giovedì 9 ottobre 2025

Partigiani cattolici in provincia di Imperia

Cosio d'Arroscia (IM)

Ai margini delle Brigate componenti le Divisioni Garibaldi "Felice Cascione", "Silvio Bonfante" e "G.M. Serrati" si vennero organizzando anche altre piccole formazioni partigiane che, pur seguendo analoghe tattiche militari, tendevano a difendere non solo la loro diversa identità politica e ideale, ma anche una propria autonomia operativa, finendo talvolta per sottovalutare il problema del coordinamento, fattore cruciale nelle operazioni belliche. Ciò in taluni casi fu motivo di gravi contrasti con il grosso delle forze partigiane del Ponente, di matrice garibaldina e quindi di prevalente ispirazione politica comunista. Ad ogni modo anche tali formazioni minori diedero un loro non trascurabile contributo alla Resistenza ponentina.
In questo capitolo presentiamo una sintesi delle loro fisionomie e delle loro iniziative, appoggiandoci al materiale documentario conservato negli archivi dell'Isrecim.
Secondo quanto riferito da Carlo Carli <188 nel suo scritto dal titolo "L'azione Cattolica imperiese e la banda "La Fenice" nei suoi rapporti con la "Val Tanaro" <189, due bande partigiane, "Libertas" e "La Fenice" sarebbero nate a Imperia alle soglie dell'estate 1944 per sua personale iniziativa e grazie all'apporto finanziario di alcuni simpatizzanti. Dell'attività militare e delle vicende interne della prima formazione poco è dato sapere, scarseggiando sia le testimonianze che l'evidenza documentaria, salvo nel caso dell'attacco a un reparto tedesco in località Fontana di Bachin presso Villatalla nel settembre 1944, con la conseguente liberazione di un gruppo di ostaggi in mano nemica. <190
Più copiose sono invece le testimonianze riguardanti le alterne e travagliate vicende della "Fenice", la più significativa espressione del partigianato autonomo cattolico dell'Imperiese. 
Capo della banda "La Fenice" era Tonino Siccardi, che aveva preso con sé il grosso dei giovani di Azione Cattolica cresciuti e operanti a Imperia negli anni 1938-1940, sotto la guida di Don Santi, animatore del "Circolo di San Maurizio". Giovani che ci tenevano a chiamarsi "Forti e Puri", in contrapposizione ideale alla gioventù fascista del "Libro e Moschetto". Su 300 di questi giovani, almeno 200 presero al momento delle decisioni cruciali la via della montagna, favoriti da tale intima maturazione democratica e antifascista.
Non solo i fascisti, per la verità, avevano in uggia questi giovani refrattari alle esercitazioni del "sabato militare", ma anche i partigiani comunisti del comandante Nino Siccardi (Curto), i quali solevano chiamarli, con beffardo sarcasmo, "la banda del rosario". Non sorprende quindi che, sin dagli inizi, il nucleo dirigente della compagnia mirasse a stabilire rapporti preferenziali di collaborazione e dipendenza con le formazioni autonome d'ispirazione monarchico-moderata della IV Divisione Alpina di Enrico Martini (Mauri), se è vero che, come ricorda il citato Carlo Carli, egli stesso già a fine luglio si recò a Upega, dove stava la Brigata "Val Tanaro" di quella Divisione, per prendere contatto con il comandante, capitano Hanau (Martinengo), e porre sotto il suo Comando le due bande da poco fondate.
D'altro canto, queste formazioni, trovandosi nel frattempo a stazionare prevalentemente sulle alte dorsali tra Val Prino, Valle Impero e Val Tanaro, non potevano che stabilire rapporti di buon vicinato e collaborazione con le brigate garibaldine a scanso di gravi rischi per la sicurezza degli uomini e l'efficienza dei dispositivi militari di entrambe le parti. Di fatto, avvenne che le due bande di ispirazione cattolica, e soprattutto la "Libertas", operassero spesso e volentieri sotto il comando del Curto, godendo peraltro di una certa autonomia d'iniziativa, tranne che per le azioni di guerriglia, che comportavano il preventivo benestare del comandante.
Ma lasciamo di nuovo la parola a Carli: "Intanto la posizione di queste due bande non garibaldine, in mezzo a tante di queste, era sempre più precaria. Io non riuscivo nell'intento di metterle sotto il Comando della IV Divisione Alpina perché era indispensabile che i componenti di dette bande si trasferissero in Piemonte, ma gli uomini che le componevano in gran parte non ne volevano sapere. Con alcuni che erano disposti al trasferimento, una radio trasmittente e un mulo preso all'Organizzazione Todt, partii per la zona della Val Tanaro, decisi a fermarcisi, perché le due bande erano passate sotto il Comando garibaldino (in seguito verranno disarmate dalle bande delle stesse formazioni garibaldine perché non di eguali idee politiche). Da Upega, dove raggiunsi la Brigata "Val Tanaro", passai a Carnino dove a metà agosto 1944 assunsi il comando di una squadra della Brigata stessa, la così detta squadra di Cosio... Il 20 novembre mi raggiunse (a Viozene) la Brigata. Il 24 novembre con due amici mi recai in Liguria quale delegato dell'EINL, per formarvi il CLN, come dal documento sopraccitato." <191
Tale documento è una lettera rilasciata il 24.11.1944 dal Comando della IV Divisione Alpina, a firma del capitano Martinengo e del rappresentante militare dell'EILN dottor Sismondi, secondo la quale "autorizzati dalle competenti autorità militari a venire incontro alle richieste a suo tempo avanzate dai rappresentanti della Provincia di Imperia, delegano il signor Carlo Carli a concludere in forma definitiva... quali saranno nella veste dei CLN gli esponenti delle masse rappresentate. In forza di tale autorizzazione riconosciuta, verranno appoggiati dalle forze armate dell'EINL (Esercito Italiano Nazionale di Liberazione)". Questo mandato, di ordine decisamente più politico che militare, conferito a Carli dal capitano Eraldo Hanau (Martinengo), autorizza a pensare che lo stesso Hanau ambisse, nelle parole stesse di Carli, "a estendere la sua influenza al di fuori della zona considerata allora di normale attività della Brigata ["Val Tanaro", N.d.C.]", ovvero nelle adiacenti vallate liguri, di convenuta competenza garibaldina.' <192
