Cipressa (IM): una vista sino alla zona di Sanremo |
Un giorno, sul finire di giugno [1944], i tedeschi e i fascisti salirono
da Montalto Ligure e Makallé mi disse di portarmi in cresta sopra la
ripida mulattiera che portava al passo di Vena. Loro avrebbero nascosto i
viveri e cancellato le tracce della nostra permanenza al Casone della
«Scià Maria». Io, con la mia squadra, potevo prendere le decisioni che
mi sarebbero parse opportune: l'importante era tenere la squadra unita.
Arrivati in prossimità del passo notammo che questo era già occupato dai
fascisti. Non ci restò altro da fare che disturbarli con qualche
raffica, per renderli un po' più guardinghi, e quindi più lenti.
Rìtornammo al casone e, dopo esserci consultati, decidemmo di andare a
rifugiarci sulla costa, vicino al mare, e ci avviammo lungo la strada.
Quasi subito sentimmo una nutrita sparatoria sopra Pietrabruna: chiesi
ad un uomo, che stava salendo dal paese, se sapeva cosa stava succedendo
e questi mi rispose: «è la banda di Tito che ha attaccato i tedeschi».
Era una spia? O era un poveraccio che non sapeva cosa diceva? Noi,
comunque, ci precipitammo a dare una mano a Tito. Quando vedemmo ì
tedeschi, capii la mia stupidità; allora dissi a Giacò: «Tu con tre
uomini cerca di fermarli, tanto da darci tempo di andare ad appostarci
su quel costone là dietro; quando siamo arrivati ti ritiri e noi ti
copriamo». Così fecero, ma prima di arrivare nel luogo dove avevo
pensato di coprire Giacò, ecco farsi incontro uno strano tipo, che
correva verso di noi. Gli chiesi chi era e dove andava; lui mi rispose:
«Sono un comunista e un partigiano diretto al Comando, quando ho sentito
sparare, e sono venuto a darvi una mano». Io gli dissi: «Bravo, non hai
neanche un fucile, ma in compenso hai del fegato». Era Milan; sarebbe
poi diventato il Comandante della IV Brigata della Cascione. Coprimmo
Giacò e gli altri, finché non ci raggiunsero, allora gli dissi:
«Ritirati finché non trovi un posto adatto per coprirmi coi fucili;
adesso lo prendo io il mitragliatore». «Non ti conosce», mi rispose,
«conosce soltanto me e allora è meglio che resti io: l'importante è che
tu mi copra». Così facemmo e lo facemmo tanto bene che i tedeschi
rallentarono il loro inseguimento e la distanza fra loro e noi aumentò.
Quando raggiungemmo la «Casa del sergente», situata in mezzo a una
vigna, sotto il passo di San Salvatore, i tedeschi non si vedevano più.
Chiesi al vecchio sergente se aveva qualche cosa da mangiare: lui entrò
in casa e ne uscì con due grossi pani, «adesso vado a prendervi da
bere». Nel tempo della sosta mi era sembrato di udire degli spari dalla
parte di Pompeiana, li avevano sentiti anche gli altri, tanto che tutti
fecero silenzio: eravamo presi fra due fuochi; prendemmo i fiaschi di
vino che frattanto il sergente aveva portato e, al coperto della vigna,
entrammo nel vicino bosco di querce. Numerosi tedeschi erano sulla
cresta del Passo di San Salvatore; gli altri salivano lentamente verso
di loro.
Il boschetto di piccole querce, dove ci eravamo rifugiati,
non dava molte possibilità di sopravvivenza in caso di rastrellamento.
La cosa migliore da farsi era di cercare un riparo occasionale. Lo
trovammo nella curva di un ruscello: l'acqua aveva allargato il letto
del corso d'acqua e i bordi servivano da trincea. L'importante per noi
era di non lasciare avvicinare gli inseguitori con il lancio di bombe a
mano, sperando nell'oscurità della sera per sganciarci dalla nostra
critica situazione. Il boschetto era fatto segno a continue raffiche di
mitraglia e a colpi di mortaio che iniziarono al calare del sole. Buon
per noi che i mortai non erano con l'avanguardia delle forze di
rastrellamento. Pensai che, dopo aver martellato con i mortai, il nemico
avrebbe cercato di farci uscire allo scoperto, approfittando delle
ultime luci del giorno; pertanto decidemmo che appena i mortai avessero
smesso ci saremmo ritirati. Così facemmo: noi uscimmo dal nostro riparo
proprio mentre il nemico si addentrava nel boschetto. Ripiegammo verso
Cipressa passando prima da una campagna dove speravamo di trovare pesche
mature: ne trovammo poche e acerbe, ma furono gradite ugualmente da
tutti.
Andammo a dormire a Cipressa, in un fienile di mio zio, in
Vico Martini. Sapevo che in quel periodo gli zii non dormivano in paese,
ma in una casetta in campagna vicino al mare. Tutte le mattine però mio
zio saliva in Paese con l'asina carica d'erba per i conigli e le
galline e, dopo aver scaricato la bestia, la faceva entrare nella stalla
che si trovava proprio sotto il fienile. Al suo arrivo scesi nella
stalla e, quando aprì la porta ed ebbe fatto entrare la bestia, mi vide.
