Visualizzazione post con etichetta giugno. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta giugno. Mostra tutti i post

venerdì 12 aprile 2024

La recluta partigiana non conosceva ancora il comandante garibaldino


Ripassando con la memoria davanti all'ingresso dell'Hotel Eletto [a Sanremo], non posso fare a meno di pensare a quel giorno del dicembre 1944 quando ne uscii prigioniero, affiancato da un Brigadiere della Milizia dai corti capelli rossicci e dal viso butterato, che mi sorvegliava con due occhi freddi e duri, la mano sulla pistola. Preceduto da Pelucchini, che teneva negligentemente il mitra nella mano destra, e seguito da Gin Mano Nera (un mio lontano parente) che mi seguiva di qualche passo, con uno sten spianato. Quel lontano, grigio giorno di tanti anni fa, pensai che quella era l'ultima passeggiata che facevo in Via Vittorio [n.d.r.: oggi Via Matteotti].
Franco Giordano, Le historiae del Contahistoriae, Sicle Int. Ed., 2001, p. 250

Caro Baban Rossi... Dalla figura piuttosto corpulenta, dalla notevole forza fisica (alzava le valigie come fossero vuote) ma dal grande cuore! A TE io devo la vita.
Quando negli anni bui della Guerra fui catturato dai fascisti che mi portarono dal Maresciallo Rossi, capo dell'U.P.I. (Ufficio Politico Investigativo) per essere interrogato e torturato. Grazie a TE, io sono vivo. TU salvasti la Mia Vita. Io, purtroppo, non riuscii a salvare la TUA (come spero di poter narrare in un'altra mia Historia).
Franco Giordano, Op. cit., p. 43

In conclusione IO... fui l'unico ad andare in Montagna!
I primi di giugno del 1944, partii all'alba, mentre ancora tutti dormivano, lasciando un breve messaggio, promettendo di mandare al più presto mie notizie. Con sulle spalle uno zaino (residuato di guerra) nel quale avevo stipato un po' di biancheria personale e da toeletta; due paia di cazoni (uno lungo ed uno corto), due camicie, due maglioni, un berretto, il tutto sormontato da una coperta (militare anch'essa) saldamente allacciata allo zaino mediante speciali cinghie, previste ad hoc. Dopo aver raggiunto il nascondiglio del fucile e degli sarponi li calzai, mettendo nello zaino le leggere pantofole di gomma nera (autarchica), che usavo abitualmente per il bosco.
Col moschetto sulla spalla destra, lo zaino sulla schiena, le cartucce dentro due giberne ed  un pugnale alla cintura, avevo veramente un'aria da grande e terribile GUERRIERO!...
Non bisogna, soprattutto, dimenticare che l'insieme era trasportato dai due enormi, magnifici scarponi.
Raggiunti i "Termini di Baiardo" imboccai la mulattiera quasi pianeggiante che conduce a questo Villaggio. Giunto nelle sue vicinanze presi attraverso i boschi, per evitare un incontro e con qualche fascista o tedesco. Memore delle istruzioni dal Ten. Rico. Malgrado che, in quel periodo, tedeschi e fascisti si tenessero piuttosto bassi, facendo solo qualche rastrellamento, di tanto in tanto, con gran spiegamento di forze.
Rinfrescatomi ad una fontana di cui conoscevo l'ubicazione (fin da bambino facevamo passeggiate nella zona) mi accorsi che avevo pensato a tutto l'equipaggiamento, salvo che alle vettovaglie. Infatti camminavo ormai da qualche tempo e cominciavo a sentire i morsi della fame. Accelerai quindi l'andatura per raggiungere al più presto l'accampamento del Cap. Umberto, nella zona di Monte Ceppo. Quando, all'improvviso, sentii una voce provenire da un cespuglio, da cui faceva pure capolino la canna di un'arma: "Dove vai con tutta questa fretta"?
Io rimasi impietrito. Paralizzato dalla paura. Col fucile in spalla, impigliato nelle cinghie dello zaino,... e scarico!
Dopo qualche tempo, vedendo che il mio interlocutore non manifestava intenzioni ostili, mi avvicinai, cautamente, al cespuglio, onde vidi un uomo con in testa un basco nero, vestito con una giacca a vento ed un paio di calzoni grigi, mollemente seduto contro una roccia. Che aveva uno Sten sulle ginochia. Un uomo non molto alto, da quel che potei giudicare, figura snella e dal colorito piuttosto pallido. Con un viso secco, duro, spigoloso, illuminato da due occhi azzurri, dal bagliore e dalla freddezza dell'acciaio, che ti frugavano dentro. Denotando una personalità forte e decisa.
Dopo esserci presentati a vicenda, appresi che si chiamava Vitò e che aveva 29 anni. Al che gli dissi con la mia solita faccia tosta: "Sei vecchio! Ed hai anche un'aria piuttosto malandata! Cosa te l'ha fatto fare di venire in Montagna? Posto per i giovani!"
Lui, pazientemente, mi spiegò che era pastore di mestiere. Che era di Loreto. Che i Tedeschi avevano distrutto il suo villaggio ed ucciso le sue capre. Lui quindi, non avendo altra risorsa, aveva scelto la Montagna. Divise con me una pagnotta con un pezzo di formaggio, che io letteramente divorai. Mi spiegò che ci trovavamo nella zona della Punta della Ventosa e che il Gruppo del Cap. Umberto si trovava un po' più in basso, vicino alla Fontana delle Beulle.
Dopo avermi salutato cordialmente ed augurato "Buona Fortuna" per la mia vita da Partigiano che avevo appena iniziato, scesi verso le Beulle, seguendo le sue indicazioni. Giunsi infine all'accampamento del Cap. Umberto dove venni  accolto e festeggiato da molti amici e compagni di Liceo: i Fratelli Maiga (Pippo ed Emilio), Massimo Porre, Renzo Barbieri (Il Bigi), Lio Rubini (Fin Feretu), i Fratelli Rovere (Giuseppe e Bruno), i Fratelli Calvino (Italo e Flori), Giannetto Pigati e tanti altri che non riuscii neppure a vedere. Tanta era la fame, che mi attanagliava il ventre, offuscandomi la vista. Ricordo oggi il sapore delizioso di una gavetta piena di sugo, con dentro qualche pezzo di pecora, nella quale inzuppai una pagnotta di pane raffermo.
Messo tranquillo lo stomaco, cominciai a chiacchierare con gli amici della personalità del Cap. Umberto.
[...] Chiacchierando, raccontai lo strano incontro che avevo avuto con un certo Vitò, un pastore diventato Partigiano, e la paura che avevo avuto, oltre agli apprezzamenti che avevo fatto su di lui, la sua età e il suo aspetto piuttosto malaticcio.
Al che i miei amici si misero a ridere, pregandomi di non raccontar loro delle "pagnotte". Siccome io, offeso, insistevo, mi dissero "non cercare di farci credere che Vitò, il Comandante dei Garibaldini della Quinta Brigata, il Leggendario VITO', eroe, reduce della Rivoluzione Spagnola, è venuto a darti il benvenuto. Solo, lontano da Carmo Langan, sede del suo Comando".
Mentre stavamo parlando, segnalata dalle sentinelle, vedemmo scendere e venire verso di noi una pattuglia di Partigiani, con in testa Vitò (al secolo Giuseppe Vittorio Guglielmo), il quale venne verso di me e, sorridendo con quel sorriso dolce e un po' triste, mi chiese se avevo ritrovato gli amici. Accortosi che "mi vergognavo come un ladro" per gli apprezzamenti avventati e gratuiti che, stupidamente, avevo fatto su di lui, mi mise generosamente a mio agio prendendomi un po' per il sedere... Spiegandomi che la sua Pattuglia era rimasta nascosta attorno a noi per tutto il tempo della nostra chiaccherata e del mio avvicinamento... Annunciato, centinaia di metri prima, dai miei scarponi con un rumore da...
CARRO ARMATO!!!
Franco Giordano, Op. cit., pp. 97-101

giovedì 7 marzo 2024

Dopo circa 5 ore di attesa venne avvistato un camion pieno di soldati tedeschi e fascisti

