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domenica 1 ottobre 2023

Cimitero ha mandato ai fascisti una sua fotografia che ora figura in tutti i posti di blocco

Il partigiano Cimitero è il primo a sinistra. Fonte: Gino Glorio, op. cit. infra

Il giorno 13 [marzo 1945] sono di nuovo a Ginestro [Frazione del comune di Testico in provincia di Savona]: al centro staffette si è sempre informati degli ultimi avvenimenti. A Ginestro sono in allarme perché sulla carrozzabile per Testico è in transito una macchina nemica; poi i tedeschi si allontanano e tutto torna normale. Vedo Venezia: la staffetta per la Cascione che si sposta a cavallo di un mulo: «Eri tu il partigiano cui la pattuglia tedesca ha sparato addosso?».
«Esatto, e me la sono cavata con una storta».
Venezia era contento per l'incidente. Compresi solo allora quale incubo fosse per lui passare tutti i giorni la «28» [n.d.r.: statale del Col di Nava] pattugliata dal nemico. Mai una volta si era lamentato di quell'incarico, pure l'incidente che lo immobilizzava e che da tutti noi era temuto perché l'esser bloccati in caso di attacco poteva essere la fine, faceva brillare di gioia gli occhi di Venezia. Conobbi la nuova staffetta, provvisoria perché appena guarito Venezia avrebbe ripreso il suo servizio. «Mancen [n.d.r.: Massimo Gismondi, comandante della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"] ci ha chiamato tutti», mi aveva detto. «C'è bisogno di una staffetta per la Cascione, ci ha detto. E' una cosa rischiosa perché c'è da passar la strada tutti i giorni. Chi si offre? Nessuno ha risposto. Benissimo allora va tu. Ed ha preso me. Dir di no non potevo. Avrebbe detto che avevo paura e sarebbe stata la verità. Al posto del moschetto ho la pistola, dà meno nell'occhio e spara lo stesso», ha detto Mancen. «Se ti vuoi sparare poi è più comoda. Se ci penso mi sento sudare... Dirlo è facile... Ma certo vivo non mi faccio prendere». Almeno Venezia guarisse presto!
Al pomeriggio lasciai Ginestro accompagnando fin quasi a Testico la staffetta della I^ Brigata. Mi raccontò un episodio di pochi giorni prima nella Valle di Diano.
Uno sbandato si era presentato al parroco di Diano Arentino. Il prete gli aveva dato un biglietto indirizzandolo a suo nome a chi gli avrebbe dato dei viveri; lo sbandato era caduto nelle mani dei fascisti ed il biglietto era stato sequestrato. Il giorno dopo, mentre il parroco diceva la Messa, venne uno di corsa ad avvertirlo che una macchina saliva per lo stradone: erano fascisti che venivano a cercare lui. Il prete cercò di affrettarsi ma l'auto era più veloce ed in pochi minuti fu in paese e si fermò sulla piazza della chiesa. Ad Arentino c'erano Mancen e suo fratello, udirono il rumore della macchina, i fascisti su un'auto non potevano essere molti ed attaccando risolutamente... Mancen piombò sulla piazza spianando il mitra: «Arrendetevi!». Due fascisti che stavano uscendo dall'auto cercarono di sparare, ma vennero fulminati da una scarica, gli altri due si arresero. Il parroco uscì di chiesa. Mancen lo chiamò: «Reverendo cercano di voi». «Eravamo venuti per una informazione... Una cosa amichevole...» balbettò il commissario di polizia.
«Per una informazione siete venuti con tutte queste armi?» ribattè il parroco. Il bottino era di due mitra, quattro pistole Berretta ed una Mauser. I due prigionieri vennero portati al Comando e fucilati, malgrado le loro implorazioni. Il parroco si rese irreperibile. Il giorno dopo i fascisti tornarono ad Arentino, incendiarono la canonica e altre case; ripiegarono poi rapidamente prima dell'arrivo di Mancen con i suoi. Gli eventi della Val di Diano indicavano che il morale dei partigiani andava migliorando, che a poco a poco tornava il desiderio di misurarsi col nemico direttamente, non limitandosi più alla tattica dell'imboscata.
Le imboscate erano pur sempre le azioni più redditizie e provocavano al nemico un lento stillicidio di perdite, un'inquietudine per ogni spostamento.
Il nemico aveva terrore di noi e resisteva ad oltranza. Non era facile catturar vivo un repubblicano ed un fascista come l'anno scorso. Russo [n.d.r.: Tarquinio Garattini, comandante del Distaccamento "Angiolino Viani" della già citata I^ Brigata] con i suoi intimò la resa a due repubblicani, quelli estrassero le armi e vennero uccisi. Un tedesco sorpreso da quei di Pippo [n.d.r.: detto anche Bill, Giuseppe Saguato, comandante del Distaccamento "Francesco Agnese" della I^ Brigata] in Diano S. Pietro si fece ammazzare ma non si arrese. Un altro, appostato da quei di Stalin [n.d.r.: Franco Bianchi, comandante del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" della I^ Brigata] sulla «28» mentre passava in motocicletta frenò bruscamente alla prima raffica, sterzò e si gettò nella cunetta trincerandosi dietro alla macchina. Di là rispose al fuoco dei partigiani appostati a semicerchio finché un camion di truppe ci obbligò a sgomberare. Ricordavo che Stalin aveva preso in giro un altro capobanda perché aveva appostato gli uomini ai due lati della strada: «Al momento buono, per non colpirsi fra di loro, avevano dovuto rinunciare a sparare!», aveva commentato. Se quella volta però avesse avuto anche lui qualcuno oltre la «28» avrebbe preso il tedesco alle spalle.
Lasciata la staffetta della I presso Testico raggiungo Poggiobottaro [Frazione del comune di Testico (SV)].
Mi fermo pochi minuti perché trovo solo Livio [n.d.r.: Ugo Vitali responsabile SIM, Servizio Informazioni della Divisione "Silvio Bonfante"] e Citrato [n.d.r.: Angelo Ghiron, vice responsabile SIM della citata Divisione], poi prendo la mulattiera a fondovalle che porta a Degna [Frazione del comune di Casanova Lerrone (SV)]. A poco a poco, inavvertitamente, riprendiamo confidenza con le mulattiere, con le strade battute dal nemico, qualcosa però dentro di noi si mantiene sempre in allarme, ad ogni curva sostiamo istintivamente attenti se udiamo dei passi. A fondovalle, ad una curva, sento due che salgono: uno scatto fuori strada, ma è troppo tardi: i due mi compaiono di fronte ed uno abbassa il mitra in posizione di sparo. L'altro gli tocca il braccio: «E' l'amministratore!» Il compagno solleva l'arma, fa un passo avanti e mi tende la mano: «Sono Cimitero. Due occhi neri, profondi, una capigliatura corvina che gli scende ad onde sulle spalle, statura alta, torace d'atleta. Tale mi apparve quella sera Cimitero [n.d.r.: Bruno Schivo, capo di una squadra del Distaccamento "Filippo Airaldi" del Battaglione "Ugo Calderoni" della II^ Brigata "Nino Berio"] che avevo visto in agosto, ma che più non ricordavo. «Hanno ucciso suo padre e sua madre, mi avevano detto». Hanno preso la sua fidanzata e le hanno ucciso davanti un uomo: «Così finirai anche tu se non ci dai modo di prenderlo!». Le avevano detto, poi, visto che taceva, l'avevano uccisa.
Cimitero ha mandato ai fascisti una sua fotografia che ora figura in tutti i posti di blocco. «Ora lo conoscono ma non lo prenderanno mai!».
Arrivato a Degna trovo la popolazione in subbuglio: «E' passato Cimitero con un compagno tranquilli per lo stradone, poco dopo di loro sono passati i tedeschi della pattuglia, se si incontravano succedeva un macello!».
A poco a poco nella fantasia e nell'affetto popolare la figura di Cimitero con la giacca di telo da tenda, la capigliatura fluente, il nome funebre come il destino dei suoi fa presa ed ingigantisce.
La sera del 13 radio Londra manda l'atteso messaggio: il lancio è per questa notte. Le staffette partono dai posti di ascolto, il dispositivo di sicurezza entra in funzione, i distaccamenti incaricati occupano i passi, il Catter  [n.d.r.: distaccamento della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della richiamata Divisione Bonfante] si schiera sul campo di lancio.
Scesa la notte, un aereo volteggia nel cielo di Capraùna, in basso palpitano nel buio le luci accese dai partigiani. I paracadute si aprono l'uno dopo l'altro, poi in cielo si accende una piccola luce: è il segnale che il lancio è finito. L'aereo si allontana rombando. Recuperati ed aperti febbrilmente i bidoni vengono estratti Sten, fucili, caricatori e pacchi di munizioni. Luci sospette vengono segnalate, le nuove armi vengono caricate febbrilmente al chiarore dei tizzoni che si spengono, partigiani si alternano nella difesa e nella raccolta, le armi vengono distribuite perché il campo di lancio deve esser difeso ad oltranza fino a raccolta ultimata.
Recuperato il materiale scompaiono anche le luci sospette. I partigiani rientrano a Capraùna.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 199-202

