domenica 1 ottobre 2023

Cimitero ha mandato ai fascisti una sua fotografia che ora figura in tutti i posti di blocco

Il partigiano Cimitero è il primo a sinistra. Fonte: Gino Glorio, op. cit. infra

Il giorno 13 [marzo 1945] sono di nuovo a Ginestro [Frazione del comune di Testico in provincia di Savona]: al centro staffette si è sempre informati degli ultimi avvenimenti. A Ginestro sono in allarme perché sulla carrozzabile per Testico è in transito una macchina nemica; poi i tedeschi si allontanano e tutto torna normale. Vedo Venezia: la staffetta per la Cascione che si sposta a cavallo di un mulo: «Eri tu il partigiano cui la pattuglia tedesca ha sparato addosso?».
«Esatto, e me la sono cavata con una storta».
Venezia era contento per l'incidente. Compresi solo allora quale incubo fosse per lui passare tutti i giorni la «28» [n.d.r.: statale del Col di Nava] pattugliata dal nemico. Mai una volta si era lamentato di quell'incarico, pure l'incidente che lo immobilizzava e che da tutti noi era temuto perché l'esser bloccati in caso di attacco poteva essere la fine, faceva brillare di gioia gli occhi di Venezia. Conobbi la nuova staffetta, provvisoria perché appena guarito Venezia avrebbe ripreso il suo servizio. «Mancen [n.d.r.: Massimo Gismondi, comandante della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"] ci ha chiamato tutti», mi aveva detto. «C'è bisogno di una staffetta per la Cascione, ci ha detto. E' una cosa rischiosa perché c'è da passar la strada tutti i giorni. Chi si offre? Nessuno ha risposto. Benissimo allora va tu. Ed ha preso me. Dir di no non potevo. Avrebbe detto che avevo paura e sarebbe stata la verità. Al posto del moschetto ho la pistola, dà meno nell'occhio e spara lo stesso», ha detto Mancen. «Se ti vuoi sparare poi è più comoda. Se ci penso mi sento sudare... Dirlo è facile... Ma certo vivo non mi faccio prendere». Almeno Venezia guarisse presto!
Al pomeriggio lasciai Ginestro accompagnando fin quasi a Testico la staffetta della I^ Brigata. Mi raccontò un episodio di pochi giorni prima nella Valle di Diano.
Uno sbandato si era presentato al parroco di Diano Arentino. Il prete gli aveva dato un biglietto indirizzandolo a suo nome a chi gli avrebbe dato dei viveri; lo sbandato era caduto nelle mani dei fascisti ed il biglietto era stato sequestrato. Il giorno dopo, mentre il parroco diceva la Messa, venne uno di corsa ad avvertirlo che una macchina saliva per lo stradone: erano fascisti che venivano a cercare lui. Il prete cercò di affrettarsi ma l'auto era più veloce ed in pochi minuti fu in paese e si fermò sulla piazza della chiesa. Ad Arentino c'erano Mancen e suo fratello, udirono il rumore della macchina, i fascisti su un'auto non potevano essere molti ed attaccando risolutamente... Mancen piombò sulla piazza spianando il mitra: «Arrendetevi!». Due fascisti che stavano uscendo dall'auto cercarono di sparare, ma vennero fulminati da una scarica, gli altri due si arresero. Il parroco uscì di chiesa. Mancen lo chiamò: «Reverendo cercano di voi». «Eravamo venuti per una informazione... Una cosa amichevole...» balbettò il commissario di polizia.
«Per una informazione siete venuti con tutte queste armi?» ribattè il parroco. Il bottino era di due mitra, quattro pistole Berretta ed una Mauser. I due prigionieri vennero portati al Comando e fucilati, malgrado le loro implorazioni. Il parroco si rese irreperibile. Il giorno dopo i fascisti tornarono ad Arentino, incendiarono la canonica e altre case; ripiegarono poi rapidamente prima dell'arrivo di Mancen con i suoi. Gli eventi della Val di Diano indicavano che il morale dei partigiani andava migliorando, che a poco a poco tornava il desiderio di misurarsi col nemico direttamente, non limitandosi più alla tattica dell'imboscata.
Le imboscate erano pur sempre le azioni più redditizie e provocavano al nemico un lento stillicidio di perdite, un'inquietudine per ogni spostamento.
Il nemico aveva terrore di noi e resisteva ad oltranza. Non era facile catturar vivo un repubblicano ed un fascista come l'anno scorso. Russo [n.d.r.: Tarquinio Garattini, comandante del Distaccamento "Angiolino Viani" della già citata I^ Brigata] con i suoi intimò la resa a due repubblicani, quelli estrassero le armi e vennero uccisi. Un tedesco sorpreso da quei di Pippo [n.d.r.: detto anche Bill, Giuseppe Saguato, comandante del Distaccamento "Francesco Agnese" della I^ Brigata] in Diano S. Pietro si fece ammazzare ma non si arrese. Un altro, appostato da quei di Stalin [n.d.r.: Franco Bianchi, comandante del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" della I^ Brigata] sulla «28» mentre passava in motocicletta frenò bruscamente alla prima raffica, sterzò e si gettò nella cunetta trincerandosi dietro alla macchina. Di là rispose al fuoco dei partigiani appostati a semicerchio finché un camion di truppe ci obbligò a sgomberare. Ricordavo che Stalin aveva preso in giro un altro capobanda perché aveva appostato gli uomini ai due lati della strada: «Al momento buono, per non colpirsi fra di loro, avevano dovuto rinunciare a sparare!», aveva commentato. Se quella volta però avesse avuto anche lui qualcuno oltre la «28» avrebbe preso il tedesco alle spalle.
Lasciata la staffetta della I presso Testico raggiungo Poggiobottaro [Frazione del comune di Testico (SV)].
Mi fermo pochi minuti perché trovo solo Livio [n.d.r.: Ugo Vitali responsabile SIM, Servizio Informazioni della Divisione "Silvio Bonfante"] e Citrato [n.d.r.: Angelo Ghiron, vice responsabile SIM della citata Divisione], poi prendo la mulattiera a fondovalle che porta a Degna [Frazione del comune di Casanova Lerrone (SV)]. A poco a poco, inavvertitamente, riprendiamo confidenza con le mulattiere, con le strade battute dal nemico, qualcosa però dentro di noi si mantiene sempre in allarme, ad ogni curva sostiamo istintivamente attenti se udiamo dei passi. A fondovalle, ad una curva, sento due che salgono: uno scatto fuori strada, ma è troppo tardi: i due mi compaiono di fronte ed uno abbassa il mitra in posizione di sparo. L'altro gli tocca il braccio: «E' l'amministratore!» Il compagno solleva l'arma, fa un passo avanti e mi tende la mano: «Sono Cimitero. Due occhi neri, profondi, una capigliatura corvina che gli scende ad onde sulle spalle, statura alta, torace d'atleta. Tale mi apparve quella sera Cimitero [n.d.r.: Bruno Schivo, capo di una squadra del Distaccamento "Filippo Airaldi" del Battaglione "Ugo Calderoni" della II^ Brigata "Nino Berio"] che avevo visto in agosto, ma che più non ricordavo. «Hanno ucciso suo padre e sua madre, mi avevano detto». Hanno preso la sua fidanzata e le hanno ucciso davanti un uomo: «Così finirai anche tu se non ci dai modo di prenderlo!». Le avevano detto, poi, visto che taceva, l'avevano uccisa.
Cimitero ha mandato ai fascisti una sua fotografia che ora figura in tutti i posti di blocco. «Ora lo conoscono ma non lo prenderanno mai!».
Arrivato a Degna trovo la popolazione in subbuglio: «E' passato Cimitero con un compagno tranquilli per lo stradone, poco dopo di loro sono passati i tedeschi della pattuglia, se si incontravano succedeva un macello!».
A poco a poco nella fantasia e nell'affetto popolare la figura di Cimitero con la giacca di telo da tenda, la capigliatura fluente, il nome funebre come il destino dei suoi fa presa ed ingigantisce.
La sera del 13 radio Londra manda l'atteso messaggio: il lancio è per questa notte. Le staffette partono dai posti di ascolto, il dispositivo di sicurezza entra in funzione, i distaccamenti incaricati occupano i passi, il Catter  [n.d.r.: distaccamento della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della richiamata Divisione Bonfante] si schiera sul campo di lancio.
Scesa la notte, un aereo volteggia nel cielo di Capraùna, in basso palpitano nel buio le luci accese dai partigiani. I paracadute si aprono l'uno dopo l'altro, poi in cielo si accende una piccola luce: è il segnale che il lancio è finito. L'aereo si allontana rombando. Recuperati ed aperti febbrilmente i bidoni vengono estratti Sten, fucili, caricatori e pacchi di munizioni. Luci sospette vengono segnalate, le nuove armi vengono caricate febbrilmente al chiarore dei tizzoni che si spengono, partigiani si alternano nella difesa e nella raccolta, le armi vengono distribuite perché il campo di lancio deve esser difeso ad oltranza fino a raccolta ultimata.
Recuperato il materiale scompaiono anche le luci sospette. I partigiani rientrano a Capraùna.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 199-202

