel 1928, dopo la morte del padre e dello zio. Negli anni ’20 la Lepetit aveva vissuto un boom e il gruppo crebbe con 16 stabilimenti in Italia e presenze in 36 paesi del mondo. Roberto Lepetit, giovane amministratore delegato e direttore generale della Lepetit era un uomo brillante e spiritoso, un imprenditore illuminato, di aperte idee sociali. Benché fosse obbligato, come industriale, a restare inquadrato nelle organizzazioni sindacali del regime, Lepetit in breve tempo matura una tale avversione al fascismo, e in modo così poco nascosto, che nel 1942 fu espulso dai Partito Fascista. In quell’anno ebbe i primi contatti clandestini con esponenti del Comitato di Liberazione Alta Italia, e si avvicinò al Partito d’Azione. Alla fine del 1942, come tanti, fu costretto dalla guerra a sfollare da Milano. Trasferì a Garessio, nel cuneese, la famiglia e il personale dell’azienda. Così si allontanò dai bombardamenti alleati, ma si venne a trovare nel bel mezzo di una durissima guerriglia partigiana. Alla fine di novembre 1943 i tedeschi arrivarono in forze e occuparono il paese. Ma Lepetit aveva già dato il suo contributo per far fuggire gli jugoslavi prigionieri in un campo di concentramento nella valle e aveva stretto rapporti con i partigiani della Val Casotto.
Il 3 maggio 1944 Lepetit decise di cambiare aria, perché aveva capito di essere ormai sospettato dal podestà locale e dai tedeschi. Portò per qualche tempo la famiglia a Rho e tornò a lavorare nella sede di Milano. Il 6 luglio 1944, poi, l’azione forse più pericolosa a cui Lepetit abbia partecipato: nella campagna attorno a Castellazzo di Rho riceve una missione aviolanciata. La sede della Lepetit a Milano era ormai diventata un punto di riferimento per la Resistenza, fino al 29 settembre 1944, giorno del suo arresto. Dopo gli interrogatori e le torture a San Vittore, fu mandato in campo di concentramento; prima a Bolzano, poi a Mauthausen, quindi a Melck e infine a Ebensee.
Morì il 4 maggio 1945, due giorni prima che gli americani arrivassero al campo di concentramento di Ebensee e nove giorni dopo la liberazione di Milano. Oggi la memoria di Roberto Lepetit è affidata ad una croce eretta sulla fossa comune di Ebensee. La moglie Ilda ha voluto che vi fossero scritte, in tre lingue, queste parole: “Al marito qui sepolto - compagno eroico dei mille morti che insieme riposano e dei milioni di altri martiri di ogni terra e di ogni fede - affratellati dallo stesso tragico destino - una donna italiana dedica - pregando perché così immane sacrificio - porti bontà nell’animo degli uomini”.
“Alla figura del nostro concittadino è stata intitolata la piazza di Lezza e le scuole elementari di via Trieste” ha ricordato il sindaco Ettore Pelucchi. [...]
Redazione, Pietre d’inciampo, a Milano c’è anche un pezzo di Ponte Lambro, Erba Notizie, 16 gennaio 2020 

A Milano, in una via poco lontana dalla Stazione Centrale, nel cortile di un anonimo palazzo di uffici c’è una targa in marmo. Quella targa, grigia e un po’ sbiadita, ricorda il sacrificio di un giovane industriale, Roberto Lepetit, a cui è intitolata anche la via attigua. Esiste una storia a riguardo, rimasta per decenni sepolta tra lettere private ed archivi aziendali, che negli ultimi anni è stata portata alla luce da un saggio di Susanna Sala Massari <1. La storia di questo tenace personaggio che si oppose al fascismo e si immolò alla causa della Resistenza ebbe un tragico epilogo che trova espressione nuovamente in una targa, questa volta ad Ebensee, in Austria. Lì, nel campo di concentramento della città, Roberto Lepetit trovò la morte a pochi giorni dalla Liberazione <2.
La sua storia, indissolubilmente legata al colosso farmaceutico Lepetit (ancora oggi ben presente), è venuta alla luce, seppur in ritardo, accendendo i riflettori su una famiglia che annovera tra i suoi membri, spesso con gli stessi nomi che si ripetono nelle generazioni, molti personaggi degni di nota. Alcuni sono ricordati esclusivamente in un ambito tecnico, legato all’industria e alla chimica farmaceutica, come il capostipite Robert Georges; altri, come suo figlio Roberto Giorgio, per la grande capacità manageriale ed innovazione nei processi industriali del tempo; altri ancora, come il sopraccitato Roberto, per le gesta eroiche e la fine tragica.
[...] Roberto Giorgio, figlio di Robert Georges, pose le basi per la costruzione del gruppo farmaceutico Lepetit, innovando e specializzando l’azienda di famiglia, arrivando a realizzare il primo antinfluenzale di sintesi iscritto nella farmacopea italiana <3.
Roberto, nipote di Roberto Giorgio, si schierò a fianco delle formazioni partigiane durante il secondo conflitto mondiale. Trasformò lo stabilimento piemontese di Garessio (Cuneo) in rifugio e punto di appoggio per i gruppi della Resistenza, che rifornì di viveri e medicinali fino a quando fu arrestato dai nazisti e deportato. [...]
[NOTE]
1 S. Sala Massari, Roberto Lepetit. Un industriale della Resistenza, Milano, Archinto editore, 2015.
2 Cfr. F. M. Chiancone, Un uomo da Milano a Ebensee. 1940-1945: Roberto E. Lepetit, Bari, Laterza, 1992.3 E. Merlo, Lepetit, in “Dizionario biografico degli italiani”, vol. 64, 2005, consultabile anche nel sito: http://www.treccani.it/enciclopedia/lepetit_(Dizionario-Biografico)/ (ultima visita: 15 giugno 2017).
Tamara Balbo, Emilio Lepetit, un industriale e socialista, Asti Contemporanea, n. 16 - 2017, ISRAT Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Asti
 
«E’ la mia prima volta a Garessio anche se di questo paese ho sempre sentito parlare molto. Ho visitato la fabbrica, ho riassaggiato i “garessini” che mi portava nonna ed entrando in villa ho percepito un naturale legame, molto forte. La tragedia del nonno per anni fu argomento tabù: una sorta di fuga dal dolore. Ma nel 1998, quando morì nonna, decisi di aprire quelle scatole con su scritto “guerra”. Fu una lettura scioccante, però utile a curare, elaborare e superare. E quelle lettere, quei documenti conservati per anni, sono stati utili per il libro. In diverse occasioni ho avuto modo di percepire l’affetto e riconoscenza che lega Garessio a Roberto Lepetit. Gli stessi sentimenti che sento ora ancora così vivi». Anche lui si chiama Roberto, ed è il nipote del noto industriale Lepetit a cui Susanna Sala Massari ha dedicato il volume “Roberto Lepetit. Un industriale nella Resistenza” presentato giovedì sera 7 maggio nel salone comunale su iniziativa del Polo culturale “Città di Garessio. «Un momento importante per la nostra città - ha detto il presidente del Polo culturale, Sebastiano Carrara - ma pure per la valle: la storia Lepetit ha avuto significativi risvolti su tutto il territorio». Presente, oltre al nipote e all’autrice, anche il direttore dell’Istituto Storico della Resistenza della provincia di Cuneo, Michele Calandri. Il libro ripercorre la vita di Roberto Lepetit approfondendone la storia aziendale, sociale e politica. Durante il fascismo e la guerra, Lepetit mise a disposizione le sue risorse e le sue relazioni per aiutare partigiani, ebrei, soldati alleati, utilizzando anche le sue fabbriche come copertura e i suoi dipendenti più fidati come agenti segreti. Internato nel campo di concentramento di Bolzano, svolse una preziosa attività clandestina e riuscì a organizzare una farmacia interna. Deportato a Mauthausen, morì nel sottocampo di Ebensee. [...]
Marco Volpe, Roberto Lepetit, patriota e martire, L'Unione Monregalese, 14 maggio 2015 
 