Uno scorcio di Castelvecchio di Imperia

[Durante la battaglia di Carpenosa del 30 giugno 1944] iniziò una serie di attacchi [nemici] più volte respinti e rinnovati che portarono gli uomini [32 garibaldini del 4° distaccamento] di Gino [Napolitano] ad esaurire in breve tempo le munizioni.
Per loro fortuna le sorti del combattimento furono modificate proprio quando sembravano decise a favore del nemico - dalle mitragliatrici pesanti e dal mortaio da 81 tempestivamente impiegati dagli uomini del 5° distaccamento guidato da Ivano [Giuseppe Vittorio Guglielmo] e da Erven [Bruno Luppi] che - avvertiti da una staffetta inviata a Cima Marta all'inizio degli scontri - giunsero alle 18 sorprendendo i tedeschi e costringendoli a ritirarsi.
Inseguiti dal reparto di Nettu [Ernesto Corradi] -  unitosi nel frattempo alla lotta - i tedeschi riuscirono a risalire sugli automezzi dopo aver fatto saltare un tratto di strada alle loro spalle: entrati in Carpenosa verso le 21 i partigiani calcolarono le perdite nemiche in circa 80 tra morti e feriti, su 600 attaccanti.
I positivi risultati ottenuti anche in questi scontri frontali non modificarono tuttavia la linea generale dell'offensiva partigiana che giustamente continuò a considerare come elemento principale della propria condotta di guerra l'azione di sorpresa, effettuata da piccoli nuclei ben armati in grado di spingersi all'interno dello schieramento nemico e di disimpegnarsi rapidamente dopo aver colpito gli obbiettivi.
Un esempio classico di questa tattica (comune a tutte le formazioni liguri) ci viene offerto dalla imboscata tesa il 28 giugno sulla statale 28 - a 3 Km. dal mare - da una squadra di 5 uomini del 10° distaccamento, comandati da Folgore [Umberto Cremonini] e da Nando [Fernando Bergonzo].
L'obbiettivo era stato segnalato da informatori di fondovalle i quali avevano recato a1 distaccamento la notizia che ogni giorno il generale tedesco comandante delle forze di presidio nella zona percorreva in auto la 28 per ispezionare i reparti dislocati nella vallata.
L'appostamento venne fissato in prossimità di Sgureo [Sgorreto], tra Castelvecchio e Pontedassio, su una ripida parete a strapiombo sulla strada; la marcia di avvicinamento - effettuata con molta circospezione - consentì di eludere i presidi ed i blocchi nemici che si frapponevano all'obbiettivo. Sul posto, gli uomini vennero disposti in punti ben occultati da cui fosse facile attendere senza scoprirsi e dominare un lungo tratto della carrozzabile.
Dopo circa 5 ore di attesa venne avvistato un camion pieno di soldati tedeschi e fascisti, che non ubbidendo all'intimazione dei partigiani tentò di accelerare l'andatura per portarsi fuori tiro: un nutrito lancio di bombe a mano lo centrò in pieno provocandone l'arresto e colpendo numerosi soldati nemici.
Gli uomini di Nando e Folgore ebbero appena il tempo di scendere la ripida scarpata per impadronirsi delle armi automatiche nemiche e sparare su alcuni fuggiaschi, quando sopravvenne l'automezzo del generale costringendoli a risalire rapidamente il pendio.
Per vendicare la morte di 7 soldati germanici caduti in quella azione l'alto ufficiale dispose subiro la mobilitazione di una colonna con autoblinde e mortai che invano aprì il fuoco contro la squadra partigiana in ritirata.
La rappresaglia infierì allora contro il paese di cui vennero incendiate le case e prelevati 20 ostaggi tra la popolazione. <21
A fine giugno - malgrado l'intensificarsi delle puntate offensive germaniche e fasciste - la pressione partigiana era diventata notevole: la IX Brigata occupava Triora, Molini di Triora e Badalucco liberando una vasta zona della Valle Argentina da cui i nemici si erano ritirati dopo aver fatto saltare due ponti presso Taggia e distrutto la Chiesa degli Angeli in Badalucco già adibita a deposito di armi e munizioni.
21 Unico aspetto negativo di questa operazione: la scelta della località per l'imboscata; i partigiani ignorarono - o non ne tennero conto - le precise direttive del Comando Generale: «si devono evitare i combattimenti e le imboscate nei villaggi per evitare nei limiti del possibile le rappresalie» (testuale, orig. dep.).
Giorgio Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria - Volume II, Istituto Storico della Resistenza in Liguria, 1969, pp. 255,256

venerdì 2 febbraio 2024

I partigiani imperiesi alla fine di maggio 1944

Imperia: uno scorcio di Capo Berta

Come nelle altre zone liguri, anche ad Imperia i bandi di arruolamento della R.S.I. determinarono un notevole afflusso di reclute alle formazioni di montagna aumentandone gli effettivi ed impegnando i comandi in un'opera più attenta di inquadramento e di organizzazione.
Contemporaneamente venne predisposto un piano che stabiliva per il 25 maggio [1944] - data di scadenza dei bandi e dell'ultimatum fascista, per la quale era quindi prevedibile l'inizio di una offensiva nemica -  un attacco simultaneo in tre punti contro le posizioni germaniche e fasciste ed una nuova dislocazione difensiva dei reparti partigiani.
Il piano fu puntualmente eseguito nella data stabilita e sugli obiettivi fissati: il 25, i distaccamenti di Cion [Silvio Bonfante] e di Ivan attaccarono con successo rispettivamente le postazioni difensive nemiche di Capo Berta e di Garbella <7, mentre gli uomini di Mirko [Angelo Setti] sorprendevano con una violenta sparatoria il posto di blocco di Cesio, che poteva salvarsi - dopo due ore di combattimento e notevoli perdite - solo con l'arrivo di rinforzi germanici.
Quindi i reparti raggiunsero le nuove posizioni: mentre il distaccamento di Mirko e quello di Tito restavano a Bregalla e al Bosco Nero, Ivan si spostava a Fontanin (Costa di Carpasio) e Cion si piazzava con i suoi nomini a Casoni, a ridosso del Pizzo d'Evigno.
A giugno il movimento di resistenza imperiese, forte dei nuovi effettivi e già provato da importanti esperienze, si pose a sua volta il problema di unire in forma più organica - sotto un solo comando e con un nuovo inquadramento militare - tutte le formazioni e le bande operanti nell'entroterra.
La prima unità combattente risultato di questo impegno - regolarmente inserita nell'organico delle Brigate Garibaldi e del Comando Militare Ligure - fu la IX Brigata d'Assalto, che costituì la base da cui si sarebbe sviluppato successivamente tutto l'esercito partigiano della zona.
Benché il comunicato ufficiale della sua costituzione fosse stato diramato solo il 14 giugno - con una circolare a firma dell'Ispettore Pio - la Brigata funzionava già come tale dal primo giorno dello stesso mese.
Raggiungere l'accordo tra i vari reparti ed i gruppi sparsi nel vasto territorio della provincia non era stato - a quanto risulta - molto difficile data l'unità operativa già esistente tra le diverse formazioni e dato che gran parte dei vari comandanti e commissari provenivano dalla prima banda di Felice Cascione: più difficile fu - senza dubbio - ottenere un inquadramento disciplinare e tattico conciliando le esigenze generali con il mantenimento della massima autonomia di manovra possibile ai singoli reparti.
Il risultato fu tuttavia in gran parte positivo: ne risultò una Brigata piuttosto agile negli spostamenti, in grado di controllare una grande zona di operazioni, abbastanza efficiente nei servizi.
La sede del Comando fu stabilita nella casa di Bacì di Fundeghé, nel bosco di Rezzo; Curto (Nino Siccardi) fu designato comandante della Brigata, vice comandante Mario (Mario De Lucis), commissario Giulio (Libero Briganti), vice commissario Grosso (Luigi Nuvoloni) e ispettore di Brigata Pio.
[...] Collegata alla IX Brigata - ma mantenendo una propria autonomia di comando e di azione - operò anche in quel periodo una formazione denominata «Banda Matteotti» <8, che si era formata agli ordini del capitano Franco (capitano Franco Faverio).
Un così rapido aumento del potenziale dell'organico nel movimento militare di resistenza non poteva non avere delle immediate ripercussioni sulle autorità occupanti che del movimento clandestino avevano rilevato i progressi sia dalle notizie di numerosi informatori sia dall'aumentato numero e ritmo dei sabotaggi e degli attacchi portati contro le loro truppe.
Contromisure nemiche
Occorreva quindi predisporre non solo più munite difese nei punti nevralgici delle vie interne di comunicazione e della stessa via Aurelia ma anche - e soprattutto - effettuare alcune grosse operazioni di rastrellamento che liberassero il territorio alle spalle delle truppe germaniche operanti al confine francese e di quelle poste a vigilare contro sbarchi Alleati la Riviera Ligure di ponente.
Vennero dunque - nello stesso mese di giugno - aumentati gli organici della 33^ Legione della G.N.R. di stanza ad Imperia e del IX Battaglione G.N.R. di stanza ad Albenga, mentre nella zona si installavano grossi reparti della 41^ Divisione germanica Alpenjager i cui obbiettivi di impiego - al di fuori dei compiti delle truppe presidiarie <9 - erano appunto le operazioni antiribelli.
Tali misure consentirono ai comandi germanici e fascisti di effettuare nel solo mese di giugno circa 50 puntate di rastrellamento contro le forze partigiane: puntate rese del resto necessarie per l'aumentata combattività dei reparti di volontari della provincia e delle zone confinanti, che in breve erano giunti ad occupare una vasta zona del Colle di Nava a Garessio, controllando per un certo periodo di tempo anche Bagnasco e la strada Ceva-Ormea. <10
L'asprezza assunta dai nuovi scontri col nemico in ogni parte della provincia contribuì certamente in modo determinante a rafforzare la omogeneità e lo spirito combattivo dei reparti della IX Brigata operando una selezione che ne migliorò l'assetto militare e conferì agli effettivi la necessaria esperienza nello sviluppo della strategia partigiana.
Anche la parte logistica della formazione potè migliorarsi con la creazione di alcuni servizi indispensabili - quali l'intendenza, il Servizio Informazioni Militari, il Servizio Sanitario e il reparto Stampa e Propaganda - che se in quella prima fase non risolsero, tuttavia avviarono a soluzione i principali problemi relativi alla vita dell'unità combattente.
[NOTE]
7 In questa azione venne ferito il partigiano Emiliano Mercati.
8 Più tardi gli effettivi della Banda Matteotti vennero assorbiti in parte dalle formazioni garibaldine, in parte dalle formazioni Autonome del Basso Piemonte. (Documentazione Rubaudo).
9 Fra le truppe presidiarie della R.S.I. nella zona cominciavano a verificarsi numerosi episodi di diserzione; vi fu persino il caso di un rifiuto collettivo a partecipare ad un rastrellamento: a seguito di ciò 500 soldati furono disarmati e inviati a Genova a disposizione delle autorità germaniche. Un reparto della R.S.I. di presidio a Caramagna passò invece - al completo - alle forze della resistenza. Anche tra i militi della G.N.R. e gli agenti della P.S. erano cominciate le diserzioni ed i contatti con il movimento clandestino. (Documentazione Rubaudo).
10 L'occupazione avvenne nei giorni tra l'll e il 16 giugno.
Giorgio Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Istituto Storico della Resistenza in Liguria, 1969, pp. 240-246

lunedì 18 settembre 2023

Lo sapete che Cipressa è circondata dai Mongoli che cercano i partigiani casa per casa?