Nel frattempo, vuoi per la persistente divergenza politica, vuoi perché si sarebbero lasciati sfuggire un fascista loro prigioniero, verso la metà di settembre i partigiani della "Fenice" furono messi di fronte alla scelta obbligata tra il Curto e il Tonino: chi fosse rimasto con il Tonino sarebbe stato disarmato. Di fatto, la banda era sciolta. Così narra Giovanni Strato nel primo volume di questa "Storia della Resistenza Imperiese": "Sciolta la banda, dei componenti di essa qualcuno entrò in altre bande garibaldine, altri si nascosero per conto proprio, alcuni si trasferirono in Francia con un battello ed altri ancora passarono tra i partigiani della Brigata 'Val Tanaro'. Questi ultimi, subito dopo lo scioglimento della banda, si erano rifugiati nel villaggio di Pantasina, poco lontano da Monte Acquarone. Appunto, mentre erano in Pantasina, si misero in contatto con la Brigata "Val Tanaro", nella quale vennero incorporati e, verso i primi di dicembre del 1944, partirono da Pantasina per recarsi in Piemonte. Del gruppo partito per il Piemonte facevano parte, per quanto si ricorda, Vincenzo Giribaldi, Giuseppe Vassallo, Bernardo Asplanato, Pietro Demossi, Domenico Brusso, Paolo Saglietto, nonché cinque militari già della batteria di Caramagna <193 che da alcuni mesi si erano aggregati alle bande partigiane, passando ad esse con tutte le loro armi, ritirate poi dal Comando garibaldino. Fra i militari vi era anche Franco Paganesi (Cisco). Il suddetto gruppo, partito per il Piemonte, a Mendatica doveva incontrarsi con alcuni partigiani fra i quali Athos Giribaldi, Flaminio Spinetti, Alfredo Pungiglione. Avvenuto l'incontro, pernottavano nella zona, alcuni all'aperto presso Montegrosso, in Mendatica, altri ancora - fra cui i militari e Paolo Saglietto - in un fienile nell'abitato di Montegrosso." <194 Qui venivano sorpresi da un improvviso rastrellamento tedesco, effettuato nella zona di Viozene il 6.12.1944.
La notizia del rastrellamento non doveva essere del tutto inattesa, se già verso le ore 20 del giorno precedente era stata fatta una riunione dei capisquadra per prendere delle iniziative onde evitare l'attacco nemico. Ma evidentemente mancò il tempo, per cui i patrioti subirono tragiche conseguenze. Nell'impari confronto rimaneva ucciso Franco Paganesi <195, catturati gli altri quattro militari e Paolo Saglietto, mentre Vassallo, Spinetti, Pungiglione e Giribaldi riuscivano fortunosamente a mettersi in salvo, nonostante le raffiche degli MG42 tedeschi. A Viozene il 6 dicembre 1944 cadeva anche il partigiano Gian Luigi Martini (Gian), originario di Diano Marina.
In seguito i cinque catturati non verranno fucilati perché si riuscirà a far credere che essi fossero prigionieri dei partigiani. Scampati infatti una prima volta alla fucilazione loro minacciata davanti alla chiesa di Montegrosso, venivano tradotti a Pieve di Teco, dove dovettero la salvezza a padre Firmino (ossia Don Albino Simi, fratello del capo partigiano Domenico Simi (Gori), trasferitosi poi a Genova presso la chiesa di Santa Caterina), il quale sostenne che erano stati prelevati dal loro presidio di Caramagna dai partigiani, che dunque di prigionieri si trattava e non certo di comunisti, tant'era vero che nelle loro tasche era stato appunto rinvenuti il lasciapassare di Martinengo con la nota sigla ZC (Zona Cuneo). Furono quindi risparmiati ed inviati presso vari presidi repubblichini, donde poi riusciranno a fuggire, ad eccezione del sottotenente Folchi, ucciso a Savona in uno scontro avvenuto poco prima della Liberazione.
[NOTE]
188 - Carli Carlo, di Giovanni e Panero Eva, nato a Imperia il 20 maggio 1918, studente, sergente allievo ufficiale del 3° Reggimento Alpini. Dopo l'8 settembre 1943 appartenne alla Brigata partigiana "Val Tanaro". Comandante della squadra di Conio dal primo aprile 1944 al 7 giugno 1945. Riconosciuto partigiano combattente con deliberazione del CM n. 35237 del 31 maggio 1947. Industriale. Trovandosi in convalescenza ad Ormea l'8 settembre 1943, ritornò quel giorno stesso con l'amico Ricci Raimondo ad Imperia, provvedendo a privare delle armi la capitaneria di Porto Maurizio, parte gettandole in mare, trasferendole a Cosio con camioncino sottratto allo stesso Comando. Il 27 settembre organizzò un primo raduno in montagna, dove restarono una trentina di giovani. Fu nel giugno 1944 che iniziò una vera e propria attività partigiana con la stampa a mezzo ciclostile di tre numeri di un giornale clandestino, ampiamente distribuito ad Imperia. Nel giugno e luglio 1944 provvide alla costituzione delle bande partigiane "Libertas" e "La Fenice", delle quali stiamo appunto dicendo. In settembre 1944, attraverso Viozene raggiunse Valle Inferno di Garessio, dove sostenne un attacco dei tedeschi in rastrellamento. Si trasferì a Nascio, sopra Garessio, per meglio osservare e sostenere l'attacco che si ebbe l'indomani con piena fortuna. Col trasferimento della Brigata in Val Casotto (15 settembre) si fissò con la sua squadra alla Correria, compiendo qualche azione sulla strada statale n. 28 e sulla strada Mondovì San Michele fino a quando si trasferì attraverso Valle Inferno a Viozene, dove il 20 novembre giunse anche la Brigata. Dopo lo sbandamento ed il periodo ligure, trascorso l'inverno tra Mendatica e Cosio, raggiunse la Brigata a Viozene agli ultimi di marzo 1945 e fu inviato a Cosio per ricostituirvi la squadra, scendendo alla Liberazione in Nava e Garessio.
189 - Documento allegato in fotocopia alle schede dei partigiani della Brigata "Val Tanaro" (vedasi: ISRECIM. Archivio, Sezione II, cartelle "combattenti fuori zona").
190 - ISRECIM, Archivio, Sezione I, Cart.112. Attorno a quella data, la banda "Libertas" risulta regolarmente inquadrata tra i garibaldini della Divisione "Cascione", come 3° Distaccamento della IV Brigata "E. Guarrini". Cfr. questa "Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Imperia, ISRECIM et al., 1976-1916. Vol. III di Francesco Biga, La Resistenza nella Provincia di Imperia da settembre a fine 1944, Amministrazione Provinciale di Imperia-ISRECIM, 1977, pag. 76.
191 - Ibidem.
192 - Ibidem.
193 - Oltre a Franco Paganesi (Cisco), ricordato subito sotto, questi militari erano il sottotenente Falchi, poi catturato a Savona e ivi in seguito ucciso, Lupo di Mandello Lario, Pinto e Moretto, entrambi di Novara.
194 - Storia della Resistenza Imperiese, Vol. I di Giovanni Strato, cit., pag. 225 e sgg.
195 - Franco Paganesi (Cisco), nato a Verteva il 14.12.1925, studente universitario, arruolato nell'artiglieria alpina, compì a Genova Sturla il corso allievi ufficiali, militò dalla fine di aprile al giugno 1944 nella IX Brigata "F. Cascione", nella banda di Ermanno Martini (Veloce). Dal luglio successivo all'ottobre fu nella banda "La Fenice" come caposquadra, quindi si trasferì nella Brigata "Val Tanaro", nella quale militava quando fu ucciso. Prese parte alla battaglia di Badalucco dell'11 giugno 1944 e a quella di Villatalla e Tavole nell'agosto successivo. La famiglia risiede a Gazzanica (Bergamo).
Francesco Biga e Ferruccio Iebole (a cura di Vittorio Detassis), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria) - vol. V, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2016, pp. 93-96