A pag. 76 del libro che il Comandante Mauri scrisse intorno alla lotta partigiana nella zona di Cuneo e delle Langhe, leggiamo: «A Garessio, quale sarà la casa di Lepetit? È imprudente fare domande, ma non può essere che quella che ha esposto la bandiera abbrunata, il lutto per la Val Casotto. Soltanto Roberto Lepetit può fare un simile gesto in un paese brulicante di armati nemici».
Ci bastano queste brevi parole per farci scorgere in mezzo alla folla di quei valorosi combattenti della montagna, una figura che si stacca con caratteri suoi sullo sfondo del complesso e turbinoso scenario della Resistenza italiana.
Incontriamo, dunque, con Roberto Lepetit un uomo nuovo in quella storia di rischi, di patimenti e di eroismi che dal settembre 1943 all’aprile 1945 segnò nella luce del sole le ultime tappe di una lunga aspra via, che nella tenebra degli anni, pochi soltanto, coraggiosi e chiaroveggenti, avevano fino allora battuto a testimoniare dignità di uomini e di cittadini.
[...] Il giorno successivo, il 29 ottobre 1944, dopo aver consigliato la moglie a non affannarsi per lui, ma ad affidarsi alla sorte, osserva tristemente: « Vivendo qui dentro ci si può formare un’idea di quella che sarà la situazione dopo la guerra, delle lotte tremende che ci saranno... ».
Il suo caso, tuttavia, non è ancora risolto; in data 30 ottobre leggiamo: «Ieri ed oggi c’è stato il caso Lepetit che ha fatto le spese di tutto il campo! H... si è battuto come un leone ed ha attaccato violentemente i comunisti. Stamane il capo di questi è venuto a parlamentare con me. Intanto sono sempre nella A e credo ci resterò, dato che c’è l’accordo interpartiti!».
Finalmente, qualche giorno dopo annuncia: «Il mio caso pare definito, ma ha durato e interessato tutti per diversi giorni. Anche i comunisti hanno ricevuto istruzioni dal C.L.N. di Milano di aiutarmi».
Più che a sè, pensa continuamente alla possibilità di sollevare la terribile miseria che gli sta intorno e che egli stesso condivide con gli altri: è sempre vivo in lui l’uomo pratico, pronto a prodigarsi per il benessere di chi lo circonda, come testimoniano queste lettere che in buona parte contengono indicazioni di internati, ch’egli aiuta moralmente facendo recapitare notizie alle famiglie, e materialmente, dividendo con loro i molti aiuti che riceve dai suoi e organizzando per loro e per tutti gli altri prigionieri del campo, senza distinzione, un intero impianto farmaceutico: «Come vedi, scrive il 9-11-’44 alla moglie, grazie alla tua organizzazione, sono traboccante di roba e faccio grandi regali a destra e sinistra. Sto diventando popolare in tutto il campo e tutti sono gentili con me».
Pochi giorni prima, il 7-11-’44, aveva raccomandato: «Bisognerebbe vedere se a Milano fra tutti gli amici, comitati ecc. si potessero organizzare congrui rifornimenti di generi alimentari per tutti gli internati del campo, indirizzando all’Intendenza del campo. Sarebbe una cosa veramente utile. Tenete conto che c’è una popolazione di circa 1400 anime». [...]
Questa rievocazione storica della figura di Roberto Lepetit amministratore delle Società Anonime Ledoga-Lepetit - nato a Lezza (Como) il 29 agosto 1906 e morto il 4 maggio 1945 a Ebensee (Austria) - è stata condotta sopra una serie di testimonianze originali, che costituiscono un’importante raccolta di documenti di proprietà della famiglia Lepetit. Essi sono soprattutto:
1) Un gruppo di 20 lettere scritte a matita e pervenute clandestinamente alla moglie dal campo di Bolzano.
2) Un grosso volume manoscritto che contiene tutta la documentazione dei messaggi trasmessi e ricevuti dal gruppo G.B.T. della Missione militare Furrow.
3) Una relazione originale dello stesso capo missione.
4) Copia dell’originale tedesco del testo dell’interrogatorio fatto ai dirigenti della Società Ledoga-Lepetit a Garessio, il 28-7-44 dal Gruppo Polizia tedesca del commissariato di Savona, dove risulta la testimonianza esplicita della denuncia del podestà di Garessio.
5) Testimonianze varie di collaboratori e di compagni, italiani e stranieri, dei vari campi di concentramento, nonché di uomini della Resistenza.

Bianca Ceva, Una figura della Resistenza. Roberto Lepetit in Il movimento di liberazione in Italia dal 1949 al 1973, n. 11, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, 1951, ripubblicato in Rete Parri 


Lettera di Roberto Enea Lepetit (Roby) alla Moglie scritta in data 16-11-1944 da Lager di Bolzano
L’immagine riproduce la prima facciata dell’ultima lettera di Roberto Enea Lepetit, scritta alla moglie Hilda dal Lager di Bolzano pochi giorni prima di essere inviato a Mauthausen.
Proprietà della foto: Carte private di Roberto Lepetit
Testo dell'immagine:
16 nov. 1944 – ore 16.30
Mia carissima,
finalmente ieri sera ho avuto la tanto attesa tua lett.: quella del 6-7 u.s. Con quella della Lina e del Pepino Perego. Grazie, mia Bastina.
Ho letto e riletto infinite volte la tua lett.
Quanto mi rincresce saperti tanto presa e preoccupata da mille problemi. Mi dici che hai trovato un appartamento a Milano dove metterai intanto la mamma. E’ venuta su da Levanto o sta per venire?
Mi rincresce dell’epidemia di influenza
Più che mai raccomando a tutti di stare molto riguardati. Inutile raccomandarlo al Grasso ed ancor più a quel fessacchione di suo fratello.
Si è più azzardato a farsi vivo con te?
Nella tua lett. mi dai tante buone speranze, ma io non voglio crederci - per non illudermi e un po’ per scaramanzia - ed invece sto preparandomi l’animo e le mie cose per una partenza che ormai è in atto - non si sa ancora
se per sabato/domenica pross. oppure per la prossima settimana.
Si parla di una part. Di circa 600 persone.
Io spero molto di essere fra quelli che rimangono (e dovrebbero essere molti dato che stiamo circa 1600) - anche perché la farmacia sta prendendo piede. Sto preparando pacchi assistenziali per i partenti - a ciò autorizzato dal med. ted. e complimentato dal nuovo capo campo.
Staremo a vedere!
Oggi tempo bello ma freddissimo - tutto bianco in giro per la nevicata di jeri. Nel campo ghiaccio ma niente neve. Grande allarme. Almeno 400/500 apparecchi passati in vicinanza - stasera è giunta notizia dell’offensiva scatenata in Olanda.
Speriamo che tutto ciò concorra ad abbreviare i termini della tragedia.
Igor Pizzirusso, Roberto Enea Lepetit (Roby), Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana
 

Lettera di Roberto Enea Lepetit (Roby) alla Moglie scritta in data 16-11-1944 da Lager di Bolzano
L’immagine riproduce la seconda facciata dell’ultima lettera di Roberto Enea Lepetit, scritta alla moglie Hilda dal Lager di Bolzano pochi giorni prima di essere inviato a Mauthausen.
Proprietà della foto: Carte private di Roberto Lepetit
Testo dell'immagine:
Continuano ad arrivare tuoi pacchi nel campo.
Ieri sera c’era un pacco per me, ma era della Pella. Ottimo contenuto.
Sono felice che i bambini stiano bene e se la passino bene. Speriamo tanto ricevere qualche riga da loro.
Ringrazia tanto il Pepp. Perego della sua buona lettera che mi ha fatto tanto piacere.
Ringrazia anche la Lina delle sue.
Speravo far partire oggi - invece nulla.
Consegno stasera o domattina sperando in bene. Si dice ci sia domani una part. Per Milano - mi pare strano.
Comunque sia - mando ugualmente.
Pare che la suoc. di Marghi è partita per Milano - pare ti cercherà.
La lett. di Neri falla avere al Nanni.
Lui penserà a farla recapitare.
Oggi ho fatto una bella doccia "privata" con Hanss-Hans e Elmo-splendido.
Sto bene. Con l’aiuto di un altro Med. Internato - mi sono fatto fare un permesso dal ted. per 5 giorni rinnovabili allo scopo di evitare le adunate. Cosa ottima anche questa. Ed ora ti lascio - alle 17.50 devo essere a casa essendoci l’adunata (da jeri) e dopo l’ad. ci chiudono dentro per il rancio e per dormire.
Ciao, mia Hilda, in ogni casi ti scriverò ancora. Tu scrivimi ugualmente, così se rimango riceverò notizie.
Tuo Roby
Igor Pizzirusso, art. cit.
 