Cipressa (IM): una vista sino alla zona di Sanremo

Un giorno, sul finire di giugno [1944], i tedeschi e i fascisti salirono da Montalto Ligure e Makallé mi disse di portarmi in cresta sopra la ripida mulattiera che portava al passo di Vena. Loro avrebbero nascosto i viveri e cancellato le tracce della nostra permanenza al Casone della «Scià Maria». Io, con la mia squadra, potevo prendere le decisioni che mi sarebbero parse opportune: l'importante era tenere la squadra unita. Arrivati in prossimità del passo notammo che questo era già occupato dai fascisti. Non ci restò altro da fare che disturbarli con qualche raffica, per renderli un po' più guardinghi, e quindi più lenti. Rìtornammo al casone e, dopo esserci consultati, decidemmo di andare a rifugiarci sulla costa, vicino al mare, e ci avviammo lungo la strada. Quasi subito sentimmo una nutrita sparatoria sopra Pietrabruna: chiesi ad un uomo, che stava salendo dal paese, se sapeva cosa stava succedendo e questi mi rispose: «è la banda di Tito che ha attaccato i tedeschi». Era una spia? O era un poveraccio che non sapeva cosa diceva? Noi, comunque, ci precipitammo a dare una mano a Tito. Quando vedemmo ì tedeschi, capii la mia stupidità; allora dissi a Giacò: «Tu con tre uomini cerca di fermarli, tanto da darci tempo di andare ad appostarci su quel costone là dietro; quando siamo arrivati ti ritiri e noi ti copriamo». Così fecero, ma prima di arrivare nel luogo dove avevo pensato di coprire Giacò, ecco farsi incontro uno strano tipo, che correva verso di noi. Gli chiesi chi era e dove andava; lui mi rispose: «Sono un comunista e un partigiano diretto al Comando, quando ho sentito sparare, e sono venuto a darvi una mano». Io gli dissi: «Bravo, non hai neanche un fucile, ma in compenso hai del fegato». Era Milan; sarebbe poi diventato il Comandante della IV Brigata della Cascione. Coprimmo Giacò e gli altri, finché non ci raggiunsero, allora gli dissi: «Ritirati finché non trovi un posto adatto per coprirmi coi fucili; adesso lo prendo io il mitragliatore». «Non ti conosce», mi rispose, «conosce soltanto me e allora è meglio che resti io: l'importante è che tu mi copra». Così facemmo e lo facemmo tanto bene che i tedeschi rallentarono il loro inseguimento e la distanza fra loro e noi aumentò. Quando raggiungemmo la «Casa del sergente», situata in mezzo a una vigna, sotto il passo di San Salvatore, i tedeschi non si vedevano più. Chiesi al vecchio sergente se aveva qualche cosa da mangiare: lui entrò in casa e ne uscì con due grossi pani, «adesso vado a prendervi da bere». Nel tempo della sosta mi era sembrato di udire degli spari dalla parte di Pompeiana, li avevano sentiti anche gli altri, tanto che tutti fecero silenzio: eravamo presi fra due fuochi; prendemmo i fiaschi di vino che frattanto il sergente aveva portato e, al coperto della vigna, entrammo nel vicino bosco di querce. Numerosi tedeschi erano sulla cresta del Passo di San Salvatore; gli altri salivano lentamente verso di loro.
Il boschetto di piccole querce, dove ci eravamo rifugiati, non dava molte possibilità di sopravvivenza in caso di rastrellamento. La cosa migliore da farsi era di cercare un riparo occasionale. Lo trovammo nella curva di un ruscello: l'acqua aveva allargato il letto del corso d'acqua e i bordi servivano da trincea. L'importante per noi era di non lasciare avvicinare gli inseguitori con il lancio di bombe a mano, sperando nell'oscurità della sera per sganciarci dalla nostra critica situazione. Il boschetto era fatto segno a continue raffiche di mitraglia e a colpi di mortaio che iniziarono al calare del sole. Buon per noi che i mortai non erano con l'avanguardia delle forze di rastrellamento. Pensai che, dopo aver martellato con i mortai, il nemico avrebbe cercato di farci uscire allo scoperto, approfittando delle ultime luci del giorno; pertanto decidemmo che appena i mortai avessero smesso ci saremmo ritirati. Così facemmo: noi uscimmo dal nostro riparo proprio mentre il nemico si addentrava nel boschetto. Ripiegammo verso Cipressa passando prima da una campagna dove speravamo di trovare pesche mature: ne trovammo poche e acerbe, ma furono gradite ugualmente da tutti.
Andammo a dormire a Cipressa, in un fienile di mio zio, in Vico Martini. Sapevo che in quel periodo gli zii non dormivano in paese, ma in una casetta in campagna vicino al mare. Tutte le mattine però mio zio saliva in Paese con l'asina carica d'erba per i conigli e le galline e, dopo aver scaricato la bestia, la faceva entrare nella stalla che si trovava proprio sotto il fienile. Al suo arrivo scesi nella stalla e, quando aprì la porta ed ebbe fatto entrare la bestia, mi vide. Non riuscì a parlare per lo stupore o per lo spavento? Allora gli dissi di chiudere la porta e di venire di sopra, che gli avrei spiegato; e mi allontanai su per la scala del rustico. Mi raggiunse immediatamente e quando vide tutti quei giovani sconosciuti e con le armi esclamò: «Siamo perduti» (Mi ricordava sempre queste due parole il partigiano di Piani di Imperia «Ninchi», ora defunto, tutte le volte che lo incontravo).
Gli risposi: «Senti «barba» (zio), abbiamo una fame da lupi, vai da Ernesto il panettiere (Ernesto Velio), digli che sono qui con una ventina di ribelli e fatti dare tutto il pane che può; prendi l'asina e ritorna da dove sei venuto». Mi rispose: «Va bene per Ernesto, ci si può fidare, ma lo sapete che il paese è circondato dai Mongoli che cercano i partigiani casa per casa?». «Stai tranquillo», gli dissi, «i Mongoli sono come i tedeschi, i partigiani li cercano solo nelle case dove vive la gente, dove si può rubare qualche oggetto di valore e, per male che vada, qualche cosa da bere».
Mio zio partì ed io risalii nel fienile. L'idea di rifugiarci in quel fienile era stata la mia, ma nessuno mi fece neanche lontanamente capire di volermene per quello che poteva essere un grosso sbaglio. Spiegai la situazione e anche a loro dissi che, per la mia esperienza, escludevo che i mongoli avrebbero setacciato anche i fienili e le case diroccate (lo erano ancora a causa del terremoto della fine dell'ottocento) e pertanto ero tranquillo. «è più probabile», dissi, «che incendino il paese, e allora certamente inizieranno da un fienile, in questo caso ci divideremo in due squadre; una la guiderà Giacò e l'altra io. Ci sono tre vie di uscita: una dalla porta della stalla, l'altra dalla porta del fienile e l'altra dai tetti, da dove ci si può allontanare per tutto il borgo».
Ogni tanto si sentiva una raffica in lontananza, ma niente altro. Arrivò infine anche mio zio con un sacchetto di panini e un paiolo di risotto. Ernesto aveva fornito una decina di chili di pane, ma aveva anche pensato che probabilmente eravamo senza fumare, e così ci aveva mandato pure alcuni pacchetti di «trinciato forte», le cartine ed i fiammiferi. Prima di partire mio zio fu pregato da Mauro Caprile e da Luciano, un altro ragazzo di Porto Maurizio, di avvisare le loro famiglie che erano in salvo e che stavano bene. Mio zio caricò l'asina e partì, assicurandoci che avrebbe pregato per noi. Nel pomeriggio arrivarono i mongoli: dopo aver sostato brevemente dinanzi alla stalla e rimosso la porta, proseguirono per fermarsi davanti all'abitazione di Giacomo Martini, a pochi metri da noi; entrarono e, per un bel po' di tempo, cercarono quanto loro interessava in quella casa. Da una piccola finestra li vedemmo entrare e uscire, ma nessuno di noi ne fu apparentemente impressionato. Il giorno dopo tornò mio zio, informò Luciano e Mauro che sua moglie, mia zia, era andata ad avvisare le loro due famiglie e ci informò sull'opera dei mongoli. Avevano visto due uomini far legna nella pineta, e avevano sparato su quei poveretti, uccidendo il Morscio di Costa Rainera; e ferito Paolo Velio il figlio di Ernesto il panettiere, (Lo avevano colpito alla schiena; riuscì a salvarsi, ma rimase con le gambe paralizzate per tutta la vita).
Lo zio mi disse: «Non mi sento di chiedergli ancora del pane dopo quello che è successo al figlio; gli chiederò di anticiparci il pane della tessera annonaria mia e della zia, e noi in qualche modo ci aggiusteremo». Poco dopo ritornò dicendoci che Ernesto era andato ad Imperia, ma aveva lasciato detto alla moglie di darci tutto il pane che ci serviva.
Questo era lo spirito della nostra gente. Cosa avremmo potuto fare noi senza la loro totale collaborazione? Nulla; i veri protagonisti della lotta di liberazione sono stati loro. Non bisogna mai dimenticarcene. Ancora oggi godo dell'amicizia di molti di loro, che incontro talvolta peregrinando dalla Valle Impero alla Val Prino, dalla Valle Argentina alla Valle d'Arroscia, dall'Alta Val Tanaro alla Valle Pennavaire, ad Alto ed a Nasino.
Con questo non voglio dire di aver avuto sempre riconoscenza per loro e di essermi sempre comportato bene nei loro confronti; certamente avrò sbagliato più di una volta, ma sempre in buona fede e mi scuso ancora se a qualcuno ho mancato di rispetto, oppure se qualche volta ho abusato del mio potere nei loro confronti.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 77-80

domenica 30 luglio 2023

Si decise allora di bloccare la strada attraverso la quale transitavano i rifornimenti alla postazione tedesca