15 marzo 1945 - Da "Marco" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che occorreva avvisare "Cimitero" dei rischi di delazione che stava correndo.
15 marzo 1945 - Da "K. 20" alla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante" - Informava che era giunto "a Diano Marina un numero consistente di soldati appartenenti alla fanteria tedesca che si fermeranno per la notte"; che, oltre alle 3 compagnie della GNR, ne agiva un'altra, O.P., al comando del capitano Ferraris; che ad Imperia vi era un'altra compagnia ancora dell'esercito repubblichino.
17 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della Divisione "Silvio Bonfante" ["Livio", Ugo Vitali, responsabile], prot. n° 1/96, al comando della Divisione "Silvio Bonfante" ['Giorgio' Giorgio Olivero, comandante] - Riportava le notizie ricevute il 12 marzo da un informatore ed aggiungeva che il maresciallo Groot, addetto al controspionaggio tedesco, era stato trasferito da Pieve di Teco a Pontedassio e, ancora, che sempre il 12 il comando della II^ Brigata "Nino Berio" aveva condannato e fatto giustiziare il commissario di P.S. Santo Miglietta e l'agente Attilio Sorbara, che erano stati catturati armati di mitra nella zona di Diano Marina.
17 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Svolgeva una lunga relazione soprattutto sul tema degli aviolanci alleati [n.d.r.: di cui si riportano qui di seguito significativi stralci]: "... il giorno 13 u.s. si è effettuata l'operazione lancio nella località convenuta [Piano dell'Armetta nei pressi di Alto (CN)]; sono stati lanciati 33 colli di cui 28 recuperati nella serata ed i restanti 5 nella successiva mattinata. Non è stato possibile per il disturbo alle stazioni radio ricevere il messaggio per il lancio del giorno successivo. Tutte le tracce del lancio sono state cancellate anche grazie alla popolazione, di modo che i tedeschi non hanno trovato nulla. Data l'esperienza si consiglia di potenziare l'ascolto messaggi mediante l'aumento delle apparecchiature sulle 3 linee, visto che si è ordinata la revisione dell'impianto di Nasino. È da evitare inoltre il lancio in giorni consecutivi, poiché vi è un'unica via di deflusso rappresentata da una mulattiera ed è, quindi, impossibile creare una colonna eccessivamente grande di muli, perché desterebbe sospetti ed in quanto l'occultamento del materiale va eseguito a spalla. Il luogo si è mostrato idoneo allo scopo, per cui per il prossimo lancio si richiedono 150-180 colli. Non servono fucili, ma armi automatiche, mortai leggeri, bombe anti-carro. Il collo indirizzato a 'Roberta' [n.d.r.: capitano del SOE britannico Robert Bentley, ufficiale di collegamento degli alleati con il comando della I^ Zona Operativa Liguria] contiene 2 R.T. [radiotrasmittenti]: si prega di inviare degli uomini a prelevarle...".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

venerdì 7 aprile 2023

Le barbare uccisioni, a distanza di mesi, di due partigiani del Dianese

Diano Arentino (IM): Foto: Marco Bernardini su Flickr

Sulla giustizia partigiana, vorrei dire un mio parere ampliando il discorso in merito a quanto hanno detto altre persone, che non avevano visto niente e con la Resistenza non avevano niente a che fare; che parlavano per sentito dire e, romanzando in senso negativo i fatti, hanno contribuito senza rendersene conto a denigrare la Resistenza e sono divenuti, quindi, involontariamente strumenti dei nemici della stessa. Mi capitò diverse volte di assistere a processi di singole persone, spie o soldati nazifascisti da noi catturati, giudicati dai tribunali di brigata, con un partigiano che aveva la funzione di loro difensore, e condannati a morte per aver commesso gravissime crudeltà. Il tutto si faceva in segreto per cui il condannato non veniva messo a conoscenza della sentenza, e veniva fucilato senza che se ne accorgesse. Si usava questo sistema, diciamo "umano", perché nella mente del condannato non prendessero corpo la disperazione, il pianto, l'implorazione, il terrore della morte imminente, e quindi non dovesse moralmente soffrire prima del momento dell'esecuzione.
Invece potrei raccontare tanti casi mostruosi di partigiani caduti nelle mani del nemico e condannati a morte: interrogatori con percosse inenarrabili, torture con ferri roventi e simili; trovammo corpi di partigiani con le mani mozzate, con gli occhi fuori delle orbite, altri bruciati vivi. Racconto due episodi di cui, forse esistono ancora testimoni superstiti. Il 29 gennaio 1945 una colonna nazifascista punta su Diano Arentino: i giovani del paese tentano la fuga per sottrarsi alla cattura, ma Francesco Camiglia non ce la fa e viene catturato. Infatti, lanciatosi attraverso i tetti, i nemici lo scorgono e gli sparano contro, é colpito ad una gamba e cade in un vicolo, é raggiunto. Mentre i tedeschi pensano di portarlo a Imperia, i fascisti si impongono e decidono di impiccarlo subito. Trascinano il ferito sotto un albero e gli passano il cappio al collo. La madre, giunta in quel momento, con un urlo di dolore abbraccia il figlio e gli toglie il cappio. Ma di fronte a una simile scena i fascisti non provano compassione, strappano alla madre il corpo del figlio e, di fronte a lei che si dispera, impiccano il Camiglia definitivamente. Il 17 marzo del 1944, durante un rastrellamento tedesco, ad Ormea rimane ferito il partigiano Domenico Novaro. Ricoverato nell'ospedale locale, su delazione di una spia, dopo due giorni é prelevato. Trascinato fuori dal letto, i soldati lo portano al Comando tedesco dove viene crudelmente torturato; le sue grida sono udite dagli abitanti delle case vicine. Distrutto dal male, condotto nel cimitero della città e fucilato il mattino del 17 marzo dopo essersi dovuto scavare la fossa.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998 

Cortesia Angelo: nato a Vidor il 4 settembre 1927, squadrista della Brigata Nera “Padoan”
Interrogatorio del 3.7.1945: [...] Rimasi in servizio presso la 32^ Brigata nera “Padoan”, operante nella provincia di Imperia. Durante tale periodo presi parte a svariati rastrellamenti, circa 20, contro i partigiani. I rastrellamenti erano sempre diretti da componenti dell’ufficio politico investigativo dell’ex GNR. Molte volte vi prendevano parte anche truppe tedesche anche con elementi delle loro SS. Durante tali rastrellamenti da parte della brigata nera, cioè quando vi partecipavo io, non fu mai ucciso nessun partigiano, ne avremo catturati circa una decina che furono sempre consegnati alle SS tedesche. Non so quale fine facessero. In tutto da parte delle formazioni tedesche saranno stati uccisi circa 45 partigiani. Dei predetti parte rimasero uccisi in combattimento e parte furono fucilati sul posto. Solo uno, che io sappia, fu impiccato a Diano Arentino: ciò avvenne nel mese di gennaio o febbraio del 1945.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 