Il tipo biondo, quasi rossiccio, aveva un impermeabile chiaro e un cappello marrone ancora in testa. Davanti a lui, la segretaria, seduta al suo posto, aveva l'atteggiamento di una bambina in castigo. «Strano che la Signorina tolleri una persona che sta nel suo ufficio con il cappello in testa», pensò il dottor Zumaglino. Ma richiuse subito la porta e scese in portineria. Solo allora si accorse che stava succedendo qualcosa di strano. Peppino Perego, il portiere, era rosso in viso. Lo spinse verso l'ascensore e gli sussurrò: «Sono venuti i tedeschi, cercano il Cavaliere!». Attorno all'edificio c'erano le Ss con i mitra spianati. Erano arrivate con un autobus verde, seguito da alcune automobili che avevano indugiato un poco davanti all'ingresso della Lepetit, in via Carlo Tenca, per poi spostarsi sul retro, in via Mauro Macchi. Sopra, nell'ufficio di Roby Lepetit, erano entrati in due, con grosse rivoltelle in pugno. Il caso volle che proprio in quel momento suonasse l'allarme antiaereo su Milano. «Eccoli, i vostri alleati!», imprecarono i due, spingendo in un angolo Roby e il suo amico e collaboratore Adolfo Fichera. Lepetit aveva cercato di approfittare del trambusto per far sparire alcune striscioline di carta che aveva in tasca. Invano: i due gliele strapparono di mano. Poi ammanettarono insieme lui e Fichera, li spinsero fuori, li unirono a Aldo Borletti detto Micio, già ammanettato con la segretaria Lina Pregnolato (la «Signorina»), e li caricarono in macchina. Era una giornata luminosa e calda, quel 29 settembre 1944. L’auto nera si fermò davanti all'Hotel Regina, sede del comando tedesco. Borletti, Fichera e la segretaria tornarono a casa qualche giorno dopo. Roby Lepetit no. Fu mandato in campo di concentramento, prima a Bolzano, poi a Mauthausen, quindi a Melck e infine a Ebensee. Morì il 4 maggio 1945, due giorni prima che gli americani arrivassero a Ebensee e nove giorni dopo che i partigiani avevano liberato la sua Milano. Roberto Lepetit, industriale chimico e farmaceutico e uomo della Resistenza, è stato dimenticato. Eppure la sua è una bella storia, privata e pubblica. Che si tinge anche di giallo: chi lo tradì, quel giorno di settembre?
[...] Nacque così, con i primi anni del Novecento, la Lepetit Farmaceutici e il gruppo si ampliò con una consociata argentina e nuovi impianti a Darfo (Brescia) e Oneglia (Imperia). Il fratello Emilio ebbe invece profondi interessi sociali. Scrisse il volume Il socialismo, pubblicato da Hoepli nel 1891, e partecipò alla fondazione del Partito Economico, che propugnava l'attenzione al mondo operaio e la composizione dei conflitti di classe. Da Emilio e Bianca Moretti il 29 agosto 1906 nacque Roberto Lepetit. Il padre morì che Roby aveva 13 anni. Lasciati presto gli studi classici per lavorare in azienda, ne divenne unico responsabile dopo la morte, nel 1928, anche dello zio. Negli anni Venti, la Lepetit aveva vissuto un boom: nei nuovi laboratori di ricerca della sede milanese di via Macchi era stata messa a punto un'ampia gamma di vitamine e sulfamidici, poi esportati in tutto il mondo; nello stabilimento di Garessio era iniziata la produzione di chemioterapici. Il gruppo crebbe con 16 stabilimenti in Italia e presenze in 36 Paesi del mondo. Roby, giovane amministratore delegato e direttore generale della Lepetit, era un uomo brillante e spiritoso, amico di Micio Borletti e di Giò Ponti (che progettò la sede di via Carlo Tenca). Un padrone illuminato, di aperte idee sociali. Ci sono foto di famiglia che lo ritraggono in camicia nera, ma non doveva davvero starci comodo. Non perdeva occasione di criticare le scelte del regime. I buoni del Tesoro emessi a raffica dal governo? «Carta da parati!», diceva. Il Duce? Se il Re lo avesse chiamato a rapporto e poi chiuso in un gabinetto, dandone comunicazione alla radio, il Paese sarebbe rimasto tranquillo. I grandi industriali come Pirelli, Agnelli, Donegani? Da punire perché avevano consegnato l'industria italiana al fascismo. Benché fosse obbligato, come industriale, a restare inquadrato nelle organizzazioni sindacali del regime. Lepetit in breve tempo maturò una tale avversione al fascismo, e così poco nascosta, che nel 1942 fu espulso dai Fasci. In quell'anno ebbe i primi contatti clandestini con esponenti del Clnai, il Comitato di liberazione Alta Italia, e si avvicinò al Partito d'azione. Alla fine del 1942, come tanti, fu costretto dalla guerra a sfollare da Milano. Trasferì a Garessio, nel Cuneese, la famiglia e il personale dell'azienda, che stabilì nell'Albergo Giardino. Così si allontanò dai bombardamenti alleati, ma si venne a trovare nel bel mezzo di una durissima guerriglia partigiana. Dapprima scaramucce, poi scontri sempre più duri, con agguati, lanci di bombe, rastrellamenti, fucilazioni. Alla fine di novembre del 1943 i tedeschi arrivarono in forze e occuparono il paese. Ma Lepetit aveva già dato il suo contributo per far fuggire gli jugoslavi prigionieri in un campo di concentramento nella valle e aveva stretto rapporti con i partigiani della VaI Casotto. Nell'inverno del 1944 i tedeschi tornarono in paese, attestandosi all'Albergo Miramonti. Era il 25 febbraio. Già la mattina dopo i partigiani attraversarono il Tanaro per aggirare il nemico, attaccarlo e scacciarlo. La guerra per il controllo di Garessio proseguì con alterne fortune. Ma il 3 maggio 1944 Lepetit decise di cambiare aria perché aveva capito di essere ormai sospettato dal podestà locale e dai tedeschi. Portò la famiglia per qualche tempo a Rho, tornò a lavorare nella sede di Milano. Nel dicembre 1943 Lepetit aveva incontrato un ufficiale che veniva dal Sud: portava una radio e l'ordine di impiantare un servizio di trasmissioni. La famiglia ancor oggi conserva un grande raccoglitore con i quaderni dei messaggi in codice ricevuti. Il 6 luglio 1944, poi, l'azione forse più pericolosa a cui Lepetit abbia partecipato: nella campagna attorno a Castellazzo di Rho riceve una missione militare aviolanciata. Il figlio Emilio, che allora aveva 14 anni, la descrive così, in un quadernetto su cui ha tracciato con inchiostro e pennino parole e disegni: «Verso mez­zanotte sentimmo un aereo avvi­cinarsi. Corremmo ad accendere i fari di segnalazione che per rendere più visibili avevamo rinforzati con tanti falò quanti erano i fari. L’aereo ci passò sopra la testa una prima volta molto basso. Ritornò dopo poco, più alto e si videro questa volta anche due cose confuse che parevano palloni». Erano due paracadutisti. Con loro furono lanciati apparecchi radiotrasmittenti, armi e altro materiale per la Resistenza. Nella primavera del 1944 s'incontrò viso a viso con uno dei capi della Resistenza al Nord, Ferruccio Parri. Lo racconta Parri stesso: «Quando conobbi Roberto Lepetit in un fuggevole incontro clandestino sui bastioni tra Porta Romana e Vigentina, un pomeriggio dolce e arioso della primavera 1944, intendevo dietro di lui un ambiente ed energie nuove ancora per me, o quasi, nel panorama sociale che il movimento della resistenza veniva tumultuosamente abbozzando. E ascoltando le sue informazioni mi studiavo, quasi involontariamente, di capire la mentalità di quest'uomo, semplice e schivo, cordiale e riservato. La umanità del sorriso disarmava la mia diffidenza quasi professionale, e lo rivelava meglio delle parole, quasi pudiche della generosità e determinazione che erano il fondo del suo carattere. Era un signore. Dietro di lui avevo già allora un poco intravisto certa borghesia lombarda del Risorgimento, generosa, e soprattutto pronta a pagare il dovere dell'esempio, prima obbligazione della nobiltà». La sede della Lepetit a Milano era ormai diventata un punto di riferimento per la Resistenza. A chi gli consigliava prudenza, Roby ribatteva: «Qualche rischio bisogna pur correrlo». Lo ripeté a un amico anche il giorno prima di essere arrestato. Dopo gli interrogatori e le torture all'Albergo Regina e a San Vittore, finì per trenta giorni nel campo di Bolzano. Da lì riuscì a far uscire, di nascosto, venti lettere che arrivarono alla moglie Hilda, scritte a matita con calligrafia meticolosa su fogli e foglietti d'appunti. Vi sono raccontati con parole misurate il grande affetto per la famiglia, la speranza di tornare, la vita e gli stenti del campo, ma anche gli aiuti e le medicine per tutti che riuscì a far entrare dentro i recinti di filo spinato. Questo fece nascere, come scrisse alla moglie, il «caso Lepetit»: «Grana contro di me. Lunga conferenza con Cinelli (Capo dei comunisti) per la Farmacia e per la destinazione dei pacchi. VuoI conoscere le mie intenzioni per appoggiarmi in pieno o per boicottarmi!». Il giorno dopo affida alla moglie un pensiero profetico, intuizione della Guerra fredda: «Vivendo qui dentro ci si può formare un'idea di quello che sarà la situazione dopo la guerra, delle lotte tremende che ci saranno...» (29 ottobre 1944). Seguono scontri, dibattiti, trattative. Il «caso Lepetit» si risolve soltanto con l'arrivo dell'ordine dall'esterno: «Anche i comunisti hanno ricevuto istruzioni dal Cnl di Milano di aiutarmi». Ma il 18 novembre 1944 Roberto Lepetit, allineato con gli altri prigionieri nel cortile freddissimo del campo, sentì chiamare il suo numero: fu caricato su un treno e portato a Mauthausen, poi nel gennaio 1945 nel terribile campo di Melck e infine, nell'aprile di quell'anno, mentre i suoi compagni liberavano l'Italia, a Ebensee. Oggi, perduta la memoria di un personaggio senza partito - guardato con sospetto dai comunisti perché era un «padrone», azionista critico anche nei confronti dei «suoi» - è stato dimenticato anche il giallo dell'arresto. Chi fu il Giuda che lo tradì? Allora furono sussurrate accuse nei confronti di un personaggio, indicato come il professor Cifarelli, che era piovuto dal cielo, con un paracadute, nel luglio 1944 e si era introdotto negli ambienti della Resistenza con il nome di «Pippo», accreditandosi come uomo al servizio dello Stato Maggiore inglese. Altri dubbi sfiorarono uno stretto collaboratore di Roby, Guido Zerilli Marimò, il più alto dirigente della Lepetit. Zerill sfuggì all'arresto, quel 29 settembre 1944. Poi, grazie ai suoi ottimi agganci con uomini del regime, si mostrò molto impegnato per la liberazione del prigioniero, chiedendo alla famiglia e agIi amici di non tentare alcuna mossa alternativa e di non interferire. Ma malgrado le promesse di riportarlo rapidamente a casa da San Vittore non ottenne alcun risultato. Hilda, dopo aver avute notizia dell'arresto del marito, si mise in viaggio da Volesio, sul lago di Como, verso Rho, dove temeva ci potessero essere carte compromettenti. Voleva farle sparire. Ma al suo arrivo a Come con il traghetto, sul pontile trovò ad aspettarla Zerilli che la dissuase dal proseguire, dicendole che non c'era più niente da fare e che la perquisizione era già avvenuta. Era vero? E se sì, come faceva a saperlo? I figli di Roby, Emilio e Guido erano troppo piccoli per occuparsi dell'azienda. Hilda lasciò la gestione nelle mani di Zerilli, che in breve tempo divenne il proprietario della Lepetit, che poi vendette, alla fine degli anni Cinquanta, alla multinazionale Dow Chemical. Negli anni Settanta Zerilli ricomparve tra i proprietari (con Vittorio Cini, Serafino Ferruzzi e Gregorio Imenez) della Alphom Finance, una società coinvolta negli oscuri giri di denaro della finanza d'avventura, da Sindona a Calvi, e gestita da Florent Ravello Rey, faccendiere che trescò anche con mafiosi e uomini dei servizi segreti. Non basta questo, naturalmente, per accusare Zerilli di essere il Giuda. Altri protagonisti di questa storia lo descrivono come amico fedele e collaboratore prezioso di Roby. Di certo c'è solo che oggi la memoria di Roberto Lepetit è affidata soltanto a una croce eretta sulla fossa comune di Ebensee. Hilda ha voluto che vi fossero scritte, in tre lingue, queste parole: «Al marito qui sepolto - compagno eroico dei mille morti che insieme riposano ­ e dei milioni di altri martiri di ogni terra e di ogni fede - affratellati dallo stesso tragico destino - una donna italiana dedica - pregando perché così immane sacrificio - porti bontà nell'animo degli uomini».
Gianni Barbacetto, Il signore della Resistenza, Diario del mese, 21 gennaio 2005

