martedì 19 agosto 2025

Dopo la battaglia di Alto due partigiani si recano ad Oneglia ad avvertire della morte di Cascione

Curenna, Frazione del comune di Vendone (SV). Fonte: Wikimedia

A Curenna [frazione di Vendone in provincia di Savona] la banda «Cascione» resta fino al 25 dicembre 1943. In questo giorno, per la ricorrenza del Natale, i partigiani vengono invitati dalle persone del posto, due per ogni casa; i partigiani portano con loro anche i prigionieri, trattandoli come se fossero loro compagni.
Frattanto è giunta notizia del bombardamento di Oneglia, avvenuto due giorni prima intorno alle ore 15.
Dopo il 25 dicembre 1943 la banda «Cascione» si sposta, passando per varie località, fra le quali di nuovo Curenna. Il 30 dicembre Cascione, Ivan e un terzo partigiano (Emiliano Mercati) si recano ad Alto [in provincia di Cuneo], per incontrarsi con esponenti di una banda di Albenga; il colloquio avviene in un'osteria del paese, e rappresentanti dei partigiani di Albenga sono Viveri (Libero Emidio Viveri) e Salimbeni Franco. Si decide che i partigiani delle due bande si riuniranno tutti nelle vicinanze di Alto, a monte del paese, per fare una manifestazione nel paese stesso, a scopo dimostrativo e di propaganda, e per fare altresì alla popolazione una distribuzione dei generi alimentari che sarebbero stati presi nei locali dell'ammasso in Nasino (la distribuzione verrà appunto fatta in questa località il 6 gennaio, giorno dell'Epifania).
Dopo gli accordi suddetti, il  6 gennaio tutta la banda, di circa una cinquantina di uomini, si sposta, suddivisa in quattro squadre, per recarsi ad Alto; e a Curenna vengono lasciati solo quattro partigiani, con i due prigionieri catturati a Montegrazie.
Lo stesso giorno la banda arriva ad Alto, sfila per le vie del paese, ricevuta dai partigiani di Albenga (comandati da «Viveri»): e nelle ore pomeridiane fa in Nasino la distribuzione annonaria alla popolazione, come sopra si è detto. 
Il giorno dopo fugge da Curenna il prigioniero Michele Dogliotti.
Un partigiano (Trucco G.B., «Titèn») si reca in fretta da Curenna ad Alto, per avvertire, affinché siano prese le necessarie precauzioni; arriva ad Alto intorno alle ore 12-13 del giorno 7. I partigiani vanno allora a Curenna a smontare il campo, e ripartono con tutto l'equipaggiamento la sera del giorno 7; durante la notte fanno sosta al Passo dell'Aquila, sulla strada di Alto, e la sera del giorno 8 arrivano alla «Madonna del Lago», sulle rocce di Alto, lungo la mulattiera Alto-Ormea, e si fermano nella località detta «Casa Fontane». Intanto la banda era stata raggiunta da altri partigiani (Vittorio Acquarone, con pochi del suo gruppo, che si era sbandato); e in «Casa Fontane» si forma un vero e proprio Comando così composto: Comandante, Felice Cascione («U megu»); Capo di Stato Maggiore, Acquarone Vittorio («Vittorio» o «Marino»); vicecapo di Stato Maggiore, Sibilla Giacomo («Ivan»).
Il giorno 8 gennaio, intorno alle ore 11, viene anche mandata una squadra di partigiani a Borgo d'Oneglia, per avvertire le famiglie di mettersi in salvo dalle accuse del milite fuggito. La squadra che viene mandata a Borgo d'Oneglia è composta di Mirko, Ivan, Emiliano Mercati o «Miliano» o «Taganov», Vittorio il Biondo, Tito.
I suddetti partigiani provvedono a fare avvertire le famiglie per mezzo di Antonio Dell'Aglio; poi ritornano in banda. In questo periodo, però, la madre di Mirko era ancora detenuta.
Frattanto, nello stesso giro di tempo, erano accaduti altri fatti: nel dicembre del 43 i fratelli Serra, Ricci Raimondo e i fratelli Todros erano stati arrestati; da parte sua, la banda «Cascione» aveva compiuto alcune azioni, fra cui l'attacco, ad Albenga, con bombe a mano, contro un gruppo di fascisti della GNR, mentre si accingevano a rientrare in caserma: all'azione avevano partecipato i partigiani Emiliano Mercati, «lo zio» (o «Terrero di Lusignano»), Rubicone Vittorio (o «Vittorio il Biondo»); i fascisti erano stati costretti a fuggire, lasciando sul terreno qualche morto e qualche ferito (15 gennaio '44).
Il 27 gennaio 1944 vi è la battaglia di Alto, in Val Pennavaira (o «Pennavaire»), presso la località «Madonna del Lago», dove è sistemata la banda «Cascione».
Giovanni  Strato, Storia della Resistenza Imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Editrice Liguria, Savona, 1976, ristampa del 2005 a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp.144-146

Due giorni dopo, il 29 gennaio 1944, un documento della Bundesarchiv Militararchiv (abbreviazione: BA - MA, RH 24 - 75/l9) un rapporto "mattinale" dell'ufficio addetto alle informazioni del LXXV Corpo d'Armata, inviato all'Armeegruppe Von Zangen, riporta quanto segue: "... Banda comunista forte di cinquanta uomini, dispersa da un'operazione della 356^ Divisione di Fanteria, 2,5 chilometri a nordovest di Alto (25 chilometri a nord di Imperia). Il capo della banda è stato ucciso. Gli alloggi della banda distrutti. Un bandito preso prigioniero. Catturate: una mitragliatrice leggera, cinque fucili, munizioni e bombe a mano...".
Come si può constatare, il rapporto nemico ci rivela che i soldati tedeschi che hanno partecipato all'azione contro la banda appartenevano alla 356^ Divisione di Fanteria. Misero risulta il bottino catturato. Ciò vuol dire che i componenti la banda, disperdendosi, non avevano abbandonato le armi. Ma, la cosa più evidente il rapporto dice che il capo è stato ucciso, ma non dice che è caduto in combattimento.
Ciò conferma quanto abbiamo riportato sulla morte di Felice.
Quando nei giorni successivi alla Liberazione, era stato nominato questore Baldo Nino Siccardi (Curto), già comandante della I Zona Operativa Liguria, negli archivi della Questura furono rinvenuti alcuni documenti ed un rapporto firmato da Pier Cristoforo Bussi, tenente colonnello e capo dell'Ufficio Politico Investigativo (UPI), del Comando della 33^ Legione della GNR, inviati ai vari Comandi di competenza, i quali rivelano che i nazifascisti erano venuti in possesso dei documenti della banda, ricuperati a Case Fontane, i quali forniscono anch'essi la versione che Cascione non è caduto in combattimento, ma è stato fucilato subito dopo la sua cattura.
Il rapporto recita: "Il 27 gennaio scorso truppe tedesche in perlustrazione nella zona di Alto, ai confini tra la provincia di Imperia e quella di Savona, e precisamente a nordest di Pieve di Teco, catturavano e fucilavano sul posto il dottore Cascione Felice, fu G.B. e di Baiardo Maria, nato il 2 maggio 1918 ad Imperia Ponente ove risiede in Via Saffi 10. Con Cascione è stato pure arrestato il carabiniere Cortellucci di Teramo, non meglio identificato, già dipendente dal Gruppo C.C. di Imperia. Seguiranno le generalità precise del Cortellucci, non appena eseguite le indagini. Il Cascione era capo di una banda di ribelli, operanti nella Provincia di Imperia: banda di un centinaio di persone ed i cui maggiori esponenti risultano dall'elenco allegato".
Francesco Biga, Felice Cascione e la sua canzone immortale, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, tip. Dominici Imperia, pp. 244,245