Non riuscì a parlare per lo stupore o per lo spavento? Allora gli dissi
di chiudere la porta e di venire di sopra, che gli avrei spiegato; e mi
allontanai su per la scala del rustico. Mi raggiunse immediatamente e
quando vide tutti quei giovani sconosciuti e con le armi esclamò: «Siamo
perduti» (Mi ricordava sempre queste due parole il partigiano di Piani
di Imperia «Ninchi», ora defunto, tutte le volte che lo incontravo).
Gli
risposi: «Senti «barba» (zio), abbiamo una fame da lupi, vai da Ernesto
il panettiere (Ernesto Velio), digli che sono qui con una ventina di
ribelli e fatti dare tutto il pane che può; prendi l'asina e ritorna da
dove sei venuto». Mi rispose: «Va bene per Ernesto, ci si può fidare, ma
lo sapete che il paese è circondato dai Mongoli che cercano i
partigiani casa per casa?». «Stai tranquillo», gli dissi, «i Mongoli
sono come i tedeschi, i partigiani li cercano solo nelle case dove vive
la gente, dove si può rubare qualche oggetto di valore e, per male che
vada, qualche cosa da bere».
Mio zio partì ed io risalii nel fienile.
L'idea di rifugiarci in quel fienile era stata la mia, ma nessuno mi
fece neanche lontanamente capire di volermene per quello che poteva
essere un grosso sbaglio. Spiegai la situazione e anche a loro dissi
che, per la mia esperienza, escludevo che i mongoli avrebbero setacciato
anche i fienili e le case diroccate (lo erano ancora a causa del
terremoto della fine dell'ottocento) e pertanto ero tranquillo. «è più
probabile», dissi, «che incendino il paese, e allora certamente
inizieranno da un fienile, in questo caso ci divideremo in due squadre;
una la guiderà Giacò e l'altra io. Ci sono tre vie di uscita: una dalla
porta della stalla, l'altra dalla porta del fienile e l'altra dai tetti,
da dove ci si può allontanare per tutto il borgo».
Ogni tanto si
sentiva una raffica in lontananza, ma niente altro. Arrivò infine anche
mio zio con un sacchetto di panini e un paiolo di risotto. Ernesto aveva
fornito una decina di chili di pane, ma aveva anche pensato che
probabilmente eravamo senza fumare, e così ci aveva mandato pure alcuni
pacchetti di «trinciato forte», le cartine ed i fiammiferi. Prima di
partire mio zio fu pregato da Mauro Caprile e da Luciano, un altro
ragazzo di Porto Maurizio, di avvisare le loro famiglie che erano in
salvo e che stavano bene. Mio zio caricò l'asina e partì, assicurandoci
che avrebbe pregato per noi. Nel pomeriggio arrivarono i mongoli: dopo
aver sostato brevemente dinanzi alla stalla e rimosso la porta,
proseguirono per fermarsi davanti all'abitazione di Giacomo Martini, a
pochi metri da noi; entrarono e, per un bel po' di tempo, cercarono
quanto loro interessava in quella casa. Da una piccola finestra li
vedemmo entrare e uscire, ma nessuno di noi ne fu apparentemente
impressionato. Il giorno dopo tornò mio zio, informò Luciano e Mauro che
sua moglie, mia zia, era andata ad avvisare le loro due famiglie e ci
informò sull'opera dei mongoli. Avevano visto due uomini far legna nella
pineta, e avevano sparato su quei poveretti, uccidendo il Morscio di
Costa Rainera; e ferito Paolo Velio il figlio di Ernesto il panettiere,
(Lo avevano colpito alla schiena; riuscì a salvarsi, ma rimase con le
gambe paralizzate per tutta la vita).
Lo zio mi disse: «Non mi sento
di chiedergli ancora del pane dopo quello che è successo al figlio; gli
chiederò di anticiparci il pane della tessera annonaria mia e della zia,
e noi in qualche modo ci aggiusteremo». Poco dopo ritornò dicendoci che
Ernesto era andato ad Imperia, ma aveva lasciato detto alla moglie di
darci tutto il pane che ci serviva.
Questo era lo spirito della
nostra gente. Cosa avremmo potuto fare noi senza la loro totale
collaborazione? Nulla; i veri protagonisti della lotta di liberazione
sono stati loro. Non bisogna mai dimenticarcene. Ancora oggi godo
dell'amicizia di molti di loro, che incontro talvolta peregrinando dalla
Valle Impero alla Val Prino, dalla Valle Argentina alla Valle
d'Arroscia, dall'Alta Val Tanaro alla Valle Pennavaire, ad Alto ed a
Nasino.
Con questo non voglio dire di aver avuto sempre riconoscenza
per loro e di essermi sempre comportato bene nei loro confronti;
certamente avrò sbagliato più di una volta, ma sempre in buona fede e mi
scuso ancora se a qualcuno ho mancato di rispetto, oppure se qualche
volta ho abusato del mio potere nei loro confronti.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 77-80