13 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 199 e prot. n° 200, lettere indirizzate rispettivamente al direttore della cartiera di Ormea e alla direzione dello stabilimento "Lepetit" - Venivano ringraziati per l'offerta di cartine da sigarette e di medicinali.
da documento IsrecIm  in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

domenica 12 settembre 2021

Prigionieri di guerra jugoslavi a Garessio

Alto (CN) - Fonte: Mapio.net

Uno dei primi alassini a salire ad Alto [provincia di Cuneo, alta Val Pennavaira], veramente agli albori e cioé verso fine di settembre 1943 era Giuseppe Arimondo (Pippo o Elio o Mingo o D 33), ex ufficiale di artiglieria reduce da Trieste dopo il fatidico 8 settembre. Aveva trovato rifugio nella cascina Quan, in località Costabella ad Alto, mentre l'altro alassino Giovanni Sibelli (Sergio), anch'egli fuggito da Trieste dal 34° Reggimento artiglieri "Sassari", era nella cascina di Ettore in località Ferraia. Sibelli ritornerà dopo qualche tempo ad Alassio per aggregarsi al CLN e per dare il suo notevole contributo al locale PCI clandestino. Ad Alto, Sergio collaborava con Giorgio Alpron (Giorgio I o Cis)... Emozionante era stato per Pippo l'incontro con Felice Cascione (U Megu) e Vittorio Acquarone nella trattoria di Adelina, quando i due imperiesi tentavano di stabilire i primi collegamenti con gli albenganesi animati dalla comune fede comunista. Un episodio significativo era stata la ricerca di tre ufficiali jugoslavi prigionieri, evasi dal campo di concentramento di Garessio e rifugiatisi sul Monte Galero, saltuariamente soccorsi da Rina Bianchi di Nasino [in provincia di Savona, Val Pennavaira]. Pippo Arimondo con alcuni albenganesi... coronavano la ricerca, aggregando i tre slavi Milan R. Milutinovic (Mille), Obren L. Savic (Vincenzo) e Mihajlo Kavagenic (Michele o Dabo) al distaccamento ribelle. I tre jugoslavi combatteranno con i partigiani fino alla fine del conflitto. Arimondo (Pippo) nel gennaio 1944 scendeva ad Alassio per organizzare, come detto, il trasporto di armi e di munizioni. Nella sosta di alcuni giorni in Riviera incontrava in una casa privata di via Diaz, assieme a Virgilio Stalla, Angelo Martino e Giovanni Sibelli, il dirigente comunista Giancarlo Pajetta (Nullo o Mare), ispettore militare in viaggio lungo la costa ligure per coordinare le prime squadre partigiane comuniste, le Stelle Rosse. Avuto l'assenso per la disponibilità degli armamenti, Pippo ritornava ad Alto per riferire l'esito della missione. A quel punto Viveri (Umberto) e il comando partigiano rimandavano Pippo ad Alassio... Nel frattempo da Alto arrivava la tragica notizia della morte di Felice Cascione e la conseguente dispersione dei garibaldini verso il Piemonte.
Francesco Biga e Ferruccio Iebole (a cura di Vittorio Detassis), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. V, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2016 

In altra occasione nel luglio 1942 il rifiuto dei prigionieri di rientrare nelle baracche dopo le ore 21 era stato represso a colpi di arma da fuoco con un bilancio di un morto ed un ferito. <79
Appena un mese dopo la quasi totalità dei prigionieri ex jugoslavi veniva trasferita in Piemonte nel campo di Garessio dove avrebbero goduto di un trattamento più umano. <80
Nelle sue memorie il prigioniero di guerra alleato J. Verney descrive l’uccisione di un soldato jugoslavo alla stazione di Sulmona nella concitata fase di trasferimento da Fonte d’Amore il 30 settembre <81.
Il territorio aquilano sarebbe stato tuttavia nuovamente frequentato da soldati e civili slavi rastrellati quando il Ministero della Guerra, per lenire le conseguenze di un’economia di guerra in gravi difficoltà, decise di pianificare l’utilizzo di manodopera a favore delle aziende private mediante l’utilizzo di prigionieri, pratica poi estesa anche agli internati civili. <82
79 Dal diario di Radovanović in R. Amedeo, Gli ufficiali … cit. p.123.
80 In provincia di Cuneo, a Garessio, entrava in funzione dall’ottobre 1942 il campo 43, riservato a prigionieri di guerra del disciolto Esercito jugoslavo. Ben migliore il trattamento ricevuto a Garessio rispetto a Sulmona: «Non occorre descrivere tutto, basti pensare alla comodità e, posso dire, che ci sentivamo quasi tutti villeggianti venuti qui a riposare.» Il diario di Radovanović è riportato in: R. Amedeo, Gli ufficiali … cit.
81 J. Verney, Un pranzo di erbe cit. p.48.
82 La competenza della gestione dei campi di lavoro, dapprima del Ministero della Guerra che provvedeva a regolamentarla con C.M. n.6 .721/C del 13 maggio 1942, veniva poi trasferita, l’anno successivo, al Ministero degli Interni.

Riccardo Lolli, La presenza degli internati slavi nell'Appennino aquilano. 1942-1944, Ricerca effettuata per l’Istituto Abruzzese per lo studio della Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea, versione aggiornata al 30 aprile 2018, www.partigianijugoslavi.it  

L'Hotel Miramonti di Garessio (CN) - Fonte: VBStudio.net

Dopo l'8 settembre anche molti degli ufficiali slavi che erano prigionieri al Miramonti si rifugiarono in montagna, la popolazione li aiutò molto e lo stesso cav. Lepetit, che poi trovò la morte in un campo di concentramento tedesco, si diede molto da fare per gli ufficiali slavi e per gli stessi partigiani.
Testimonianza di Lucia Canova in Sergio Dalmasso, Lucia Canova, donna e comunista, CIPEC, Quaderno n° 1, Cuneo, 1995 
 
Quelli che qua o là sulle montagne rimasero ancora in armi all'avventura nei reparti, si accorsero col tempo brutto di avere la divisa tutta frusta e sbrindellata. Ma il grigioverde non se lo tolsero macché, dormendoci dentro; si arrangiarono come poterono portandoselo ancora in giro tutti arzilli e abborracciati.
Nei dintorni la gente, guatando, diceva sottovoce per non farsi sentire dalle spie, di averli visti di sicuro; lo dicevano con la faccia scura: pareva di sì che qualcuno li avesse proprio visti, e chissà come facevano a resistere, vacci a capire.
- Ma fanno bene, porca la miseria; fanno così perché essendo che lo fanno contro il fascio sono dei ribelli: è così che si fa, se non c'è nient'altro da fare -, diceva la gente.
Poi ad un certo punto, dai oggi dai domani, anche la gente imparò a conoscerli come trafficavano; e così a poco a poco, anche loro si organizzarono meglio dove si sentivano più tranquilli fuori mano, con la gente che li aiutava più che poteva. A Garessio, dove c'erano ancora le caserme in efficienza, cominciarono ripulendo un deposito di armi nuove tutte bene impilate; fecero così presto che quasi nessuno se ne accorse.
Successe d'amblé, senza tanti perché e percome, dopo che gli ufficiali jugoslavi prigionieri nel Miramonti erano scappati oltre il Colle di San Bernardo, e si nascosero nelle cascine da quelle parti verso il mare.
Quando questi partigiani senza tanti tiremmolla ripulirono il deposito delle armi col munizionamento, barbe lunghe e mantelline tese nel freschetto della sera, presero in più scarpe e coperte, non si sa mai cosa succederà dopo.
Poi sparirono come erano arrivati facendo come il vento, inutile cercarli nei dintorni, e anche più in là.
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, p. 17
 