15 marzo 1945 - Da "Marco" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che occorreva avvisare "Cimitero" dei rischi di delazione che stava correndo.
15 marzo 1945 - Da "K. 20" alla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante" - Informava che era giunto "a Diano Marina un numero consistente di soldati appartenenti alla fanteria tedesca che si fermeranno per la notte"; che, oltre alle 3 compagnie della GNR, ne agiva un'altra, O.P., al comando del capitano Ferraris; che ad Imperia vi era un'altra compagnia ancora dell'esercito repubblichino.
17 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della Divisione "Silvio Bonfante" ["Livio", Ugo Vitali, responsabile], prot. n° 1/96, al comando della Divisione "Silvio Bonfante" ['Giorgio' Giorgio Olivero, comandante] - Riportava le notizie ricevute il 12 marzo da un informatore ed aggiungeva che il maresciallo Groot, addetto al controspionaggio tedesco, era stato trasferito da Pieve di Teco a Pontedassio e, ancora, che sempre il 12 il comando della II^ Brigata "Nino Berio" aveva condannato e fatto giustiziare il commissario di P.S. Santo Miglietta e l'agente Attilio Sorbara, che erano stati catturati armati di mitra nella zona di Diano Marina.
17 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Svolgeva una lunga relazione soprattutto sul tema degli aviolanci alleati [n.d.r.: di cui si riportano qui di seguito significativi stralci]: "... il giorno 13 u.s. si è effettuata l'operazione lancio nella località convenuta [Piano dell'Armetta nei pressi di Alto (CN)]; sono stati lanciati 33 colli di cui 28 recuperati nella serata ed i restanti 5 nella successiva mattinata. Non è stato possibile per il disturbo alle stazioni radio ricevere il messaggio per il lancio del giorno successivo. Tutte le tracce del lancio sono state cancellate anche grazie alla popolazione, di modo che i tedeschi non hanno trovato nulla. Data l'esperienza si consiglia di potenziare l'ascolto messaggi mediante l'aumento delle apparecchiature sulle 3 linee, visto che si è ordinata la revisione dell'impianto di Nasino. È da evitare inoltre il lancio in giorni consecutivi, poiché vi è un'unica via di deflusso rappresentata da una mulattiera ed è, quindi, impossibile creare una colonna eccessivamente grande di muli, perché desterebbe sospetti ed in quanto l'occultamento del materiale va eseguito a spalla. Il luogo si è mostrato idoneo allo scopo, per cui per il prossimo lancio si richiedono 150-180 colli. Non servono fucili, ma armi automatiche, mortai leggeri, bombe anti-carro. Il collo indirizzato a 'Roberta' [n.d.r.: capitano del SOE britannico Robert Bentley, ufficiale di collegamento degli alleati con il comando della I^ Zona Operativa Liguria] contiene 2 R.T. [radiotrasmittenti]: si prega di inviare degli uomini a prelevarle...".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

lunedì 25 settembre 2023

Hanno detto che i tedeschi hanno i cani da guerra

La Val Lerrone. Fonte: mapio.net

Verso sera [6 marzo 1945] al comando [della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] di Poggiobottaro si venne a sapere che a Cesio c'erano quattrocento tedeschi. La notizia meritava di essere considerata attentamente. Cesio era un piccolo paese sulla «28». Difficilmente si sarebbe prestato ad alloggiare tante persone oltre al normale presidio di Brigate Nere. Perché i tedeschi non avevano proseguito per Pieve? Una puntata nemica da Cesio sarebbe stata facile: dal paese partiva una carrozzabile per la Val Lerrone ed un'altra portava a Testico e di là, in cresta, fino ad Alassio. Più difficile era che il nemico conoscesse con esattezza la sede del comando, ma dopo tanto tempo di permanenza nello stesso posto, non si poteva escluderlo. Varie proposte consigliate dal buon senso vengono esaminate. Si potrebbe montare la guardia poiché tra noi e Cesio non c'è nessuna banda. Si potrebbe partire per una, meno minacciata, subito, o verso le tre di notte, dopo sorta la luna. Le varie soluzioni non vengono accettate, soffocate da una sorta di fatalismo, poi alla cosa viene dato un tono scherzoso, la minaccia viene volutamente accentuata per impressionare chi riteniamo più degli altri impressionabile.
«Hanno detto che hanno i cani da guerra, lo ha riferito un contadino che è arrivato ora da Cesio, è una cosa seccante». Guardo Vittorio, il padrone di casa che, in cambio dell'ospitalità, vuole essere considerato partigiano anche lui. Noi avevamo acconsentito volentieri perché in verità condivideva molti dei nostri rischi, però pensavamo, forse a torto, che in lui non vi fosse la stoffa del partigiano. Ho l'impressione che la notizia sia diretta a lui, vedo che si controlla bene, ma ha gli occhi lucenti, attenti. «E come li impiegano i cani da guerra? Non sentiranno mica i partigiani dall'odore?». Chiede con voce che sembra indifferente. «No, il cane non distingue il partigiano dal contadino» - spiega Livio - «i tedeschi quando giungono in paese di notte lanciano i cani lupo per le strade e chiunque esca di casa viene azzannato. I soldati intanto perquisiscono sicuri che nessuno possa scappare». «Anche ad Alba li hanno impiegati» - aggiungo io - «a Degolla li hanno lanciati contro i partigiani che sparavano distesi per terra: è un brutto affare, se stai in piedi i tedeschi ti vedono, se ti stendi i cani ti addentano alla gola». «Sapete la storia del Monco?». Racconta Giorgio. «In quel di Triora, prima dell'ultimo rastrellamento avevano detto che era un tedesco delle SS che aveva ammaestrato i cani da guerra. I cani sentivano l'odore dei partigiani e scoprivano i rifugi. Il Monco li seguiva e con un uncino, perché era mutilato di una mano, tirava fuori i partigiani dalle tane. Quando il rastrellamento comincia due partigiani, che sapevano la storia del Monco, si nascondono in un rifugio. Dopo qualche tempo sentono un cane ansare fuori dell'apertura. Che sia la bestia del Monco? Due mani escono dal rifugio, il cane è afferrato per la gola, strozzato, tirato dentro. Tre giorni sono vissuti i due nella tana con la bestia morta: era un povero cane da pastore perché il Monco non era mai esistito».
Era abitudine dei partigiani essere spietati con coloro cbe dimostravano qualche timore. Venivano spaventati al punto che non distinguevano più il vero dal falso. Ricordavo uno della Matteotti: Lupo; dopo averlo preparato a dovere con vari racconti di torture e fucilazioni avevamo finto un imminente attacco tedesco e lo avevamo mandato solo in esplorazione. Non era più tornato.
Pure quella sera i tedeschi di Cesio non erano una fantasia. Pensavo al rapporto che ci era pervenuto dopo Upega: «E' possibile dopo un anno di vita partigiana essere ancora sorpresi?». Era ancora possibile.
La notte passò tranquilla per quanto il mio sonno leggero venisse più volte interrotto dal canto di un gallo.
Il giorno 7 torno a Segua [Frazione di Casanova Lerrone (SV)] e l'8 vado al recapito staffette di Ginestro per vedere se hanno preparato i conti. Al recapito trovo un francese che giorni prima era passato da Segua. «Sei ancora qui?» gli chiedo. «Si è accorto che può mangiare e non far niente ed è ormai impossibile mandarlo via» mi dice una staffetta. Il francese era un giovane biondo, robusto, pareva più un tedesco che un latino, era un tipo singolare. Era passato da Segua con un telo da tenda sulle spalle. «Ho visto un contadino che batteva l'ulivo raccogliendo i frutti nel telo. Militare, gli ho detto io, ed ho preso il telo» - così aveva raccontato - «quello mi è corso dietro dicendo che lo aveva pagato, ma io sono stato buono e non gli ho dato niente».
«Poteva averlo pagato davvero» aveva detto Bertumelin indignato.
«E poi col mangiare e con l'alloggio che vi diamo mi sembra che possiamo averceli guadagnati dei teli e delle coperte militari che a voi non servono». «Potevo anch'io pagarlo con questa» aveva replicato il francese mostrando la rivoltella; «ma non l'ho fatto perché ero di buon umore».
«Come è che sei in Italia?», gli chiesi.« Affondato nel '40 con la mia nave presso Piombino. Fino al '43 prigioniero, adesso libero».
«Sarai contento di tornare a casa fra qualche mese a guerra finita?».
«Fra qualche mese? Troppo presto... Dovrò lavorare di nuovo, è più bello fare la guerra». «E gli altri cinque che vi ho mandato giorni fa?» chiesi alla staffetta.
«Li ho portati alla Cascione, avevano fretta di tornare in Francia. Appena fusa la neve cercheranno di passare».
Anche quelli li avevo visti a Segua: erano aviatori abbattuti: «Se i tedeschi ci prendono dico che sono canadese», aveva detto uno di loro. «Un mio compagno è stato tagliato con la sega circolare perché era francese».
La pattuglia dei ciclisti tedeschi continuò a percorrere la Val Lerrone sempre più spesso. Passò il 6, l'8, il 13. Il giorno 8 giunsero anche cani con tedeschi che requisivano fieno. La ricostruzione del ponte di Garlenda proseguiva lentamente, l'inattività partigiana cominciava a pesare, i borghesi, che all'inizio erano atterriti, temendo che tendessimo qualche imboscata alla pattuglia, cominciavano ora a parlare di accordi segreti, di compromessi fra noi ed i tedeschi. Una squadra della banda di Rostida, decisa a por fine a questo stato di inferiorità, si appostò a Case Soprane in attesa della pattuglia. I borghesi ripiombarono nel terrore e prima avvertirono i nostri dell'arrivo dei tedeschi, poi, visto che i partigiani non scappavano, andarono ad avvertire i tedeschi facendo fallire l'imboscata. Il Comando divisionale fece rientrare alla base la squadra che per rappresaglia stava requisendo galline e conigli.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980,  pp. 163-167, pp. 196-199