Baiardo (IM): alle spalle, senza alberi, Monte Ceppo

27 giugno 1944, Sella Carpe, località a 1300 metri di altezza, nel territorio del Comune di Baiardo (IM).
È un passo nel quale la strada carrozzabile proveniente dal paese si biforca, proseguendo con un ramo verso Monte Ceppo e l’altro scende verso la Valle Argentina.
Sul culmine di Monte Ceppo era rimasto l’unico presidio tedesco (circa 400 uomini) che costituiva una minaccia costante ai partigiani del V° Distaccamento dislocati a Carmo Langan [località di Castelvittorio (IM)].
Tentare un attacco al monte per distruggere la postazione nemica era impossibile per mancanza di armi pesanti.
Si decise allora di bloccare la strada attraverso la quale transitavano i rifornimenti alla postazione tedesca.
Il 27 giugno Erven [Bruno Luppi] con una settantina di uomini si apposta sulla curva della strada per Monte Ceppo, in località detta Sella Carpe.
Verso mezzogiorno giungono due camions carichi di soldati nemici i quali sono investiti da una valanga di raffiche di mitragliatori, di altre armi automatiche e di bombe a mano.
Senza che avessero tempo a organizzare qualche resistenza, molti soldati vengono uccisi, altri rimangono feriti, i pochi superstiti si rifugiano nei boschi sottostanti.
I partigiani si apprestano a raccoglie molte preziose armi quando sopraggiungono imprevisti altri camions carichi di soldati i quali trovano il tempo di prendere posizione.
"La situazione si fa gravissima - racconta il Luppi in una sua memoria - man mano giungono altri Tedeschi i quali possono piombarci alle spalle. Un gruppo di sette partigiani riesce a bloccare momentaneamente l’azione del nemico per cui noi con un fuoco intenso possiamo affrontare i Tedeschi che si trovano sul bivio e che, però, aumentano di numero. Il loro fuoco è intensissimo, una quindicina di partigiani sono feriti, ma per fortuna in modo leggero. Solo due di essi rimangono colpiti a morte. Di fronte all’incombente minaccia, tento una sortita per cercare di eliminare una mitragliatrice nemica che ci rafficava alla nostra sinistra e che ci impediva l’unica via di ritirata e di scampo. Ma in quel momento sono colpito, prima di striscio al costato sinistro, poi da una granata che mi spezza il nervo sciatico al terzo medio della coscia destra. Poco dopo il mio ferimento per fortuito caso giunge una nuvola di nebbia spessissima che ci permette di defilarci nel sottostante bosco mettendoci in salvo".
Il bilancio della battaglia: Erven ferito gravissimo, una quindicina di partigiani feriti leggermente e, purtroppo, tre sono i caduti.
Ma i tedeschi lasciano sul campo quasi una cinquantina di morti.
I feriti, che sono una trentina, li trasportano negli ospedali di Sanremo.
Dopo il ferimento, il Luppi rimane tra i boschi e sui monti per mesi, senza cure, spesso braccato per la caccia che gli danno i nazifascisti, ma sempre a contatto con il Comando I^ Zona Liguria, assumendo, nei momenti di calma, incarichi per produrre stampa partigiana.
Al termine della lotta di liberazione Erven rivestiva il grado di vicecommissario della I^ Zona Operativa Liguria.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Bruno Luppi fu Paolo e fu Ponzoni Iside, nasce a Novi di Modena l’8 maggio 1916. Da giovane, organizzato in un gruppo giovanile comunista nell’aprile del 1935 a Modena, è arrestato ed imprigionato con altri antifascisti nelle carceri di Sant’Eufemia. Resistendo ai maltrattamenti e nulla confessando, dopo una ventina di giorni riesce a farsi scarcerare.
Negli anni 1935-1936, sempre a Modena, entrato nuovamente a far parte del gruppo giovanile comunista, continua l’attività cospirativa diffondendo manifestini antifascisti e scritti vari tra i giovani dei corsi premilitari, raccogliendo fondi per soccorsi alle famiglie degli antifascisti in carcere.
Trasferitosi a Taggia (IM), negli anni 1938-1940, prende contatto con un gruppo di comunisti di Sanremo (IM), tra cui Umberto Farina, Giuseppe Ferraironi, Luigi Nuvoloni, Bruno Garruti e, con loro, svolge attività antifascista e organizza in Piazza Bresca una specie di stamperia clandestina composta da macchina da scrivere e ciclostile. Ivi sono compilati migliaia di volantini contro la guerra, da distribuire nelle caserme della Città e di Arma di Taggia. Dal 1941 al 1943 è militare sul fronte meridionale. 
L’8 settembre 1943 viene catturato dai Tedeschi mentre è sottotenente nel 20° Reggimento Fanteria in ritirata verso il nord dalla Calabria. Dalla località Maddaloni - Campania riesce a fuggire, dopo avere assistito alla fucilazione di ufficiali italiani da parte dei tedeschi, e a raggiungere Roma. La notte del 9 settembre si unisce a reparti della Divisione Piave ed al comando di due squadre di mitraglieri combatte contro il nuovo nemico per tutta la giornata del 10, presso il cimitero ebraico e quindi a Fuori Porta San Paolo. In questa località la resistenza dura tutta la giornata, dopo di che inizia una ritirata fino al Colosseo e, per Via Cavour, raggiunge Via Principe Amedeo, dove fa nascondere le due mitragliatrici in dotazione a causa l’esaurimento delle munizioni. Nelle operazioni sono caduti otto bersaglieri e altri rimangono feriti.
Dopo l’occupazione di Roma da parte dei Tedeschi, dal giorno 12 al 20, insieme al sottotenente di Fanteria Enrico Contardi, ad alcuni soldati sbandati e ad alcuni popolani di Trastevere, prende parte alla raccolta di armi, abbandonate negli ex accantonamenti militari (fucili, armi automatiche, munizioni), che vengono consegnate agli antifascisti di Trastevere. Negli stessi giorni col Contardi e quattro soldati riesce a sottrarre ai Tedeschi due automobili nuove di cui una era in uso a un console della milizia.
Grazie ad un permesso di circolazione, inoltratosi nel Ministero della Difesa, riesce ad asportare una grossa radioricetrasmittente che con una delle macchine riesce a trasferire ai Colli Albani ove la consegna ad un gruppo di antifascisti che si stanno organizzando per combattere i nazifascisti.
Nei giorni successivi spara a gruppi di soldati tedeschi ma, rimasto intrappolato, per fortuito caso riesce a sfuggire alla cattura e a raggiungere la stazione ferroviaria dove è tenuto nascosto da due ferrovieri.
Nei primi di ottobre, dopo varie peripezie, raggiunge la sua abitazione a Taggia per prendere contatto con i vecchi compagni e con i quali organizza a monte della Città, in località Beusi, una prima banda armata composta da una ventina di giovani, in gran parte militari sbandati. Ma la banda ha vita breve poiché si scioglie nel novembre successivo.
In quel periodo entra a far parte del Comitato di Liberazione di Sanremo, come rappresentante insieme ad Umberto Farina del PCI, con l’incarico di addetto militare.
Organizza pure il CLN di Taggia e una cellula del PCI ad Arma, coadiuvato dai compagni Mario Cichero, Candido Queirolo, Mario Guerzoni e Mario Siri.
Con i sanremesi dà vita ad un giornale clandestino quindicinale dal titolo Il Comunista Ligure, ciclostilato nel retro del negozio del Cichero stesso.
Il gruppo prende pure contatto con la banda armata di Brunati dislocata a Baiardo e con altre formatesi in Valle Argentina.
Dopo la morte del dottore Felice Cascione, capobanda ucciso in combattimento dai tedeschi il 27 gennaio 1944, la Federazione Comunista di Imperia costituisce il Triangolo Insurrezionale e il Luppi è designato a farne parte per la zona della Valle Argentina-Sanremo.
Con queste mansioni prende contatto con il comandante partigiano Nino Siccardi (Curto), in previsione dell’organizzazione di bande partigiane in altre zone della Provincia di Imperia.
Contemporaneamente organizza a Molini di Triora (IM) un presunto Comitato con a capo il farmacista Alfonso Vallini (Teia), tramite il quale fa giungere ai partigiani riuniti intorno al comandante Guglielmo Vittorio (Vitò) [Giuseppe Vittorio Guglielmo, organizzatore di uno dei primi distaccamenti partigiani in provincia di Imperia, dal 7 luglio 1944 comandante della V^ Brigata Garibaldi "Luigi Nuvoloni", dal 19 Dicembre 1944 comandante della II^ Divisione "Felice Cascione"], viveri, armi, e munizioni.
Nei primi giorni di aprile 1944 il Luppi si incontra nuovamente con il Siccardi a Costa di Carpasio, presenti il savonese Libero Briganti (Giulio), Giacomo Sibilla (Ivan) [a fine 1944 comandante della II^ Brigata "Nino Berio" della Divisione "Silvio Bonfante"], Vittorio Acquarone (Marino) e Candido Queirolo (Marco).
Si decide di raccogliere tutte assieme una ventina di bande sparse sul territorio per costituire la IX^ Brigata d’Assalto Garibaldi "Felice Cascione". Il che avviene. Anche Vitò si aggrega alla Brigata con i suoi uomini accampati in località “Goletta” (Valle Argentina).
Questi vengono suddivisi in due Distaccamenti denominati IV° e V°; quest’ultimo ha per comandante Vitò e per commissario il Luppi, con nome di battaglia Erven.
Il Luppi, come commissario, nei mesi di maggio e giugno prende parte a tutte le azioni che hanno consentito di ripulire i territori delle alte valli Argentina, Nervia e Roja da presidi e postazioni tedesche e fasciste...
Francesco Biga, Ufficiali e soldati del Regio Esercito nella Resistenza imperiese in (a cura di Mario Lorenzo Paggi e Fiorentina Lertora) Atti del Convegno storico Le Forze Armate nella Resistenza di venerdì 14 maggio 2004, organizzato a Savona, Sala Consiliare della Provincia, dall’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Savona

martedì 31 gennaio 2023

Nello stesso giorno furono uccisi dalla banda Ferraris il partigiano Silvano Belgrano, il giovanissimo Matteo Canale ed il parroco di Stellanello don Pietro Enrico

 