“Insieme con noi, braccio sotto braccio, scapparono il comandante, ufficiali, sottufficiali e sentinelle, tutti uniti verso lo stesso destino. Eravamo veri fratelli, come se fossimo vissuti sempre insieme, e nessuno più pensava a quello che eravamo considerati sino al 10 settembre 1943. A questo punto comincia l’opera umana della popolazione di Garessio, che correva dappertutto per incontrarci, per offrirci quello di cui disponeva”.
Spasoje Radovanović, nato in Montenegro nel 1916, sottotenente dell’esercito del regno di Jugoslavia e in procinto di diventare partigiano in Italia, descrive così nel proprio diario i convulsi eventi attorno all'8 settembre 1943. Due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio di Badoglio, Radovanović e altri circa 400 connazionali prigionieri di guerra riuscirono finalmente a fuggire dal Campo 43 di Garessio, nell’alta valle Tanaro in basso Piemonte, cercando rifugio tra i boschi.
[...] Campo 43. Internamento, solidarietà, resistenza civile
Spasoje Radovanović e compagni si trovavano a Garessio dall’ottobre 1942, quando le autorità fasciste misero in funzione il Campo Prigionieri di Guerra 43, collocato presso un albergo abbandonato, il Miramonti. Furono trasferiti lì dal Campo 78 di Sulmona, e molti di loro provenivano dalla prigionia in Germania. Il Miramonti diventava così uno dei circa 60 campi di prigionia per militari in territorio italiano nei quali, nel marzo 1943, si trovavano internati circa 80.000 combattenti stranieri catturati dall’inizio della guerra (secondo i dati riportati da LavoroForzato.org e CampiFascisti.it).
I reclusi a Garessio (480 secondo la lista ufficiale, di cui circa 80 furono trasferiti o liberati prima dell’8 settembre) erano originari di diverse parti del regno jugoslavo: i più rappresentati erano serbi e sloveni (poco più di un centinaio ciascuno), poi montenegrini (circa ottanta) e alcune decine di croati, bosniaci e altri. Diversi di loro diventeranno in seguito figure pubbliche nella Jugoslavia socialista. In casi come quelli del compositore Pavel Šivic e dei pittori Marij Pregelj  e Ivan Miklavec tracce dell’esperienza di internamento saranno espresse nella produzione artistica. Già allora iniziarono i primi gesti di sostegno da parte della popolazione che, racconta Radovanović nel diario, li aiutava nel mantenere le corrispondenze con i familiari in Jugoslavia raccogliendo di nascosto i messaggi lanciati dal carcere.
Secondo le testimonianze di diversi prigionieri, nei giorni attorno all’8 settembre l’atteggiamento delle autorità del campo verso di loro oscillava tra prime manifestazioni di complicità e gesti di ostilità, in un clima di caos e indecisione. I reclusi si offrirono per organizzare subito una resistenza armata unita, ma vennero liberati quando le truppe naziste erano ormai in arrivo a pochi chilometri da Garessio e l’esercito italiano era ormai sfaldato. Non restava che la fuga per i boschi, sul versante rivolto verso la Liguria. A Valsorda, la prima borgata che si incontra su quel frangente, gli evasi furono assistiti dagli abitanti locali con viveri, indumenti e rifugi in cascine, capanne, seccatoi.
Nei mesi successivi gli ormai ex-prigionieri si sparsero nella val Tanaro e nelle vicine valli Mongia, Bormida, Casotto. Anche a Ormea, Lisio, Pamparato e altri paesi si diffuse la solidarietà spontanea degli abitanti, che avrebbero fornito a lungo - in alcuni casi fino alla fine della guerra - collaborazione sotto forma di alloggio e viveri, sostegno economico, guide per trasferimenti, cure e medicinali, esponendosi a gravissimi rischi se scoperti dai nazifascisti tedeschi e italiani. Nei documenti e nelle testimonianze affiorano decine di nomi e cognomi dall’estrazione diversa, tra famiglie contadine e operaie, impiegati e professionisti, montagna e urbanità valligiana, uomini e donne.
Gli aiuti delle signore Osvalda Ascheri, Emilia Bisio, Rosa Delfino e tante altre sono la prova di un contributo femminile alla resistenza civile tuttora poco riconosciuto, nella narrazione sull’Italia del 1943-45. Come ha scritto Anna Bravo, anche il “farsi carico di qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra” rientra nei vari comportamenti di resistenza civile, che nel periodo di sbandamento post-8 settembre assume i contorni di un “maternage di massa”. È un momento in cui, scrive Bravo, la donna emerge come figura forte e protettrice verso uomini in condizione di vulnerabilità, “rafforzata e mediata dalla carica simbolica connessa alla figura femminile”. Cruciale fu anche il ruolo dei parroci locali, che spesso si occuparono di coordinare aiuti e movimenti dei prigionieri. Alcuni mostrarono un atteggiamento caritatevole ed equidistante rispetto alla situazione di guerra, altri un coinvolgimento più attivo, che prefigurava un’aperta collaborazione con le forze partigiane.
Spiccano atti di autentico coraggio civile, come l’intuizione di Flora Corradi, la titolare dell’albergo Paradiso di Garessio in cui erano nascosti sette jugoslavi. Quando una squadra di SS irruppe nell’albergo in cerca degli evasi puntandole i fucili nella schiena, Corradi riuscì a inventarsi degli espedienti con cui li distraeva, permettendo agli evasi di scappare. C’è poi la vicenda tragica di Luigi Odda, il tipografo che stampava i documenti falsi con cui decine di ex-prigionieri jugoslavi ripararono in Svizzera: fu scoperto dai nazifascisti a causa di un delatore, incarcerato e poi deportato a Mauthausen, dove morì il 28 aprile 1945. È un’antologia di dignità umana che suscita molte riflessioni, in particolare se le si guarda con gli occhi del presente, in cui la solidarietà per soggetti vulnerabili e per chi attraversa le frontiere viene osteggiata, quando non criminalizzata.
Ai prigionieri del Campo 43 in fuga si presentarono quattro possibilità: tentare la via del ritorno in Jugoslavia; riparare in Svizzera con i canali dei servizi di assistenza per prigionieri alleati; rimanere alla macchia; unirsi alla Resistenza locale. Incrociando l’elenco degli internati e le banche dati degli istituti della resistenza piemontese e ligure, risulta che circa quaranta abbiano fatto quest’ultima scelta: cinque in Liguria, principalmente con formazioni garibaldine, e gli altri in Piemonte, tutti nelle formazioni autonome della IV Divisione Alpi.
Le motivazioni e modalità della scelta appaiono, come sempre in questi casi, molto diverse. Ci fu chi, soprattutto tra i militari di carriera, seguì valutazioni razionali oltre che ideali. Nel suo diario il sottotenente Tamindžić annota, il 26 settembre 1943, che si prevedeva uno sbarco (poi però mai avvenuto) degli Alleati presso le vicine coste di Liguria e Costa Azzurra, circostanza che avrebbe offerto “l’occasione […] di partecipare onorevolmente alle lotte contro il nostro nemico” in un’area che avrebbe assunto grande importanza strategica.
Altri furono presumibilmente mossi da impulsi esistenziali e imperativi morali, soprattutto tra chi era già consapevole dei terribili crimini contro i civili compiuti dai nazifascisti nelle loro terre d’origine, e allo stesso tempo vedeva difficile un ritorno immediato in patria. C’era chi si muoveva in gruppo o in piccoli nuclei e chi, per la spinta degli eventi o forse per scelta, rimase da solo.
Nel novembre 1943 una dozzina di ex-prigionieri jugoslavi, capitanati dall’ufficiale Ilija Radović, si aggregò alla Brigata Valcasotto: lavoravano con le squadre di guastatori e logistici e nell’ambiente partigiano vennero presto denominati “legione straniera”. “Sono gentiluomini e godono, come i partigiani, della simpatia della popolazione”, scrisse nelle sue memorie don Emidio Ferraris, parroco di Pamparato. Della “legione straniera” si perdono poi le tracce nella documentazione, probabilmente a seguito dello sbandamento della brigata dopo la tragica battaglia della Valcasotto del marzo 1944. Il gruppo riappare però in scena nove mesi dopo, nel corso di un rastrellamento dei nazisti nella vicina Val Corsaglia.
Ma nelle valli di basso Piemonte e ponente ligure, i nomi di partigiani provenienti da oltre Adriatico e passati per Garessio affiorano un po’ ovunque, spesso a fianco di altri nomi francesi, polacchi, tedeschi, sovietici. Da ricordare in particolare i contributi di Spasoje Radovanović, nome di battaglia Jugos, di Podgorica - già membro della Divisione Langhe e poi del CLN di Savona, il 25 aprile 1945 partecipò alla liberazione della città con la Div. Fumagalli -, di Milan Milutinović “Mille” di Belgrado - che operò in diverse formazioni tra le valli Pennavaire e Bormida - e soprattutto di Krešimir Stojanović di Slavonski Brod, il leggendario partigiano Cresci.
Il partigiano Cresci
Nato nel 1924, Krešimir Stojanović era uno tra i più giovani reclusi del Campo 43, in cui si trovava insieme al papà, il capitano Aleksandar. Aveva tentato di evadere ancora prima di giungere al Miramonti, sul treno prigionieri che lo stava trasportando il 6 ottobre 1942, ma fu subito catturato. Dopo l’8 settembre gli Stojanović furono ospitati per alcuni mesi dalla famiglia Bernasconi, finché avvenne la decisione lacerante: il padre riparò per la Svizzera, Krešimir scelse di restare in Piemonte. I due non si vedranno mai più. Da qui inizia il peregrinare alpino e partigiano di Cresci.
Nell’aprile 1944 passò in val Pesio dove partecipò da capo tiratore alla Battaglia di Pasqua, con cui i partigiani sfuggirono all’accerchiamento della Wermacht. Poi tornò in val Tanaro, entrando nella squadra d’assalto della XIII Brigata, quella che conduceva le azioni di guerriglia più rischiose e improvvise. Dalla presa della caserma dei Forti di Nava, strappata ai repubblichini nel giugno 1944, alle innumerevoli imboscate contro contingenti, mezzi e basi operative dei reparti nazisti, alle manovre di retroguardia nel terribile inverno 1944-45 attraverso passi di oltre 2000 metri, ogni azione cruciale nella zona vide la squadra d’assalto e Cresci in prima linea, sempre insieme al suo inseparabile amico Eugenio Bologna, il comandante Genio.
In mezzo a tanta epica di guerra, e a fianco di un carattere che dalle testimonianze emerge intriso di fermezza e severità, Cresci è anche ricordato per un gesto genuinamente istintivo, goliardico, umano. La notte del 13 marzo 1945 lui, Genio e altri due partigiani operarono una clamorosa beffa ai danni del comandante tedesco della zona di Garessio, un uomo che era solito circolare per la valle in stato di ebbrezza su un calesse trainato da cavalli purosangue. Inorriditi da quel tronfio sfoggio di potere, i quattro si travestirono da nazisti, si introdussero nella scuderia e portarono via i cavalli, costringendo le pattuglie tedesche a compiere un’umiliante perlustrazione lungo tutta la valle. Fu un impulso genuino di ribellione contro gli oppressori, che alimentò il morale dei partigiani e della popolazione [...]
Alfredo Sasso, Lo stesso destino: resistenza internazionale, civile e partigiana tra Val Tanaro e Jugoslavia, OBCT, 24 aprile 2020 