mercoledì 17 settembre 2025

Veniva inviato Pagasempre ad un colloquio con i maquisards francesi

L'Escaréne. Fonte: Wikipedia

Scelgo per prima, e non è in ordine cronologico, l'avventura di Pagasempre-Ruffini.
Pagasempre, Arnolfo Ravetti, è nato a Reggio Emilia, diplomato maestro. Prima della seconda guerra mondiale risiedeva a Sanremo con la madre e i fratelli. Chiamato sotto le armi fu mandato in Africa. Nella ritirata percorse la Libia e raggiunse la Tunisia. Fu rimpatriato nel 1943. 
Arruolato nella GAF, fu a Pigna e a Mentone. Torna a Sanremo e quando vuole andare a Mentone per rivedere alcuni amici, viene catturato dai tedeschi. Tenta di fuggire ma viene rinchiuso un mese nelle carceri di Nizza. E' destinato ai lavori di guerra. Mandato  a Calais e poi nella Normandia Francese. Considerato prigioniero è costretto al lavoro coatto. Il trattamento è quasi disumano. Lavorare al freddo ed anche sotto i bombardamenti, con una fame non mai spenta. Doveva lavorare agli scavi e alla costruzione della prima stazione di lancio delle micidiali e infernali bombe radiocomandate V-1. 
Nel febbraio 1944 riusciva a fuggire con altri due italìani. Uno fu catturato sul treno subito dopo la fuga, il secondo riuscì a raggiungere Mentane e qui anche lui fu catturato. I due erano rispettivamente di Salerno e di Lodi. Lui, Paga, raggiunse Parigi e si rifugiò in casa di un certo capo Vincent. Andò quindi a Tolone e trovò lavoro e pane, rimanendo sempre nascosto. 
Nell'aprile del 1944 rientrò in Italia, a Sanremo. Finalmente venne a sapere dell'esistenza dei partigiani sui monti retrostanti Sanremo. Si avviò verso di loro ma non sapeva dove. Sul monte Ceppo, seguendo vaghi indizi di contadini, si diresse verso Carmo Langan. Incontrata una pattuglia tedesca si ritirò verso Baiardo. Rimaneva sempre uccel di bosco e si nutriva come l'istinto dello stomaco suggeriva. Riprese il cammino verso Carmo Langan tenendosi, naturalmente, distante dai sentieri. Arrivato sopra il Santuario di San Giovanni dei Prati, il suo olfatto percepì un odore inconfondibile. Era il lezzo di corpi umani in decomposizione. Erano due soldati tedeschi morti e due carogne di muli. Erano passati sopra una mina. Si avvicinò, si impossessò di una machine-pistole e del sacco di un morto che conteneva ancora zucchero e pane. Dopo essersi rifocillato riprese a camminare e si imbatté in una pattuglia di tedeschi, forse in cerca dei due camerati morti. Impauritosi sparò contro la pattuglia per avere una posizione migliore. Credette di avere ucciso un tedesco ma si curò di più di mettersi al sicuro ed in salvo. Scese, anzi si precipitò nella forra del bosco verso la vallata. Sapeva che ci doveva essere Molini di Triora. Vide poi Cetta e vi si avviò. Incontrati alcuni partigiani, si presentò. Lo temevano come una spia e fu sottoposto ad un lungo interrogatorio. Descrisse il suo viaggio ed il giorno dopo con la scorta di Guido e di Martelau, provò la sua sincerità mostrando sul luogo la verità del suo racconto. Aveva veramente colpito un tedesco della pattuglia. Durante i fatti del 3 luglio 1944, andò con alcuni compagni a Carmo Langan. Qui trovò, fra i rottami di diversa specie, un fucile, un moschetto. Lo pulì per osservarne l'efficienza e scoprì, intagliata sul calcio del moschetto, la parola "Pagasempre". Meravigliato e nello stesso tempo soddisfatto, prese quel nome come termine di riconoscimento.
Divenne, in seguito, capo di Stato Maggiore della V Brigata ["Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione d'Assalto Garibaldi "Felice Cascione"]. 
Noi tutti lo conosciamo bene. La sua azione si protrasse nel tempo. Continuò a dare la sua attività nell'ANPI e nella FVL. Aiutò molti partigiani a sistemarsi nella vita. Di lui abbiamo tutti un ricordo che ci fa pensare ad un buon amico.
don Ermando Micheletto, La V^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni” (Dal Diario di “Domino nero” - Ermando Micheletto), Edizioni Micheletto, Taggia (IM), 1975, pp. 99-100