Durante il grande rastrellamento di gennaio 1945 il giorno 29 il nemico irrompe nella valle di Diano Marina. Quattrocento tedeschi puntano su Diano Arentino e su Diano Roncagli, in cerca dei distaccamenti e del comando della I Brigata “S. Belgrano”. I giovani di Diano Arentino tentano di sottrarsi alla cattura fuggendo per la campagna. Tra questi è il ventenne Francesco Camiglia che, trovatosi con la casa circondata, tenta la fuga attraverso i tetti vicini. Ma scorto dai tedeschi e preso di mira, cade in un vicolo colpito alle gambe. Catturato, lo trascinano presso un albero di pero nei pressi della casa di Silvio Ascheri, gli passano un cappio al collo e, ormai morente per dissanguamento, lo impiccano.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020

[ n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944-8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]

Agostini Annibale: nato a Genova il 13 maggio 1911, agente in servizio presso la Squadra Antiribelli della Questura di Imperia
Interrogatorio del 10.10.1945: [...] Nel dicembre del 1944, per ordine del Questore Sergiacomi, passai a prestare servizio all’ufficio politico della brigata nera in qualità di agente di polizia giudiziaria, verbalizzando tutte le operazioni effettuate dagli elementi della brigata nera. Chi interrogava erano solitamente il Maresciallo Vitiello ed il Ten. Gerli. Ho preso parte, sempre perché comandato, alle seguenti operazioni condotte dalla brigata nera: a Moltedo, Caramagna, Artallo, Diano Arentino ed altri paesi di cui non ricordo il nome.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019

[...] Novaro Domenico, nato a Diano Castello (IM) 19/08/1916, residente Diano Castello, ucciso Ormea (CN) 17/03/1944, IV Divisione Autonomi, 13ª brigata “Valle Tanaro” [n.d.r.: 12 caduti]
[...] Tra il 13 e il 27 marzo avviene il grande rastrellamento che coinvolge i partigiani, comandati da Enrico Martini “Mauri”, delle formazioni militari autonome delle valli Corsaglia, Maudagna, Casotto, Mongia e Tanaro, ma le fucilazioni dei catturati proseguono a Ceva fino al 5 aprile e alcune centinaia subiranno la deportazione. L’azione è preparata fin dall’11 marzo e coinvolge l’area: Pieve di Teco, Nava, Val Tanaro, valle Mongia, Valle Casotto, Valle Maudagna, Valle Corsaglia e Ellero.
Michele Calandri, Episodio di Ormea, 13-27.03.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

Colpirono secchi per primi, senza che quasi nessuno se ne accorse, Livio Fiorenza e Roberto Sasso. Giovanni Ramò lo colpirono alla testa e rimase in agonia solitaria a lamentarsi dentro una scaffa, nessuno potendolo soccorrere sempre sotto tiro. Dopo catturarono anche Domenico Novaro già ferito e nascosto nell'ospedale di Ormea; appena se ne accorsero che era lì, lo portarono sul posto al cimitero, che lo sotterrassero alla svelta. Lo finirono col mitra riverso nell'ultimo sussulto, ormai dissanguato, e lo cacciarono a pedate dentro la fossa. Alla fine tutti i patrioti fradici si sbandavano nei cespugli o ritornavano alle loro case, guardandosi bene intorno per non imbattersi nei tedeschi. Allora mandarono la cicogna, che svolazzò avanti ed indietro, frugando rasente sulla conca di Nava per stanarli dai cespugli e dai fossi, finché quando cominciò a scurirsi in tutto quel verde umido, qualche raffica stanca si perse ancora lontana. Quando fu buio del tutto continuarono con le traccianti di una mitragliera da 20 impiantata su un'autoblinda dalla Fontana del Serpente davanti alla cava del marmo.
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982