Dintorni di Stellanello (SV). Foto: Eleonora Maini

Silvano Belgrano fu uno dei primi partigiani che aderirono alla lotta in montagna. Amico e componente della banda del Cion (Silvio Bonfante) e di Mancen (Massimo Gismondi), fu proprio a fianco di Cion che cadde, forse colpito a freddo da un infiltrato che approfittò dell’infuriare della battaglia per eliminare una delle figure più carismatiche della Resistenza imperiese della prima ora. Sicuramente a conoscenza delle posizioni tenute dal distaccamento Volante di Silvio Bonfante (Cion) e del distaccamento Volantina di Massimo Gismondi (Mancen), il comando provinciale della GNR di Imperia pianificò un’azione tesa a separare i due distaccamenti. Il distaccamento di Cion si trovava sul Monte Ceresa, quello di Mancen in zona Fussai, sopra Evigno, <1 pronti a darsi manforte reciproca in caso di attacco nemico. La GNR, il 19 giugno 1944, mise in campo, tra le altre, la compagnia operativa del capitano Ferraris, sostenuta da un plotone tedesco di cacciatori della 42a Jäger-Division appena giunta in Liguria dalla Garfagnana. Ferraris, ricco dell’esperienza fatta nei Balcani contro i titini, pianificò l’operazione incuneandosi tra le due formazioni partigiane per evitare che potessero operare in sinergia. Una colonna, per lo più composta da tedeschi salì dalla rotabile Alassio-Testico, mentre un’altra proveniente da Cesio, superò il Passo San Giacomo. L’attacco venne diretto contro gli uomini di Cion, che in evidente inferiorità numerica riuscirono a tener testa ai nemici per parecchio ore per poi sbandarsi quando la pressione avversaria divenne insostenibile. Nonostante la notevole inferiorità numerica, il distaccamento “Volante” dovette piangere un solo compagno, Silvano Belgrano, e contare poco meno di una decina di feriti più o meno gravi. Nello stesso giorno furono uccisi dalla banda Ferraris il giovanissimo Matteo Canale (Stellanello 2/3/28) falciato sull’uscio di casa nella zona di San Lorenzo di Stellanello (SV) ed il parroco di Stellanello don Pietro Enrico che, accusato di fiancheggiare i partigiani, fu portato in località Molino del Fico [n.d.r.: oggi nel comune di San Bartolomeo al Mare (IM)] e fucilato.
(1) Il Pizzo d'Évigno (988 m), detto anche Monte Torre o Torre d'Évigno, è montagna erbosa a forma di piramide, che sorge alle spalle di Imperia. È la vetta più elevata di un sottogruppo montuoso abbastanza vasto, che si estende tra la Valle Impero, la Valle Arroscia. Costituisce un importante punto nodale: verso sud dirama il contrafforte che separa la Valle Impero dalla valletta di Diano, mentre verso est dirama il costolone che delimita sul lato destro idrografico la valle del Torrente Merula, e che forma l'adiacente Monte Ceresa.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020  

[ n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944-8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]
 
Silvano Belgrano
Nato ad Imperia il 5 agosto 1924, appartenente al Distaccamento “ Volante”.
All’alba del 19 giugno 1944 il distaccamento di Silvio Bonfante “Cion”, di stanza ad Evigno (nota 1), viene attaccato da forze nemiche, numericamente di gran lunga superiori, che ne tentano l’accerchiamento. I partigiani si portano sulle alture e combattono strenuamente a lungo: i tedeschi non passano che a sera. I garibaldini, protetti dai loro compagni, si mettono in salvo; tutti ad eccezione di Silvano Belgrano. In seguito si appurerà che a causarne la morte era stata una spia infiltratasi tra le fila dei garibaldini.
A Silvano Belgrano è intitolata la I^ Brigata della Divisione d’assalto Garibaldi “Silvio Bonfante”.
(nota 1) Nella zona di Evigno avevano la loro base due distaccamenti garibaldini: quello comandato da Silvio Bonfante “Cion” è a Cian Bellotto e controlla tutto il pendio nord del Pizzo d’Evigno; quello di Massimo Gismondi “Mancen” era lungo i fianchi rivolti a sud, in località Fussai. Questa zona il 19 giugno 1944 fu teatro di una delle battaglie più accanite tra le truppe nazifasciste e i garibaldini del solo Distaccamento di “Cion”. “Mancen”, con vari uomini, si era recato a Diano Gorleri per disarmare un presidio della Guardia di Finanza e, compiuta l’azione, di ritorno all’accampamento trovò tutti i percorsi sbarrati dal rastrellamento nazifascista. “Cion” e i sui uomini dal Pizzo della Penna mitragliarono con continuità; “Fiume”, l’aiutante mitragliere che orientava la direzione dell’arma a seconda degli spostamenti nemici, si trovò le braccia ustionate dalla canna arroventata dell’arma! I Tedeschi non passarono che a sera, dopo aver pagato a caro prezzo la padronanza del campo di battaglia e tutti i partigiani, protetti dai compagni più valorosi, primo fra tutti il comandante, si misero in salvo. Unico caduto fu Silvano Belgrano.
Dal rapporto del comandante “Cion”:
"Giorno 19 giugno. Ore 6,45 il distaccamento viene messo in allarme dalle sentinelle che sentono alcuni colpi di fucile e movimenti di camion sulla strada Alassio - Testico. Ore 7, disposizione delle squadre per il combattimento. Il distaccamento viene attaccato da sinistra e di fronte da forze nazifasciste di gran lunga superiori alle nostre (numero finora accertato degli attaccanti: 1200). Noi attacchiamo senza esitare le forze nemiche che tentano l’accerchiamento di fronte al Distaccamento per poterle fare ripiegare verso sinistra dove si trovano già altre loro forze: il tentativo riesce. Portatici sulle immediate alture, cerchiamo il tutto e per tutto per far allontanare sempre di più le forze tedesche dal Distaccamento… Rientro in serata al distaccamento, ancora intatto… Da segnalare il comportamento esemplare di 4 compagni: Federico, Germano, Carlo II, Aldo, Fiume… Accertamento dei morti nemici, da fonte competente n. 62…"
.
Redazione, Arrivano i Partigiani. Inserto 2. "Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I Resistenti, ANPI Savona, numero speciale, 2011
 
 
Matteo Canale. Fonte: Giorgio Caudano, op. cit.

Don Enrico e il ricordo di Lorenzo Stalla che fu catturato in Chiesa, patì la violenza dei Repubblichini e rimase prigioniero destinato ad un Lager. Riuscì a sopravvivere ed alla fine della guerra poté tornare a casa sfinito e morì dopo poco. L’altro ricordo riguarda l’uccisione di Matteo Canale, detto Malin, un ragazzo di 16 anni falciato da una raffica perché era stato visto correre verso casa sua gridando ‘I picca u prève!
Malin compagno di giochi sveglio e simpatico. In suo ricordo é stato posto un cippo davanti alla casa di famiglia, poco oltre la chiesa di San Lorenzo.
Don Enrico era austero: viveva solo nella Sua solitaria canonica, assistito da una vecchia perpetua (forse una parente), brava cuoca che ammanniva pranzi luculliani per le feste solenni a beneficio degli altri numerosi Parroci della valle e delle persone che riteneva di riguardo. A quei convivî partecipava sempre anche il vegliardo Don Laureri, di San Damiano - allora Vicario foraneo del Vescovo d’Albenga - che intratteneva i commensali improvvisando versi d’occasione.
La puntuale testimonianza sulla fucilazione di Don Enrico dev’essere di persona che si trovò ad assistervi, tanto é accurata. La vile ed inutile strage di Stellanello fu il movente del rastrellamento: chi semina vento raccoglie tempesta. Successivamente - ai primi d’agosto - vi fu il bombardamento di Andora ed allora c’è chi si trasferì a Torino (dove i bombardamenti erano ancora più frequenti e devastanti) [...]  Matteo Canale detto Malin. Nato a Stellanello il 2-3-1928. Assassinato il 19 Giugno 1944. Il comando fascista imperiese il 19 giugno 1944 coordinava un’azione di forte contrasto nelle vallate, inviando squadroni di militi con esperienza nei rastrellamento. Molti erano fuoriusciti dalla Francia, oriundi imbevuti di nazionalismo, avanzi di galera con alle spalle omicidi e violenze. Un gruppo di tedeschi seguiva le azioni repressive. Barbetta, il noto fascista Vittorio Ottavi di Stellanello, si era aggregato alle squadracce come guida pratica del posto, rimarcando così il suo odio per i resistenti. Appena giunti a Stellanello questi mercenari uccidevano un ragazzino sedicenne, Matteo Canale, uscito sulla soglia di casa al passaggio della soldataglia che aveva appena arrestato il prete don Pietro Enrico, accusato di avvisare i partigiani mediante scampanelli. Il ragazzo, impressionato dalle percosse affibbiate al povero chierico, aveva richiamato a gran voce la madre affaccendata in cucina. Ciò era bastato perché lo sventurato ragazzino si prendesse a bruciapelo una fucilata da quella ciurma di criminali. Un ulteriore colpo alla nuca ribadiva le intenzioni dei fascisti per la giornata, che si concluderà con l’assassinio del prete a Molino del Fico, vicino a dove erano già stati torturati orrendamente e poi fucilati qualche giorno prima i martiri partigiani Marco Agnese (Marco), Alessandro Carminati (Sandro), Carlo Lombardi (Giuseppe) e Celestino Rossignoli (Celestino).
Redazione, Stellanello: ricordi di don Enrico e di Malin ucciso a 16 anni. Quella vile e inutile strage. I convivi in canonica e i versi di don Laureri, Trucioli, 9 luglio 2020   
 
 
Don Pietro Enrico. Fonte: Giorgio Caudano, op. cit.