Come si è detto durante la battaglia di Alto era anche stato fatto prigioniero il partigiano Cortelucci. Ad Alto il Cortelucci si salva, facendo credere di essere stato preso a forza dai partigiani, e costretto a seguirli. Ricoverato in ospedale, dall'ospedale riuscirà poi a fuggire, e ritornerà nelle bande. Morrà nel dicembre del 1944 (il giorno 29), a Pantasina, uccidendosi per non cadere nelle mani dei tedeschi, che sono in procinto di catturarlo una seconda volta.
Dopo la battaglia di Alto due partigiani (Giacomo Sibilla o «Ivan» ed Eolo Castagno o «Garibaldi») si recano ad Oneglia (28-1-44), ad avvertire esponenti del movimento antifascista della morte di Felice Cascione.
Più dettagliatamente, i partigiani che erano stati presenti allo scontro, mentre si stanno ritirando e sono ancora sulle alture di Caprauna, incontrano Ivan, che tornava indietro con la sua pattuglia, essendo stato informato per mezzo di una staffetta che Cascione era rimasto ferito. Ivan precedeva gli altri, che sopraggiungono poco dopo. Subito si fa una riunione degli uomini aventi incarichi di comando, e, in seguito alle decisioni prese, Ivan ed Eolo, lasciato il gruppo, si recano all'albergo «Miramonti» in Garessio, per prendere possibilmente contatto con le formazioni partigiane di quella zona (badogliani). Qui non trovano nessuno e dietro indicazione della proprietaria dell'albergo si recano a San Bernardo di Garessio, dove dovrebbe essersi trasferito quel comando. A San Bernardo di Garessio hanno un primo colloquio intorno alla mezzanotte fra il 27 e il 28 gennaio; si decide di continuare il colloquio la mattina seguente. Ma, durante la notte, viene dato l'allarme; motivo per cui, la mattina del giorno 28, Eolo ed Ivan si recano ad Ormea, e la mattina stessa, da Ormea, con la corriera, partono per Imperia. A Pieve di Teco riescono a stento a sottrarsi al controllo di due carabinieri, che, uno per porta, invitano le persone a scendere e ad esibire i documenti (essendovi stati, il giorno prima, i fatti di Rezzo). Da Pieve di Teco proseguono a piedi (via Cenova, bosco di Rezzo, Colle San Bartolomeo, Torria, Chiusanico, Gazzelli, zona di Costa d'Oneglia) e vicino alla città si separano: Eolo va in Oneglia, ed Ivan si reca a Barcheto.
Giovanni  Strato, Op. cit., p. 151

giovedì 31 luglio 2025

Il partigiano cerca di occultarsi nel fieno

Dintorni di Bosco, Frazione di Casanova Lerrone (SV). Fonte: lokkio

25, 26, 27... lenti e terribili passano gli ultimi giorni di gennaio [1945]: il cielo è sempre grigio, il clima freddo, un vento gelato passa sulle vallate. Lassù sui monti nevosi il nemico continua a gravare con tutto il suo peso, il rastrellamento continua.
Che avverrà lassù? Potranno i partigiani sopravvivere? Quanti cadranno? Quanti saranno gli sbandati? Solo in seguito, quando il nemico avrà lasciato la zona, dai racconti dei borghesi e dalle parole degli scampati potremo a poco a poco ricostruire gli eventi, ma qualche episodio resterà oscuro per sempre.
Il giorno 20 all'alba il nemico era piombato a Bosco [Frazione di Casanova Lerrone (SV)], Degolla [borgata di Ranzo (IM)] ed Ubaghetta [Frazione di Borghetto d'Arroscia (IM)]. Contemporaneamente aveva occupato i paesi a fondo valle della Val d'Arroscia e fatta qualche puntata anche nel versante nord. Lo stesso giorno all'alba aveva occupato la Val Pennavaira investendo Alto, Nasino e Capraùna. Come si vede l'idea di Osvaldo [n.d.r.: Osvaldo Contestabile, poco tempo dopo commissario della IV^ Brigata della Divisione Garibaldi "Silvio Bonfante"] di ritirarsi in Val Pennavaira non sarebbe stata felice.
Ad Ubaghetta l'allarme venne dato in tempo: la sentinella scorse la colonna che operava in Val d'Arroscia ed avvertì i compagni [n.d.r.: di una pattuglia della Divisione "Bonfante", di cui Gino Glorio, che lasciò scritto questo racconto, era amministratore]: quando il nemico prese il paese alle spalle questo era già sgombero.
Gli eventi di Bosco li ricostruii da vari racconti: quando venne dato l'allarme il nemico aveva già circondato il paese dalla parte sud ed individuato il casone dove alloggiavano i nostri. Qualcuno riuscì ancora a fuggire, gli altri, circa una decina, vennero catturati prima che potessero far uso delle armi. Nei primi istanti cadde uno dei nostri: il russo. I compagni lo sentirono rantolare mormorando parole della sua lingua, poi a poco a poco si spense. I prigionieri catturati vennero condotti fuori paese con due borghesi catturati nel trambusto e allineati sotto gli ulivi di fronte ad una mitragliatrice.
Chi mi raccontò la vicenda fu Megu [n.d.r.: Ugo Rosso, poche settimane dopo gli eventi qui descritti vice commissario della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della Divisione "Bonfante"], lo studente in medicina che avevo visto il 19 sera. Era a Bosco con gli altri quella mattina, si erano svegliati e stavano scaldando le castagne, quando uno che era uscito a lavarsi scorge a breve distanza il nemico che si muove cautamente: «Ragazzi, i tedeschi!». Un breve grido. Si accorre alla finestra e si comprende che è troppo tardi per resistere: non c'è che da salvarsi singolarmente, ma ci sarà ancora il tempo?
Megu si lancia verso la porta, esce: sente una voce: «Tenente, una raffica da quella parte». E' Carletto. Megu è stato scorto: giù a terra! Una sventagliata di mitraglia passa qualche passo sopra di lui.
Un balzo e via, prima che il nemico spari ancora. Una corsa folle per le viuzze. I tedeschi sono già in paese: un nemico sbarca la strada puntando il fucile: «Alt!». Il partigiano si sente perduto: no, c'è una porta socchiusa. Uno scarto di fianco e Megu è in un fienile. Si guarda intorno: là c'è un'altra uscita: presto, il nemico lo segue! Il partigiano fa per balzare all'aperto, ma l'altra porta è sorvegliata. Un altro tedesco lo prende di mira, Megu balza indietro, di nuovo dentro, cerca di occultarsi nel fieno, ma ormai si sente perduto: i tedeschi entrano, rovistano ovunque, lo catturano.
Viene condotto fuori, sotto gli ulivi, allineato con gli altri compagni: di fronte hanno una mitraglia. Megu comprende, i suoi nervi si tendono fino allo spasimo nella ricerca di una possibilità di salvezza, di fuga nei brevi istanti che rimangono. Ecco: Megu conosce il tedesco, ascolta attento le parole dei soldati, gli ordini dell'ufficiale, osserva... osserva la mitraglia, vede che il nastro non è ancora in posizione: al mitragliere occorrerebbero pochi secondi per poter cominciare a sparare, bisognerebbe approfittare di quei secondi. L'ufficiale tedesco si rivolge ai nostri in italiano: «Se uno fugge spariamo sugli altri». Poi in tedesco al mitragliere: «Al mio comando inizia il fuoco». 
Megu comprende e pensa ad un inganno: «Ragazzi, ci ammazzano!». Un istante ed i partigiani d'un balzo si disperdono lanciandosi verso il basso: il nemico, per errore, ha lasciato la discesa alle loro spalle. Saltando i muretti di sostegno del terreno, i cespugli ed i fossati, i partigiani fuggono alla cieca: il pericolo è mortale ed il nemico può essere ovunque. Il mitragliere ha tentato di sparare, ma nell'orgasmo l'arma gli si inceppa; allora l'ufficiale impugna la pistola automatica e fa fuoco: cadono quattro compagni e i due borghesi che non erano fuggiti: «Ma io non sono partigiano!». Megu sente il grido disperato coperto dalla raffica. Gli altri riescono a fuggire.
Megu fa qualche decina di metri col cuore in gola, di corsa; poi vede che un tedesco lo ha preso di mira dall'alto di una rupe da pochi metri di distanza: «Alt!». Megu è di nuovo nelle loro mani.
Il prigioniero è condotto sulla piazza della chiesa, perquisito, privato di tutto, anche del poco tabacco, poi è lasciato ad un soldato che lo sorveglia da breve distanza. Il partigiano cerca di parlare col soldato servendosi della sua conoscenza della lingua. Conoscerà il suo destino? Potrà avvicinarsi al nemico e cercare di disarmarlo? Il tedesco intuisce le sue intenzioni e gli impedisce di avvicinarsi: «Ti fucileremo quando torna l'ufficiale, tarderà forse ancora dieci minuti... No, niente prete: il prete è scappato dal paese». Megu allora cambia tattica: il tedesco ha il fucile a tracolla, ci vorrà qualche istante perché possa usarlo. E' più facile che usi la pistola P38 che impugna, ma Megu può sperare di non esser preso al primo colpo. C'è poi la mitraglia pesante che era dei partigiani e che è rimasta sulla piazza, ma se si riesce a saltare nella fascia di terreno sottostante si è in un angolo morto e la mitraglia non è più temibile. Megu conosce la zona ed in pochi istanti potrebbe essere al sicuro in un rifugio. Il difficile è avvicinarsi all'orlo della piazza. Passano minuti che paiono eterni: il tedesco è seduto a breve distanza con gli occhi fissi su di lui e l'arma in pugno. Megu sa che deve distrarlo, deve riguadagnare la libertà in quei pochi minuti in cui sono solo loro due, poi non sarebbe più possibile. Megu chiede al tedesco se può allontanarsi per una necessità urgente. La scusa è puerile, ma non gli è possibile trovare di meglio. «No! Vai solo fin lì», risponde la sentinella indicandogli l'orlo della piazza. Megu obbedisce, si accuccia, al primo attimo di distrazione, senza alzarsi, si lancia giù dalla piazza. Il partigiano cade: il salto è stato più alto del previsto e non ha avuto modo di prendere l'equilibrio nè la spinta. Un colpo violento alla schiena e rimane senza fiato, bloccato. Il tedesco appare in alto, dalla piazza lo scorge riverso, lo prende di mira con la pistola. Megu sa che questa volta il tedesco tirerà senza indugio, fa uno sforzo supremo e si lancia in basso in un altro salto. Il soldato spara, ma non lo colpisce. Megu si rialza e scompare di corsa tra gli alberi. Dopo un mese i compagni portavano ancora il cibo a Megu nel rifugio: «Lo facciamo volentieri perché quel giorno ci ha salvato la vita, visto che sapeva il tedesco: ma da allora non è più uscito dal rifugio. Se continua ci farà i funghi».
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 149-152 
 