lunedì 5 dicembre 2022

Sulla costa si sentiva parlare di partigiani

Imperia: il ponte stradale della Via Aurelia sul torrente Impero

Già nel febbraio del 1944 il mio carissimo amico Giovanni Berio (Tracalà) mi aveva esortato a salire in montagna tra i partigiani. Lui aveva già partecipato alla battaglia di Alto avvenuta il 27 gennaio 1944, durante la quale aveva trovato eroica morte il comandante Felice Cascione ("u Megu", che era dottore in medicina) e, a causa dello scioglimento della banda, si trovava sbandato. Al tempo stesso mi aveva fatto capire che la mia permanenza nella TODT (ditta militarizzata che costruiva bastioni antisbarco per conto dei tedeschi) non era cosa giusta e non era cosa ben vista.
Mi trovavo nella TODT per evitare di essere arruolato nell'esercito della Repubblica Sociale di cui avevo già ricevuto la cartolina precetto (sono della classe 1924).
Feci notare a Giovanni che ben poca cosa si sapeva del movimento partigiano e che qualcuno con il quale avevo parlato mi aveva sconsigliato di salire in montagna, poiché era ancora una iniziativa incerta. Comunque mi misi d'accordo con lui: saremmo partiti verso la metà di febbraio. Quando venne il giorno prestabilito e dissi a mia madre che avevo deciso di partire e che mi necessitavano indumenti pesanti e un paio di scarponi (che non avevo).
La poveretta si mise a piangere convulsamente pregandomi di posticipare la partenza di almeno due mesi in attesa della bella stagione. Durante l'attesa avrebbe provveduto a procurarmi il vestiario necessario. Mio padre invece non aprì bocca. Non manifestò alcun parere. Però capii che la mia decisione non gli sarebbe dispiaciuta.
Alla fine, impressionato dalla manifesta disperazione di mia madre, con Giovanni convenni di rimandare la partenza per la montagna di qualche tempo.
Alcuni di noi già dal 25 luglio 1943 (quando cadde Mussolini) si erano iscritti alle cellule segrete del PCI. Avevano ricevuto l'incarico dal partito di sorvegliare gli ex fascisti, notare se si riunivano segretamente e se tentavano di riorganizzarsi (qualcuno ci consegnò anche la pistola per convincerci che avevano rotto ogni rapporto col fascismo risorgente sotto l'egida dei tedeschi). Il nostro capo cellula era Nello Bruno ("Merlo", caduto in montagna nel gennaio del 1945). La cellula era composta da Tino Moi ("Tino"), che cadrà anche lui il 25 luglio 1944, da Bruno Denardi, da un altro compagno di cui non ricordo più il nome e dallo scrivente.
In agosto il governo Badoglio, succeduto a quello di Mussolini, non agevolò indubbiamente gli antifascisti, anzi rese loro la vita dura vietando ogni manifestazione ed ogni iniziativa che avesse una parvenza di democrazia.
Poi, come è noto, l'8 del settembre successivo, in occasione dell'armistizio, i tedeschi occuparono militarmente il nostro paese e diedero vita all'esercito fantoccio della repubblica di Salò, mobilitando vecchi e nuovi fascisti.
Allora Cascione ed altri imperiesi più compromessi con l'antifascismo, tra cui Nello Bruno, Eolo Castagno ("Garibaldi"), Nino Berio e diversi altri, presero la via della montagna, e noi, meno compromessi e più giovani, restammo, in attesa di significativi eventi.
Sulla costa si sentiva parlare di partigiani, di uno scontro con il risorto esercito, ma di stampo fascista, nel territorio di Colla Bassa (Montegrazie). Gli episodi venivano ingigantiti dalla fantasia popolare e in noi aumentava la volontà di raggiungere i nostri amici in montagna per compiere la nostra doverosa parte di combattenti per la libertà.
Apprendemmo che, dopo la dolorosa morte di Felice Cascione, la sua banda si era sbandata per tale motivo, ma anche per l'inclemenza del tempo e per la non ancora perfetta organizzazione della vita in montagna. Qualcuno tornò a casa, qualcun altro si rifugiò presso i partigiani badogliani che si stavano organizzando e che già ricevevano aiuti militari dagli inglesi attraverso lanci aerei.
Ma nella primavera del 1944 quasi tutti gli imperiesi ridiscesero sulla costa dove si stavano organizzando bande garibaldine, rinforzate da coloro che, non ubbidendo ai bandi fascisti di richiamo alle armi, avevano preferito raggiungere i compagni per combattere contro i nazifascisti.
La situazione era diventata critica: ci si poteva intrufolare nella TODT come avevo fatto io, o presentarsi ai Comandi fascisti per essere arruolati nell'esercito della Repubblica Sociale, o salire in montagna. Questa ultima soluzione a moltissimi sembrò la migliore.
Alfine giunse anche il momento della mia partenza. Chi organizzava coloro che avevano intenzione di partire era Bruno Denardi che, anche lui, aveva deciso di rientrare in banda. Alle ore 6 del mattino (ultimi giorni di maggio 1944) ci trovammo in sei in località "Ergi", presso il cimitero di Diano Gorleri [n.d.r. Frazione del comune di Diano Marina (IM)]: De Nardi, Duccio, Tenni, lo scrivente, ed un altro che credo fosse Carlo detto "U Gallu du Bimbu".
Ci dirigemmo verso il Pizzo d'Evigno dove speravamo di incontrare una banda detta "volante" comandata dall'onegliese Silvio Bonfante ("Cion"), banda che aveva già incorporato Germano Belgrano ("Germano"), Massimo Gismondi ("Mancen"), "Cigrè", "Sardena", "Tino" e tanti altri già miei compagni di gioventù.
Giunti nei pressi di Diano Arentino sentimmo delle raffiche di mitragliatrice provenienti dalla vallata di Stellanello, il che ci costrinse a cambiare direzione. Denardi disse che probabilmente si trattava di un rastrellamento: se avessimo proseguito, probabilmente saremmo finiti in bocca ai nazifascisti. Decidemmo di ritornare sui nostri passi, per portarci nella vallata di Dolcedo attraverso Borgo d'Oneglia e Sant'Agata, in cerca di altre bande partigiane.
Trascorremmo la notte in modo precario in una centralina elettrica, a monte della strada statale 28, nei pressi del ponte del borgo. Il mattino seguente, dopo una ulteriore discussione, Denardi ci convinse che era più opportuno incamminarci verso Tavole e Villatalla in quanto era certo che anche là dovevano trovarsi delle bande partigiane.
In seguito, se avessimo voluto, potevamo trasferirci nella zona di Stellanello, già nostra prima meta.
Giunti nei pressi di Pianavia [n.d.r.: frazione del comune di Vasia (IM)], sentimmo molto distante un'altra sparatoria. La gente del paese ci informò che partigiani si trovavano a Villatalla [n.d.r.: frazione del comune di Prelà (IM)] verso cui ci incamminammo.
Sulla piazza principale del paese incontrammo un gruppo di armati intenti a pulire patate e verdura presso una fontana. Preparavano il rancio. Tra i cuochi riconobbi Angelo, mio vecchio compagno di scuola, ed alcuni altri.
Ci accompagnarono in una stanza dove aveva sede il Comando. Ivi incontrai Rinaldo Rizzo (Tito) e Gustavo Berio (Boris). Questi ci salutarono e ci destinarono al distaccamento che era dislocato a Pianavia, comandato da Angelo Setti (Mirko) e che aveva per commissario Nello Bruno. Il distaccamento era composto da circa quaranta uomini e tra questi riconobbi dei miei amici di antica data, tra i quali alcuni con i quali ero cresciuto nella mia prima giovinezza (avevamo fatto il premilitare insieme). Ricordo "Nino u fransese", "Nani u careté", "U pastissé" ed altri.
Ad essere sincero, da questi non ebbi una affettuosa accoglienza: sapevano che ero stato nella TODT per cui rimasero un poco freddi.
Qualcuno mi disse: «Era ora che ti decidessi a venire su in montagna». Cercai di giustificarmi e tutto finì lì.
Dopo oltre quarant'anni "U pastissé" mi disse che qualcuno avrebbe voluto fucilarmi per la mia permanenza nella TODT, ma non mi disse chi aveva espresso questo parere. Sono sicurissimo che, se questo intendimento arrivò nelle orecchie di "Merlo", lui non trattò certamente bene coloro che desideravano la mia morte. Sapeva che io facevo parte di una cellula di giovani del Pci. Rileggendo una memoria riguardante un colpo che avevamo fatto nella caserma Siffredi ad Oneglia, mi venne in mente il nome di colui che voleva sempre uccidere tutti (a parole). Forse era costui che desiderava anche la mia morte.
La prima notte che trascorsi nell'accampamento, mi misero di guardia ma, non avendo esperienza e un po' di paura, scambiai un albero che ondeggiava a causa di un po' di vento per un nemico. Preoccupato, andai a svegliare "Nino u fransese", il compagno con il quale avevo più confidenza. Egli venne, gli feci vedere l'ombra sospetta e lui subito si diresse in quella direzione.
Dopo un po' mi chiamò e mi disse: «Guarda che bell'albero... se in ogni albero scorgi un nemico, questa notte non dorme più nessuno». Ci rimasi male e il giorno successivo venni "sfottuto" un poco da tutti.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

mercoledì 16 giugno 2021

Partigiani a Pian di Bellotto

La zona di Monte Ceresa, comprensiva di Pian di Bellotto (Cian de Belotto), al confine tra il Savonese e l'Imperiese - Fonte: giambi@wikiloc