7 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 183, alla banda locale di Ginestro - Disponeva la presenza di una pattuglia sul Passo di Cesio per il giorno successivo dalle ore 23 alle ore 9 e la segnalazione di allarme al Distaccamento garibaldino più vicino una volta avvistati i nemici che lungo la strada di Testico, non transitabile da automezzi, sarebbero necessariamente saliti a piedi.
8 marzo 1945 - Dal comando del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che il 1 marzo il Distaccamento con l'ausilio di civili aveva effettuato il diroccamento del ponte di Degna e che il giorno 5 aveva fatto brillare con 3 mine il ponte di Garlenda "rendendolo inutilizzabile".
13 marzo 1945 - Dallo Stato Maggiore della Divisione "Silvio Bonfante" avviso n° 1 alla popolazione costiera - "Si invita la popolazione ad allontanarsi dagli obiettivi militari. Si consiglia di annotare i luoghi abitati da tedeschi e fascisti e di tenere sotto sorveglianza la Feldgendarmerie".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

lunedì 18 settembre 2023

Lo sapete che Cipressa è circondata dai Mongoli che cercano i partigiani casa per casa?

Cipressa (IM): una vista sino alla zona di Sanremo

Un giorno, sul finire di giugno [1944], i tedeschi e i fascisti salirono da Montalto Ligure e Makallé mi disse di portarmi in cresta sopra la ripida mulattiera che portava al passo di Vena. Loro avrebbero nascosto i viveri e cancellato le tracce della nostra permanenza al Casone della «Scià Maria». Io, con la mia squadra, potevo prendere le decisioni che mi sarebbero parse opportune: l'importante era tenere la squadra unita. Arrivati in prossimità del passo notammo che questo era già occupato dai fascisti. Non ci restò altro da fare che disturbarli con qualche raffica, per renderli un po' più guardinghi, e quindi più lenti. Rìtornammo al casone e, dopo esserci consultati, decidemmo di andare a rifugiarci sulla costa, vicino al mare, e ci avviammo lungo la strada. Quasi subito sentimmo una nutrita sparatoria sopra Pietrabruna: chiesi ad un uomo, che stava salendo dal paese, se sapeva cosa stava succedendo e questi mi rispose: «è la banda di Tito che ha attaccato i tedeschi». Era una spia? O era un poveraccio che non sapeva cosa diceva? Noi, comunque, ci precipitammo a dare una mano a Tito. Quando vedemmo ì tedeschi, capii la mia stupidità; allora dissi a Giacò: «Tu con tre uomini cerca di fermarli, tanto da darci tempo di andare ad appostarci su quel costone là dietro; quando siamo arrivati ti ritiri e noi ti copriamo». Così fecero, ma prima di arrivare nel luogo dove avevo pensato di coprire Giacò, ecco farsi incontro uno strano tipo, che correva verso di noi. Gli chiesi chi era e dove andava; lui mi rispose: «Sono un comunista e un partigiano diretto al Comando, quando ho sentito sparare, e sono venuto a darvi una mano». Io gli dissi: «Bravo, non hai neanche un fucile, ma in compenso hai del fegato». Era Milan; sarebbe poi diventato il Comandante della IV Brigata della Cascione. Coprimmo Giacò e gli altri, finché non ci raggiunsero, allora gli dissi: «Ritirati finché non trovi un posto adatto per coprirmi coi fucili; adesso lo prendo io il mitragliatore». «Non ti conosce», mi rispose, «conosce soltanto me e allora è meglio che resti io: l'importante è che tu mi copra». Così facemmo e lo facemmo tanto bene che i tedeschi rallentarono il loro inseguimento e la distanza fra loro e noi aumentò. Quando raggiungemmo la «Casa del sergente», situata in mezzo a una vigna, sotto il passo di San Salvatore, i tedeschi non si vedevano più. Chiesi al vecchio sergente se aveva qualche cosa da mangiare: lui entrò in casa e ne uscì con due grossi pani, «adesso vado a prendervi da bere». Nel tempo della sosta mi era sembrato di udire degli spari dalla parte di Pompeiana, li avevano sentiti anche gli altri, tanto che tutti fecero silenzio: eravamo presi fra due fuochi; prendemmo i fiaschi di vino che frattanto il sergente aveva portato e, al coperto della vigna, entrammo nel vicino bosco di querce. Numerosi tedeschi erano sulla cresta del Passo di San Salvatore; gli altri salivano lentamente verso di loro.
Il boschetto di piccole querce, dove ci eravamo rifugiati, non dava molte possibilità di sopravvivenza in caso di rastrellamento. La cosa migliore da farsi era di cercare un riparo occasionale. Lo trovammo nella curva di un ruscello: l'acqua aveva allargato il letto del corso d'acqua e i bordi servivano da trincea. L'importante per noi era di non lasciare avvicinare gli inseguitori con il lancio di bombe a mano, sperando nell'oscurità della sera per sganciarci dalla nostra critica situazione. Il boschetto era fatto segno a continue raffiche di mitraglia e a colpi di mortaio che iniziarono al calare del sole. Buon per noi che i mortai non erano con l'avanguardia delle forze di rastrellamento. Pensai che, dopo aver martellato con i mortai, il nemico avrebbe cercato di farci uscire allo scoperto, approfittando delle ultime luci del giorno; pertanto decidemmo che appena i mortai avessero smesso ci saremmo ritirati. Così facemmo: noi uscimmo dal nostro riparo proprio mentre il nemico si addentrava nel boschetto. Ripiegammo verso Cipressa passando prima da una campagna dove speravamo di trovare pesche mature: ne trovammo poche e acerbe, ma furono gradite ugualmente da tutti.
Andammo a dormire a Cipressa, in un fienile di mio zio, in Vico Martini. Sapevo che in quel periodo gli zii non dormivano in paese, ma in una casetta in campagna vicino al mare. Tutte le mattine però mio zio saliva in Paese con l'asina carica d'erba per i conigli e le galline e, dopo aver scaricato la bestia, la faceva entrare nella stalla che si trovava proprio sotto il fienile. Al suo arrivo scesi nella stalla e, quando aprì la porta ed ebbe fatto entrare la bestia, mi vide. Non riuscì a parlare per lo stupore o per lo spavento? Allora gli dissi di chiudere la porta e di venire di sopra, che gli avrei spiegato; e mi allontanai su per la scala del rustico. Mi raggiunse immediatamente e quando vide tutti quei giovani sconosciuti e con le armi esclamò: «Siamo perduti» (Mi ricordava sempre queste due parole il partigiano di Piani di Imperia «Ninchi», ora defunto, tutte le volte che lo incontravo).
Gli risposi: «Senti «barba» (zio), abbiamo una fame da lupi, vai da Ernesto il panettiere (Ernesto Velio), digli che sono qui con una ventina di ribelli e fatti dare tutto il pane che può; prendi l'asina e ritorna da dove sei venuto». Mi rispose: «Va bene per Ernesto, ci si può fidare, ma lo sapete che il paese è circondato dai Mongoli che cercano i partigiani casa per casa?». «Stai tranquillo», gli dissi, «i Mongoli sono come i tedeschi, i partigiani li cercano solo nelle case dove vive la gente, dove si può rubare qualche oggetto di valore e, per male che vada, qualche cosa da bere».
Mio zio partì ed io risalii nel fienile. L'idea di rifugiarci in quel fienile era stata la mia, ma nessuno mi fece neanche lontanamente capire di volermene per quello che poteva essere un grosso sbaglio. Spiegai la situazione e anche a loro dissi che, per la mia esperienza, escludevo che i mongoli avrebbero setacciato anche i fienili e le case diroccate (lo erano ancora a causa del terremoto della fine dell'ottocento) e pertanto ero tranquillo. «è più probabile», dissi, «che incendino il paese, e allora certamente inizieranno da un fienile, in questo caso ci divideremo in due squadre; una la guiderà Giacò e l'altra io. Ci sono tre vie di uscita: una dalla porta della stalla, l'altra dalla porta del fienile e l'altra dai tetti, da dove ci si può allontanare per tutto il borgo».
Ogni tanto si sentiva una raffica in lontananza, ma niente altro. Arrivò infine anche mio zio con un sacchetto di panini e un paiolo di risotto. Ernesto aveva fornito una decina di chili di pane, ma aveva anche pensato che probabilmente eravamo senza fumare, e così ci aveva mandato pure alcuni pacchetti di «trinciato forte», le cartine ed i fiammiferi. Prima di partire mio zio fu pregato da Mauro Caprile e da Luciano, un altro ragazzo di Porto Maurizio, di avvisare le loro famiglie che erano in salvo e che stavano bene. Mio zio caricò l'asina e partì, assicurandoci che avrebbe pregato per noi. Nel pomeriggio arrivarono i mongoli: dopo aver sostato brevemente dinanzi alla stalla e rimosso la porta, proseguirono per fermarsi davanti all'abitazione di Giacomo Martini, a pochi metri da noi; entrarono e, per un bel po' di tempo, cercarono quanto loro interessava in quella casa. Da una piccola finestra li vedemmo entrare e uscire, ma nessuno di noi ne fu apparentemente impressionato. Il giorno dopo tornò mio zio, informò Luciano e Mauro che sua moglie, mia zia, era andata ad avvisare le loro due famiglie e ci informò sull'opera dei mongoli. Avevano visto due uomini far legna nella pineta, e avevano sparato su quei poveretti, uccidendo il Morscio di Costa Rainera; e ferito Paolo Velio il figlio di Ernesto il panettiere, (Lo avevano colpito alla schiena; riuscì a salvarsi, ma rimase con le gambe paralizzate per tutta la vita).
Lo zio mi disse: «Non mi sento di chiedergli ancora del pane dopo quello che è successo al figlio; gli chiederò di anticiparci il pane della tessera annonaria mia e della zia, e noi in qualche modo ci aggiusteremo». Poco dopo ritornò dicendoci che Ernesto era andato ad Imperia, ma aveva lasciato detto alla moglie di darci tutto il pane che ci serviva.
Questo era lo spirito della nostra gente. Cosa avremmo potuto fare noi senza la loro totale collaborazione? Nulla; i veri protagonisti della lotta di liberazione sono stati loro. Non bisogna mai dimenticarcene. Ancora oggi godo dell'amicizia di molti di loro, che incontro talvolta peregrinando dalla Valle Impero alla Val Prino, dalla Valle Argentina alla Valle d'Arroscia, dall'Alta Val Tanaro alla Valle Pennavaire, ad Alto ed a Nasino.
Con questo non voglio dire di aver avuto sempre riconoscenza per loro e di essermi sempre comportato bene nei loro confronti; certamente avrò sbagliato più di una volta, ma sempre in buona fede e mi scuso ancora se a qualcuno ho mancato di rispetto, oppure se qualche volta ho abusato del mio potere nei loro confronti.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 77-80