Nella notte tra il 19 e il 20 gennaio 1945 i tedeschi, partendo da Cesio, cercano di portare un duro colpo alla Divisione Bonfante, iniziando un rastrellamento che interessa una parte consistente della Valle Arroscia e delle località, in particolare, di Alto, Nasino, Casanova Lerrone. A Bosco, frazione di Casanova Lerrone, riescono a circondare un casone che ospita un gruppo di partigiani. Dopo un aspro combattimento i dodici uomini che si trovano dentro il casone riescono a rompere il cerchio di fuoco e qualcuno evita la cattura. Cadono sul campo il sovietico Gospar, Rolando Martini (Indusco), William Bertazzini (Rosa), Gino Bellato (Gino). Bartolomeo Vio (Tron), della banda locale di Vendone, che in servizio notturno stava controllando le strade, benché ferito alla caviglia riesce a salvarsi con una fuga a perdifiato. Sono catturati e fucilati sul posto i civili Amedeo Bolla, di anni 41, e Matteo Favaro di anni 23. A Marmoreo è ucciso il civile Settimio Testa. I garibaldini che sono riusciti a sottrarsi alla cattura raggiungono le altre squadre del distaccamento.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999  

mercoledì 23 luglio 2025

Una cartoleria centro smistamento di documenti e di materiale per i primi gruppi partigiani di Imperia

Imperia: Via Ospedale ad Oneglia

Dall'Archivio Storico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia (IsrecIm) affiorano storie straordinarie di fatti e di persone che costituiscono la Storia di questo angolo di Paese, il Ponente ligure, in un periodo particolare e determinante quale la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza, che è stato raccontato in alcune opere fondamentali tra cui la Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria).
E molte altre ne possiamo annoverare, di valenti studiosi e studiose locali, opere che hanno costituito le fonti di questo lavoro, insieme alla raccolta di testimonianze dirette.
Questo è un libro di passione, non pretende di essere esaustivo, ma è un percorso dentro la memoria locale per riprendere il filo di ideali, sentimenti, esperienze e aspettative che interessano ancora, per «orientarsi nella modernità confusa e smarrita», come dice Lidia Menapace.
Daniela Cassini, Gabriella Badano e Sarah Clarke LoiaconoProtagoniste. Storie di donne e Resistenza nel Ponente ligureIsrecIm - Regione Liguria - Fusta Editore, 2025,  p. 7