Già dall'8 settembre 1943, Silvio BonfanteCion»] è pronto e presente alla lotta e, fin dall'inizio, rivela spiccate qualità di uomo destinato a diventare una guida trascinatrice. Il curriculum di combattente della montagna è più che garante della sua validità.
Nel mese di giugno del 1944 ha ormai percorso in lungo ed in largo i nostri monti e le nostre valli. Quante azioni portate a termine! Con ogni mezzo, tritolo o mitra, ha già inferto gravi colpi ai nazifascisti. Ma, ciò che più conta, ha messo a disposizione le sue doti d'organizzatore con cui ha contribuito, in uno sforzo comune con gli altri combattenti maggiormente dotati, a creare l'ossatura di un esercito che, pur affamato e scalzo, infliggerà a Tedeschi ed a fascisti perdite ingenti (4).
Mese di giugno 1944: «Cion» è capobanda della «Volante». Progetta le azioni più rischiose con pochi coraggiosi che, di volta in volta, si sceglie. Gli esiti sono sempre positivi e soddisfacenti. Egli possiede, innate, le doti del comando.
Alto ed atletico, colorito bruno, capelli nerissimi ondulati, baffetti sottili, occhi neri e vivissimi, ispira una fiducia illimitata in tutti i suoi uomini che lo seguono in ogni azione, consapevoli d'essere ben guidati da un uomo che sa valutare perfettamente l'eventualità di ogni insidia ed avvertire la necessità di non rischiare in modo temerario oltre il lecito.
«Cion» sa farsi amare ed ammirare, anche se i rapporti tra comandante e semplici volontari non sfociano mai nell'eccesso di confidenza che spesso rappresenta, nella lotta partigiana, un fattore negativo poiché intacca quei principi di obbedienza e disciplina necessari quando si agisce nei pericoli.
Progettata l'azione, non ne rivela ad alcuno i particolari onde evitare che la leggerezza, od eventuali delatori, procurino informazioni al nemico, pregiudicandone l'esito e determinando perdite nelle fila partigiane. Tale prudenza è segno di maturità e di saggezza, se si considera che consistente e continuo è l'afflusso alle formazioni garibaldine di uomini, a volte sconosciuti e dei quali s'ignorano identità e, non raramente, gli stessi nomi. All'arrivo, ognuno è interrogato sulle proprie intenzioni e, alla risposta di voler far parte delle bande partigiane, è accettato ed entra in formazione.
«Cion» sa che il modo più idoneo per creare buoni combattenti è il battesimo del fuoco; perciò, via via, alterna i giovani nelle azioni affinchè prendano gradualmente confidenza col pericolo.
All'inizio gli uomini della «Volante» sono una ventina, forse meno; garibaldini reduci dalla prima gloriosa formazione di Cascione e qualche badogliano uscito vivo dalla tragedia di Val Casotto (5). E' gente avvezza ai pericoli e provata dalla dura lotta. Alcuni sono reduci dai campi di battaglia d'Albania, d'Africa, o di Russia.
La «Volante» di «Cion» pare l'elemento apposito per creare altissimo l'entusiasmo; è diventata ormai la formazione perfettamente organizzata e guidata da un capo meraviglioso, in quella zona verdeggiante, irradiata dal sole d'una splendida primavera, a due passi dal mare d'Oneglia e d'Albenga.
Un senso di profondo cameratismo regna nella banda. La democrazia più autentica, quella non condizionata da alcun fattore, è l'elemento predominante. Il rispetto ed il senso umanitario reciproco hanno trovato il loro regno. Esempi a non finire di generosità e rinunce, d'amicizia autentica tra Comandante, Commissario ed i garibaldini. E' il luogo ideale per chi sogna la fraternità.
Un partigiano deve recarsi a Stellanello e chiede il permesso al Commissario che glielo concede. Ma non è ancora soddisfatto e dice: «Federico, ho i pantaloni rotti, mi secca andare così in paese». - Federico [Federico Sibilla]: «Tieni i miei, ma fa' presto che io ne resto senza!». E, nell'attesa del ritorno, si avvolge in una coperta (6).
Le notizie provenienti dai fronti di guerra con i Tedeschi in ritirata, il pensiero dell'imminente fine del conflitto e le sistematiche azioni partigiane a catena, sempre vittoriose sui nazifascisti, le gesta di «Cion» ingigantiscono la figura del condottiero garibaldino, e creano un senso di invulnerabilità e d'invincibilità della «Volante». L'ammirazione cresce e si diffonde ovunque nelle valli e, in tutti i paesi e città, il nome di «Cion» esalta e crea altissimo il morale sia tra i suoi uomini che nella popolazione. Scrive «Magnesia» [Gino Glorio]: "...  «Cion» fu il più noto, il migliore dei capobanda garibaldini. Con coraggio freddo progettava le imprese più spinte e le portava a termine con un pugno di ardimentosi. Aveva tutte le qualità del capobanda, sapeva ispirare fiducia negli uomini che andavano con lui sereni anche verso l'ignoto, consci di essere ben guidati, che il capo sarebbe andato innanzi a loro esponendosi di persona. Sapeva trascinare i combattenti con l'esempio ma valutava esattamente le situazioni e non arrischiava oltre il necessario ...".
Noi esitiamo a sottoscrivere in assoluto il concetto espresso all'inizio del passo citato perchè, nel proseguimento della lotta, altri fior di combattenti sorsero nelle fila; anzi, già c'erano, ma è certo che «Cion» fu nella ristretta cerchia dei migliori. Non c'è dubbio che Silvio Bonfante sia stato un riconosciuto e naturale erede di Cascione: infatti, la I^ Brigata, dopo la sua morte, diventerà nel dicembre 1944 la Divisione d'Assalto Garibaldi ed assumerà il suo glorioso nome.
I Tedeschi e tanto meno i fascisti non osano avventurarsi, da lunga data ormai, per uno scontro armato in montagna da quando un gruppo della Ettore Muti, inoltratosi fino alla località Rossi, era stato annientato interamente e  seppellito sotto i castagni.
Morale alle stelle, dunque, e cameratismo profondo tra i partigiani della «Volante» ed afflusso continuo, in primavera ed estate, di giovani dalle città e dai paesi alle bande armate. È vanto d'ognuno far parte della formazione di «Cion», partecipare alla lotta contro i nazifascisti, contribuire alla rinascita del paese.
Inoltre, tra le fila partigiane non si corre il rischio d'incorrere nei crudeli rastrellamenti che i Tedeschi operano tra i civili nelle città e di essere imprigionati o spediti in Germania, o essere costretti ad indossare la divisa della Repubblica di Salò, o inquadrati nell'organizzazione Todt con tutti i rischi e le conseguenze future.
L'afflusso dei nuovi venuti alle bande tocca il ritmo medio di cinque­dieci unità al giorno; cifra notevole se si considera, come già ricordato, che i partigiani non possiedono caserme, magazzini, grosse scorte, armi e, tanto meno, munizioni per poter far fronte a necessità che, col tempo, diventano sproporzionate rispetto alle obiettive possibilità (7).
Le imboscate partigiane alle colonne nemiche, l'assalto ai presidii, la distruzione di ponti e vie di comunicazione, i colpi di mano per procurare viveri e munizioni, l'eliminazione delle spie, sono all'ordine del giorno nel mese di giugno. «Cion» per ogni azione da compiere alterna gli uomini per formare nuovi combattenti, ed imparare a conoscere d'ognuno le qualità, i pregi, i difetti; quasi per selezione naturale, ognuno scopre in sé le attitudini per lo svolgimento delle mansioni adatte alle proprie possibilità.
La certezza regna sovrana: nessuna sorveglianza intorno all'accampamento, nessun turno di guardia neppure durante la notte. In definitiva, è convinzione radicata nei partigiani di essere assistiti dalla fortuna; non resta che la battaglia finale e la discesa per liberare definitivamente le Città.
Nella prima decade di giugno, la Volante ha tanti effettivi che Cion decide di scinderla e di creare un nuovo distaccamento. Nasce così la «Volantina», come figlia e sorella della «Volante», il cui comando è affidato a Massimo Gismondi (Mancen). Questi, di «Cion», è l'amico fraterno che sempre affiancherà in ogni luogo ed in ogni rischio.
«Mancen», per coraggio, a nessuno è secondo, neppure a Cion, tanto che il suo nome sarà altrettanto temuto ed odiato nel campo nazifascita. I due Comandanti si diversificano nel carattere, perché «Mancen» è, come si suol dire, più alla mano, più pronto alla battuta popolaresca, al vociare robusto, allo scherzo entusiasticamente infantile. Ma è un generoso. Un giorno si presenta in ritardo al Comando e si scusa spiegando di aver dovuto fare il percorso a piedi nudi perché ha dato in prestito le scarpe ad un suo partigiano partito in missione!
Che «Mancen» abbia un Santo protettore in cielo lo possono dimostrare decine di fatti di vita partigiana; ma li riassume tutti quello del 25 luglio 1944 che accadrà nel corso della battaglia di Pievetta: quando, all'improvviso, un tiro violento ed incrociato di armi automatiche tedesche si abbatte tempestoso sulla colonna partigiana e tutti, anche i più coraggiosi, sono inchiodati a terra nell'attesa di momenti... migliori, «Mancen», in piedi, osserva i movimenti del nemico! (8)
Non a caso, d'altronde, questo giovane venuto alla montagna dalla sua Oneglia nel mese di marzo del 1944, come «Cion», Nino Berio (altro valoroso combattente e martire) e tanta altra gioventù, sarà uno dei protagonisti di quella «Squadra d'Assalto» che sorprenderà i nazifascisti e li sgominerà, il 5 di settembre, nella fatidica battaglia di Montegrande, divenuta celebre anche fuori dell'ambito regionale.
Mancen, in seguito, ricoprirà l'incarico di Comandante della I^ Brigata Garibaldi «S. Belgrano».
Nel mese di giugno, con la costituzione della «Volantina», la «Volante» che nel maggio era a Stellanello si trasferisce a Pian di Bellotto (9). L'accampamento è composto da tre stanze con funzioni di dormitori, deposito armi e cambusa-viveri. Ci sono, inoltre, la tenda per il Comando, qualche altra tenda-dormitorio, ed una radio sempre tenuta ad alto volume ed udibile a lunga distanza, in segno di sicurezza e di sfida al nemico. Pian Bellotto è alle falde del ripido pendio del monte Ceresa ed è circondato, ai suoi fianchi, da boschi e rocce. Su una di queste è piazzata una mitragliatrice. La «Volante» possiede un discreto armamento; ma le sempre nuove esigenze ne rivelano l'insufficienza anche se attraverso le quotidiane azioni i garibaldini, via via, si procurano le armi sottraendole al nemico. Citiamo un fatto narrato da «Magnesia»: «Mi disse un partigiano: "Vedi quel fucile «Mauser» con cannocchiale? Il Calabrese ne desiderava uno; poi ha saputo che un Tedesco di Andora lo possedeva ed allora, l'altro giorno, è partito da solo. È ritornato con questo"».
Il vitto, per quanto i rifornimenti lo permettano, è cucinato all'aperto: poche pietre disposte a focolare protette da qualche ramo. Il cuoco non può mai conoscere in tempo il numero dei presenti essendovi sempre nella formazione un via vai di partigiani, di passaggio o in arrivo. Comunque, la quantità di cibo è sufficiente all'alimentazione degli uomini.
Il numero dei componenti la «Volante», a seguito della creazione del distaccamento affidato a «Mancen», è ridotto ad una quarantina; ma nuovi giovani continuano ad affluirvi.
Verso passo San Giacomo ha sede una banda di badogliani e sovente, la sera, s'odono degli spari d'esercitazione.
La «Volantina» di «Mancen» prende posizione alla base del monte Torre ma dalla parte opposta a quella della «Volante», cioè sul lato sud. La zona è quella già citata di «Fussai» ed è soprastante ad Evigno, nel comune di Diano Arentino. «Mancen» controlla, perciò, la zona dello Steria e dell'Impero. In caso d'attacco nemico, compito della «Volantina» è l'occupazione di Pizzo d'Evigno a protezione della postazione «Volante», sul monte Ceresa. Il piano prevede, dunque, il dominio delle alture da parte dei garibaldini.
Aggiungiamo ora qualche particolare sullo svolgimento dello scontro così ben sintetizzato, come abbiamo visto, dal bollettino di «Cion».
Alle 7 circa del mattino è dato l'allarme, con una lunga raffica di mitragliatrice, mentre parte dei partigiani, già svegli, sta facendo colazione. Tutti afferrano le armi e si raggruppano intorno al casone principale dell'accampamento per prendere ordini. A quanto è dato supporre dalle raffiche che si susseguono, i nemici si spingono verso Stellanello. Non è ancora possibile conoscere la consistenza delle forze nemiche, sia riguardo al numero, sia all'armamento, sia anche alla direzione in cui agiranno. Contrariamente al solito, però, si intuisce che stavolta la cosa si presenta seria; ma la fiducia nella loro forza e la coscienza dell'andamento favorevole degli avvenimenti fino a quel giorno, preparano i garibaldini ad una lotta da cui, come sempre, i nazifascisti usciranno sconfitti.
«Cion», con gli uomini armati, parte incontro al nemico, mentre i nuovi arrivati, in maggioranza ancora privi di armamento e, conseguentemente ancora inutili sul fronte dello scontro a fuoco, si disperdono nei boschi vicini con l'intenzione di svolgere funzioni di staffetta e di collegamento fra le varie postazioni partigiane combattenti, e di avvistamento del nemico. Un gruppo di essi raggiunge la vetta del monte Ceresa. Le notizie si fanno sempre più precise: un'imponente forza di circa milleduecento nazifascisti, disposta su varie colonne, si avvia all'assalto delle due bande partigiane partendo dalle varie direzioni di San Damiano, Testico, Stellanello, Chiusanico, Pairola.
La situazione dei garibaldini diventa rapidamente molto difficile poiché è esclusa ogni possibilità d'aiuto da altre formazioni.
«Cion» stima la vetta del Ceresa la posizione più opportuna per la difesa: lassù, il nemico concentrerà i suoi attacchi che potranno essere contenuti poiché «Mancen» occuperà la vetta del Pizzo d'Evigno, come previsto nei precedenti piani, e proteggerà di lassù il fianco sinistro della «Volante».
Ma, come abbiamo già riferito, la «Volantina» è impossibilitata all'appuntamento. Sicchè quando il gruppo dei partigiani di monte Ceresa è fatto segno di raffiche di mitragliatrice dalla vetta di Pizzo d'Evigno, si comprende allora che, in quel luogo ci sono i Tedeschi.
(4) Molta parte dell'azione di «Cion», nel periodo fino al giugno 1944, è riportata nel 1° volume della presente opera, di G. Strato.
(5) La tragedia di Val Casotto è avvenuta nel marzo l944.
(6) Dal diario di Gino Glorio.
(7) Per dare un'idea sull'afflusso di nuove reclute alle bande partigiane, riportiamo il breve rapporto inviato dalla Volante al Comando della IX Brigata:
"Comando della IX Brigata d'Assalto Garibaldi, Distaccamento N° 1 (Volante)
         lì, 18/6/44
Impossibile preparare servizio giornaliero.
Continuamente affluiscono uomini di tutte le classi.  
Distaccamenti al completo, possibilmente formarne altri da queste parti (attendiamo
ordini). Formato tre bande locali a nostra disposizione.
Totale uomini 20 a Pairola, Riva Faraldi, Testico.
Attualmente presenti a questo distaccamento 80 uomini.
Azione Santa Croce rimandata perché rinforzata. Facilmente lunedì o martedì.
F.to Commissario politico Federico"
(8) Testimonianza di partigiani presenti allo scontro.

Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992

In quel periodo si cominciava a parlare della Volante, che era una banda in attività permanente, e del Cion che la comandava: questa banda la comandava a modo suo con tutti che gli ubbidivano: era un modo tutto speciale che bisognava vedere.
Il Cion capobanda era un giovanotto di fegato, che di risposte ai fascisti dopo quei bandi di chiamata ne aveva già date parecchie, ma tutte precise, diventando famoso per la sveltezza che aveva.
Tanto per spiegare come facevano, eccoli: a Capo Berta, proprio in mezzo alle pattuglie e ai reticolari, una volta aveva mandato il Brilla caposquadra, che intanto andasse per un lavoretto veloce; siccome il Brilla sapeva tirare di boxe, per non fare rumore fece a pugni con la sentinella tedesca prepotente, che non voleva capirla prima degli spari; e così quando spararono, lui aveva già sgombrato il passaggio per conto suo.
Ai Rossi la Volante tutta insieme, che non li fermavano nessuno, se la prese con quelli della Muti, che si credevano i padroni del vapore su e giù per la vallata; questi qui della Muti saccheggiavano intorno nei paesi da prepotenti, cantando all'armi all'armi siam fascisti; e non cantarono più.
Col Mancen che era il vice Cion, a Casanova ne catturarono tredici di un reparto di camicie nere in un colpo solo di passaggio; e anche quelli non ci passeggiarono più su e giù per la vallata, facendo i bulli.
Poi, dopo tutti questi colpi che facevano, il Cion e i suoi uomini tornavano alla base che avevano nei casoni di Pian di Bellotto; e lì da strafottenti aprivano la radio a tutta birra, che la sentissero dappertutto.
Lo facevano apposta per farsi sentire che c'erano nei loro posti, e che se ne strafregavano, e che ci rimanevano eccome; venissero pure.
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, p. 44

Leo è nato ad Andora (SV) il 4.6.1925. Alla fine del 1943 saliva al Casone du Beu, nel comune di Testico, dove sostavano nascosti i primi partigiani comunisti comandati da Felice Cascione. Leo aveva raccolto poche cose di vestiario e qualche provvista alimentare in uno zaino tedesco, che lo zio Quinto reduce dalla Russia aveva portato a casa, e si era incamminato verso i monti, fiducioso di trovare i ribelli. Giunto con fatica all’accampamento era interrogato in modo stringente, sulla sua identità e sulla parentela, specie da parte del partigiano Felice Spalla (Felì) futuro caduto in battaglia e da un altro ribelle. Leo non capiva la brusca inquisizione, non aveva riflettuto sul messaggio comunicato dal suo sospettoso zaino. Chiarita la provenienza e la famiglia, conosciuta proprio da Felì, anch’esso reduce con lo zio di Leo dalla guerra russa, dopo due giorni di permanenza nel Casone du Beu era comunque invitato a tornare a casa. La breve esperienza a contatto con il gruppo Cascione aveva infiammato Leo che tornerà per vivere con Silvio Bonfante (Cion), l’erede di Felice Cascione, l’epopea di Cian de Bellottu, le prime battaglie contro i nazifascisti e dopo la presenza nella Volante; infine l’adesione al distaccamento di Nino Agnese (Marco) fino alla Liberazione.
Ferruccio Iebole, Leopoldo Fassio “Leo”, un partigiano, I Resistenti, ANPI Savona, n° 1 - Aprile 2019 