La vita al campo PW 43
I prigionieri che arrivano a Garessio nell’ottobre del 1942 provengono dal campo di prigionia di Sulmona. Questo è un campo di “punizione”, composto da baracche che erano riservate ai cavalli austriaci durante la prima guerra mondiale. Il campo è controllato dai tedeschi, con il comando a Sulmona, diretto da un generale. Nel diario di Spasoje M. Radovanovich (pag. 118 vita) si legge a tal proposito”….Insomma, a Sulmona non erano proprio giorni belli”, per sopravvivere in quei tre mesi di stenti “…abbiamo mangiato le bucce delle arance, dei limoni, delle mele, per poter introdurre qualche vitamina nel corpo”. Dopo questa pesante esperienza, l’arrivo a Garessio viene vissuto positivamente. Dal diario di Spasoje M. Radovanovich: Ottobre 1942 “…Garessio, bella, splendida e rinfrescante. Anche per quelli che non la conoscono, parla da sola e dice tutto. Là in alto, la Madonna della Pietra Ardena benevolmente volge il suo sguardo su tutti quelli che frequentano questa bella cittadina … Poi, guardando dalla stazione ferroviaria verso il colle del San Bernardo, spuntava un edificio bellissimo tra il manto verde vivo che rallegrava i muri giganti del grande albergo “Miramonti”….. In fila, circondati dalle sentinelle, lasciammo la stazione … sentimmo che quel grande albergo sarebbe stato la nostra casa ….  A nessuno sembrava vero che potesse davvero ospitarci … Non occorre descrivere tutto, basti pensare alla comodità e, posso dire, che ci sentivamo quasi tutti villeggianti venuti qui a riposare“ dopo quasi due anni si sofferenze e isolamento. Dal diario di Aleksandar Tamindzic 6 ottobre 1942 ….Attraversando le vie di Garessio in colonna, abbiamo guardato in tutte le direzioni e siamo stati contenti di quello che abbiamo visto intorno a noi. Il luogo è montagnoso, fresco, pulito. E’ pittoresco; l’aria è pura e sana. Ci sono tre piccole borgate che quasi si toccano e molti campanili.” Nel campo del “Miramonti” sono oltre trecento gli ufficiali iugoslavi  più qualche soldato. La maggior parte è costituita da serbi, di religione ortodossa, gli altri sono sloveni, di religione cattolica, inviati in Italia dalla Germania perché la Slovenia è occupata dagli italiani. Nella Relazione datata “Belgrado, 2 luglio 1964” e inviata al sindaco di Garessio da Lazar Jovancic e Milan Milutinovic in occasione del XX della Liberazione si può leggere: “….La vita tra il filo spinato non può naturalmente essere tanto felice …, ma per noi, in Italia, era pur sopportabile …. Non soffrivamo la  fame, (anzi) le autorità facevano tutti gli sforzi possibili per fornirci in quantità maggiore i generi alimentari …  negli ultimi mesi mangiavamo con piacere ogni giorno dei fagioli cotti alla nostra maniera nazionale … godevamo di ottima salute, anzi molti di noi cominciavano ad ingrassare! I giornali venivano distribuiti regolarmente, italiani e tedeschi, ma anche della Svizzera … … Molte notizie ci portava un prete italiano (don Divina) che veniva al campo ogni domenica …(erano notizie) nuovissime e sicurissime che ci trasmetteva senza alcun timore. Noi eravamo sicuri che il Comando del campo sapeva bene dell’atteggiamento amichevole del prete verso i prigionieri. Altra testimonianza sulla vita nel campo:
Dal diario di Spasoje M. Radovanovich: … Non è stato difficile conquistare l’amicizia della popolazione di Garessio … gente affabile, buona, comprensiva. … . .. le mamme, le sorelle, le giovani spose.. seguivano la nostra vita nel campo dei prigionieri .. (sperando) … .. .che i loro cari lontani vivessero come noi quella vita stessa che ci offriva  il “Miramonti”. … La nostra vita interna era sopportabile …. Mensa, spaccio, sala di lettura, sala da cinema, rappresentazioni teatrali, notizie dal fronte, notizie dalle famiglie, pacchi di viveri … Insomma, si viveva una vita, si potrebbe quasi dire, di lusso, dato che eravamo in guerra. … I nuovi padroni del campo erano vicini a noi, dialogavano con noi e poi ci sentivamo circondati da gente amica … … Della disciplina non occorre parlare.  Se anche qualche volta avveniva qualche rappresaglia da parte del comandante Radaelli, non si sentiva poi una vera difficoltà nel sopportarlo, dopo tutto quello che avevamo passato in precedenza con i tedeschi. . .la sentinella e il leggendario cappellano don Giuseppe Divina si recavano in città e ad ognuno portavano quanto veniva loro ordinato. …  Un gesto umano veniva anche dalla popolazione e, tramite loro, siamo persino riusciti a collegarci con i nostri familiari a mezzo corrispondenza. .. e il Comando nella persona di Mario Alimonti “non sapeva mai nulla” (anche se in realtà sapeva benissimo cosa succedeva all’interno del campo) (quindi non ostacolava queste azioni)
Redazione, Il Miramonti racconta..., La vita nel campo, VBStudio.net 

Luigi Odda - Fonte: IDEAWEBTV.IT, art. cit. infra

Con la consulenza del ricercatore storico Alfredo Sasso, l’indagine di archivio di Pierandrea Camelia e le riprese in filmato di Luca Locci, un documentario chiarisce quelle vicende ed evidenzia gli encomiabili atti di solidarietà operati dalla cittadinanza e il ruolo decisivo apportato da molte figure femminili e di intere famiglie per garantire l’incolumità dei militari, favorire la fuga verso l’estero o il ricorso alla macchia o l’adesione alle brigate partigiane della Val Tanaro, del Monregalese e del versante ligure.
La ricerca documentale sugli episodi di quel periodo bellico ha consentito di evidenziare la figura di una vittima del regime, Luigi Odda, nato nel 1900, titolare del laboratorio tipografico nella borgata Poggiolo. Durante la Resistenza Luigi riprodusse decine di documenti contraffatti su richiesta di Roberto Lepetit, industriale antifascista titolare dell’impresa farmaceutica di Garessio poi catturato, deportato e morto nel campo di sterminio a Ebensee in Austria nel maggio 1945: quei salvacondotti servirono anche per sottrarre alla cattura alcuni dipendenti che aveva ospitato in fabbrica provenienti da Milano. Stampò anche i visti per gli ex prigionieri jugoslavi che poterono così riparare in Svizzera. Fu scoperto dai nazifascisti a causa di un delatore, incarcerato e deportato nel lager di Mauthausen dove trovò la morte il 28 aprile 1945.
Redazione, 25 aprile: Garessio commemora la prigionia di 400 militari jugoslavi all’Hotel Miramonti, IDEAWEBTV.IT, 20 aprile 2021 