Come già detto, accanto all'organizzazione Gruppi di Difesa della Donna, abbiamo un'infinità di donne che hanno sopportato una serie ben lunga di sacrifici.
Non erano forse donne della Resistenza tutte le madri, le spose e le sorelle dei patrioti? Non erano esse stesse partecipi dei rischi e dei tormenti dei loro cari? Quante preghiere venivano pronunciate nelle case o nelle chiese per la salvezza dei propri congiunti!
Nei casoni e nei fienili, impropriamente chiamati ospedaletti da campo partigiani, in ogni ora del giorno e della notte le donne erano pronte ad accogliere feriti e malati per curarli, sfamarli e rincuorarli. E tra esse, le suore negli ospedali hanno offerto esempi di dedizione infinita, sopportabile da chi è retto da una fede trascendente che fornisce il duplice dono del sacrificio e del coraggio nell'affrontare la morte stessa con una serenità d'animo eccezionale e consapevole.
Il servizio staffette nelle formazioni molte volte veniva svolto da ragazze che, attraverso sentieri mozzafiato, si recavano in zone distanti anche alcuni chilometri per portare circolari, notizie o segnalazioni.
E in banda la donna con il fucile in mano rivestiva il ruolo, tipicamente maschile, del guerriero in lotta. Sparava come l'uomo nell'impeto della battaglia, e della delicatezza della sua figura e del disagio tra quegli spari nulla doveva affiorare, perché in certe situazioni non poteva esistere debolezza o privilegio.
Quanti ruoli la donna abbia sostenuto nella Resistenza è difficile dire, perché se si possono descrivere fatti accaduti, mi pare non sia possibile penetrarne lo spirito, l'ispirazione, i moventi autentici per cui scatta l'azione. Ho cercato, comunque, di chiarire come la partecipazione della donna nella Resistenza italiana, perciò anche in quella imperiese, sia costituita da una vasta gamma di impegni ed abbia origine da svariate direzioni.
E mi rammarico per l'impossibilità di ricordare l'interminabile serie di interventi di donne nella lotta, perché una ricerca seria presenterebbe problemi pressoché insolubili ed un impegno gravoso anche per il fatto che tante protagoniste, veramente modeste ed aliene da riconoscimenti ed onori, non intendono fornire notizie sulla loro attività resistenziale, mentre altre, purtroppo, sono invecchiate, malate o scomparse. Ed ancora, come ho già accennato in altra parte, occorrerebbe per ognuno dei tanti argomenti, una singola pertinente pubblicazione.
In appendice a questo capitolo è riportato l'elenco delle donne partigiane, patriote e collaboratrici del movimento organizzato di Liberazione nella nostra provincia. Ma, prima dell'elenco finale, mi siano permesse alcune citazioni e qualche breve commento.
Pietro Roggerone, nel corso di un rastrellamento, viene arrestato e condotto a Sanremo con una decina di prigionieri in ostaggio; una ragazza, Anna Lanteri, riesce a far fuggire tutto il gruppo (1). Risulta inoltre che la coraggiosa ragazza abbia salvato addirittura una cinquantina di civili incappati in un rastrellamento. Successivamente sarà arrestata.
Le SAP non sono un'organizzazione prettamente maschile. Anche le donne sanno combattere: «Nei primi mesi dei 1945 i sapisti della III Brigata riuscivano a disarmare una quindicina di militari italiani e tedeschi. Azioni rischiose nelle quali si distinsero per il coraggio dimostrato anche le giovanissime sapiste Palma Bianca e Daolio Nanda, seguite da un folto gruppo di donne, quali Elena Caterina, Robino Carolina, Garibaldi Geromina, Trevia Elisabetta, Agnese Teresa, Bestoso Emilia, Piana Gilda, Verda Lucia, Vittoria Giobbia (Sanjacopo), ed altre della Val Steria che si adoperarono instancabilmente per la lotta di Liberazione...» (2).
La professoressa Vittoria Giobbia (Sanjacopo), donna eccezionale il cui antifascismo è radicato ed autentico dirige le SAP femminili in Diano Marina. Organizzatrice abile e coraggiosa, lancia alla gioventù studentesca il suo appello alla lotta. Costituisce otto nuclei resistenziali: a Cervo, San Bartolomeo, Tovo Faraldi, Villa Faraldi e quattro a Diano Marina.
Verso la metà dell'ottobre 1944 è ricercata dalle SS perché la sua abitazione in Diano Marina (al n° 1 di via Genova) viene riconosciuta come centro dell'attività clandestina. Fugge, ma non si rassegna. Riprende i contatti con l'organizzazione femminile di Imperia e, naturalmente, con quella di Diano Marina. Ritorna alla guida del movimento femminile ed è preziosa collaboratrice del CLN locale con i collaterali movimenti maschili della Resistenza. Donna di cultura, incaricata dei corsi di traduzione della Facoltà di lettere dell'Accademia di Digione, già dal sorgere del fascismo in Italia si era rivelata come una delle più acerrime nemiche della dittatura (3).
Alba Rizzo di Camporondo (Diano Borganzo) è la staffetta che informa giornalmente i patrioti locali di stanza nei pressi di Diano Roncagli. Verso le 15 del 1O gennaio 1945 un gruppo di Tedeschi, guidato da una spia mascherata, irrompe all'improvviso nella zona e minaccia di sorprendere l'accampamento dei garibaldini di «Stalin»; anche da altre due direzioni giungono colonne nemiche. La ragazza intuisce il pericolo, percorre la salita a perdifiato ed avvisa i partigiani che riescono a mettersi in salvo occultando il materiale. Alba è stremata: al giungere dei Tedeschi si butta a terra e si salva fingendosi morta (4).
Analogamente, il 2 agosto 1944, un'altra ragazza, Lucia Ardissone, dopo un'estenuante corsa riesce ad avvisare una decina di giovani di Roncagli che dormono in una baita in località denominata «Piano della Chiesa», salvandoli perciò dalla morte (5).
Il 29 gennaio 1945 durante un rastrellamento Francesco Camiglia tenta la fuga attraverso i tetti, ma è ferito e chiede un disperato aiuto alla madre. Viene catturato e trascinato verso un albero di pero per essere impiccato. Gli passano il cappio intorno al collo. La madre, presa dalla disperazione raccoglie tutte le forze e si scaglia con un urlo straziante contro i Tedeschi che la respingono (6).
Povera madre, la Resistenza è fatta anche di te. Il popolo ti deve gratitudine, come gratitudine deve alla madre del sapista Augusto Vignola che, per tanti giorni, paziente e trepida di speranza, si avvia alle carceri di Oneglia con il pacchetto contenente il cibo per il figlio prigioniero. Patetica madre, tuo figlio è stato assassinato da alcuni giorni. Anche tua è la Resistenza.
Mi disse un giorno Vera Belgrano (Pia): «Nel capitolo dedicato alle donne della Resistenza Imperiese non dimenticarti di Liliana e di Maria, che avevano sposato i fratelli Quaglia, noti pollivendoli di Oneglia, un triste giorno i due giovani con il camioncino per il trasporto del pollame passarono su una mina posta dai partigiani sulla via Aurelia per far saltare automezzi nemici in transito. Sfortunatamente il camioncino saltò in aria ed i due fratelli morirono. Erano due bravi giovani antifascisti e le loro mogli collaboravano con noi del GDD. Un mattino, dopo il triste fatto mi recai in casa di una delle vedove e la trovai nell'atto di pregare davanti alla fotografia del marito vicino al lumino. Assistere a tanto dolore, dignitoso e composto mi si restrinse il cuore di commozione...». Eppure, comprendendo la fatalità, dell'accaduto, le due donne continuarono la lotta contro il fascismo portando documenti della Resistenza, anche a rischio della loro vita (7).
La stessa Vera Belgrano passa momenti drammatici. Nel corso di un rastrellamento i Tedeschi perquisiscono la sua casa a Costa di Oneglia: buttano tutto sotto sopra, ma fortunatamente non trovano la macchina da scrivere ed i documenti del FdG e dei GDD.
«Forse - dice Vera - i Tedeschi erano troppo impegnati a cercare denaro ed oggetti preziosi, che trovarono ed asportarono; ma ho benedetto quel furto che mi ha salvato la vita!».
Giovanna e Nina sono le sorelle di Giacomo Amoretti (Menicco). Che dire di loro? Sono della famiglia Amoretti e non mi sembra il caso di enumerarne i continui pericoli sopportati con quella cartoleria all'inizio di via Ospedale, diventata centro smistamento di documenti e di materiale per i primi gruppi partigiani.
Tra i miei ricordi, Velia Amadeo, mia cugina. Ero piccolo e, malgrado il gran numero di anni passati, mi rivedo alla finestra dell'abitazione di mia nonna, al primo piano di piazza San Francesco, dove è situata l'attuale Camera del Lavoro. Assisto agli ultimi sprazzi di quel carnevale del 1930. È la sera del 3 marzo e vedo le scene di allegria popolare di quell'epoca. Rivedo sulla piazza i miei zii Alessandro (Pepen) e Raffelina, spontanei ed allegri come era possibile allora. Ma qualche centinaio di metri distante, dal porto di Oneglia scivola silenziosa sull'acqua una barca di pescatori sulla quale c'è la loro figlia Velia con tre antifascisti. Vogliono espatriare, fuggire lontano dalla nostra terra oppressa, per continuare all'estero la loro battaglia. Il mattino seguente, la notizia della fuga tramuta quella gioia spontanea in cupa disperazione. Velia non ritornerà più nella sua casa, ingoiata con i compagni dai gorghi del mare.
Ed Anna, madre di Wladimiro, è la sorella di Giacomo Seccatore, sempre perseguitato dal fascismo. Anche lui morirà presto, vittima delle sue idee e della lotta per la libertà. Anna Seccatore abita sullo stesso pianerottolo della mia famiglia. Le porte dei due appartamenti sono affiancate, in quel corridoio di piazza San Francesco, nel portone adiacente a quello già ricordato di mia nonna. Wladimiro ed io siamo piccoli ed amici; dalle parole carpite dai miei genitori sento che la madre di lui vive anni di tormento per il fratello imprigionato, confinato e perseguitato.
[NOTE] 
(1) Cfr. F. Biga. Diano e Cervo nella Resistenza, op. cit., pag. 100. 
(2) Ibidem, pag. 186.
(3) Ibidem, pag. 236.
(4) Ibidem, pag. 195.
(5) Ibidem, pag. 114.
(6) Ibidem, pag. 200.
(7) Testimonianza orale di Vera Belgrano (Pia).

Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 1992, pp. 582-585

19 Ottobre [1944]. 
Qualche giorno fa un gruppo di patrioti uccisero un milite che si trovava a giocare alle bocce al "Borgo". Per questo fatto, presero la signorina B., sorella di un "fuorilegge" appartenente a una distinta famiglia di commercianti della città e, tradottala non si sa dove, i militi della G.N.R. gliene fecero passare d'ogni qualità. Una ragazza giovanissima tra le mani di quella gente chissà che cosa deve aver provato: sofferenze atroci, tanto che ora si trova in uno stato pietosissimo in una clinica sotto la cura di diversi professori, i quali fecero una denuncia al Comando della G.N.R. dimostrando come stanno le cose. I colpevoli, tre o quattro, sono stati arrestati e ora si attende il processo che dovrà esserci in questa settimana.
[n.d.r.: dal diario di una ragazza rimasta ignota, figlia di albergatori di Sanremo]
Renato Tavanti, Sanremo. "Nido di vipere". Piccola cronaca di guerra. Volume terzo, Atene Edizioni, 2006, p. 20

28 febbraio 1945 - Dai Gruppi Difesa della Donna della provincia di Imperia al Comitato regionale del Fronte della Gioventù e dei Gruppi Difesa della Donna - Relazione sull'attività del mese di febbraio, da cui si evince che i gruppi erano organizzati e retti da un triumvirato femminile, composto da un'operaia e da due intellettuali; che la citata operaia si stava adoperando per creare nuovi comitati; che le donne intellettuali curavano la stampa e la propaganda tra le giovani nella scuola e nelle fabbriche; che erano stati riallacciati i contatti con le vallate e con l'organizzazione del Fronte della Gioventù; che il servizio di spionaggio era già in funzione e che alcune impiegate delle Poste avevano già fornito notizie utili a salvare la vita a diversi partigiani.
Documento IsrecIm  in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)- Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

giovedì 3 luglio 2025

I partigiani sostarono temporaneamente nella tana dei disertori, celata da una piccola cascata

Pietrabruna (IM)

Il gruppo [n.d.r.: appartenente alla IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione Garibaldi "Felice Cascione"], in buona parte ricomposto, procedeva in fila indiana, il terreno ora arido e selvaggio saliva rapidamente e, malgrado l'attenzione posta, dei sassi si staccavano dal suolo rotolando verso il basso con pericolo continuo per coloro che seguivano; ciò nonostante, all'apparire d'un melo selvatico non esitai a chinarmi per raccoglierne i frutti caduti che infilai nella camicia, bene o male qualcosa sarebbe entrato nello stomaco; il canalone ora, per le aumentate difficoltà del terreno, si restringeva in una fenditura che a prima vista sembrava precludere la possibilità di proseguire o nascondersi, ma l'apparire improvviso d'una piccola cascata venne accolto con gioia da buona parte del gruppo; con stupore, vidi i primi continuare il cammino e penetrare sotto la volta scrosciante, scomparendo; l'acqua, che diventava ruscello su lucide rocce, non conservava alcuna traccia. Il nascondiglio era chiamato «la tana dei disertori» ed era servito nel tempo a fuggiaschi di varie epoche; all'interno lo spazio era sufficientemente ampio, e con sorpresa vi trovammmo un gruppetto di contadini, prontamente rifugiatisi al rumore del combattimento appena conclusosi; un paio di lanternini ad olio, in un gioco di luci ed ombre illuminava parzialmente il fondo della caverna, mentre nella parte antistante la luce filtrava a sufficienza attraverso la parete d'acqua. I due gruppi  immediatamente si fusero, agricoltori e partigiani, in uno scambio di saluti e informazioni, volti lucidi di sudore e sguardi lesi in un parlottio sommesso, sovrastato a tratti dalle ultime raffiche dei Majerling tedeschi che sparavano nel folto della vegetazione, ultimo sfogo di uno scontro subito.
E finalmente il silenzio, prima dubbioso, nel timore di un probabile ulteriore pericolo, poi sereno, tutti i rumori imprecisi e confusi del bosco ritornarono vivi, chiaro il canto degli uccelli risuonò allegro tutto d'intorno ricreando un'atmosfera di tranquilla sicurezza, e nella poca luce di quella strana dimora i contadini estrassero delle vecchie gavette, dividendone la pastasciutta in esse contenuta con gli affamati giovani del nostro distaccamento. Poco dopo mi permisi di ricambiare la gentilezza con l'offerta di qualche mela, non certo di prima scelta; un saluto e forti strette di mano conclusero la gradita sosta. In colonna frazionata, attenti e silenziosi ci si incamminò verso Pietrabruna, capoluogo della valle omonima, non ancora frequentato dalle nostre formazioni per la facile accessibilità allo stesso da parte dei reparti motorizzati tedeschi e fascisti che in un'ora all'incirca vi giungevano dal mare; in avanscoperta erano stati inviati due garibaldini, buoni conoscitori della zona, e quando quasi vicino ci apparve il campanile del paese circondato da bruni tetti immersi nel verde degli ulivi, trovammo ad attenderci uno dei due, tranquillamente seduto sul ciglio del sentiero. «Il paese e la valle sono calmi» disse, «i nostri informatori e i contadini rientrati dai prati assicurano che i tedeschi proseguono verso il nord, per collegarsi ad altri reparti provenienti da direttrici diverse (l'attacco tedesco si concluse con la battaglia di Montegrande del 5 settembre 1944); questa valle è saltata, vi si può rimanere con tutta tranquillità». E per la prima volta, una cinquantina di uomini invasero le strette viuzze del paese, pittoresco insieme di giovani e meno giovani, volti imberbi e volti barbuti dal grigio colore del tempo, con moderne armi e vecchi fucili, ma tutti con un eguale sorriso; sosta obbligata, Petran, la vecchia e unica trattoria del luogo, posta in prossimità della piazzetta delle corriere. Ci si dispose all'interno e all'esterno, nelle viuzze adiacenti e nel lavatoio, attorniati da paesani gentili e curiosi di sapere, e nell'attesa della mangiata ordinata da Danko [Giovanni Gatti] si parlò e si raccontò, ridendo come ragazzi alla loro prima festa; due ragazzine, con le lunghe trecce e gli occhi della primavera, mi si avvicinarono per avere conferma se proprio io avevo sparato col Majerling, al loro ingenuo ma femminile sorriso sentii di essere quasi un uomo.
Un'allegra confusione regnava nel locale più grande della trattoria, che a malapena ci accolse tutti; di fronte a ciascuno, un fumante piatto colmo di carne e un colorito bicchiere di vino; un'animazione fuori dell'ordinario, si continuava a parlare ancora del combattimento, era un meccanismo che seguitava a ruotare e ripetersi, per la maggior parte di noi era stata la prima volta ed era pienamente comprensivo lo stato di euforia collettivo. La tensione però tendeva ad allentarsi col passar delle ore, il vino ed il pranzo ingerito, inoltre, cominciarono a produrre i loro effetti e una strana, benefica stanchezza mi prese, ma durò per poco: dal di fuori un grido «i tedeschi» e fu come se possenti molle ci scagliassero all'esterno; pochi attimi e si era tutti all'aperto con le armi in pugno, ma non avevo dimenticato di portare un morbido cosciotto di arrosto, pregiata preda che tenevo saldamente stretta nella mano libera. Confusione e incertezza generale, fortunatamente l'allarme si rivelò fasullo, alcuni di noi intendevano ritornare a tavola, ma la maggioranza, di contrario avviso, preferì allontanarsi, incamminandosi verso la nuova base prima che le ombre della sera rendessero più difficile il rientro. E sulla strada del passo della Follia, in colonna si affrontò la ripida salita, mentre dalle ultime case di Pietrabruna i paesani ancora numerosi salutavano a larghi gesti. La lunga giornata volgeva al termine, il sole quasi furtivameme scivolava oltre l'orizzonte, per la stanchezza, il peso dell'arma sulle spalle sembrava raddoppiato, e quando ancora una volta mi trovai a guardare verso Santa Brigida, mi ritornò alla mente N. la ragazza dell'appuntamento, i fatti del giorno l'avevano cancellata, la poesia di un tramonto la fecero riapparire, ma solo nel ricordo; N. non la incontrai più.
Il primo rastrellamento da noi subito s'era concluso, l'originale trappola architettata dai nazisti e realizzata con un grosso spiegamento di forze aveva raggiunto solo parzialmente lo scopo, arrecando ad alcuni reparti soltanto delle perdite contenute, ma altri contingenti, fra i quali il nostro, forse più fortunati, ne erano usciti completamente indenni riuscendo inoltre ad impegnare l'avversario ed arrecargli sensibili perdite. Il nostro infatti, seppure di recente formazione e costituito in parte con elementi di scarsa preparazione militare, aveva superato brillantemente l'esame, determinando all'interno dello stesso una maggior stima reciproca, che rinsaldò ulteriormente la coesione del gruppo.
Renato Faggian (Gaston), I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza Imperiese. Diario partigiano 1944-45, Ed. Cav. A. Dominici, Imperia, 1984,  pp. 53-55