mercoledì 6 settembre 2023

Il nuovo Comitato era subito riconosciuto dal CLN Regionale Liguria e durerà in carica dal primo febbraio 1944 alla Liberazione, con giurisdizione su tutta la Provincia di Imperia e sul Circondario di Albenga

Imperia: uno scorcio di Porto Maurizio

Il 10 settembre 1943, dopo una prima riunione in Imperia di quadri comunisti, seguita da una seconda, alla quale, oltre ai comunisti parteciparono uomini politici delle altre correnti antifasciste, venne formato un "triangolo militare", composto da Nino Siccardi, Felice Cascione e Carlo Aliprandi, con l'incarico di inviare altri uomini in montagna, aiutare con viveri, armi e munizioni quelli che già vi si trovavano, organizzare militarmente anche gli uomini della città. Contemporaneamente, con militari rimasti sul posto, si sarebbe provveduto ad asportare armi, munizioni e vestiario dalle caserme. Così, prima dell'arrivo dei tedeschi furono ricuperate cinque mitragliatrici, oltre cento fucili, alcune decine di rivoltelle, parecchie migliaia di cartucce, cassette di bombe a mano, coperte, scarponi e così via.
Due giorni dopo, il 12 settembre, i tedeschi giungevano ad Imperia prendendo possesso della città. Il Centro sopraddetto, con i suoi collaboratori, funzionava e teneva i collegamenti con quello di Genova, svolgendo altresì una funzione di raccordo tra la città della Lanterna e i centri minori di Albenga, Alassio, Diano Marina e Sanremo. Il materiale di propaganda proveniente dal Centro di Genova veniva regolarmente diffuso nella zona.
Verso la fine di settembre 1943, Gian Carlo Paietta giunse ad Imperia, inviato dal Centro di Genova per prendere contatto con l'organizzazione comunista locale. Scopo della riunione era quello di lanciare tutta l'organizzazione comunista nella lotta di liberazione, trattandosi, tra l'altro, di una rete politicamente già ben ramificata nella Provincia.
[...] Dopo l'eroica morte di Felice Cascione in montagna (Alto, 27.1.1944), il Comitato decideva di inviare Nino Siccardi (Curto) a prendere il comando delle formazioni partigiane della I Zona Operativa Liguria. Il primo febbraio 1944 il primo CLN Provinciale veniva modificato in quanto, essendo stati individuati dai nazifascisti, i membri Viale e Berio dovettero allontanarsi, mentre Giacomo Castagneto, per disposizione del PCI, si trasferiva a Cuneo a dirigere la Federazione del Partito in quella Provincia, in sostituzione del compagno Barale, caduto durante l'incendio di Boves da parte dei tedeschi. Lasciò infine il CLN Giacomo Amoretti, pur restando nelle file dell'organizzazione della Resistenza a Imperia, per trasferirsi poi nei primi giorni di settembre 1944 a Genova, a far parte del Comando della Delegazione delle Brigate Garibaldi della Liguria.
Il nuovo Comitato era subito riconosciuto dal CLN Regionale Liguria e durerà in carica dal primo febbraio 1944 alla Liberazione, con giurisdizione su tutta la Provincia di Imperia e sul Circondario di Albenga. Questa la formazione del nuovo Comitato: Gaetano Ughes (PCI), presidente; Ernesto Valcado (PSIUP), Carlo Folco (DC), (Ugo Frontero (PSIUP), Carlo Aliprandi (PCI) e Amilcare Ciccione (DC), tutti e tre addetti militari.
Allo scopo di coordinare l'azione militare, che andava oramai assumendo un ruolo di prim'ordine nella lotta di liberazione nazionale, veniva pure costituito alle dirette dipendenze del CLN un centro militare che riprendeva le funzioni del "triangolo militare", creato subito dopo l'armistizio e poi sciolto a fine novembre 1943, quando i suoi più attivi componenti erano stati inviati in montagna per organizzare le formazioni partigiane. Del Centro Militare, strettamente integrato nel gruppo politico del CLN e da questo dipendente, fecero parte, fino alla Liberazione, i tre addetti militari del CLN stesso, Carlo Aliprandi (Il Lungo), Amilcare Ciccione (Milcoz) e Ugo Frontero (Ugo).
Nell'intento di garantire la clandestinità dell'organizzazione e sventare i continui tentativi della polizia nemica di annientarne gli organismi dirigenti, nonché onde evitare inutili dispersioni di energie, venne deciso di accentrare, per quanto possibile, nelle mani del presidente e segretario la gran parte dell'organizzazione politica (stampa e propaganda, organizzazione locale e gli svariati e delicati servizi di collegamento), anche in considerazione del fatto che il presidente era in grado di valersi, nell'espletamento delle sue funzioni, della già esistente organizzazione del PCI e dei suoi principali terminali nella Provincia. Anche gran parte della finanza venne affidata alle cure del segretario, il quale poteva così disporre sia dei fondi che giungevano saltuariamente dal Centro di Genova, sia di quelli raccolti o prelevati nella città di Imperia e nei Centri della Provincia, e quindi provvedere di volta in volta, anche nei casi di emergenza, ai necessari finanziamenti, si trattasse delle forze operanti in città o delle formazioni partigiane in montagna, le cui esigenze si andavano facendo sempre più onerose e complesse con il crescere delle loro file.
I membri del Comitato di Liberazione si riunivano periodicamente, quasi sempre con la presenza di uno o di tutti gli addetti militari. Nei primi mesi del 1944 le riunioni avvenivano una o due volte la settimana, poi, quando i tempi divennero più duri e la situazione si fece pericolosa, in media ogni quindici o venti giorni. Generalmente le riunioni avevano luogo nell'abitazione del segretario. Talvolta, quando si sospettava un pericolo, presso quella dell'avvocato Folco, di Valcado, o di uno degli addetti militari. In alcune occasioni, convegni vennero tenuti in caffè cittadini.
[...] Il segretario, nello svolgimento della sua complessa e difficile attività politica e finanziaria, d'informazione e di collegamento, era affiancato da numerosi organi, generalmente collegiali, alcuni con proprie organizzazioni autonome, di cui egli stesso si serviva. Si deve all'instancabile attività di questi organi ausiliari se la rete cospirativa poté funzionare efficacemente fino alla Liberazione. I primi organismi ausiliari del CLN imperiese, costituiti nella primavera del 1944, furono la squadra politica e finanziaria, ed il gruppo di collegamento e staffette. La costituzione di tali organi coincise con il riconoscimento del CLN di Imperia quale organo di Governo per la Provincia, riconoscimento che il CLN di Genova fece pervenire, su autorizzazione del CLN Alta Italia, nei primi giorni di aprile 1944. La costituzione della squadra politica e finanziaria, e del gruppo collegato a staffette, si rese necessaria
per il continuo accrescersi dei bisogni inerenti alla lotta partigiana in montagna e a quella clandestina nei centri della Provincia.
Infatti con la costituzione definitiva della IX Brigata d'assalto Garibaldi (metà giugno 1944) sulle montagne dell'entroterra, sotto il comando di Nino Siccardi (Curto) ed il commissario Libero Briganti (Giulio), brigata elevata poi il primo luglio successivo a II Divisione d'assalto Garibaldi "Felice Cascione", si rese opportuno un collegamento regolare ed efficiente con la montagna, non solo, ma anche un intensificato invio di danaro, viveri, armi, munizioni, vestiario e medicinali, e l'organizzazione di un vero e proprio servizio d'informazione (SIM), diretto da uomini preparati a questo compito, essenziale per lo sviluppo ulteriore di una lotta fatta principalmente di colpi di mano, sorprese, agguati.
Francesco Biga e Ferruccio Iebole (a cura di Vittorio Detassis), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria) - vol. V, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2016 
 