Dal Diario del Can. Don Candido Bava:
“8 settembre 1943 Giornata tragica per la nostra patria. Armistizio. Sbandamento dell’esercito italiano. Fuga disordinata di poveri soldati disarmati e dispersi ovunque per la campagna e sulle montagne in cerca di rifugio o in viaggio per raggiungere le loro case.”
Dopo lo sfacelo dell’esercito italiano a seguito dell’8 settembre 1943 e le drammatiche vicende belliche della Seconda Guerra Mondiale, il campo PW 43 viene aperto e i prigionieri “invitati” a fuggire. Sempre dal Diario del Can. Don Candido Bava:
“10 settembre 1943: Arrivo delle truppe tedesche Truppe tedesche avanzano da Ceva nella Val Tanaro. Giungono a Garessio senza incontrare resistenza. Da Garessio una colonna prosegue su Ormea dove incontra resistenza organizzata e sottopone il paese al tiro del cannone per parecchie ore. … Intanto il presidio militare di Garessio al sopraggiungere dei tedeschi, s’è eclissato abbandonando a se stessi il campo di concentramento prigionieri, i quali si danno a precipitosa fuga … rifugiandosi nei casolari dispersi sui colli circostanti al Santuario … Degno di lode il comportamento della popolazione nei riguardi dei soldati e dei prigionieri. … Tutta la popolazione si prodigò in ogni modo per alleviare la triste condizione dei militari dispersi. Per alcuni mesi questi (in prevalenza prigionieri Jugoslavi) ebbero vitto, indumenti e cordiale ospitalità ….”
I prigionieri scappano sulle montagne di Val Casotto, sempre braccati dai tedeschi, ma nascosti e nutriti dalla popolazione locale. Qualcuno di loro riesce a rifugiarsi in Svizzera, altri ritornano con molte difficoltà in Jugoslavia, ma molti di loro si uniscono ai gruppi partigiani e insieme conducono una stremante lotta per la Liberazione.
Dal diario di don Emilio Ferraris veniamo a conoscenza che la prima infermeria del “Gruppo partigiano di Val Casotto” è stata possibile grazie a questi ufficiali.
“Vengono ad aggregarsi a questo Gruppo di partigiani alcuni ufficiali serbi, già prigionieri all’”Hotel Miramonti” di Garessio e lasciati liberi dopo l’8 settembre 1943; sono gentiluomini e godono come i partigiani la simpatia della popolazione. Ne riportiamo i nomi: Elia U. Radonik, capitano di 1a classe, comandante Petko Mari Janovic Demitrizr Ceratlic Mihailo Rovacevic Cvetkovnic Deginür, capitano di 2a classe  Bozo Kenjic, tenente  Bozo Vakicevic, tenente Branislav Milanovic, s. tenente Movac Viceliic, tenente Dragutin J. Lasic, capit. 1a classe, aiutante maggiore. Tra di essi è un medico, Dottor Constantinovic Nicolaiev, che adibì la casa canonica, dove era ospitato, a prima infermeria del Gruppo partigiano”
L’aiuto della popolazione garessina a questi ufficiali non è indolore: è doveroso ricordare almeno la morte a Mauthausen del tipografo Luigi Odda (nato il 24 gennaio 1900 - morto in prigionia il 28 aprile 1945) arrestato il 18 gennaio 1944 e deportato per aver rilasciato agli slavi documenti falsi di riconoscimento.
Così anche diversi ufficiali slavi pagano con la vita la decisione di rimanere a combattere per la libertà. Tra questi Dioko Radovanovich, morto in prigionia il 10 gennaio 1944; Banasevich Liubo, caduto in data imprecisata a Macerata durante uno scontro con i tedeschi; Nicolic Milas ucciso dal fuoco nemico in Liguria nell’ottobre 1944.
La lettura dei “diari” scritti da alcuni di questi ufficiali consente di conoscere meglio la loro situazione dopo l’8 settembre 1943.
Dal diario di Spasoje M. Radovanovich 8 settembre 1943
“Fu un giorno storico per gli italiani ed anche per i prigionieri. Si attendeva l’uscita …. La nostra insistenza presso il comandante Ardù era continua, perché ci aprisse il cancello per scappare, per non rimanere nuovamente nelle mani dei tedeschi. Il comandante Ardù … ci assicurò  l’apertura del cancello prima che arrivassero i tedeschi. Finalmente il 10 settembre diede ordine di aprire i cancelli … ed ognuno di noi si avviò al suo destino. La maggior parte prese la via del Santuario di Valsorda e poi si disperse nei boschi. … Insieme con noi scapparono il comandante Ardù, ufficiali, sottoufficiali, sentinelle … Eravamo veri  fratelli, come se fossimo sempre vissuti insieme … A questo punto comincia l’opera umana della popolazione di Garessio …  Vi fu una vera gara tra la popolazione a chi avrebbe dimostrato maggior generosità ….  Come si può dimenticare la cordialità di tanti generosi, offertaci in tempi difficili, nel tempo che si rischiava di “essere, o non essere”. Come si possono dimenticare i nomi: Carrara, Alimonti, Elvira, Flora, Giulia, Vittorina, Sasso e centinaia di altri?
Redazione, Il Miramonti racconta..., I prigionieri dopo l'8 settembre '43, VBStudio.net  

Tra il 13 marzo 1944 e il 5 aprile 1944 si consumò tutto il terribile rastrellamento contro i partigiani di “Mauri” in valle Casotto e dintorni (Bagnasco, Frabosa Soprana, Garessio, Lisio, Montaldo Mondovì, Ormea, Pamparato, Viola, Ceva, Roburent, Torre Mondovì, Battifollo, Monasterolo Casotto, Priola) che causò la morte di 26 civili e 98 partigiani, di cui molti catturati e fucilati a Ceva. Nella “battaglia di Pasqua”, rastrellamento contro le formazioni autonome “R” di valle Pesio protrattosi dal 7 al 12 aprile 1944, caddero nei comuni di Peveragno, Chiusa Pesio, Roccaforte, Briga Alta, Limone, Pianfei, 6 civili e 13 partigiani.
(a cura di) Aa.Vv., Il Piemonte nella guerra e nella Resistenza: la società civile (1942-1945), Consiglio Regionale del Piemonte, 2015

martedì 19 gennaio 2021

Su piloti ed ufficiali alleati in fuga verso la libertà con l'aiuto dei partigiani imperiesi

Una vista da Ceriana (IM) - Foto: Alessandro Spataro

Un ufficiale di collegamento americano della Missione Alleata, di nome Walker Harris, abbattuto con il suo apparecchio nel novembre del 1944 sopra Casale Moferrato, preso prigioniero e portato a Genova dai Tedeschi, riuscì a fuggire e dopo varie peripezie raggiunse in dicenbre il 3° battaglione "Candido Queirolo" comandato da "Gori" [Domenico Simi] (V^ Brigata), ove rimase fino alla Liberazione perché non si riuscì a trasportarlo in Francia, come aveva ordinato il comandante "Vittò" alla V^ Brigata il 3 gennaio 1945. (Lettera del 3-1-1945, prot. n. 496/F/6 Isrecim).
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. La Resistenza nella provincia di Imperia da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con patrocinio Isrecim, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977
 
[ n.d.r.: le vicende riguardanti in Piemonte piloti e prigionieri alleati e partigiani hanno avuto spesso incroci con l'attività dei garibaldini della I^ Zona Operativa Liguria, come nel caso di una parte della Missione Flap ]

L'operazione più importante alla quale partecipai fu la fuga dei 5 prigionieri alleati che trasportammo in Francia. I 5 soldati erano 2 americani, 2 inglesi e un francese. Gli inglesi erano: Michael Ross, capitano del Welch Regiment; Cecil "George" Bell, tenente della Highland Light Infantry. Il francese era Fernand Guyot, pilota. Gli americani erano i piloti Erickson e Klemme: non ne so né il nome, né il reparto, né altri dettagli, solo che erano piloti [n.d.r.: da ricerche fatte compiere presso l'Istituto Storico dell'US Air Force, Giuseppe Mac Fiorucci (vedere infra) appurò che si trattava di Lauren Erickson, tenente pilota di P38 Lightnings, 1° Gruppo 270° Squadrone, e Ardell Klemme, tenente pilota di bombardieri B25, 340° gruppo, 489° Squadrone]. Dopo l'8 settembre 1943 erano fuggiti dai campi di prigionia e avevano vagato per l'Italia settentrionale alla ricerca di un passaggio per la Svizzera o per la Francia liberata. La Resistenza li nascose a Taggia (IM) per qualche tempo, sperando nell'arrivo di un sottomarino per metterli in salvo. Nel febbraio del 1945 il Comando decise di tentare da Vallecrosia [...] Renato Dorgia, "Plancia" *, in Gruppo Sbarchi Vallecrosia di Giuseppe Mac Fiorucci, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia - Comune di Vallecrosia (IM) - Provincia di Imperia - Associazione Culturale "Il Ponte" di Vallecrosia (IM), 2007> * insignito di Croce al Merito di guerra per attività partigiana

Il 24 gennaio [1945] il dott. Marchesi precipitatosi in casa mia [Villa Llo di mare in zona Arziglia a Bordighera (IM)] comunicò che i tedeschi dovevan partire entro 2 giorni, prelevando tutti i designati ostaggi di cui io risultai capolista. Si impose una fuga generale; Marchesi collocò altrove cognata e nipote, noi ci rifugiammo nella villa di Kurt Hermann… nazista, naturalmente a sua insaputa: i 2 ufficiali inglesi, guidati da mio figlio pei monti, di notte, raggiunsero rifugi ignoti, mentre mio figlio scendeva la costa in attesa degli avvenimenti. La notizia dataci risultò imprecisa, chè la fuga tedesca tardò ancora 3 mesi. Ma i 2 inglesi dopo romanzesche avventure in montagna e sulla costa di Vallecrosia raggiunsero la Francia e si misero finalmente al sicuro. Oggi scrivono dall’Inghilterra […] I 2 ufficiali inglesi si chiamano: Michael Ross e George Bell. Altro aiuto avemmo nell’occultamento dei 2 inglesi dal compagno Luigi Negro, autista della villa Hermann alla Madonna della Ruota. Egli ospitò una notte i 2 alleati nella detta villa, nonostante la permanenza di scolte tedesche nelle adiacenze e la possibilità di sorprese da parte del padrone e dei suoi accoliti.
Giuseppe Porcheddu, manoscritto (copia anche presso il già citato Isrecim - Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia - )
edito in Francesco Mocci (con il contributo di Dario Canavese di Ventimiglia), Il capitano Gino Punzi, alpino e partigiano, Alzani Editore, Pinerolo (TO), 2019 