Nel frattempo «Doria Fragola», con un gruppo di partigiani, attacca ed infligge gravi perdite ai Tedeschi che sorvegliano gli abitanti di Isolabona e Dolceacqua, costretti a lavorare per riattivare il ponte di Bunda [n.d.r.: in effetti, il ponte degli Erici] semidistrutto precedentemente dai partigiani.
Ancora «Doria Fragola» effettua alcuni improvvisi attacchi in Val Roja e, in un'azione improvvisa a Breil, in territorio francese, rompe ponti e danneggia strade utili al transito delle truppe tedesche.
Infine, invia «Pagasempre» ad un colloquio con i maquisards francesi, fissato a l'Escarène, nelle vicinanze di Nizza. I partigiani francesi si fanno attendere per tre giorni. «Pagasempre» si allontana con il suo gruppo, dopo aver fatto saltare il viadotto ferroviario Digne-Nizza, presso l'Escarène. «Tra il 25 settembre ed il primo ottobre - sono parole di Vittorio Curlo (Leo) - si ebbe qualche scaramuccia, ed il 26 settembre un nostro attacco di sorpresa ad Isolabona, col mortaio da 45 mm fatto venire da Langan per l'occasione, scaglia sulla postazione tedesca oltre 25 granate. L'azione è condotta da «Doria Fragola». Questi fatti si rivolsero a nostro favore perché riuscimmo a ricuperare munizioni».
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992  

Pagasempre, che doveva far parte del gruppo di Fragola-Doria [n.d.r.: Armando Izzo, comandante, poco tempo dopo i fatti qui narrati, della V^ Brigata “Luigi Nuvoloni”], era riuscito a scappare dal campanile [n.d.r.: della Chiesa Parrocchiale di Pigna] e a raggiungere il gruppo di retroguardia [n.d.r.: l’autore non mette date, ma qui dovrebbe trattarsi del 10 ottobre 1944, quando la Repubblica Partigiana di Pigna era ormai caduta e la maggior parte dei patrioti combattenti imperiesi, non solo quelli attestati in Alta Val Nervia, ma anche coloro del resto della provincia, si erano ormai avviati, per sfuggire ai rastrellamenti nazifascisti, verso Fontane in Piemonte, in quella che è rimasta nella storia come un’epica ritirata strategica]. È lui, il testimone oculare dei fatti che sto per narrare.
«Stavo per raggiungere il gruppo di Fragola-Doria, dopo aver visto dall’alto del campanile i vari gruppi dirigersi verso Langan. Erano riusciti a sganciarsi bene ed il ripiegamento avveniva con ordine, anche merito mio che sparavo dal campanile e del gruppo di Fragola-Doria che compiva eccellentemente il compito di retroguardia».
[...] Intanto Pagasempre, rimasto solo, all’alba, dopo aver passato la notte al riparo degli alberi, si avviava verso Buggio. Sentiva sopra, verso il Torraggio, le mitragliatrici, che lui pensava fossero di Moscone [n.d.r.: Basilio Mosconi, comandante di un Distaccamento, poi comandante del II° Battaglione “Marco Dino Rossi” della V^ Brigata], attestate all’incrocio della strada militare del Torraggio, verso Pietravecchia, che respingevano i tedeschi.
Giunto a Spegli fu accolto da alcuni carbonari, dove incontrò il maggiore Zoroddu, con la moglie e le due bambine.
[...] In Gordale si radunarono molti sbandati e formarono il distaccamento del tenente Lilli [Fulvio Vicàri, medaglia d’argento alla memoria], ma non avevano mezzi di sussistenza, né collegamenti con il grosso delle forze avviate verso il Piemonte.
I tedeschi avevano occupato tutta la zona e bisognava stare in guardia.
Il maggiore Zoroddu incarica Pagasempre di recarsi a Poggio di Sanremo con un biglietto di presentazione per i signori Nino Ghersi e Corrado Mancini, facenti parte del C.L.N. onde avere mezzi di sussistenza. 
don Ermando Micheletto, Op. cit., pp. 199-202

Tornato dalla ricognizione a Cima Marta e dalle zone su Briga non trovai più nessuno. 
Erano tutti scesi verso la costa. 
La strada da Carmo Langan rigurgitava di colonne tedesche in discesa verso Molini di Triora per andare ad imboccare poi la strada verso Rezzo.
Io mi mordevo le mani perché ero nell'impossibilità di fare qualcosa. 
Avevo racimolato qualche uomo da Realdo, da Creppo, da Bregalla. 
In un momento di interruzione del transito dei nemici attraversammo un tornante di quella strada dirigendoci verso Colle Bracco. 
Di lì vidi uno spettacolo impressionante. Lunghe colonne di tedeschi erano in marcia sulla strada di Rezzo. Sarebbero bastati pochi uomini, dotati di armi automatiche, per fermare tutta la fila di tedeschi, senza possibilità di scampo: il passaggio dalle rocche di Drego, distrutto e rifatto male, comportava un passaggio lentissimo.
Sulla via Molini di Triora-Taggia i ponti erano stati fatti saltare.
Impossibilitato a fare qualcosa per mancanza di uomini ben armati, mi diressi verso San Faustino, dove recuperai altri partigiani.
Pensando che il grosso delle nostre forze fosse già a Sanremo, condussi i miei uomini verso Ceriana, Monte Bignone, San Romolo.
Nel tragitto il mio gruppetto aumentava di unità in continuazione. Erano però quasi tutti patrioti disarmati, ragazzi lasciati indietro perché semiinvalidi o per adempiere ad altre incombenze, una specie di informatori di retroguardia.
Giunti a Sanremo la trovammo tutta imbandierata...
Pagasempre in don Ermando Micheletto, Op. cit.