Bonfante, Silvio, (Cion)
Arruolato, nel luglio 1941, nella Regia marina per obbligo di leva, viene destinato al deposito Crem di La Spezia e in seguito al distaccamento Marinai di Roma. Dopo l'armistizio rifiuta l'arruolamento nell’ esercito della Rsi e ad ottobre, rientrato in Liguria, si unisce ai primi partigiani dell'imperiese. Dopo aver operato nelle formazioni cittadine, nel febbraio 1944 entra a far parte del gruppo Cascione, ricostituitosi dopo la morte del suo comandate. E’ nominato comandante del 1° e poi del 3° distaccamento, entrambi dislocati al bosco di Rezzo. Nel giugno 1944 gli viene affidato il comando del 1° distaccamento Volante della 9ª brigata d'assalto Garibaldi, dislocato prima a Testico e poi a Rossi. Nel combattimento di Pizzo d'Evigno del 19 giugno, sostenuto interamente dal suo distaccamento, respinge l'assalto di una colonna tedesca, infliggendo al nemico pesanti perdite. A luglio, alla costituzione della divisione Cascione, ottiene il comando della 1ª brigata Silvano Belgrano. Guida numerosi attacchi contro presidi germanici e di Brigate nere a Ceva, Cesio, Pogli, Case di Nava e contro convogli della Wehrmacth sulla strada di Diano Marina e a Ponti di Nava. Comanda un attacco contro quattro postazioni della divisione San Marco che porta alla cattura di numerosi militari nella zona di Chiappa (val Steria), Roccà e Pairolo. Nella battaglia di monte Grande del 5 settembre guida l'assalto contro il reparto germanico che tiene la vetta, costringendolo a ritirarsi. Il 12 settembre gli viene affidato l'incarico di vicecomandante della Cascione. L'8 ottobre tenta, con un piccolo gruppo di uomini, l'impresa di catturare il contingente tedesco di stanza nel presidio di Vessalico. Rimasto ferito, viene ricoverato in un ospedale partigiano in località Valcona (Piaggia). Il 15 ottobre, nel corso di un grande rastrellamento della Wehrmacht, viene trasferito in barella, insieme ai feriti radunati a Vessalico e a quelli di Pigna, nell'ospedale da campo allestito a Upega. Due giorni dopo l'ospedale viene circondato dai tedeschi che, dopo aver attaccato San Bernardo di Mendatica, avevano puntato su Upega. Cion, per non cadere vivo nelle loro mani, si uccide sparandosi al petto. Nel dicembre 1944 gli viene intitolata la 6ª divisione d'assalto Garibaldi. Medaglia d'oro al valor militare.
(a cura di) F. Gimelli e P. Battifora, Dizionario della Resistenza in Liguria, De Ferrari, Genova, 2008 

giovedì 22 aprile 2021

Nella notte una trentina di tedeschi partì per Diano Arentino

Diano Arentino (IM) - Fonte: Mapio.net

Era il giorno 20 gennaio 1945. Ci trovavamo al Comando della I^ brigata [Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"] a Diano Arentino ed era un periodo di calma. Erano diversi giorni che le nostre sparute squadre non attaccavano né tedeschi né fascisti.
Anche perché in quel mese, attaccarli ed ucciderne qualcuno voleva dire provocare delle reazioni spaventose con rappresaglie contro le popolazioni innocenti dei paesi.
Siccome ciò ci creava dei problemi di credibilità, cercavamo di starcene tranquilli in attesa di tempi migliori.
Tanto più che nella nostra zona, durante il mese di gennaio, avevamo perso una novantina di compagni ed altrettante furono le vittime civili, causate dalle rappresaglie. E' chiaro che tutto ciò ci costringeva a non provocare altri eccidi. Comunque il 20 gennaio venimmo a sapere che sulla strada di Diano Gorleri vi era una squadra di una decina di operai della TODT, sorvegliati da due soldati tedeschi, che scavavano delle trincee ai lati della strada. Le trincee dovevano servire come ripari antipartigiani agli stessi tedeschi, quando questi si recavano nei paesi vicini a razziare fieno per i loro cavalli e altri generi agricoli.
L'intenzione nostra non era di uccidere i due tedeschi, ma di disarmarli, quindi mandarli via e bruciare tutti gli attrezzi che servivano per gli scavi. Insomma, con una dimostrazione, volevamo far sapere loro che c'eravamo ancora.
Una mezza dozzina di partigiani si recò sul luogo. Tra loro erano presenti: Giuseppe Saguato ("Pippo"), Germano, Roberto Amadeo ("Billy"), "Martello" ed altri.
Si avvicinarono guardinghi ai tedeschi, mentre due di loro si appostavano, pronti a sparare se il nemico avesse reagito. All'intimazione di mani in alto, uno dei due ubbidì, mentre l'altro, più giovane, riuscì a sparare un colpo con il suo fucile, senza però colpire i nostri. In conseguenza di ciò vi fu una reazione e il giovane tedesco rimase gravemente ferito. Impadronitisi dei fucili, i partigiani accatastarono gli attrezzi da lavoro e gli diedero fuoco.
Poi posarono il tedesco ferito sopra un biroccio avuto dalla popolazione locale e, insieme al tedesco illeso, lo avviarono verso Diano Marina. In località Ferretti, però, il ferito morì. Intanto la squadra partigiana ritornava alla base.
Iniziò la rappresaglia nemica: nella notte una trentina di tedeschi partì per Diano Arentino (probabilmente conoscevano l'ubicazione precisa del Comando partigiano) per compiere la rappresaglia. Erano le 22 quando sentimmo una raffica e grida in tedesco. Eravamo sistemati in cima al paese, vicino ad una chiesetta.
La pattuglia nemica, che aveva rafficato, provenendo da nord, andò a piazzarsi sulla strada che saliva da Diano Castello per impedire che fuggissimo verso il fondovalle. Altri seguirono i primi e circondarono il paese.
"Mancen" [Massimo Gismondi, comandante della I^ Brigata] era assente. Io, Federico [Federico Sibilla], Germano e gli altri tentammo di dileguarci per la campagna, approfittando della notte oscura, dopo aver svegliato il sedicenne "Peccenen", nostra staffetta, mettendogli però una mano sulla bocca perché non gridasse.
Raccogliemmo tutti i documenti del Comando. Per affrontare ogni drammatica sorpresa, presi l'arma automatica che "Mancen" mi aveva lasciato, e in un momento che ci parve di tregua scendemmo la scala, per percorrere poi una stradina onde raggiungere, veloci, un rifugio in casa del maestro locale, dove pensavamo di trovarci al sicuro.
Giunti in fondo alla scala, sentimmo che stavano giungendo altri tedeschi. Ci fu tra noi un attimo di esitazione, poi Germano e "Peccenen", che avevamo davanti, con un balzo girarono l'angolo della casa del Comando, se pur seguiti da una raffica di mitra. Invece io e Federico risalimmo nel luogo da dove eravamo partiti. Sentivamo i tedeschi bussare alle porte, entrare nelle case ove cercarci.
Pensammo che forse l'unica via di salvezza sarebbe stata quella di salire sul tetto attraverso una piccola finestra: iniziativa che attuammo immediatamente. Purtroppo c'era la luna piena per cui dovemmo nasconderci dietro un fumaiolo perché i tedeschi, che più a monte ci sovrastavano, avrebbero potuto vederci. Mi portai sulla gronda del tetto per constatare se potevamo saltare nella viuzza sottostante già percorsa da Germano e "Peccenen".
Ma il salto da compiere ci sembrò troppo alto.
Vidi, però, a circa due metri di distanza un terrazzino e la viuzza che vi passava appresso. Pensammo di saltare sul terrazzino e da lì nella viuzza. Così facemmo, ma quando fummo sul terrazzino che aveva il muretto di riparo rotto in alcuni punti, per non farci vedere dovemmo appiattirci sul pavimento.
Intanto scorgemmo che a pochi metri di distanza vi era la porta della casa del maestro (dentro la quale si trovava il rifugio) e alcuni tedeschi che si accingevano ad  entrarci. Essi bussarono alla porta e dopo qualche istante il maestro aprì; gli domandarono se nella casa vi erano dei banditi. Al tempo stesso, non attendendo nemmeno la risposta, alcuni di loro, su ordine del graduato che li comandava, entrarono per perquisirla.
Il graduato si soffermò nell'ingresso osservando alcuni quadri, ma, quando vide il diploma di maestro del nostro amico, disse: «Anch'io insegnante, siamo colleghi». Iniziò così una conversazione.
Ogni tanto giungevano dei soldati che gli riferivano sull'andamento delle ispezioni effettuate nelle case. Intanto noi, esaminando bene la drammatica situazione nella quale ci eravamo venuti a trovare, ci accorgemmo che i soldati avrebbero potuto vederci benissimo; non ci rimaneva che strisciare sul pavimento per raggiungere un piccolo e cadente gabinetto situato in un angolo del terrazzino per essere meno visibili. Tenevo la pistola puntata alla tempia, pronto ad uccidermi se ci avessero scorto.
Federico mi diceva: «Guarda che non ti parta un colpo». Ma io ero talmente calmo che gli risposi: «Perché il colpo parta, prima debbo alzare il cane e poi premere il grilletto». Dopo una decina di minuti il gruppo di tedeschi se ne andò via e fu allora che scorgemmo una porticina che ci doveva permettere di uscire dal terrazzino per raggiungere la stalla della casa, la stessa nella quale ci eravamo sistemati.
Quando spingemmo la porticina, ci accorgemmo che dall'interno era bloccata da balle di fieno per cui bisognava spostarle. Ci eravamo messi appena all'opera quando un gruppo di tedeschi entrò nella stalla con delle pile a batteria, per ispezionarla. La stalla era vuota, vi erano solo le balle di fieno, i tedeschi non fecero caso ad esse e che cosa potessero nascondere.
Lì sentimmo esclamare: «Nein partisan, raus» (Niente partigiani, andiamo via). Anche questa volta fummo veramente fortunati. Dopo qualche tempo i soldati si concentrarono in fondo al paese per andare via.
Fu in quel momento che venne a chiamarci sottovoce Davide Gaggero ("Daviden"), un comandante della SAP locale. Usciti fuori con qualche difficoltà, fummo condotti nel sicuro rifugio del maestro dove trovammo il "Peccenen".
Germano ci raggiunse all'alba.
Purtroppo i tedeschi catturarono tre giovani del paese (Silvio Arancio, Giuseppe D'Andrea e Gerardo Cavalieri) che fucilarono presso l'oratorio di San Sebastiano, sulla strada che porta a Diano Castello.
Anche se ritenemmo che non fosse colpa nostra, poiché eravamo coinvolti in una brutta guerra di cui non eravamo responsabili, e per causa della quale sovente pagavano degli innocenti, tuttavia ci sentimmo molto male e a disagio con i parenti dei caduti e con gli abitanti del paese.
Il caro Davide Gaggero, fervente nostro collaboratore, rimarrà ucciso nella Stazione ferroviaria di Diano Marina il 24 aprile, nel tentativo di disarmare alcuni tedeschi del treno armato che ivi stazionava. Fu un vero eroe, ma non gli fu concessa alcuna onorificenza: se la sarebbe veramente meritata. La gente di Diano Marina gli fu generosa intitolandogli una strada della città.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