Klemme, caduto al confine con il Piemonte, fu dunque indirizzato verso il Monferrato e si ritrovò con Walker Harris. Entrambi, purtroppo, persero il volo del 19 novembre [1944]. Il giorno successivo, i tedeschi attaccarono il campo d’aviazione di Vesime, se ne impadronirono e dissestarono il terreno di volo arandolo ripetutamente. I partigiani sarebbero nuovamente riusciti a rimetterlo in funzione, ma non prima della primavera successiva. Sfumata questa possibilità, Augusto Bobbio decise di trasferire Harris e Klemme a Prea, nella zona di Cuneo.
I due aviatori, marciando sempre di notte, giunsero a Prea tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del 1944. Furono presi in consegna dai partigiani di un’altra formazione autonoma, la Divisione Alpi di Pietro Cosa, che operava in collegamento con una Missione militare [
Flap] anch’essa britannica.
Di quest’ultima Missione aveva fatto parte, tra agosto e ottobre, un singolare personaggio, il capitano canadese Paul Morton. Morton era un giornalista ed era stato paracadutato con il compito di inviare corrispondenze di guerra al Toronto Star. Esibire un corrispondente dietro le linee nemiche era una mossa di forte impatto propagandistico, come ben sapevano le autorità britanniche, attente a questi dettagli. Morton era stato tra i primi a contribuire al passaggio in Francia di aviatori ed ex prigionieri attraverso un sentiero che si inerpicava sul Colle di Tenda. Dopo lo sbarco alleato in Provenza, infatti, le forze tedesche erano state respinte da un’ampia parte della Francia meridionale.
Nelle memorie scritte dopo la guerra, Morton ricorda <un pilota da caccia del Nebraska> che gli diede non pochi grattacapi: <mi annunciò che, poiché il suo addestramento era costato al suo governo più di centomila dollari, lui era l’uomo di maggior valore tra tutti noi, e perciò avrebbe dovuto andare in Francia per primo>. Morton diede una lunga occhiata alle vette innevate delle Alpi, quindi ribattè che, per parte sua, il pilota poteva andarsene in Francia anche subito [15]. Quel pilota era certamente Reginald Jacobson, nato, appunto, in Nebraska nel 1921 e abbattuto in settembre presso Saluzzo.
Quando Harris arrivò a Prea, Paul Morton era già stato richiamato. Il mutato clima politico-militare nei confronti della Resistenza aveva indotto le autorità britanniche a censurare i suoi articoli e a rispedirlo in Canada [16]. Intanto, era ancora a mordere il freno Reginald Jacobson, malgrado nel frattempo almeno due gruppi fossero passati in Francia.
Non vi fu tempo per organizzare la partenza di un nuovo gruppo. Il 2 dicembre le forze tedesche attaccarono le zone libere del Piemonte Meridionale. Gli aviatori vennero separati: Harris e Jacobson furono avviati in direzione Sud, verso la Liguria. L’estremo Ponente ligure, infatti, dopo l’arrivo delle forze alleate nella Costa Azzurra, era diventato un importante punto di partenza per chi volesse tentare di passare le linee.
Molti aviatori caduti in Piemonte o in Liguria venivano indirizzati verso l’Imperiese: tra di essi, anche Ian Smith, futuro presidente della Rhodesia, all’epoca pilota da caccia nella RAF [17]. La Resistenza italiana attivò addirittura un Gruppo Sbarchi: piccole imbarcazioni prendevano il largo dal litorale di Vallecrosia per poi sbarcare sulla Costa Azzurra [18].
Walker Harris fu aggregato al Battaglione Garibaldi Candido Queirolo, comandato da Domenico Simi Gori, che affiancò il Gruppo Sbarchi nell’organizzare il passaggio in Francia di ex prigionieri e aviatori alleati. Harris trascorse circa due mesi sui monti nell’entroterra di Taggia: era iniziato l’inverno, un inverno particolarmente aspro, che coincideva con una fase critica per la Resistenza. Successivamente fu nascosto in una cava nei pressi di Ceriana, in mezzo agli ulivi.
Qui lo vennero a stanare i soldati tedeschi, informati da una delazione. Harris venne pertanto incarcerato a Sanremo. Lo interrogò un ufficiale della Kriegsmarine, Georg Sessler, <che ci ha sempre trattati bene, nei limiti della sua autorità e delle circostanze>, ricorda l’aviatore. Di quei giorni, ad Harris rimase impresso anche il bombardamento navale [a febbraio 1945] subito dalla città: un incrociatore francese, infatti, il Jeanne D’Arc, periodicamente compariva al largo e cannoneggiava Sanremo [19]. In seguito, Harris venne tradotto a Genova e rinchiuso nel carcere di Marassi.
L’odissea del giovane aviatore durava ormai da mesi. La campagna d’Italia volgeva al termine e la Resistenza si preparava all’insurrezione finale. Il comando tedesco dispose di trasferire Harris e altri prigionieri in Germania, ma il veicolo su cui erano stati caricati fu bloccato dai partigiani e l’aviatore recuperò la libertà. Il 27 aprile le truppe americane entravano a Genova.
Harris si riunì ai suoi e rientrò negli Stati Uniti, dove ha vissuto sino al 3 giugno 2008, data della sua scomparsa. Negli anni della maturità era tornato più volte in Italia, ad incontrare ex partigiani e i loro discendenti, a ripercorrere i luoghi delle sue avventure di gioventù e a fare scorta di spumante. Nel 2003 è stato intervistato dalla Stampa, che lo ha promosso ufficiale pilota e messo ai comandi del suo B-25, e ha ringraziato gli italiani che lo avevano aiutato [20].
[15] Paul Morton, Missione Inside tra i partigiani del Nord Italia, Cuneo, L’Arciere, 1979, p. 91.
[16] In tempi recenti, un altro giornalista canadese, Dan North, ha svolto una ricerca storica per ricostruire la vicenda di Morton, venendo anche in Italia: Alberto Papuzzi, Sulle tracce di Paul Morton, il reporter partigiano che il Toronto Star censurò, “La Stampa”, 8 luglio 2008. Dalla ricerca è nato il libro Inappropriate conduct, pubblicato nel 2009.
[17] Ian Smith, ufficiale pilota di uno Spitfire, fu abbattuto il 22 giugno 1944 e precipitò in località Vallescura, nel Savonese: Bruno Chionetti-Riccardo Rosa-Gianluigi Usai, Aerei su Savona. Storie di piloti ed aerei caduti in provincia di Savona, Voghera, Marvia, 2010.
[18] Giuseppe Fiorucci, Gruppo Sbarchi Vallecrosia, Imperia, ISREC, 2007.
[19] Secondo il diario di guerra di Giuseppe Biancheri, messo in rete nel sito www.cumpagniadiventemigliusi.it., l’incrociatore cannoneggiò Sanremo il 6 febbraio, il 2, il 20 e il 31 marzo, il 12 e il 15 aprile 1945.
[20] Così bombardai il ponte di Casale, “La Stampa”, edizione di Alessandria, 6 maggio 2003.

Alberto Magnani, I sentieri della salvezza. Aviatori americani e resistenza italiana tra Piemonte e Liguria, in Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza (Grac) 

Walker Harris con la moglie, durante una visita nel 2000 alla casupola dove era situata la base della Missione Flap. In mezzo, Pietro Cosa, il figlio di Piero Cosa, comandante della Divisione Autonoma "Alpi" - Fonte: Grac

Da informazioni non controllate o da semplici supposizioni popolari sembra invece che Dell Klemme si sia salvato […] passare e ripassare più volte a volo radente su Pecetto un aereo il quale, raggiunta l'altezza del Castello, avrebbe effettuato alcune scivolate d'ala per trasmettere l'ultimo saluto ai suoi amici di un tempo. Il pilota di quell'aereo sarebbe stato Dell Klemme. Osvaldo Mussio, Tra lo Scrivia e il Po. Uomini e episodi della Resistenza, Edizioni dell'Orso, 1982

[ n.d.r.: Ross, Michael Ross, nel suo From Liguria with love. Capture, imprisonment and escape in wartime Italy, Minerva Press, London, 1997 (aggiornato di recente dal figlio, David Ross, The British Partisan, Pen & Sword, London, 2019), raccontò in modo dettagliato anche la permanenza sua e di Bell tra i partigiani imperiesi. Dei patrioti non fece mai nomi veri o di battaglia, ad eccezione del sopra citato Giuseppe Porcheddu e della sua famiglia, presso i quali idue ufficiali britannici trovarono ospitalità clandestina per circa un anno, di Renato Brunati, martire della Resistenza, e Lina Meiffret, tornata salva dalla deportazione in Germania, ma tormentata, a dir poco, nello spirito, i quali per primi sul finire del 1943 diedero loro rifugio ai due ufficiali in Baiardo, di Vito - Vitò, Ivano, Giuseppe Vittorio Guglielmo, comandante della II^ Divisione d'Assalto Garibaldi "Felice Cascione" - di Achille - identificabile in Achille "Andrea" Lamberti del Gruppo Sbarchi Vallecrosia - e di Giuseppe Porcheddu, colui che li tenne nascosti per circa un anno e che tentò di aiutarli in varie maniere. Di questo libro qui si vogliono citare solo alcuni fatti immediatamente antecedenti la fuga finale. Che per tre volte,  a seguito delle comunicazioni via radio fatte dal telegrafista dell'ufficiale di collegamento alleato, il capitano del SOE britannico Robert Bentley, un sommergibile inglese si avvicinò alla costa vicino a Taggia - forse alla Curva del Don di Riva Ligure, già altre volte pensata per simili missioni; che che per due volte la scorta dei partigiani ed il gruppetto degli alleati - tra i quali i sopra menzionati Erickson e Klemme - che dovevano imbarcarsi dovettero fuggire perché trovarono i tedeschi che li mitragliarono con l'ausilio di bengala; che all'ultimo appuntamento con il natante i nazisti attesero invano, perché nel frattempo i garibaldini avevano individuato la spia che aveva messo in allarme il nemico, una giovane donna, di probabile origine iugoslava, prontamente giustiziata. Che risultarono dispersi, poco prima della loro partenza, due partigiani e due americani, indicati come Ricky e Reg. E che alla fine si compose la squadra che, come già detto qui all'inizio, marciò verso Vallecrosia ]

Giorni dopo recuperammo altre due barche dal solito deposito […] finalmente portammo i battelli al mare e i 7 passeggeri (i 5 alleati e i 2 "passeur"). Prima di partire uno dei "passeur" volle collaudare le barche per verificare che tenesso il mare. Imbarcati tutti, partirono in 9 guidati da Achille e un altro, non ricordo se "Gireu" [Pietro Gerolamo Marcenaro] o Renzo Rossi o altri. Credo Renzo Rossi, che era il capo di tutta l’organizzazione sbarchi. Arrivarono sani e salvi e questa operazione accrebbe non poco la considerazione degli alleati per la Sezione Sbarchi di Vallecrosia.
Renato Dorgia in Giuseppe Mac Fiorucci, Op. cit.