Una volta vennero sul serio da San Damiano, Testico, Stellanello, Chiusavecchia e Pairola [n.d.r.: Frazione del comune di San Bartolomeo al Mare (IM)], un finimondo che ci pareva il poligono dei tiri in funzione sul mandamento; epperciò tutto intorno, da  ogni parte, non si sentivano manco più a parlare tra loro negli spari così forti.
Con le pesanti in postazione, sì che i partigiani c'erano ai passi sempre di guardia; e anche le pattuglie avanti indietro si davano il cambio; sì che attorno ai casoni le sentinelle stavano ferme anche col freddo a sentire i rumori: ma quando li senti così vicini ormai è tardi, altro che balle.
Quando arrivano così da tutte le direzioni, che non sai come, non ti serve più, niente di niente, perché sai che tanto è inutile, sicché ce la metti tutta soltanto per schivarti se ti riesce.
Tu allora spari finché spari per fermarli e va bene, ma mica puoi gridargli alto là fermi tutti, di qui non si passa; come fai a fermarli se sono una valanga, e hanno già preso anche il Pizzo d'Evigno?
Come fai, se ce n'è pieno sulle creste e il pendìo del Ceresa è pelato come in mano, che di lì proprio non ci puoi passare sempre sotto tiro?
Adesso invece porca la miseria, in più tieniti anche sti colpi di mortaio sempre più secchi, spiaccicato lì sull'erba.
Sempre lì fermo con tutta la paura addosso che hai, intanto loro aggiustano il tiro coi binocoli; e tu rimani lì ad aspettare il colpo giusto se arriva sì o no a schiantarti; ti raggricci di più, sempre di più, con la pancia a terra da volerci sprofondare come un verme nell'erba fitta, e sparire.
Eccoti dunque che li impari a conoscere sul serio sti bastardi di mortai, col tempo che ci vuole per sentirteli proprio addosso; col tempo che ci vuole voglio dire per indovinare il colpo quando parte e lo squarcio quando arriva nello schianto, sempre di più vicino a te.
Questo modo che impari, è proprio come quello di starsene all'avventura; tanto o prima o poi lo schianto arriva preciso anche per te: è inutile pensare all'altromodo, se il tuo destino è così; ma è lo stesso anche se ti raggricci ancora di più, perché ciononostante gli squarci ti si aprono da tutte le parti coi sibili e il fracasso.
Poi sti tedeschi li senti che vengono avanti con le bardature e l'armamentario, scendono dalle creste passo passo frugando in tutti i buchi, che non gli scappa niente.
Ecco che così adesso, senti veramente di essere soltanto un verme molle da schiacciare come vogliono loro o prima o poi, siccome devi stare sempre fermo ad aspettare, guai a muoverti.
Devi starci spiaccicato pancia a terra in questo inferno, con gli squarci da tutte le parti, e loro che vengono sempre avanti a scovarti senza smetterla e sparando in presa diretta, sempre così; il fatto sta che loro sanno tutto della situazione com'è, scendendo dalle creste e mettendosi a frugare.
Lo sanno che in questa valle presidiata, da non poterne più uscire, ci sono quelli del Cion già famosi dappertutto; e che perciò adesso bisogna batterla ben bene coi mortai, per farli saltar fuori proprio tutti al completo.
Eppoi sanno che bisogna andarci dentro con le pattuglie passo passo in rastrellamento metodico per non dargli scampo; epperciò, con tutte le bardature elmetti armi automatiche munizionamento a bizzeffe e i mortai che li sparano giusti con tutti i colpi che ci vogliono e anche di più, adesso vengono avanti; vengono avanti sempre sul sicuro frugando dappertutto, così ce la faranno eccome a schiacciarti proprio come un verme molle.
Successe invece che quella impresa i nazifascisti la finirono da arrabbiati senza concludere, senza minimamente riuscire a scovarli dai nascondigli.
Dopo quel traffico della malora dalle creste e quegli spari coi mortai nel rastrellamento, ben sapendo che c'erano eccome i partigiani, o di qua o di là nella valle, ma non li trovarono chissà, si incattivirono di più, bestemmiando forte.
Difatti i partigiani erano pratici e ce la fecero anche stavolta, perché bastava un rovo una crepa una fessura o un po' di fieno, sempre lì rintanati; poi sapevano strisciare adagio un poco più in là mentre loro, proprio da crucchi, andavano passo passo frugando un poco più in qua; e così gli sgusciavano di sotto.
Per la strada invece presero don Enrico, parroco di Stellanello - lui va bene porcomondo, perché è prete; non può negare - dicevano andando; se lo misero davanti legato a colpi nella schiena, sempre più secchi: perdio se dovrà parlare altroché.
- Su, svelto, facci vedere questi nascondigli; ma fa presto che tu lo sai, spicciati.
Lo portarono di qui di là, nel folto dei canneti, ai lati del torrente e sotto negli orti, avanti fin quasi sulle creste e dentro i paesi con la gente chiusi, che parevano cimiteri.
Per le strade dei campi e fuori strada, fin nelle pietraie, dappertutto lo fecero girare legato quel prete catturato nella sua valle, picchiandolo; andando tra le botte, lui diceva di curare le anime, non ste faccende degli uomini che si sparano tra loro in questi tempi da lupi.
Diceva così: che non è lecito di andarsene in mezzo alla sua gente nelle sparatorie accanite soltanto per sparare, di andarsene senza pietà voleva dire; ma che bisognava starci da prete come si deve; non come le bestie, santo cielo, a pregare per tutti.
Loro invece no, avanti botte sempre di più a sfigurarlo - tu lo sai, tu sei d'accordo prete sovversivo; e ce lo devi dire. Per la miseria se ce lo devi dire, perché noi del fascio ti faremo cantare: hai capito che ce lo devi dire?
Lo spingevano sempre di più con le botte a fracassarlo; tanto che ormai, manco volendolo, ce la faceva più a stare dritto in mezzo a quei manigoldi.
Andando, chinava il capo rassegnato come poteva; tra le case della sua gente tutte chiuse sigillate, andava a quel modo che alla gente faceva pietà; si vedeva che andando pregava, e che sapeva come finiva la sua storia.
Lui sapeva della morte inevitabile e dei nascondigli dei partigiani, perché sapeva tutto della sua gente in quella valle da una parte all'altra; ma i fascisti perdio li fece girare a vuoto per tutto quel giorno, sotto le botte, avanti indietro nella sua valle sempre uguale; sicché alla fine non si riconosceva più massacrato a quel modo com'era, dalla testa ai piedi.
Poi loro se ne accorsero che era proprio inutile, siccome lo capirono alla fine del giorno, che non ci si vedeva più.
Lo capirono che li aveva presi ben bene in giro, non volendo tradire la sua gente né di giorno né di notte, mai.
Lo finirono, sparandogli a bruciapelo quando era già scuro, e lui non ce la faceva più a reggersi in piedi.
Lo trascinavano di peso per la strada nella polvere spessa: erano arrivati in fondo alla valle, vicino al Molino del Fico, e lì si fermarono; la gente chiusa nelle case col terrore e i ribelli nei nascondigli ad aspettare da un momento all'altro, alla fine sentirono l'ultima raffica al Molino del Fico, e loro che imprecavano bestemmiando tutti sporchi di polvere sgomberando la valle.
Allora, tutti insieme, la gente e i partigiani capirono che se un prete è un prete, deve essere un prete così come questo qui ministro di Dio e dei suoi fratelli, con la sua gente fino al patibolo; e non se lo scordarono mai più.
Osvaldo
Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982,  pp. 45-47    

mercoledì 19 ottobre 2022

Sono giovani e meno giovani, che chiedono di esser inseriti nelle bande partigiane