venerdì 20 giugno 2025

Il gruppo continuò a stampare proclami per la popolazione, incitandola a combattere fascisti e Tedeschi

Ventimiglia (IM): Via Cavour

Nell'intento di chiarire un punto che appare all'inizio della trascrizione che qui segue, ci si permette di affermare in premessa che ben difficilmente il tipografo Riccardo Parodi stampasse in funzione antifascista pezzi di propaganda e documenti falsi a Ventimiglia "all'insaputa del proprietario", il patriota Pietro Giacometti, il quale, anzi, con tutta probabilità, fu da subito il vero responsabile di tali azioni. Confermano tale aspetto - da quella ditta ubicata in Via Cavour a Ventimiglia "usciva ed uscì tutta la stampa clandestina antifascista del Ponente ligure" - i ricordi della figlia di Giacometti, Emilia, in cui vi è la traccia di tutta la faticosa ed intensa attività resistenziale del padre, ricordi pubblicati di recente nel libro di Daniela Cassini, Gabriella Badano e Sarah Clarke Loiacono, Protagoniste. Storie di donne e Resistenza nel Ponente ligure (Isrecim - Regione Liguria - Fusta Editore, 2025). E rafforza il ruolo di Giacometti un memoriale di Giuseppe Porcheddu, che lo colloca tra i collaboratori dei primi organizzatori della Resistenza nella zona di Baiardo e non solo. Va sottolineato, invero, che sia il diario di Emilia Giacometti che gli appunti di Porcheddu erano inediti alla data di uscita dell'opera di Francesco Biga, cui qui ci si riferisce. In ogni caso, quella di Pietro Giacometti risulta ancora oggi una figura trascurata dalla storiografia.
Adriano Maini