I C.L.N. locali con l'approssimarsi della fine del 1944 avevano suddiviso il territorio di competenza della I^ Zona Operativa Liguria in tre parti. La "A" comprendeva il territorio da Ventimiglia (IM) a Santo Stefano al Mare (IM), comprese  tutte le vallate. La "B" i paesi tra Imperia e Cervo (IM) e vallate. La "C" riguardava il territorio tra Andora (SV) ed Albenga (SV).
I Comitati di Liberazione Nazionale, benché clandestini e perseguitati, si prefiggevano l'obiettivo di condurre con ogni mezzo la lotta per la liberazione di tutto il territorio occupato, cooperando con le squadre di montagna e supportandole con apporti di tipo economico, logistico e politico-militare.
I C.L.N. locali si facevano, inoltre, carico, della propaganda antifascista, di aiutare le famiglie dei combattenti partigiani e di raccogliere notizie sugli spostamenti delle truppe nazifasciste.
Il C.L.N. di Sanremo (IM), avendo, come sottolineato poco sopra, il proprio raggio d'azione dalla frontiera con la Francia a Santo Stefano al Mare (IM), intrattenne rapporti quasi giornalieri con il comando della II^ Divisione "Felice Cascione". E furono molto stretti anche i rapporti tra il  CLN di Taggia (IM) con il comando del III° Battaglione "Candido Queirolo" della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

lunedì 28 agosto 2023

Bersaglieri fascisti a Baiardo

Baiardo (IM)

Avevamo accennato nei capitoli precedenti alla formazione di bersaglieri fascisti che era stata dislocata nel paese di Baiardo.
La decisione presa dalle Autorità nazifasciste, nell'ambito del piano strategico relativo all'occupazione di tutti i paesi del retroterra per isolare le forze partigiane dai centri di rifornimento, creò nella zona una situazione particolare e difficile che ebbe modo di ripercuotersi, con tutte le sue drammatiche conseguenze, sulla popolazione civile locale per tutto il periodo che va dal 20 dicembre 1944 al 25 aprile 1945.
Abbiamo sintetizzato il suddetto periodo nei fatti che seguono, per ricordare il contributo di sangue dato dalla popolazione di Baiardo alla lotta di liberazione, testimonianza gloriosa da consegnare alla storia e alle generazioni di oggi e di domani, e per mettere in evidenza quale è stato il vero volto del fascismo e gli effetti dell'occupazione tedesca.
Il 20 dicembre 1944 i bersaglieri fascisti della «9^ Compagnia della Morte» di stanza a Baiardo, comandati da un tenente di nome F. B., di Corniglio (Parma), incominciano ad usare violenza, a spargere terrore e morte, a torturare e a macchiarsi d'infami delitti.
Spalleggiano il tenente nelle azioni criminose aguzzini come i sott'ufficiali G. C. M., G. T., C. C., T., e militi come S. G., V. R., A. F., G. S., L. A., O. T., M. e V.
Hanno la sede nell'albergo «Miramonti» e nei momenti cruciali della lotta non esitano a farsi scudo con la popolazione civile inerme. Altrimenti irrompono nelle case asportando ogni cosa, compiono prelievi notturni, interrogatori forzati, sevizie brutali contro persone ritenute favorevoli ai partigiani.
Un giorno arrestano i giovani Silvio Laura di Silvio, Mario Laura di Eugenio, Silvio Laura di Luigi, Giobatta Laura di Gio. B. Il tenente B. ne ordina l'interrogatorio eseguito dai suddetti ufficiali e soldati. Dopo indicibili torture, tradotti a San Remo, dove sono obbligati a scavarsi la fossa, vengono trucidati dalle S.S. tedesche (21-1-1945).
Oltre che dai Tedeschi, la 9^ compagnia è coadiuvata nei rastrellamenti da due o tre spie locali, tra cui l'amante del B., il quale non risparmia mai le persone da lei segnalate e su cui inveisce con crudele malvagità. La compagnia opera scassi e furti, rapina le scorte alimentari della popolazione, saccheggia il negozio di Eugenio Laura, padre di un caduto.
Per mesi i bersaglieri tengono forzatamente presso di loro donne e ragazze (M. Giovanna, L. Lidia, M. Giovanna, G. Luciana, L. Maria Rosa, L. Maria Caterina, T. Giovanna, L. Petronilla, L. Caterina, R. Giovanna, R. Maria, T. Caterina, ecc.) che seviziano in ogni modo.
Anche parecchi uomini subiscono la stessa sorte, rinchiusi nelle carceri dell'albergo trasformato in caserma. Per lungo tempo tengono prigionieri i cittadini: Luigi Laura, Gio. B. Chierico, Sergio Boeri, Giacinto Moriano, Michele Laura, Bartolomeo Novelli, Eugenio Chierico, Antonio Aurigo, G. B. Taggiasco, Antonio Moirano, Eugenio Laura, Nicola Rosafino, Antonio Pannaudo, Marco Taggiasco, ecc.
Danversa Giuseppe uscirà dalle carceri col volto irriconoscibile per le sevizie subite.
Il 10 marzo 1945 i carnefici fascisti legano per due giorni ad un palo i garibaldini Gaetano Cervetto (Nino) fu Guglielmo, e Matteo Perugini (Iena) fu Antonio, catturati in rastrellamento, dopo di che sfilano loro davanti, tempestandoli di pugni, bastonate e pedate. Al termine delle sevizie i martiri hanno le tibie fratturate, gli zigomi asportati, il mento senza carne, le mandibole spaccate. «Iena» viene esposto al pubblico ridotto in condizioni tali da essere irriconoscibile.
Dopo essere stati seviziati e fucilati nel cimitero di Baiardo, vengono oltraggiati e sputacchiati dalla soldataglia prima che le mani pietose di alcuni civili diano loro sepoltura.
In seguito, altri partigiani caduti nelle mani dei bersaglieri subirono la stessa sorte. Nel seviziare i garibaldini «Iena» e «Nino» si distinsero il sergente A. e il soldato G. S. Nel marzo del 1945 lo S. uccise personalmente il garibaldino Riccardo Vitali (Cardù), (vedi: «Battaglia di Baiardo»). Fu sanguinario e crudele, solo secondo al B. e, per ironia della sorte..., venne insignito di medaglia al valor militare.
Però la 9^ compagnia bersaglieri pagò cari i suoi misfatti con la perdita di oltre un centinaio di «camerati» tra morti, prigionieri e disertori (1).
[NOTA]
(1) I dati e i nomi riportati nel capitolo sono stati tratti da una denuncia fatta dalla popolazione di Baiardo il 29-10-1945 contro gli autori dei vari crimini menzionati (Archivio [Isrecim], Mazzo di dicembre del 1944, copia).

Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con patrocinio Isrecim, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977

Nella vicina Sanremo (IM) la notte successiva vennero fucilati presso Villa Junia cinque partigiani della V^ Brigata “Luigi Nuvoloni” della II^ Divisione, che erano stati arrestati a Baiardo (IM) il 17 gennaio.  Quattro di essi portavano il cognome Laura: Gio Batta Paolo, Luigi Gino, Mario Mario e Silvio Antonio. Come segnalato anche da  "Mimosa" [Emilio Mascia] alla Sezione SIM del CLN di Sanremo, il quale avvertiva che dopo l'uccisione di "Bacucco" e l'arresto della moglie le brigate nere avevano ucciso in Sanremo 4 persone tutte di cognome Laura e che altre 20 erano state arrestate e trasferite a Sanremo dove sarebbero state processate dal nemico per connivenza con i patrioti.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Il 17 gennaio 1945 nella zona di Baiardo bersaglieri repubblicani catturano i sapisti Laura Giobatta, Laura Mario, Laura Silvio Antonio, Laura Silvio Luigi e Laura Luigi “Miccia”. I cinque partigiani con il medesimo cognome, facenti parte della banda locale di Baiardo furono incolpati di aver trasportato un carico di farina da Baiardo a Passo Ghimbegna e a Vignai per rifornire i partigiani. Vennero portati a Sanremo nella Villa Negri, situata vicino alla Chiesa Russa, dove c'erano delle piccole celle. Il partigiano Laura Luigi Miccia riesce a fuggire durante un allarme aereo e a mettersi in salvo [riuscì a salire su di un tram per andare a rifugiarsi in un casolare in Località Tre Ponti di Sanremo]. Gli altri quattro partigiani furono trasferiti in un primo tempo nella Villa Ober [Oberg, Auberg...] e successivamente in un luogo poco distante, Villa Junia, dove dai Bersaglieri furono obbligati a scavarsi la fossa e quindi dagli stessi fucilati il 24 gennaio 1945.                                                                   Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV. Da Gennaio 1945 alla Liberazione, 2005, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia  

Fioriti Italo: nato a Coldirodi il 20 aprile 1924, squadrista della Brigata Nera “Padoan”, distaccamento di Sanremo.
Interrogatorio del 27.7.1945: [...] Giunto al ponte di Badalucco fui preso da alcuni tedeschi in servizio di guardia, i quali mi condussero al comando delle SS di Sanremo. Li mi volevano uccidere perché ero fuggito dalla brigata nera e per essere andato con i partigiani. I militari delle SS tedesche mi malmenarono per costringermi a rivelare dove si trovassero i partigiani ma io mi limitai a dire che i partigiani si trovavano sparsi sopra la località Vignai. Indi fui caricato su un camion fino a Baiardo da dove con una trentina di soldati tedeschi ci portammo a Ciabaudo dove i tedeschi effettuarono un rastrellamento fermando tutti gli uomini che si trovavano in paese che fecero sfilare davanti a me chiedendomi di ognuno se fossero o meno partigiani. Io dichiarai che tutti quegli uomini erano contadini e nessuno di essi era un partigiano.
[...]
Anfossi Amedeo: nato a Sanremo il 27 novembre 1915, milite della GNR in servizio presso il Comando Provinciale della GNR, compagnia di Sanremo
Interrogatorio dell’8.6.1945: Mi sono arruolato nella GNR nel mese di febbraio del 1944 e dal Comando provinciale di Sanremo fui destinato in servizio a Sanremo, prima a Villa al Verone e poi all’ex caserma dei carabinieri.
[...] Verso il 20 febbraio 1945 ho preso parte al rastrellamento effettuato nella zona di Baiardo unitamente ad una quindicina di altri militi, un reparto di bersaglieri, brigate nere e soldati tedeschi. Noi della GNR eravamo al diretto comando del Tenente Salerno Giuseppe. Io ero adibito al servizio di conducente di una carretta per il trasporto dei rifornimenti. Il rastrellamento è durato circa 8 giorni [...]
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 

Nella notte del 9 febbraio 1945 elementi, appartenenti a reparti della Brigata Nera, Tedeschi e bersaglieri - circa centosessanta uomini - e partiti da Baiardo la sera precedente verso le ore 22, effettuano un rastrellamento nella zona di Vignai-Argallo: rimane ucciso Mario Bini (Cufagna) del II° Battaglione, e quattro altri partigiani vengono catturati, Chimica, Biondo, Bà, e Martinetto del I° Battaglione, nonché la staffetta Lucia.
[...] Rastrellamento, iniziato intorno al 20 febbraio 1945, effettuato nella zona di Baiardo, Monte Ceppo e Cima Marta da una quindicina di militi della compagnia di Sanremo della GNR al comando del Tenente Salerno Giuseppe, un reparto di bersaglieri, brigate nere e soldati tedeschi. Il rastrellamento durò circa una settimana senza che i nazifascisti riuscissero ad ottenere esiti positivi, fino al giorno in cui un lancio paracadutato alleato di armi e di viveri fu effettuato nella zona di Cima Marta.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020

[ n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944-8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016 

martedì 22 agosto 2023

Quella mattina anche noi nel rifugio avevamo sentito alle 8.40 le prime raffiche di mitraglia forti e vicinissime

La zona di Testico (SV). Foto: Eleonora Maini

"Che sarebbe stato se il nemico fosse riuscito a colpire [n.d.r.: a Testico (SV), il 15 aprile 1945] Giorgio [n.d.r.: Giorgio Olivero, comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] o Pantera [n.d.r.: Luigi Massabò, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"], a scoprire la sede del Comando catturando documenti e materiale? Come si sarebbe ripresa la Bonfante in pochi giorni, ora che l'azione decisiva sembra imminente?" Erano le domande che pose Mario [n.d.r.: Carlo De Lucis, commissario della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] nel pomeriggio di quel giorno. "Non ci ha insegnato nulla il disastro di Upega? Ricordate la circolare del Comando regionale di allora? E' mai possibile dopo un anno di lotta partigiana essere sorpresi? Così ad Upega, solo il caso e la fortuna vi hanno salvato oggi. Quando ieri sera ho chiesto chi voleva venire con me in rifugio non mi avete seguito. Vi pareva che fosse paura o eccesso di prudenza il non voler abbandonare ancora la tattica cospirativa. Avete visto. Non si tratta di paura o di coraggio, non siete padroni di esporvi senza ragione, le vostre vite sono troppo preziose per il movimento per sacrificarle per dormire in un letto".
Giorgio taceva, infatti non c'era nulla da opporre a quella requisitoria chiara ed inesorabile: il rifugio era stato costruito con ogni cura, era uno scavo di quattro metri per quattro, profondo due metri, rivestito di pietra, coperto di lamiera e di terra. Vi si accedeva per uno stretto corridoio la cui entrata era chiudibile con un cespuglio. La terra sopra il rifugio era coltivata. Nell'interno su telai in legno vi erano materassi per molte persone. Nelle pareti vi erano nicchie per le future radio trasmittenti. Come si vede si era ben lontani dalle umide tane in cui avevano vissuto per settimane i partigiani dei periodi più duri dell'inverno. Il rifugio era stato costruito da contadini cui il Comando aveva spiegato la delicatezza dell'incarico, l'alta prova di fiducia, le benemerenze che acquistavano nonché la possibilità di rappresaglie. Alcuni dei costruttori erano muti per sempre: erano tra gli ostaggi massacrati il giorno 15.
Se un appunto si può fare al rifugio era che era stato costruito troppo tardi. Il pericolo che gravava su Poggiobottaro era lo stesso che lo aveva minacciato da dicembre, da quando la circolare 23 aveva raccomandato la costruzione dei rifugi. Era ovvio che, dopo averne fatto a meno per tanti mesi, nel clima di euforia della primavera se ne sentisse meno la necessità. Io però l'avevo pensata diversamente. Tutte le volte che avevo dovuto dormire a Poggiobottaro mi ero trovato a disagio e mi era parso saggio, dato che dopo tanto un rifugio c'era, servirmene quella sera assieme a Mario.
Forse la situazione era migliorata, un attacco nemico poco probabile, ma non mi sarebbe piaciuto perdere alla vigilia della fine una vita che avevo salvato attraverso tante peripezie.
Quella mattina anche noi nel rifugio avevamo sentito alle 8.40 le prime raffiche di mitraglia forti e vicinissime. Eravamo rimasti stesi sui nostri materassi senza parlare, senza poter fare nulla. Fino alle 9.15 a brevi intervalli avevamo udito colpi, spari isolati ed altre raffiche. Chi soffriva di più era Sergio Sibelli del C.L.N. di Alassio che non pareva abituato ai rumori della guerra. "Come fate voi a restare calmi. Io vorrei non essermi mosso da casa", mi sussurrava a bassa voce. "E' questione di abitudine. Io è la prima volta che sento sparare sentendomi quasi al sicuro", gli risposi e aggiunsi "Non riuscirei invece a dormire come fate voi, in città con armi e manifestini nascosti in casa, sapendo che una spia potrebbe farmi prendere a letto".
Uscimmo alle 13.30 quando gli spari erano cessati e qualcuno da fuori si ricordò di noi e venne ad avvertirci.
L'incursione di Testico aveva rivelato che la potenza della Wehrmacht era al tramonto. Lo spionaggio del disertore tedesco e la conseguente condanna delle persone che ci avevano aiutato, se erano state condotte con abilità e prontezza, non raggiunsero, però, lo scopo che forse il nemico si riprometteva. La rapidità dello sgombero, l'essersi coperti con i civili, la mancanza di un bando, di un annuncio qualunque che dessero alla strage il carattere di una condanna, la brutalità stessa dell'esecuzione che dilaniò i cadaveri con proiettili esplosivi, diede all'azione un carattere di rabbiosa vendetta più che di giustizia, fu un gesto da banditi che rivelava una grave debolezza. I tedeschi per esercitare la loro legge dovevano adottare ormai anche loro i metodi che noi impiegavamo da tempo in Riviera, segno che la supremazia della loro forza si avvicinava al tramonto. In più noi portavamo, quando possibile, i colpevoli nelle nostre vallate per sottoporli a giudizio, mentre essi se ne erano coperti per sfuggire ai nostri colpi.
Non essendoci state né imboscate, né attacchi partigiani nei dintorni dagli abitanti la strage fu considerata un terrorismo selvaggio ed impotente. Ci si ricordava che il disertore tedesco aveva ordinato direttamente alle vittime di aiutare i malati partigiani quando era stato con noi, ciò aumentava ancora il risentimento e porterà in seguito la popolazione a tentativi di linciaggio di prigionieri da noi catturati.
I civili in preda al terrore abbandonarono i paesi della Val Lerrone passando le notti all'aperto, gli uomini chiedevano armi per unirsi a noi e difendere la loro vita, tornava così ad un anno di distanza il morale che aveva creato le bande locali. Il terrorismo nemico rendeva di nuovo i civili solidali con noi spingendoci alla lotta.
L'evolversi della situazione sui grandi fronti e la possibilità che incursioni nemiche contro la popolazione abbiano a ripetersi impongono ai partigiani un atteggiamento più deciso. L'opinione pubblica, orientata nettamente in nostro favore, l'afflusso continuo di nuove reclute e l'alto morale degli uomini decidono il Comando ad estendere il controllo finora limitato alla zona a sud della Val d'Andora a tutto lo spazio tra la «28» ed il mare. Dapprima si eliminerà il diaframma della Val Lerrone, poi collegheremo tra loro le bande creando uno schieramento quasi continuo sui due fronti della «28» e dell'Aurelia. I compiti verranno suddivisi tra le Brigate i cui effettivi sono in continuo aumento e dovrebbero già ora essere sufficienti.
Il timore delle rappresaglie nemiche non ci trattiene più: le popolazioni esasperate dal terrore e dalla vita nei boschi ci chiedono quando finirà quella situazione perché le notti passate all'aperto sono ancora fredde: "Per voi è appena cominciata, noi è più di un anno che facciamo questa vita", rispondiamo. "Ormai il tempo è buono, non abbiate paura, si può tirare avanti anche per dei mesi".
Una nostra occupazione sarebbe accolta con favore perché ormai ci ritengono in grado di respingere eventuali attacchi nemici.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 239-241
 