Un casone nel territorio del comune di Montalto Carpasio (IM). Foto: Eraldo Bigi

13/6/44
All'alba mi sveglio col rumore dei compagni che prima di me erano già fuori indaffarati.
Mi muovo su quel giaciglio dove ho trascorso la notte, sono duro dalla testa ai piedi; esco fuori, vicino vedo una fontana, mi sciacquo bene la faccia e drizzandomi su me stesso guardo attorno: l'accampamento è invaso da una marea di uomini che giungono da ogni parte; sono giovani e meno giovani, che chiedono di esser inseriti nelle bande partigiane.
Rivedo molti amici e molta gente che conoscevo in città, vedo "Curto" [Nino Siccardi] che già conoscevo e che non sapevo fosse il comandante della Brigata.
C'è una riunione di capi partigiani.
Ernesto Corradi è nominato capo banda e inviato al confine francese sul monte Grammondo.
Io e il compagno Leonardo Roncallo raggiungiamo l'ultimo tornante della strada che domina la vallata di Carpasio dove montiamo di guardia.
A causa della confusione che regna al campo, fino a tarda sera rimaniamo sul posto dimenticati, costretti a cibarci con germogli di rovi.
La banda "Macallè"
Il nostro gruppo con altri compagni entra a far parte della banda "Macallè" (Scarella Giovanni caduto il 17 marzo 1945 a Costa di Carpasio); Luciano Sciorato è nominato commissario.
14/6/44
Prima del tramonto con pochi fucili e qualche attrezzo da cucina, partiamo per Monte Faudo, durante la notte sostiamo lungo la strada sotto i castagni. All'alba riprendiamo il cammino e poche ore dopo giungiamo a destinazione.
15/6/44
Da quel pendio guardavo la mia valle, il mio paese e, pensando alla mia gente, non sapevo darmi pace.
Erano trascorsi appena tre giorni dalla partenza e il peso di quella ingiustizia mi stroncava già i nervi.
Costretto su quelle montagne a dormire sotto gli alberi e senza mangiare, con la vita in pericolo, dopo poco tempo avevo cominciato a sentirmi alla stregua degli animali.
Osservavo i miei compagni soprattutto i più giovani, meno esperti a quel vivere, in preda allo sgomento.
Le notti erano fredde. Ero stanco e male equipaggiato, avevo quasi niente per coprirmi; ogni giorno che passava la situazione si faceva sempre più insostenibile;
dovevo procurarmi altri indumenti per affrontare la situazione con minor disagio.
Qualcuno come me possedeva una vecchia coperta, altri nemmeno quella.
Dovevamo costruirci senza attrezzi un riparo per la notte, ma non sapevamo nemmeno da che parte incominciare; guardavamo i più vecchi cosa facevano.
Ci mettiamo al lavoro strappando dei rami, improvvisiamo delle baracche coprendole col fieno, sperando che non piova.
Arriva l'ora del pranzo, ci viene distribuito un pezzo di carne nel brodo, dentro al quale galleggiano molti insetti che in quella stagione vivono nell'erba dei prati.
Iniziava così il primo giorno di vita partigiana; seguiranno giorni tristi fra turni di guardia e corvée.
Dentro di me stava maturando il desiderio di ritornare a casa anche solo per poche ore. Chiedo il permesso al capobanda, ne ricevo un netto rifiuto, mi fa capire che lasciare il campo da soli è un pericolo per tutti; insisto dicendo che mi sarei trattenuto solo il tempo utile per procurarmi altri indumenti; cede alle mie insistenze, ma per punizione non mi accetterà più nella sua banda.
19/6/44
Prima del tramonto parto quasi correndo, sperando di fare cattivi incontri lungo la strada; in meno di un'ora sono a casa lo stupore dei miei genitori che preoccupati mi consigliano di nascondermi.
Rimango un'intera giornata in casa a prepararmi il necessario per ripartire.    
Per una notte ancora godo profondamente di quelle piccole gioie che la vita domestica mi può offrire e che per molto tempo dovrò dimenticare.
21/6/44
È l'alba, sono già fuori dalla porta, mio padre vuole accompagnarmi; mia mamma, guardando  verso l'alto attraverso le foglie del pergolato, mi fa osservare che pioviggina.
Con gesto di rassegnazione mi muovo seguito dal mio genitore.
Salutiamo la mamma mentre mi fa le ultime inutili raccomandazioni, ci inoltriamo su quella vecchia mulattiera, fiancheggiata da arbusti, che pochi giorni prima avevo percorso con i miei compagni.
Strada facendo mio padre mi incalzava di domande sulla vita partigiana, ma rispondevo evasivamente per non amareggiarlo.
Presso la chiesetta di Santa Brigida ci fermiamo; nel frattempo giungono altri compagni di Garbella, anche loro cercano riparo nella vita partigiana.
Lascio mio padre immobile davanti alla chiesetta e con i miei amici mi allontano verso Monte Faudo dal quale, come prevedevo, sono costretto a proseguire verso il bosco di Rezzo.
Alle tredici giungiamo a destinazione ospitati dalla banda "Vittorio" (Acquarone) accampata sotto il bivio della strada che, dividendosi, prosegue verso Rezzo da un lato e il passo di Teglia dall'altro.
Siamo alloggiati in una stalla umida e buia con il pavimento ancora bagnato dallo sterco delle pecore.
Trascorriamo la giornata in cerca di erba secca per costruirci un giaciglio per la notte.
Sopra di noi altri compagni sono alloggiati nel fienile, dal quale cade giù polvere di fieno e foglie secche miste a vecchie ragnatele, e perciò in poco tempo ci confondiamo col fondo della stalla.
Sono seduto appoggiato con la schiena allo zaino, verso il muro; vicino a me, sdraiato a terra, c'è Giulio Borelli che, amareggiato, annoda un fazzoletto per ripararsi la testa dalla polvere che sta cadendo; mi guarda e con gesto disperato dice "Domani torno a casa, a questa vita non ci resisto".
Quindi, raggomitolandosi sotto una coperta, grida ai compagni di sopra di muoversi il meno possibile.
In quei giorni di esasperata sopportazione della vita, mentre giovani di ogni ceto cercavano rifugio dove forse c'era maggior pericolo, un piccolo episodio è rimasto vivo nella mia mente.
Ognuno di noi sembra rassegnato ad ogni evenienza di pericolo, quando nell'angolo più buio di quella stalla due compagni di Garbella, Giuseppe Daprelà e Pierino Michelis, con una candela e un foglietto scritto fra le mani, per dimenticare, si mettono a cantare la Paloma; benché stanco e distratto, sollevato da quella canzone mi addormento.
Appena è l'alba esco da quell'ovile più stanco del giorno prima, mi avvicino a un gruppo di partigiani, uno dei quali sta distribuendo del latte caldo.
Lo sguardo di quegli uomini già provati dalla lotta partigiana mi mette soggezione e, appena ricevo la mia razione, mi allontano.
A pochi passi da me tre partigiani interrogano alcuni prigionieri i quali saranno fucilati in giornata.
Sento le colpe di cui sono accusati mentre penso alle loro famiglie che non li vedranno più tornare, dimenticando in quel momento quali nemici pericolosi fossero per noi.
Mi aggiro per l'accampamento tormentato dalla situazione che mi circonda.
Più tardi sono chiamato per rifornire d'acqua la cucina; con un secchio mi allontano nel bosco verso il ruscello, attorno a me sento quello strano ma meraviglioso silenzio interrotto dal cinguettio degli uccelli; mi sarei fermato per dimenticare ogni cosa. Ricordavo le scampagnate fatte con gli amici in tempo di pace. Invece d'ora in poi, la banda che è poco distante da me, ogni momento dovrà guardarsi da un nemico spietato.
Riempio il secchio e faccio ritorno. Sono ancora distratto dai miei ricordi quando un rumore di passi mi distoglie.
Sul mio sentiero un partigiano armato accompagna verso di me un uomo con le mani legate e la faccia stravolta, cui mi viene ordinato di dare da bere. Sorpreso e preoccupato, quasi tremante avvicino il secchio alla bocca di quel giovane dallo sguardo implorante, che non dimenticherò mai. Immaginando quello che sta per accadere mi allontano in fretta, ma non in tempo per non sentire il colpo di pistola e la caduta di quel corpo sui rovi.
Colpito da quel fatto di sangue, torno alla cucina sconvolto e intimidito, nascondendo ai miei compagni il mio stupore.
Da tre giorni sono ospite della banda "Vittorio", in mezzo a un viavai di partigiani che partono e arrivano per le varie missioni.
Ero confuso e disorientato da quella vita disordinata alla quale non avevo ancora fatto l'abitudine.
Assisto al breve processo di altri due prigionieri che più tardi saranno fucilati.    
Privo di esperienza, non capivo ancora quegli uomini che uccidevano per non essere uccisi.
24/6/44
Sono le 14.30. Ho appena digerito un po' di brodaglia con pane e formaggio, sul bosco è scesa una fitta nebbia e l'aria umida penetra sotto i vestiti.
L'apparenza di un pomeriggio tranquillo ci concede solo una tregua sulla paura che ognuno di noi conserva.
Quel bosco che appariva un rifugio sicuro per la nostra guerriglia, in quegli istanti di apparente calma è sconvolto dal crepitio di un mitragliatore che ci mette in allarme.
Da San Bernardo di Conio un'autoblinda seguita da alcune centinaia di tedeschi sta venendo verso di noi, alle raffiche dei mitragliatori seguono i colpi di mortaio che esplodono in varie zone provocando piccoli incendi.
Rimango immobile per pochi istanti, cerco di capire cosa succede.
La nebbia impedisce di vedere ogni cosa. Siamo presi dal panico e disarmati cominciamo a fuggire in tutte le direzioni, mentre la banda armata si allontana dal campo appostandosi.
Mi muovo seguendo di corsa alcuni compagni.
In pochi minuti attraversiamo la strada che dal bosco scende verso il paese di Rezzo e, favoriti dalla nebbia, raggiungiamo la vecchia casa adibita ad ospedale.
Da essa alcuni partigiani e la giovane "Candacca" (Pierina Boeri) stanno uscendo in fretta trasportando un ferito e tutta quella attrezzatura che avrebbe potuto servirci in seguito.
Con loro ci sono quattro prigionieri tedeschi. Ci aggreghiamo al gruppo, aiutando gli uomini a portare il necessario.
Prima di notte raggiungiamo la parte più sicura del bosco.
In mezzo a noi c'è "Curto". Non conoscendolo, nessuno avrebbe pensato quale persona di grande responsabilità egli era. Solo l'averlo vicino infondeva coraggio.
Molto pratica del posto, "Candacca" va in perlustrazione e, prima del tramonto, ritorna dandoci via libera.
Partiamo al buio seguendo un sentiero, portando a turno la barella con il ferito; in piena notte arriviamo al passo della Mezzaluna e sostiamo dentro due casoni; fa molto freddo, a me capita il primo turno di guardia.
Appena rientro mi trovo ancora vicino a Borelli che si lamenta perchè deve dormire nell'umido.
Intirizzito dal freddo ho solo voglia di riposare e rassegnato mi sdraio vicino a lui.
25/6/44
Prima dell'alba siamo tutti svegli, la giornata limpida ci permette una buona visibilità. Siamo stanchi, affamati e visibilmente scossi dal rastrellamento.
Sostiamo vicino al muro dei casoni, al riparo dell'aria pungente, con il bavero della giacca alzato.
Incerti pensiamo verso quale località andare, se non ci sono già i tedeschi l'unico rifugio è Triora.
Dobbiamo pensare al ferito e trovare riparo anche per noi.
Ci dividiamo in due gruppi per essere meno notati; dopo aver caricato il ferito su di un mulo, alcuni compagni prendono in consegna i quattro tedeschi e si avviano sulla strada più agibile verso il suddetto paese.
Per pochi minuti osserviamo il piccolo gruppo allontanarsi, poi ci inoltriamo su di un sentiero appena tracciato, sperando di raggiungere prima di loro la stessa meta.
Fra noi ci sono Don Martini e suo fratello, il dottore.
Dopo una mezz'ora di strada ci coglie un violento temporale. Ci troviamo così sotto un'acqua torrenziale, senza un riparo, con visibilità di pochi metri.
Davanti a noi è completamente scomparsa la traccia del sentiero.
Disorientati, in mezzo alla campagna, ancora lontani dalle abitazioni, bagnati, come si dice, dalla testa ai piedi, proseguiamo con fatica facendoci strada fra gli arbusti.
Graffiandoci la pelle, lacerandoci i vestiti e con le scarpe infangate, raggiungiamo nel porneriggio la borgata di Guina: un gruppo di quattro case sparse per la campagna.
Bussiamo alla porta di quelle abitazioni in condizioni disperate: fradici, sporchi, affamati, sfiniti dalla stanchezza, irriconoscibili.
Siamo ricevuti da contadini con affettuosa cortesia. Ci dividiamo fra le famiglie per recare meno disturbo. In quelle povere case ci viene cotto un minestrone in un paiuolo appeso al centro della stanza, vicino al fuoco possiamo asciugarci i vestiti.
26/6/44
Trascorsa la notte nei fienili di quelle abitazioni, dopo una breve colazione partiamo per Triora dove giungiamo prima delle dodici.
Il paese è pieno di partigiani, postazioni con mitragliatori pesanti e pezzi di artiglieria sono disseminate dappertutto, arroccato su quella altura, lo stesso sembra inespugnabile.
Diverse bande sono accampate sulle colline circostanti collegate col centro abitato, dove mi sembra ci fosse il Comando di Brigata.
Tutto sembra tranquillo e il paese vive isolato come una piccola repubblica.
27/6/44
Dopo quella drammatica avventura, riposati ritorniamo verso l'Alpa Grande.
Molti partigiani ancora sbandati vagano su quelle montagne, intravvedo fra loro Aurelio Lavagna (Venerdì), che mi restituisce lo zaino smarrito durante il rastrellamento.
28/6/44
Rientriamo nel bosco dove eravamo già accampati; come gruppo di sbandati provenienti da ogni parte, siamo tutti disarmati, però abbiamo raggiunto un numero sufficiente per formare una nuova banda.  
Giorgio Lavagna (Tigre), Dall'Arroscia alla Provenza, Fazzoletti Garibaldini nella Resistenza, Isrecim - ed. Cav. A. Dominici - Oneglia - Imperia, 1982
 

sabato 3 settembre 2022

I partigiani imperiesi se ne andarono, ma “Tigre” restò prendendo il comando del “Rebagliati”

Uno scorcio di San Lorenzo al Mare (IM)