Uno dei più noti protagonisti della stampa della Resistenza Imperiese fu il tipografo Riccardo Parodi. Prima dell'8 settembre 1943 lavorava nella tipografia «Giacometti» di Ventimiglia ed era in contatto coi compagni Castagneto e Ricci. All'insaputa del proprietario il Parodi stampava volantini e manifesti, talvolta anche a mano, e carte d'identità false per gli antifascisti ricercati.
Quando l'8.9.1943 fu proclamato l'armistizio, stampò pure, a mano, il famoso manifesto intitolato «Fuori i Tedeschi dall'Italia», ma, rimastevi sopra le sue impronte digitali, le copie già affisse furono fatte strappare nella notte da squadre di attivisti.
Ritirava i volantini stampati nella tipografia di Ventimiglia la moglie del geometra Ricci che ne curava la distribuzione in collaborazione col compagno Boccadoro. Quest'ultimo, che venne arrestato, morì tubercolotico a Parigi per le sofferenze patite.
A fine settembre 1943 le prime copie dell'organo del P.C.I. «L'Unità», edizione imperiese, uscivano dattiloscritte, compilate clandestinamente in una stanza di salita San Leonardo, curate dal segretario G. Castagneto.
Giunti ad Imperia il 12-13 settembre 1943, i Tedeschi prendevano possesso della città, ma l'organizzazione del P.C.I. continuò a funzionare. I collegamenti con Genova, Alassio, Albenga, Diano Marina, San Remo e Ventimiglia, venivano ripristinati. Ripresa la distribuzione del materiale di propaganda e l'affissione dei manifesti provenienti dal «Centro» di Genova.
In casa del rag. G. Castagneto, in via del Monastero, si continuò a produrre del materiale di propaganda; il Castagneto dattilografava i manifestini, Riccardo Parodi e Giovanni Ericario, sistemati i caratteri su tamponi a mano, li stampavano.
Nel dicembre 1943 veniva ristrutturata la tipografia clandestina, sempre a Porto Maurizio, a pochi passi e nella stessa via dove aveva sede la squadra politica fascista.
Un artigiano falegname aveva preparato due cassette in legno che rappresentavano due rudimentali ciclostili. La seta necessaria per i rulli era stata recuperata nel pastificio Agnesi.
Uno dei ciclostili, completo di tutto, fu inviato a San Remo; con l'altro, il gruppo continuò a stampare proclami per la popolazione, incitandola a combattere fascisti e Tedeschi.
Si stampavano pure giornaletti formati da due o tre pagine, che riportavano articoli di fondo compilati da Giacomo Amoretti (Menicco), notizie dai fronti, appelli, ecc.
Gli addetti lavoravano di notte perché col ciclostile non si faceva rumore; i clichés, invece, erano preparati di giorno con la macchina da scrivere.
Sempre nella notte, appositi sacchetti pieni di volantini, portati in un luogo prestabilito lontano dalla tipografia, venivano ritirati dalle staffette Paolo Ligi (Litto), Pietro Benvenuti (Petrin Scintilla), Adolfo Stenca (Rino) ed altri, che li portavano a destinazione.
Il materiale, comprendente la macchina da scrivere, il ciclostile, riserve di carta ecd inchiostri, quando non si adoperava era tenuto accuratamente nascosto in una vecchia cisterna di un caseggiato, col fondo coperto da un buon metro e mezzo di acqua. La cisterna aveva una sola botola con un'apertura di cm. 40x40, che serviva per attingere l'acqua piovana con un secchio.
Chiunque si fosse affacciato avrebbe scorto soltanto il liquido poiché il materiale tipografico era posato su un ponte di legno costruito di lato, del tutto invisibile a causa dell'oscurità. Si scendeva al ponte in legno tramite una scala a chiodi infissi nella parete della cisterna.
Al dicembre del 1943 risale il servizio stampa clandestina quando, per ordine del C.L.N. imperiese, si ebbero i primi contatti con i partigiani di Albenga («il Barbiere», «u Ghighillu», «Enrico», ecc.) con i quali si stampavano volantini a ciclostile.
Importanti manifesti furono stampati a Porto Maurizio in occasione degli scioperi antifascisti proclamati il 18.2.1944 e l'1.3.1944, non solo per Imperia, ma anche per Alassio e per Albenga.
Di notte le staffette Pietro Benvenuti (Petrin Scintilla) e Vittorio Ardissone (Victoir) di Diano Borganzo, portavano nel Dianese i volantini stampati ad Imperia.
Nei primi giorni del 1944 era stato trasportalo da San Remo a Taggia un ciclostile, inviato da Farina e Ferraroni, col quale si iniziò a stampare un foglio intitolato: «Il Comunista Ligure», che riportava notizie di cronaca tratte dai notiziari di radio Londra e di radio Mosca, articoli di propaganda e sulla resistenza armata.
Il ciclostile era stato sistemato in una botola sotto la bottega del barbiere Mario Cichero, all'angolo delle vie «Vittorio Emanuele» (oggi «Candido Queirolo») e «San Giuseppe». Con Bruno Luppi collaboravano alla stampa i cospiratori Mario Cichero, Mario Siri, Candido Queirolo, Mario Guerzoni ed altri.
Nel maggio 1944 il tipografo Riccardo Parodi (Ramingo), che lavorava ancora a Ventimiglia, sospettato, riuscì a sottrarsi alla cattura perché era stato segnalato col nome di Frontero, quando il vero Frontero Tommaso, con Renacci e tutti gli altri, il 23 era già stato arrestato. Come vedremo, trasferitosi ad Oneglia, il Parodi salirà in montagna alla fine di giugno.
Nella primavera altri volantini venivano dattiloscritti in casa del compagno Giovanni Ericario in via Domenico Acquarone, a Porto Maurizio.
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, IsrecIm, Milanostampa Editore - Farigliano, 1977, pp. 248-250

lunedì 9 giugno 2025

Curto si qualificò come comunista, responsabile delle formazioni partigiane che agivano nella zona

Rezzo (IM). Fonte: mapio.net

In quel periodo ero venuto a conoscenza di uno scontro di ribelli imperiesi a Montegrazie; a Rezzo erano stati disarmati i Carabinieri. Ma non riuscii a sapere niente di più delle forze partigiane che erano state protagoniste dei due episodi. Perciò a febbraio [1944] decisi di recarmi in Provincia di Cuneo con l'obiettivo di arruolarmi nelle formazioni G.L. Messomi in cammino al mattino presto, mi trovavo già nei pressi di San Bernardo di Conio, sul versante di Rezzo e scendevo di buon passo, quando incontrai un uomo che salutai col buongiorno, senza fermarmi: era Curto [n.d.r.: Nino Siccardi, futuro comandante della I^ Zona Operativa Liguria], che io ancora non conoscevo. Lui, con una voce pacata e lenta, disse qualcosa sul mio passo spedito, io gli risposi che ero nativo di Cipressa e che dove andavo a lui certo non doveva interessare. Sempre parlando in dialetto, mi rispose: «Io sono di Artallo, ma mi farebbe piacere sapere dove vai». 
Ero armato di una pistola Beretta calibro 9 corto e di due bombe a mano Breda; non avevo ancora 23 anni e avevo detto il nome del mio Paese quasi come un atto di sfida; ma adesso, se volevo rispondere sinceramente, lui sapeva dove trovare la mia famiglia: chissà chi era e come la pensava; perciò decisi di andarci cauto e gli dissi: «Vedete, brav'uomo, se non vi avessi risposto sinceramente sul paese dove sono nato, potrei dirvi anche dove vado, ma a casa ho lasciato mia madre e mio fratello più giovane di me; mio padre è morto il mese scorso e non voglio che abbiano altri guai». Nel dir questo avevo messo la mia mano nella tasca del giubbotto e tolto la sicura della Beretta. Lui aveva certamente notato il mio gesto, ma non disse niente, e iniziò a parlare dicendo che, dato che io ero più giovane, sarebbe stato giusto che mi spiegassi per primo, ma che capiva la mia situazione e che si sarebbe fidato di me. Tolsi la mano dalla tasca del giubbotto.
Si qualificò come comunista, responsabile delle formazioni partigiane che agivano nella zona. Io gli raccontai le mie brevi esperienze di ribelle e la mia intenzione di raggiungere le formazioni G.L. nel cuneese. Si informò sulla mia vita militare, sulle mie esperienze sui vari fronti e mi disse, con la più grande naturalezza: «Invece di andare nelle formazioni G.L. sarebbe meglio che tu ti presentassi alla «milizia fascista» per arruolarti; con le tue campagne di guerra ti accoglierebbero a braccia aperte». Era intenzione di Curto sfruttare la mia esperienza inviandomi come infiltrato per poter organizzare un colpo di mano per rifornirci di armi e munizioni. «Dopo che ti sarai ambientato, ti faremo avvicinare da un nostro uomo col quale studierete il modo migliore per fare un colpo di mano nella caserma, per impadronirvi delle armi. Abbiamo bisogno di armi e munizioni!»
«Non posso farlo» gli dissi «prima di tutto perché esporrei mia madre e mio fratello alle rappresaglie dei fascisti e poi anche perché non mi sento di indossare la camicia nera, neanche per fare il doppio gioco». Allora mi disse: «Torna a casa, ti farò sapere se intendiamo affidarti un incarico a Imperia, con una copertura adeguata per il servizio in città. Oppure, se quanto ti verrà proposto non fosse di tuo gradimento, potrai sempre andare nelle G.L. come era nelle tue intenzioni, o in un nostro Distaccamento».
Gli dissi che mi sarei fermato a Carpasio, presso un conoscente (Paolo Gallo detto Paulò), e lì avrei aspettalosue notizie. Ritornammo a San Bernardo di Conio insieme; l'uomo mi piaceva e mi pareva convincente anche la sua fede comunista; il comunismo avrebbe risolto tutti i problemi del mondo, ne era certo, di una certezza matematica che mi affascinava. Ci separammo: lui scese verso Conio, io salii verso Colle d'Oggia a Carpasio.
Lo incontrai ancora alcuni giorni dopo; la proposta era accettabile, mi sarei dovuto presentare al Comando dei Vigili del Fuoco, dove avevano bisogno di autisti, e sarei stato arruolato immediatamente. Il mio nome era già stato segnalato: in seguito sarei stato avvicinato da un rappresentante del P.C.I. Mi diede le istruzioni per il riconoscimento. Accettai: unica mia condizione fu di avere un solo contatto. Certo: mi disse che era giusto e prudente comportarsi così.
Mi presentai al Comando dei Vigili del Fuoco e fui arruolato immediatamente. Per alcuni mesi feci tutto quanto mi venne ordinato. Avevo una fifa da matti; chiesi ripetutamente di lasciare l'incarico per tornare in montagna, ma per un motivo o per l'altro la autorizzazione non arrivava mai. Allora un giorno, piantai tutto e mi presentai a Makallé, un Comandante di Distaccamento, nativo di Costa di Carpasio.
Il Distaccamento era di base in alta Val Prino. Poco tempo dopo venni eletto capo squadra. Il nostro raggio d'azione era la Via Aurelia: dal Prino ad Arma di Taggia-Taggia (il mio nome di battaglia era Negro). Ci spostavamo sulla via Aurelia dopo una marcia di tre e anche di quattro ore: il che naturalmente voleva dire altrettanto tempo per il ritorno. Avevamo un mitragliatore Saint'Etienne: lo adoperava in maniera perfetta Giacò, col quale avevo fatto le prime esperienze da ribelle nel gruppo di giovani e meno giovani del mio paese.
I pochi mesi di tensione continua che avevo passato nei Vigili del Fuoco, col pensiero fisso alle torture che mi avrebbero inflitto i fascisti se mi avessero catturato per farmi parlare, avevano creato in me uno stato di bisogno d'agire che si calmava soltanto durante l'azione. 
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo) *, Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 74-76