[...] Poco prima della Liberazione, il 15 aprile 1945, l’eccidio in assoluto più cruento, a Testico, nel quale perdono la vita 27 persone. All’alba di domenica due colonne tedesche giungono a Ginestro, frazione di Testico, per dare inizio a un rastrellamento: i militari catturano una ventina di civili, uomini e donne sorpresi nelle loro case, e li legano con corde. Poi, proseguendo la marcia, uccidono senza apparente ragione un contadino al lavoro. Alle 8.00, arrivati nei pressi della chiesa, irrompono nell’edificio, catturano altre persone e pongono tutti gli ostaggi lungo un muro sotto la sorveglianza di un soldato. Il resto della truppa, in parte, prosegue con il rastrellamento che porterà alla cattura di altri ostaggi; in parte si dirige verso Poggio Bottaro. Intorno alle 9.00 un gruppo di partigiani, dalla vicina frazione di Santa Maria di Stellanello, spara sui tedeschi permettendo a 3 degli ostaggi di fuggire. In risposta, i tedeschi tornano verso la chiesa, si appostano presso l’osteria del paese e catturano altri 3 contadini di Torria. Infine, la colonna riparte con i prigionieri al seguito. Durante la marcia, si arresta presso la frazione Zerbini per catturare altri ostaggi. L’ultima tappa è Costa Binella ove avviene la selezione dei progionieri. Vengono rilasciati 3 giovani di Ginestro, 4 donne e 4 ragazze. Queste ultime verranno poi condotte al carcere di Imperia, sottoposte a interrogatori e paestaggi e rilasciate almeno una dozzina di giorni dopo. Restano in mano ai tedeschi 27 persone: 25 uomini e 2 donne che vengono separate dagli altri prigionieri, seviziate e uccise a colpi di baionetta. I 25 uomini, legati 2 a 2 col fil di ferro, sono falciati a colpi di mitragliatrice. Dopo il massacro, i corpi risultano irriconoscibili [...]
Andrea Chiovelli, Quando i tedeschi massacravano i savonesi: ecco le 49 stragi che insanguinarono la provincia, IVG, 11 aprile 2016
 

mercoledì 16 agosto 2023

Il pallido sole di quel primo giorno aveva accompagnato i tedeschi a Pietrabruna nelle prime ore del mattino