Poco prima della fine del maggio '44 (forse il 28 maggio) Giribaldi Vincenzo, già alla macchia all'epoca della battaglia di Montegrazie sale di nuovo in montagna; accompagna circa una trentina di giovani, e insieme con lui vi è Luigi Massabò (poi «Pantera»). I giovani lavoravano tutti in San Lorenzo al Mare, presso la Ditta «Paladino»; la quale, in realtà, serviva soprattutto per evitare l'arruolamento. Giribaldi, insieme col padre, Francesco, e con un loro amico, Benza Angelo, si recava spesso per ascoltare la radio clandestina nella casa di un loro conoscente, Nino Donati, oppure nella casa di una zia del rag. Giacomo Castagneto, situata in Porto Maurizio, nella località detta «Porta nuova». Quando si recava in questa seconda casa, anche Giacomo Castagneto era presente.
In detti incontri il discorso cadeva, ovviamente, anche sui partigiani.
Una sera, saputo che molti giovani della «Paladino» vorrebbero andare in montagna e che si sono rivolti a Giribaldi, essendovi egli già stato, il Benza propone a Giribaldi di farne un elenco, e di portarlo a un certo sig. Fossati,  dimorante nella zona di Pontedassio-Chiusavecchia; l'elenco viene preparato e consegnato (è portato a destinazione nascosto nel manubrio della bicicletta). Poco dopo, Giribaldi Vincenzo viene invitato a recarsi da Lorenzo Acquarone di Artallo; Acquarone Lorenzo dà a Giribaldi una rivoltella e la parola d'ordine (Francesca - Rimini), e gli dice di presentarsi, insieme con gli uomini, al «pilone» di Sant'Agata, dove saranno raggiunti da una persona, che li accompagnerà fra le bande. A Sant'Agata si unisce a loro una ventina di giovani di Oneglia; e il gruppo, così, diventa di circa cinquanta persone.
Al «pilone» di Sant'Agata li raggiunge un partigiano, che il Giribaldi sente chiamare «Guerrino» (si tratta di Guerrino Peruzzi), mandato dalla montagna. Con lui vanno a Ville Agnesi (Prati Piani), e poi alla Mezzaluna, dove si incontrano con Curto, per ordine del quale viene formata la banda. Al comando di essa vengono messi un certo Mario, di Artallo, ossia Briatore Mario detto «Cora», e Massabò Luigi (Pantera). Fra i componenti vi sono: Gorlero Angelo e Sironi Egidio (D'Artagnan) poi caduti in montagna; alcuni giovani, che in seguito passeranno ad altre bande (ad esempio, Roncallo Andrea, Gavi Vincenzo, Bracco Sandro e Carlo, ed altri). Vi è anche un certo «Tigre» (o «Gemesio») [Rosolino Genesio], venuto da Modena, il quale poi diventerà capo di una grossa banda nei pressi di Savona.
Per impedire ecessivi accentramenti, che si sarebbero formati a causa dei nuovi afflussi di giovani in montagna, la banda viene mandata presso il Monte Alto, nella zona di Savona; e forse fra il 16 e il 20 giugno parte per detta località.
I partigiani del nuovo distaccamento avranno un combattimento a Calice Ligure (giorni 5-6 luglio '44), in seguito al quale cattureranno armi e munizioni; subiranno un rastrellamento nei pressi di Monte Alto (9 luglio 44), in seguito al quale sarà ferito il «Tigre», che resterà nella zona: rientrati nella zona di Albenga, subiranno un nuovo rastrellamento a Picco delle Penne(o «Brico delle Penne»); e infine giungeranno a San Bernardo di Mendatica, e si ricollegheranno, l'11 luglio 1944, a quello che era stato il Comando della IX Brigata, ora diventato Comando Divisionale (II Divisione d'Assalto Garibaldi «F. Cascione»). Frattanto al distaccamento verrà dato il nome di «A. Viani», dal partigiano Angelo Viani, ucciso dai nazifascisti presso Barchei (Cuneo) il 21 giugno '44, insieme con Austoni Luigi, Boldrini Lazzaro, Maccanò Giuseppe, Vicini Antonio, tutti appartenenti al Distaccamento stesso <48. Il distaccamento «A. Viani», qualche tempo dopo il suo arrivo nella zona della II Divisione, verrà sciolto per ragioni di ridimensionamento: Pantera otterrà un incarico più elevato: alcuni uomini passeranno alla «Fenice» (ad esempio, Bracco Sandro e Carlo e Boggiano Luciano); Giribaldi Vincenzo, dopo essere stato per qualche tempo presso il Comando Divisionale recentemente creatosi, entrerà anch'egli nella banda «Fenice» <49.
[NOTE]
48 Notizie sui Caduti del 21 giugno e sulla data, parzialmente ricavate dal "Diario di Pantera". Per i nomi, consultato pure il volume "L'epopea dell'Esercito scalzo".
49 Nel maggio del '44 anche dall'albenganese sale in montagna un numeroso gruppo di uomini (circa 180); provengono specialmente da Albenga centro, da Leca, da Bastia, da San Fedele e da Campochiesa; si radunano dapprima a Coasco, e poi si spostano a Brico delle Penne. Loro intenzione sarebbe di tornare a formare il gruppo Val Tanaro agli ordini di Martinengo: poi, però, preferendo operare nella loro zona piuttosto che in Piemonte, si aggregano alle Formazioni Garibaldine di Curto. (Dall'opuscolo "La Resistenza continua", pubblicato per la celebrazione in Albenga del ventesimo anniversario della Liberazione).

 
Artallo, Frazione di Imperia

Giovanni Strato
, Storia della Resistenza Imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Editrice Liguria, Savona, 1976, ristampa del 2005 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia

Calice Ligure (SV). Fonte: Comune di Calice Ligure

Guerriglia e controguerriglia erano ormai due macchine ben oliate e sempre pronte a colpire. Il 30 giugno una compagnia tedesca attaccò il colle dei Giovetti, tra Murialdo e Massimino, catturando una pattuglia garibaldina. Ma i partigiani si rifecero rapidamente, e con gli interessi, quando la notte del 5 luglio i volontari del “Calcagno” e una squadra del 10° distaccamento della 9a Brigata d’Assalto, reparto proveniente dall’albenganese che per qualche tempo aveva sconfinato tessendo contatti con i savonesi, attaccarono congiuntamente il presidio tedesco di Calice Ligure <68. Si trattò di un’azione esemplare che ebbe pochi riscontri anche in seguito. Guidati da un milite, fuggito il giorno prima dalla postazione, i partigiani calarono in tarda serata sul paese, divisi in tre squadre di cui una doveva bloccare la strada per Finale con una mitragliatrice e bombe da mortaio usate come granate a mano. Le comunicazioni erano state preventivamente tagliate per evitare l’affluire di rinforzi. Un colpo sparato troppo presto scatenò una violenta battaglia che sulle prime costrinse i garibaldini, molti dei quali in preda alla paura causa l’inesperienza, a ripiegare; ma verso l’alba i partigiani conquistarono il paese abbandonato dai nemici, che si erano accorti di essere circondati.
Complessivamente erano rimasti uccisi tre tedeschi, di cui uno sulla strada per Finale; altri 4, feriti, caddero prigionieri (ma non per molto: i partigiani, se il prigioniero non era da fucilare, lo scambiavano con propri compagni o lo lasciavano andare disarmato e privato dello equipaggiamento). Alcuni individui, sospettati di collaborazionismo, furono condotti, bendati, al Comando. Il bottino fu discreto: particolarmente utili risultarono gli undici teli da tenda confiscati.
Nonostante gli indiscutibili miglioramenti, Luigi Longo “Gallo”, comandante generale delle Brigate Garibaldi, giunto a Savona ai primi di luglio per visionare la situazione del Ponente ligure, non poté fare a meno di notare come il movimento garibaldino nel Savonese fosse tuttora meno sviluppato rispetto a quello della Prima Zona (Imperia ed Albenga); con tutto ciò, chiari sintomi di disgregazione dell’apparato poliziesco della RSI si avvertivano ora anche a Savona, e bisognava approfittarne senza remore <69.
Verso metà luglio una serie di eventi negativi mise a rischio lo schieramento garibaldino. In risposta allo scacco subito con l’attacco al presidio di Calice Ligure, i tedeschi organizzarono un rastrellamento contro il distaccamento “Calcagno”, attestato nei pressi di Monte Alto <70. Presi alla sprovvista, i garibaldini arretrarono in preda al panico (molti erano dei “novellini”) in una nebbia impenetrabile, tra continue raffiche di mitra. Miracolosamente non vi furono né vittime né prigionieri, ma la frattura prodottasi nel bel mezzo del rastrellamento tra il “Calcagno” ed il Comando Brigata - che a detto distaccamento si appoggiava - costituiva un fatto assai grave. Più in generale in quei giorni si dispiegò un rastrellamento generale contro tutta l’area dal Carmo alla Val Bormida; anche i garibaldini del “Rebagliati” di stanza alla Baltera se la cavarono per il rotto della cuffia <71. In più gli imperiesi del 10° distaccamento, rendendosi forse conto di essere diventati una presenza “scomoda”, chiesero ed ottennero di poter tornare in I zona. Il loro arrivo era stato determinato essenzialmente dalla caccia mortale che i fascisti imperiesi davano al comandante Rosolino Genesio “Tigre”, che aveva ucciso un carceriere con una testata allo stomaco (!) <72. I garibaldini imperiesi se ne andarono, ma “Tigre” restò prendendo il comando del “Rebagliati” e facendosi fama di estrema risolutezza.
Si imponeva una riflessione. Il servizio informazioni non si era mostrato pronto di fronte alla minaccia nemica, che solo per una fortunata circostanza fortunata non si era tradotta in un disastro irreparabile tipo Benedica o Val Casotto: una di quelle disfatte totali che il movimento partigiano impiegava mesi per assorbire. Molti partigiani, specie le reclute appena salite in montagna dai centri rivieraschi, si erano mostrate pavide: a questo avrebbero dovuto provvedere i commissari politici con un’appropriata opera di sostegno psicologico e di motivazione al combattimento.
[NOTE]
68. Cfr. G. Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, ed. 1985, vol. II, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, pp. 220-222 e F. Pellero, op. cit., p. 32.
69. Le Brigate Garibaldi... cit., vol. II, p. 103.
70. M. Calvo, op. cit., p. 51.
71. M. Savoini “Benzolo”, Cosa è rimasto: memorie di un ribelle, Savona, Editrice Liguria, 1997, pp. 82-84.
72. Ibidem, p. 86.
Stefano d’Adamo, "Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45)", Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000