mercoledì 3 settembre 2025

Uccisa sulla via Aurelia per non aver consegnato la bicicletta ai tedeschi

Taggia (IM): poco a levante del bivio Rossat di Arma

Giovanni Strato [n.d.r.: autore di Storia della Resistenza Imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Editrice Liguria, Savona, 1976, ristampa del 2005 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia] ricorda: Dilanda Silvestri che aiuta il padre Michele (Milano) nella sua opera a favore della Resistenza; Jolanda Zunino (Spavalda) non ha congiunti da coadiuvare, ma si impegna in prima persona in qualità di staffetta dei distaccamenti cittadini; Gea Gualandri è un'attiva collaboratrice; Cesira Lanteri ospita i partigiani nella sua casa nella zona di Langan [nel comune di Castelvittorio] ed i Tedeschi, scoperta l'attività, incendiano l'abitazione; la professoressa Adelina Biglia è arrestata nel maggio 1943; la professoressa Letizia Venturini è nei gruppi antifascisti già prima del periodo resistenziale e traduce scritti da diffondere clandestinamente; la professoressa Costanza Costantini di Torino è pure lei nel gruppo antifascista.
Né si debbono dimenticare Jose Pila, collaboratrice nella zona di Costa d'Oneglia; le sorelle Evelina e Giuliana Cristel [di Sanremo], già citate nel capitolo dedicato al FdG; Teresa Vespa Siffredi, internata nel campo di concentramento di Fossoli; Iside Corradini, uccisa sulla via Aurelia [vicino al bivio Rossat di Arma di Taggia] e buttata nella scarpata sottostante per non aver consegnato la bicicletta ai Tedeschi (12).
Se tocchiamo la montagna non finisce più la trafila. Già è stato detto che senza l'aiuto dei contadini la Resistenza non sarebbe esistita. Ciò significa che la popolazione contadina ne rappresenta il nucleo centrale. E sulla montagna la donna ha svolto un ruolo determinante. La sua collaborazione è stata qualcosa di sublime. Ma ciò che è più impressionante è la semplicità di un'azione per cui ogni cosa diventa naturale: sfamare un partigiano non è che il semplice dovere di una madre o di una sorella, anche se ciò comporta continui pericoli.
E la donna paga sempre perché le bruciano la casa, la depredano, la percuotono, la violentano, la uccidono. Tutto ciò è storia, non fantasia.
Storia nostra, dei nostri paesi, di tempi ancora recenti, verificabile, documentata da scritti o testimonianze.
Alle donne delle nostre montagne è stato fatto il grande torto di averle ricordate poco. La Resistenza è sempre stata rappresentata dal partigiano con il mitra in mano. Qualche accenno riempitivo al contributo del contadino. Fortunatamente la Storia sta facendo giustizia anche se in pratica la Resistenza non si assume ancora il ruolo di concreta riparatrice. Discorsi e conferenze hanno fruttato cariche ed onori a tanti arrampicatori. Ma si veda quante volte è stata organizzata una visita verso l'umile casa di qualcuna delle madri o sorelle che hanno perduto il figlio o il fratello, o sfamato interi gruppi di partigiani soffrendo esse stesse la fame, sfidando e sopportando le violenze nazifasciste.
Tra le fotografie riportate alla fine di questo capitolo figura l'interessante nota della direzione delle carceri giudiziarie di Sanremo che, in data 29 marzo 1945, dà notizia della detenuta Anna Maria Borgogno, ricoverata presso l'ospedale civile, sorvegliata dalla GNR e da consegnare successivamente al Comando tedesco per l'inevitabile fucilazione. Con lei è una altra donna, Bianca Pasteris (Luciana), ferita e catturata a Beusi, destinata ad analoga sorte (13).
Di Ada Pilastri (Sascia) si deve ricordare il bellissimo racconto della marcia sulla neve per procurare farina e viveri alle nostre formazioni (14). Rina Moraldo nel marzo 1945 salva il Comando garibaldino: di buon mattino, mentre si reca a Gerbonte per assistere alla Santa Messa, scorge i Tedeschi intenti a piazzare mitraglie a Loreto ed a Creppo, perciò ritorna sui suoi passi ed avverte tutti i partigiani.
E Pierina Boeri (Anita) è una partigiana vissuta soltanto di coraggio e di esempi sul campo di battaglia.
Nel capitolo concernente la Sanità partigiana sono ricordate benemerite suore ed infermiere: Angela Roncallo (Fernanda) nel suo diario alterna la pateticità alla disperazione. Ida Rossi (Natascia), diciannovenne, bionda e graziosa, si trova a Upega in quel tristissimo 17 ottobre 1944; è infagottata in una divisa da soldato tedesco, ma ciò non le consente di sfuggire alla cattura anche se poi, facendo tesoro delle risorse inesauribili della personalità femminile, riuscirà a sfuggire alla morte. A Triora, Antonietta Bracco è tuttora un esempio di dignità e di entusiasmo per la missione compiuta. E Ornella Musso passa di battaglia in battaglia contro il fascismo, dall'Italia alla Spagna, e ancora in Italia per la battaglia finale.
[NOTE]
(12) A proposito di Iside Corradini riportiamo un brano tratto dal libro di Alpinolo Rossi, Memorie luci ed ombre, Moderna stampa, Riva Ligure, s.d., pag. 195: "un gruppo di bersaglieri avevano fermato la compagna Iside Corradini che transitava in bicicletta, reclamando la consegna del velocipede di cui avevano urgente bisogno: - Sono infermiera e la bicicletta mi serve per raggiungere il domicilio dei miei pazienti che sono disseminati su una vasta zona; non fateci conto perché non ne posso fare a meno. Mentre alcuni, insensibili alle argomentazioni della ragazza si avvicinavano minacciosi per impossessarsi di prepotenza del veicolo, la Corradini in un impeto d'ira sollevò la bicicletta e la scagliò nella campagna sottostante gridando: - Piuttosto la butto! Fu il suo ultimo gesto di disprezzo: una scarica di mitra la fulminò proprio alla vigilia della liberazione".
(13) Le due patriote, Borgogno e Pasteris, saranno liberate dal distaccamento GAP Zamboni con un'ardita e ben riuscita azione. Cfr. M. Mascia, op. cit., pagg. 289,292.
(14) Cfr. M. Mascia, op. cit., pag. 181 e segg.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 1992, pp. 588-599 

martedì 19 agosto 2025

Dopo la battaglia di Alto due partigiani si recano ad Oneglia ad avvertire della morte di Cascione