La zona di Pietrabruna (IM) vista da Civezza

Il verde del Faudo ingialliva, i cespugli erano diventati sterpi, le ultime foglie calavano silenziose per non turbare il freddo incanto dell'inverno ormai presente. Alla “Bramosa” era stata presa una decisione: spostare il campo. La brutta stagione e la lunga permanenza nello stesso posto rendevano opportuno il cambiamento; sul monte, diventato brullo, la piacevole brezza estiva era solo un ricordo, spirava, ora, un freddo vento che aumentava col passar dei giorni. Come nuova base venne scelto il bosco dei ”Lavanin”, situato al di sotto del Faudo, sul versante sud, venendo così ad evitare i venti del nord e trovandosi inoltre vicino a Pietrabruna, da cui poter attingere informazioni e rifornimenti alimentari. Oltre a ciò, diversi paesani si recavano settimanalmente sulla costa e nella città capoluogo, particolarità questa che a noi tornava molto utile; il bosco, poi, coni suoi robusti tronchi che coprivano un vasto tratto, dava la possibilità di mimetizzarsi al meglio; nella valle, infatti,i soli uliveti più vicini al mare conservavano interamente il fogliame anche nel periodo invernale, ma la loro vicinanza alle postazioni fisse nemiche sconsigliava l'insediamento. Al centro di una radura vennero sistemate la cucina e le poche riserve di alimentari, mentre il distaccamento, diviso in piccoli gruppi, prese posto nei rifugi in pietra disseminati all'intorno. Lunghe ore di giornate interminabili, trascorse fra nodosi alberi i cui rami spogli sembravano chiedere un po di sole ad un cielo ermeticamente grigio; unico intermezzo, ritrovasi alla distribuzione del rancio per ricevere minestre di riso altrettanto lunghe, arricchite con l'aggiunta di qualche patata, il cui ritrovamento veniva segnalato con un grido di trionfo dal fortunato scopritore. Il tedio di quei giorni era confortato dal lento, ma inesorabile passare del tempo, il pensiero del domani aiutava a sorridere. Spesso, con pochi compagni, ci si appartava nelle vicinanze e si accendeva un fuoco; un elmetto poi, una vecchia casseruola, bucati, servivano per arrostire le castagne preventivamente raccolte. Un sasso per sedile e una coperta sulle spalle, a difesa dell'invadente umidità, moderni zingari che la guerra affratellava, e scorrendo le ore, fra lo scoppiettio delle castagne che si arrostivano; ricordi di esperienze diverse, nel calore di un fuoco che avvicinava, episodi raccontati con l'esuberanza della giovinezza e la pacatezza della maturità, e così per molte ore di quei giorni, fino a quando il freddo diventava pungente e l'ombra della sera ci raccoglieva infreddoliti nel piccolo rifugio illuminato dal lanternino ad olio. E si parlava ancora, si raccontava, arrestandosi a tratti per ascoltare il brusio del vento fra gli alberi del bosco, insieme e vicini, fino al giungere puntuale del sonno. Era arrivato dicembre [1944] e il pallido sole di quel primo giorno aveva accompagnato i tedeschi a Pietrabruna nelle prime ore del mattino. Una malcelata inquietudine agitava l'intera base, la segnalazione era stata portata dal nostro incaricato all'acquisto del pane, il quale, in procinto di entrare in paese, aveva fortunatamente incontrato un contadino che ne usciva per avviarsi al consueto lavoro; l'informazione raccolta era scarna e consisteva nel diretto incontro dello stesso con un paio di soldati tedeschi che avendo proseguito nel loro cammino, del tutto indifferente; non poteva perciò fornire altre informazioni. Oltre a ciò, da qualche giorno circolavano voci sulla presenza in Pietrabruna di una spia, che risiedeva nel paese, attendibilità difficile da stabilire per il sensibile numero di persone che per ragioni di lavoro o affari si recavano periodicamente ad Imperia, centro per l'intera zona di uffici informativi e comandi delle varie armi, impegnati esclusivamente nella repressione della guerriglia. L'insicurezza sul da farsi durò per poco, era necessario defilarsi immediatamente per evitare un probabile scontro con un nemico di cui non si conosceva la forza e l'intenzione. Si procedé quindi ad evacuare il campo, avviandosi verso un settore della valle privo di sentieri; un percorso sui resti di una rada vegetazione, fatica e spine consuete, abbondante sudore per lo sforzo espresso. Si ritenne opportuno spostarsi sul versante opposto alla posizione del nostro campo, annullando il vantaggio della possibile informazione fornita al comando tedesco. Il ritmo della marcia ci impegnava totalmente e scaricava il vuoto d'una noia accumulata in giorni inutili; la fatica non preoccupava e le mani, nello stringere la armi, ne carpivano una nuova energia. Il fondo valle in breve raggiunto e, dopo il torrente, si scavalco la strada carrareccia con estrema prudenza; durante il tragitto si erano raccolte altre voci che assicuravano la presenza dei soldati e la loro probabile intenzione di rientrare in giornata nella riviera; naturale, quindi, il delinearsi di un piano operativo preciso. La strada nel suo tortuoso percorso accompagnato dai vari dislivelli, rendeva particolarmente idoneo il nostro appostamento, accuratamente disposto su un grosso sperone roccioso, proteso sulla stessa, alla fine di un'ampia curva. Distesi fra le rocce si attendeva pazienti, una insolita calma si evidenziava nei gesti dell'intero reparto tranquillizzato dalle ultime informazioni che capovolgevano la situazione completamente. Si ritorna ad essere cacciatori, pronti a colpire la pericolosa selvaggina. L'attesa d'un tempo che sembrava arrestarsi divenne ansia, i minuti diventavano ore, e nella strada il vuoto; Il nervosismo comincio ad affiorare, le voci salirono di tono nel chiedere il da farsi, infrangendo la dovuta prudenza ma, improvviso, un rumore, un rumore di passi prodotto da poche persone, e alla svolta apparvero due paesani che, tranquilli, procedevano verso il fondo valle. Il nostro richiamo li bloccò immediatamente, e alla domanda: “dove sono i tedeschi”, apparve sui loro volti un'evidente espressione di stupore, subito seguita dalla risposta verbale che, questa volta, stupì noi tutti: “quali tedeschi”. I contadini provenivano direttamente dal paese e, a loro sentore, non vi esisteva alcuna presenza di forze germaniche; qualche parola ancora di precisazione , un amichevole saluto, e se ne andarono tranquilli com'erano venuti. Ci si guardò in faccia senza parlare, si raccolsero le armi per incamminarsi subito,disordinatamente, verso Pietrabruna; alla silenziosa perplessità rifiorì il dialogo, malgrado la stanchezza cominciasse ad affiorare. Il resto del percorso continuò nella ricerca d'una motivazione che giustificasse la logica dei fatti intervenuti. Le prime case del paese erano già superate e si continuava a procedere a piccoli gruppi, chiacchierando animatamente quando, improvviso, il fulmine; armi nascoste esplosero nei nostri timpani, “majerling e machin pistol” sgranavano spietate i loro colpi in continuazione. Attimi di nebbia, in un brancolare nel vuoto; senza saperlo, ero già a terra, perfettamente immobile in un diluvio di pensieri che smarrivano la mente, urla e richiami all'intorno, mentre le armi non cessavano il pauroso ritmo; vicina la voce amica di Vento che urlava: “Faggian è morto”, e un piede mi saliva sulla schiena; una confusione caotica, indescrivibile e, improvviso, il silenzio. Le armi tacevano, forse il nastro dei proiettili era terminato ed era necessario qualche secondo per sostituirlo, e allora scattai, ponendo tutta l'energia di cui ero capace, come allo sparo d'uno starter che comanda la corsa; una decina di metri e mi abbandonai sul fianco della massicciata che sosteneva il sentiero, le mani aggrappate all'erba che l'avvolgevano, celando aguzze pietre; cinque o sei metri e mi trovai sul fondo perfettamente illeso, le ammaccature non contavano; l'arma era ancora silenziosa. Storditi e attoniti, come ubriachi, ci si allontanò rapidamente nella sicura copertura delle alte gradinate che circondavano l'abitato. Per la prima volta avevamo subito un'imboscata, acquisendo una nuova esperienza, ed era inutile al momento ricercarne il perché; era opportuno ricongiungersi all'altro gruppo, nell'imprevisto il distaccamento s'era diviso in due. Stanchi, ma soprattutto depressi per lo smacco ricevuto, e constatando le difficoltà del ricongiungimento, si occupò l'intero pomeriggio in sicuri appostamenti, stringendo la cinghia abbondantemente allentatasi, e solo verso sera, poco prima del calar della notte, si affrontò la marcia del rientro. Al “Lavanin” un uomo solo attendeva, ci comunicò di salire al vecchio campo della “Bramosa”, dove l'altro gruppo ci aveva preceduti; i tedeschi, e questa volta l'informazione veniva data per certa, avevano abbandonato Pietrabruna dirigendosi sulla costa. Provati dal peso della giornata [14 dicembre 1944], percorremmo lentamente l'ultimo tratto di strada che ci separava dal campo, accompagnati dal solo rumore delle nostre scarpe, e quando lo si raggiunse, un pallido sole, liberatosi dalle nubi, si immergeva piano sul profilo del mare. Una giornata intensa e fortunata, ma non per tutti: Lolli, Luigi Rovatti, del gruppo modenese, era stato colpito da un proiettile di “machine pistol” che gli s'era incastrato in prossimità della spina dorsale; cominciò per lui la dura prova di una continua fuga, peregrinando da una valle all'altra, nel tentativo di sfuggire alla cattura, resa più facile dalle sue condizioni.
Renato Faggian (Gaston), I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza Imperiese. Diario partigiano 1944-45, Ed. Cav. A. Dominici, Imperia, 1984, pp. 81-85
 
Si trattava, invece, quasi del preludio al tragico eccidio di Torre Paponi, Frazione di Pietrabuna, situata più a valle del paese, una efferata strage nazista che da Faggian viene rammentata qualche pagina dopo.
Adriano Maini 
 
E' stato uno dei peggiori eccidi di cui si macchiarono le truppe d'occupazione naziste durante la Guerra di Liberazione che divise l'Italia nel tragico triennio 1943- 1945. E' l'eccidio di Torre Paponi il cui orrore, senza nulla togliere alle stragi di Marzabotto o Sant'Anna di Stazzema, ha colpito nei decenni dell'Italia repubblicana l'immaginario collettivo dei tanti studiosi che si sono applicati allo studio della Resistenza in Italia.
I fatti accaddero esattamente settant'anni fa, il sedici dicembre del 1944. Inverno duro e tragico quello che precedette la Primavera di Liberazione, soprattutto nell'estremo Ponente ligure. Già era caduto in quel di Alto, combattendo, il "mitico" capo partigiano Felice Cascione ma nell'Imperiese, la cui Provincia non a caso si fregia della Medaglia d'oro al valore militare, le bande partigiane davano parecchio filo da torcere ai nazi-fascisti per i quali l'entroterra rappresentava una vera e propria incognita. Fu così che i comandi tedeschi escogitarono la rappresaglia contro i molti contadini che nei paesi abbarbicati alle pendici delle Alpi liguri solidarizzavano con i combattenti per la libertà, di qualsiasi credo politico fossero.
La mattina del sedici, credendo di trovare a Torre Paponi, oggi frazione montana del Comune di Pietrabruna, gruppi partigiani, i tedeschi risalirono armati sino ai denti la stretta valle alle spalle di San Lorenzo al Mare. Molti civili, vedendoli salire determinati, si diedero alla macchia nei boschi quasi presagendo quella che sarebbe stata la tragica fine di molti loro compaesani. I nazisti occuparono in una manciata di minuti il borgo, poi radunarono gli abitanti rimasti (molti erano donne e bambini) nella barocca chiesa parrocchiale. Qui condussero anche, orribilmente torturato, il curato Don Vittorio De Andreis che ritenevano un fiancheggiatore delle bande partigiane.
A questi affiancarono il parroco, Don Pietro De Carli, reggiano di Guastalla. Incendiarono poi gran parte di Torre Paponi distruggendola. Non paghi di tanto orrore diedero fuoco pure ai due sacerdoti che morirono tra sofferenze atroci. Parimenti furono uccise altre ventisei persone del paese. Le uccisioni proseguirono, pure, il dì appresso.
Sergio Bagnoli, Settant’anni fa Torre Paponi, una delle peggiori stragi naziste del secondo conflitto mondiale, Agora Vox, 15 dicembre 2014  
 
[...] il dramma di Torre Paponi, piccolo paese a sud di Pietrabruna, che rappresentò per le valli imperiesi l'assurda violenza espressa da uomini armati contro altri uomini disarmati e indifesi. Borgo dell'entroterra che non supearva i centoventi abitanti, in prevalenza contadini, venne occupato nella metà di dicembre da un reparto di soldati tedeschi. Non un solo abitante risultò in possesso di armi e nessuno riuscì a superare il tragico cerhio: due preti, due donne e una ventina di uomini, i capi famiglia dell'intero paese, vennero abbattuti a colpi di pistola sul sagrato della chiesa, una confusa massa di corpi che coprì lo spiazzo di sassi chimamto piazza. Negli occhi di Italo (Maurizio Massabò), il nuovo comandante [n.d.r.: del distaccamento di Faggian, inquadrato nella IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione "Felice Cascione], uno smarrimento che trasmise a noi tutti, ancora restii nell'accettare il drammatico racconto.
Renato Faggian, Op. cit., pag. 90