[...] mentre poderose forze nemiche stanno per attaccare la Divisione Bonfante sul suo territorio, nel Dianese avvengono gravi fatti di sangue. Nel pomeriggio del 20 gennaio 1945 una squadra del Distaccamento “F. Agnese”, al comando di “Gordon”, vice comandante di Brigata, si scontra con il nemico nella zona di Diano Gorleri. Per le gravi ferite riportate muore un soldato tedesco ed è recuperato un fucile Mauser. A causa del forte pattugliamento nemico, la squadra si ritira. Appena fattosi notte, una squadra tedesca appiedata e una squadra di brigatisti neri s'inoltrano nella valle di Diano per compiervi rappresaglie. Catturano i civili Silvio Arancio, Giuseppe D'Andrea, Gerardo Cavalleri, cittadini di Diano Arentino e li fucilano nei pressi dell'Oratorio di San Sebastiano, poi circondano il suddetto paese con l'intento di catturare il Comando della I Brigata, che aveva il centro recapito staffette a Diano Roncagli. A stento il Comando riesce a sfuggire alla cattura, dopo che i partigiani Federico Sibilla e Sandro Badellino erano quasi rimasti imbottigliati sopra un terrazzo; anche il partigiano Germano Belgrano si mette in salvo. Proseguendo il cammino i Tedeschi scendono sulla strada di Diano San Pietro e nei pressi delle frazioni Ciapai e Camporondo catturano Adelmo Ardissone, Silvio Bottino, Damiano Abbo, Alfonso Messiga e Ardito Risso. Sulla carrozzabile, nei pressi della frazione Trinità, sparano loro alla schiena, dopo averli spinti in avanti di qualche passo. Si salvano per caso fuggendo il Risso e il Messiga che, lanciatisi negli oliveti sottostanti, benché sotto le raffiche, riescono a salvarsi dileguandosi nella notte. Sulla mulattiera tra Diano Castello e Diano San Pietro i tedeschi uccidono pure il civile Antonio Ugo.
Due giorni dopo la rappresaglia il Comando Tedesco di Diano Marina annuncia che sarebbero stati fucilati dieci ostaggi e distrutto paesi per ogni tedesco ucciso. Contemporaneamente chiede un compromesso di tregua che viene rifiutato. Il Comando partigiano già da tempo tempo aveva dichiarato che la guerra era totale e così si doveva condurre, a prescindere da ogni rappresaglia, contro un nemico barbaro e crudele in onore a tutti i caduti e per non tradire la causa per la quale avevano immolato le loro giovani vite. I tedeschi reagiscono puntando su Diano Castello il giorno 22.01.1945 [...]
Francesco  Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV: Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 28,29

 

20 gennaio 1945 - Dal comando della I^ Brigata al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Riportava la richiesta della SAP "Walter Berio" di Imperia di procedere al rapimento di soldati tedeschi come rappresaglia per l'arresto dei partigiani Delle Piane e Stenca.

20 gennaio 1945 - Dal comando della III^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Libero Briganti" della I^ Divisione "Gin Bevilacqua" [II^ Zona Operativa Liguria, Savonese] al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che il collegamento tra le due formazioni sarebbe stato effettuato dal Distaccamento "S. Torcello", il più vicino alla I^ Brigata.

21 gennaio 1945 - Da "Gianni" del P.C.I. a Mancen e Federico - Informava che un uomo a Deglio voleva uccidere il segretario comunale in nome dei partigian, sottolineando:  "Vi ordino di fermare quel tizio dal commettere delitti. Noi patrioti non siamo assassini, ma vogliamo solo la liberazione dell'Italia".

21 gennaio 1945 - Dal Comando Operativo della I^ Zona Liguria al comando della II^ Divisione ed al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Si ordinava di rendere difficoltoso il transito ai nemici sia per strada che per ferrovia e veniva espressa perplessità sulla circostanza della ripresa di rastrellamenti tedeschi dopo che i nazisti avevano già fatto preparativi per l'evacuazione.

da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia, Anno Accademico 1998-1999