Curenna, Frazione del comune di Vendone (SV). Fonte: Wikimedia

A Curenna [frazione di Vendone in provincia di Savona] la banda «Cascione» resta fino al 25 dicembre 1943. In questo giorno, per la ricorrenza del Natale, i partigiani vengono invitati dalle persone del posto, due per ogni casa; i partigiani portano con loro anche i prigionieri, trattandoli come se fossero loro compagni.
Frattanto è giunta notizia del bombardamento di Oneglia, avvenuto due giorni prima intorno alle ore 15.
Dopo il 25 dicembre 1943 la banda «Cascione» si sposta, passando per varie località, fra le quali di nuovo Curenna. Il 30 dicembre Cascione, Ivan e un terzo partigiano (Emiliano Mercati) si recano ad Alto [in provincia di Cuneo], per incontrarsi con esponenti di una banda di Albenga; il colloquio avviene in un'osteria del paese, e rappresentanti dei partigiani di Albenga sono Viveri (Libero Emidio Viveri) e Salimbeni Franco. Si decide che i partigiani delle due bande si riuniranno tutti nelle vicinanze di Alto, a monte del paese, per fare una manifestazione nel paese stesso, a scopo dimostrativo e di propaganda, e per fare altresì alla popolazione una distribuzione dei generi alimentari che sarebbero stati presi nei locali dell'ammasso in Nasino (la distribuzione verrà appunto fatta in questa località il 6 gennaio, giorno dell'Epifania).
Dopo gli accordi suddetti, il  6 gennaio tutta la banda, di circa una cinquantina di uomini, si sposta, suddivisa in quattro squadre, per recarsi ad Alto; e a Curenna vengono lasciati solo quattro partigiani, con i due prigionieri catturati a Montegrazie.
Lo stesso giorno la banda arriva ad Alto, sfila per le vie del paese, ricevuta dai partigiani di Albenga (comandati da «Viveri»): e nelle ore pomeridiane fa in Nasino la distribuzione annonaria alla popolazione, come sopra si è detto. 
Il giorno dopo fugge da Curenna il prigioniero Michele Dogliotti.
Un partigiano (Trucco G.B., «Titèn») si reca in fretta da Curenna ad Alto, per avvertire, affinché siano prese le necessarie precauzioni; arriva ad Alto intorno alle ore 12-13 del giorno 7. I partigiani vanno allora a Curenna a smontare il campo, e ripartono con tutto l'equipaggiamento la sera del giorno 7; durante la notte fanno sosta al Passo dell'Aquila, sulla strada di Alto, e la sera del giorno 8 arrivano alla «Madonna del Lago», sulle rocce di Alto, lungo la mulattiera Alto-Ormea, e si fermano nella località detta «Casa Fontane». Intanto la banda era stata raggiunta da altri partigiani (Vittorio Acquarone, con pochi del suo gruppo, che si era sbandato); e in «Casa Fontane» si forma un vero e proprio Comando così composto: Comandante, Felice Cascione («U megu»); Capo di Stato Maggiore, Acquarone Vittorio («Vittorio» o «Marino»); vicecapo di Stato Maggiore, Sibilla Giacomo («Ivan»).
Il giorno 8 gennaio, intorno alle ore 11, viene anche mandata una squadra di partigiani a Borgo d'Oneglia, per avvertire le famiglie di mettersi in salvo dalle accuse del milite fuggito. La squadra che viene mandata a Borgo d'Oneglia è composta di Mirko, Ivan, Emiliano Mercati o «Miliano» o «Taganov», Vittorio il Biondo, Tito.
I suddetti partigiani provvedono a fare avvertire le famiglie per mezzo di Antonio Dell'Aglio; poi ritornano in banda. In questo periodo, però, la madre di Mirko era ancora detenuta.
Frattanto, nello stesso giro di tempo, erano accaduti altri fatti: nel dicembre del 43 i fratelli Serra, Ricci Raimondo e i fratelli Todros erano stati arrestati; da parte sua, la banda «Cascione» aveva compiuto alcune azioni, fra cui l'attacco, ad Albenga, con bombe a mano, contro un gruppo di fascisti della GNR, mentre si accingevano a rientrare in caserma: all'azione avevano partecipato i partigiani Emiliano Mercati, «lo zio» (o «Terrero di Lusignano»), Rubicone Vittorio (o «Vittorio il Biondo»); i fascisti erano stati costretti a fuggire, lasciando sul terreno qualche morto e qualche ferito (15 gennaio '44).
Il 27 gennaio 1944 vi è la battaglia di Alto, in Val Pennavaira (o «Pennavaire»), presso la località «Madonna del Lago», dove è sistemata la banda «Cascione».
Giovanni  Strato, Storia della Resistenza Imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Editrice Liguria, Savona, 1976, ristampa del 2005 a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp.144-146

Due giorni dopo, il 29 gennaio 1944, un documento della Bundesarchiv Militararchiv (abbreviazione: BA - MA, RH 24 - 75/l9) un rapporto "mattinale" dell'ufficio addetto alle informazioni del LXXV Corpo d'Armata, inviato all'Armeegruppe Von Zangen, riporta quanto segue: "... Banda comunista forte di cinquanta uomini, dispersa da un'operazione della 356^ Divisione di Fanteria, 2,5 chilometri a nordovest di Alto (25 chilometri a nord di Imperia). Il capo della banda è stato ucciso. Gli alloggi della banda distrutti. Un bandito preso prigioniero. Catturate: una mitragliatrice leggera, cinque fucili, munizioni e bombe a mano...".
Come si può constatare, il rapporto nemico ci rivela che i soldati tedeschi che hanno partecipato all'azione contro la banda appartenevano alla 356^ Divisione di Fanteria. Misero risulta il bottino catturato. Ciò vuol dire che i componenti la banda, disperdendosi, non avevano abbandonato le armi. Ma, la cosa più evidente il rapporto dice che il capo è stato ucciso, ma non dice che è caduto in combattimento.
Ciò conferma quanto abbiamo riportato sulla morte di Felice.
Quando nei giorni successivi alla Liberazione, era stato nominato questore Baldo Nino Siccardi (Curto), già comandante della I Zona Operativa Liguria, negli archivi della Questura furono rinvenuti alcuni documenti ed un rapporto firmato da Pier Cristoforo Bussi, tenente colonnello e capo dell'Ufficio Politico Investigativo (UPI), del Comando della 33^ Legione della GNR, inviati ai vari Comandi di competenza, i quali rivelano che i nazifascisti erano venuti in possesso dei documenti della banda, ricuperati a Case Fontane, i quali forniscono anch'essi la versione che Cascione non è caduto in combattimento, ma è stato fucilato subito dopo la sua cattura.
Il rapporto recita: "Il 27 gennaio scorso truppe tedesche in perlustrazione nella zona di Alto, ai confini tra la provincia di Imperia e quella di Savona, e precisamente a nordest di Pieve di Teco, catturavano e fucilavano sul posto il dottore Cascione Felice, fu G.B. e di Baiardo Maria, nato il 2 maggio 1918 ad Imperia Ponente ove risiede in Via Saffi 10. Con Cascione è stato pure arrestato il carabiniere Cortellucci di Teramo, non meglio identificato, già dipendente dal Gruppo C.C. di Imperia. Seguiranno le generalità precise del Cortellucci, non appena eseguite le indagini. Il Cascione era capo di una banda di ribelli, operanti nella Provincia di Imperia: banda di un centinaio di persone ed i cui maggiori esponenti risultano dall'elenco allegato".
Francesco Biga, Felice Cascione e la sua canzone immortale, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, tip. Dominici Imperia, pp. 244,245