* [n.d.r.: Garibaldi fu il comandante della Brigata "Val Tanaro", la quale nell'ultimo mese di guerra divenne la IV^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Domenico Arnera", sempre della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"]

martedì 20 maggio 2025

I rastrellatori tedeschi uccisero il Segretario Comunale di Borghetto d'Arroscia

Borghetto d'Arroscia (IM). Fonte: mapio.net

Non si era ancora spenta l'eco del colpo all'ospedale che una grave notizia metteva in agitazione l'intera provincia.
Si trattava di questo.
La questura di Imperia, forse in cerca d'una altrettanto clamorosa rivincita, minacciava la fucilazione di 17 prigionieri politici qualora non fossero stati rilasciati entro il 14 aprile 1945, un commissario e un agente di Pubblica Sicurezza da lei dipendenti, catturati dai partigiani a Diano Arentino qualche settimana prima. Tale divisamento era espresso in una lettera della Questura al Comando S.S. germanico di S. Remo in data 7 aprile.
Della grave questione la questura interessò Mons. Luigi Boccadoro, arciprete della Basilica di S. Siro in Sanremo, ma, forse con malizia, lo si fece soltanto il giorno undici, quando cioè mancavano appena 4 giorni alla scadenza dell'ultimatum.
Tuttavia il fatto non scoraggiò il degno sacerdote il quale si sentì anzi stimolato ad accelerare la sua efficace e delicata opera di mediazione consistente nel risalire, grado a grado, dal partigiano "Robinson" comandante del Distaccamento SAP "Zamboni" al CLN Circondariale e a quello Provinciale sino al Comando Zona, riuscendo in tal modo, a salvare la vita dei 17 ostaggi, ma non a impedire che, proprio nello stesso giorno in cui era stato investito della difficile missione, i nazifascisti, quale primo provvedimento, incendiassero e distruggessero undici case di Diano Arentino, il paese dov'era avvenuta la cattura dei due questurini.
In montagna e comunque da parte delle formazioni che vi stanziavano, l'attività era ancora più intensa che sulla costa.
Alcuni episodi, scelti fra i numerosi riferiti nei rapporti giornalieri degli stessi comandanti dei reparti che ne furono testimoni o protagonisti, ne offrono la più credibile e drammatica delle conferme.
11 aprile
Nella Valle del Cervo 200 rastrellatori tedeschi si scontrano con il Distaccamento "Garbagnati" della Brigata "Belgrano", il quale riesce a bloccare il nemico sparando dalle trincee in precedenza approntate da militari germanici. A conclusione dello scontro a fuoco durato l'intera mattinata, i partigiani possono sganciarsi indenni mentre nelle file nemiche si contano 6 morti e numerosi feriti.
12 aprile
(Div. Cascione - brg. Nuvoloni)
Il SIM della Brigata segnala che partigiani garibaldini hanno catturato nei pressi di Goina una decina di nazifascisti; il 4° Distaccamento del Batt. "D. Rossi" attacca sul Monte Trono una pattuglia di 25 tedeschi; un ferito grave fra i partigiani, 3 morti e un ferito fra i nemici.
13 aprile
A Borgo di Ranzo e a Borghetto d'Arroscia, rastrellatori tedeschi catturano il Segretario Comunale di Borghetto e, dopo averlo crivellato di fucilate, ne precipitano il corpo nel fiume sottostante da uno strapiombo di 20 metri.
14 aprile
(Div. Bonfante - Brigata "Belgrano")
A Pogli una squadra del Distaccamento Piacentini attacca il presidio avversario. Altra squadra del Distaccamento "Agnese" sorprende una colonna nemica uccidendo 3 cavalli.
Div. Cascione - brg. Nuvoloni)
A S. Faustina una pattuglia del 4° Distaccamento (Battaglione "Rossi") affronta una squadra nazifascista. In località Rocche di Drego a seguito di una azione effettuata dal Comandante della Brigata saltano 35 metri di strada.
[...]
Augusto Miroglio, La Liberazione in Liguria, Forni - Bologna, 1970

Il 15 aprile alcuni garibaldini del Distaccamento "Castellari" attaccarono una colonna tedesca che si trasferiva da Garlenda (SV) ad Albenga (SV).
Una squadra del IV° Distaccamento della V^ Brigata della II^ Divisione "Felice Cascione" si scontrava con alcuni tedeschi che scortavano un carro, uccidendone due.
Nella stessa serata gli stessi garibaldini attaccavano una motocicletta, che trasportava due ufficiali ed una donna, i quali nell'attentato trovavano la morte.
Sempre il 15 aprile una staffetta avvisava il I° Distaccamento del Battaglione "Carlo Montagna" della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione "Felice Cascione" che "a Pietrabruna si trovavano 17 bersaglieri i quali erano venuti allo scopo di asportare bestie da soma. Il comandante 'Italo' chiedeva rinforzo al II° Distaccamento, andando a prendere immediata posizione con 12 uomini sotto Pietrabruna" sulla carrozzabile Pietrabruna-Torre Paponi.
Dopo un paio d'ore, i bersaglieri, che appartenevano alla VI^ compagnia di stanza tra Riva Ligure e San Lorenzo al Mare, mentre ritornavano con un bottino di 16 muli, venivano attaccati, subendo l'uccisione di 10 soldati, la cattura di altri 2 e la perdita di materiale bellico, consistente in 1 mitragliatore Breda, 1 mitragliatore Saint Etienne, 1 mitra Beretta, 5 moschetti con relative munizioni, 3 pistole e 5 bombe a mano.
I bersaglieri, che riuscirono a fuggire, diedero l'allarme: "da Imperia partiva prontamente, per portare rinforzo, un automezzo con a bordo una quarantina di Brigate Nere ed un cannoncino da 75 mm. Anche questi venivano attaccati in due riprese e subirono la perdita di 6 uomini".
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999