Come si è detto durante la battaglia di Alto era anche stato fatto prigioniero il partigiano Cortelucci. Ad Alto il Cortelucci si salva, facendo credere di essere stato preso a forza dai partigiani, e costretto a seguirli. Ricoverato in ospedale, dall'ospedale riuscirà poi a fuggire, e ritornerà nelle bande. Morrà nel dicembre del 1944 (il giorno 29), a Pantasina, uccidendosi per non cadere nelle mani dei tedeschi, che sono in procinto di catturarlo una seconda volta.
Dopo la battaglia di Alto due partigiani (Giacomo Sibilla o «Ivan» ed Eolo Castagno o «Garibaldi») si recano ad Oneglia (28-1-44), ad avvertire esponenti del movimento antifascista della morte di Felice Cascione.
Più dettagliatamente, i partigiani che erano stati presenti allo scontro, mentre si stanno ritirando e sono ancora sulle alture di Caprauna, incontrano Ivan, che tornava indietro con la sua pattuglia, essendo stato informato per mezzo di una staffetta che Cascione era rimasto ferito. Ivan precedeva gli altri, che sopraggiungono poco dopo. Subito si fa una riunione degli uomini aventi incarichi di comando, e, in seguito alle decisioni prese, Ivan ed Eolo, lasciato il gruppo, si recano all'albergo «Miramonti» in Garessio, per prendere possibilmente contatto con le formazioni partigiane di quella zona (badogliani). Qui non trovano nessuno e dietro indicazione della proprietaria dell'albergo si recano a San Bernardo di Garessio, dove dovrebbe essersi trasferito quel comando. A San Bernardo di Garessio hanno un primo colloquio intorno alla mezzanotte fra il 27 e il 28 gennaio; si decide di continuare il colloquio la mattina seguente. Ma, durante la notte, viene dato l'allarme; motivo per cui, la mattina del giorno 28, Eolo ed Ivan si recano ad Ormea, e la mattina stessa, da Ormea, con la corriera, partono per Imperia. A Pieve di Teco riescono a stento a sottrarsi al controllo di due carabinieri, che, uno per porta, invitano le persone a scendere e ad esibire i documenti (essendovi stati, il giorno prima, i fatti di Rezzo). Da Pieve di Teco proseguono a piedi (via Cenova, bosco di Rezzo, Colle San Bartolomeo, Torria, Chiusanico, Gazzelli, zona di Costa d'Oneglia) e vicino alla città si separano: Eolo va in Oneglia, ed Ivan si reca a Barcheto.
Giovanni  Strato, Op. cit., p. 151

giovedì 31 luglio 2025

Il partigiano cerca di occultarsi nel fieno

Dintorni di Bosco, Frazione di Casanova Lerrone (SV). Fonte: lokkio

25, 26, 27... lenti e terribili passano gli ultimi giorni di gennaio [1945]: il cielo è sempre grigio, il clima freddo, un vento gelato passa sulle vallate. Lassù sui monti nevosi il nemico continua a gravare con tutto il suo peso, il rastrellamento continua.
Che avverrà lassù? Potranno i partigiani sopravvivere? Quanti cadranno? Quanti saranno gli sbandati? Solo in seguito, quando il nemico avrà lasciato la zona, dai racconti dei borghesi e dalle parole degli scampati potremo a poco a poco ricostruire gli eventi, ma qualche episodio resterà oscuro per sempre.
Il giorno 20 all'alba il nemico era piombato a Bosco [Frazione di Casanova Lerrone (SV)], Degolla [borgata di Ranzo (IM)] ed Ubaghetta [Frazione di Borghetto d'Arroscia (IM)]. Contemporaneamente aveva occupato i paesi a fondo valle della Val d'Arroscia e fatta qualche puntata anche nel versante nord. Lo stesso giorno all'alba aveva occupato la Val Pennavaira investendo Alto, Nasino e Capraùna. Come si vede l'idea di Osvaldo [n.d.r.: Osvaldo Contestabile, poco tempo dopo commissario della IV^ Brigata della Divisione Garibaldi "Silvio Bonfante"] di ritirarsi in Val Pennavaira non sarebbe stata felice.
Ad Ubaghetta l'allarme venne dato in tempo: la sentinella scorse la colonna che operava in Val d'Arroscia ed avvertì i compagni [n.d.r.: di una pattuglia della Divisione "Bonfante", di cui Gino Glorio, che lasciò scritto questo racconto, era amministratore]: quando il nemico prese il paese alle spalle questo era già sgombero.
Gli eventi di Bosco li ricostruii da vari racconti: quando venne dato l'allarme il nemico aveva già circondato il paese dalla parte sud ed individuato il casone dove alloggiavano i nostri. Qualcuno riuscì ancora a fuggire, gli altri, circa una decina, vennero catturati prima che potessero far uso delle armi. Nei primi istanti cadde uno dei nostri: il russo. I compagni lo sentirono rantolare mormorando parole della sua lingua, poi a poco a poco si spense. I prigionieri catturati vennero condotti fuori paese con due borghesi catturati nel trambusto e allineati sotto gli ulivi di fronte ad una mitragliatrice.
Chi mi raccontò la vicenda fu Megu [n.d.r.: Ugo Rosso, poche settimane dopo gli eventi qui descritti vice commissario della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della Divisione "Bonfante"], lo studente in medicina che avevo visto il 19 sera. Era a Bosco con gli altri quella mattina, si erano svegliati e stavano scaldando le castagne, quando uno che era uscito a lavarsi scorge a breve distanza il nemico che si muove cautamente: «Ragazzi, i tedeschi!». Un breve grido. Si accorre alla finestra e si comprende che è troppo tardi per resistere: non c'è che da salvarsi singolarmente, ma ci sarà ancora il tempo?
Megu si lancia verso la porta, esce: sente una voce: «Tenente, una raffica da quella parte». E' Carletto. Megu è stato scorto: giù a terra! Una sventagliata di mitraglia passa qualche passo sopra di lui.
Un balzo e via, prima che il nemico spari ancora. Una corsa folle per le viuzze. I tedeschi sono già in paese: un nemico sbarca la strada puntando il fucile: «Alt!». Il partigiano si sente perduto: no, c'è una porta socchiusa. Uno scarto di fianco e Megu è in un fienile. Si guarda intorno: là c'è un'altra uscita: presto, il nemico lo segue! Il partigiano fa per balzare all'aperto, ma l'altra porta è sorvegliata. Un altro tedesco lo prende di mira, Megu balza indietro, di nuovo dentro, cerca di occultarsi nel fieno, ma ormai si sente perduto: i tedeschi entrano, rovistano ovunque, lo catturano.
Viene condotto fuori, sotto gli ulivi, allineato con gli altri compagni: di fronte hanno una mitraglia. Megu comprende, i suoi nervi si tendono fino allo spasimo nella ricerca di una possibilità di salvezza, di fuga nei brevi istanti che rimangono. Ecco: Megu conosce il tedesco, ascolta attento le parole dei soldati, gli ordini dell'ufficiale, osserva... osserva la mitraglia, vede che il nastro non è ancora in posizione: al mitragliere occorrerebbero pochi secondi per poter cominciare a sparare, bisognerebbe approfittare di quei secondi. L'ufficiale tedesco si rivolge ai nostri in italiano: «Se uno fugge spariamo sugli altri». Poi in tedesco al mitragliere: «Al mio comando inizia il fuoco». 
Megu comprende e pensa ad un inganno: «Ragazzi, ci ammazzano!». Un istante ed i partigiani d'un balzo si disperdono lanciandosi verso il basso: il nemico, per errore, ha lasciato la discesa alle loro spalle. Saltando i muretti di sostegno del terreno, i cespugli ed i fossati, i partigiani fuggono alla cieca: il pericolo è mortale ed il nemico può essere ovunque. Il mitragliere ha tentato di sparare, ma nell'orgasmo l'arma gli si inceppa; allora l'ufficiale impugna la pistola automatica e fa fuoco: cadono quattro compagni e i due borghesi che non erano fuggiti: «Ma io non sono partigiano!». Megu sente il grido disperato coperto dalla raffica. Gli altri riescono a fuggire.
Megu fa qualche decina di metri col cuore in gola, di corsa; poi vede che un tedesco lo ha preso di mira dall'alto di una rupe da pochi metri di distanza: «Alt!». Megu è di nuovo nelle loro mani.
Il prigioniero è condotto sulla piazza della chiesa, perquisito, privato di tutto, anche del poco tabacco, poi è lasciato ad un soldato che lo sorveglia da breve distanza. Il partigiano cerca di parlare col soldato servendosi della sua conoscenza della lingua. Conoscerà il suo destino? Potrà avvicinarsi al nemico e cercare di disarmarlo? Il tedesco intuisce le sue intenzioni e gli impedisce di avvicinarsi: «Ti fucileremo quando torna l'ufficiale, tarderà forse ancora dieci minuti... No, niente prete: il prete è scappato dal paese». Megu allora cambia tattica: il tedesco ha il fucile a tracolla, ci vorrà qualche istante perché possa usarlo. E' più facile che usi la pistola P38 che impugna, ma Megu può sperare di non esser preso al primo colpo. C'è poi la mitraglia pesante che era dei partigiani e che è rimasta sulla piazza, ma se si riesce a saltare nella fascia di terreno sottostante si è in un angolo morto e la mitraglia non è più temibile. Megu conosce la zona ed in pochi istanti potrebbe essere al sicuro in un rifugio. Il difficile è avvicinarsi all'orlo della piazza. Passano minuti che paiono eterni: il tedesco è seduto a breve distanza con gli occhi fissi su di lui e l'arma in pugno. Megu sa che deve distrarlo, deve riguadagnare la libertà in quei pochi minuti in cui sono solo loro due, poi non sarebbe più possibile. Megu chiede al tedesco se può allontanarsi per una necessità urgente. La scusa è puerile, ma non gli è possibile trovare di meglio. «No! Vai solo fin lì», risponde la sentinella indicandogli l'orlo della piazza. Megu obbedisce, si accuccia, al primo attimo di distrazione, senza alzarsi, si lancia giù dalla piazza. Il partigiano cade: il salto è stato più alto del previsto e non ha avuto modo di prendere l'equilibrio nè la spinta. Un colpo violento alla schiena e rimane senza fiato, bloccato. Il tedesco appare in alto, dalla piazza lo scorge riverso, lo prende di mira con la pistola. Megu sa che questa volta il tedesco tirerà senza indugio, fa uno sforzo supremo e si lancia in basso in un altro salto. Il soldato spara, ma non lo colpisce. Megu si rialza e scompare di corsa tra gli alberi. Dopo un mese i compagni portavano ancora il cibo a Megu nel rifugio: «Lo facciamo volentieri perché quel giorno ci ha salvato la vita, visto che sapeva il tedesco: ma da allora non è più uscito dal rifugio. Se continua ci farà i funghi».
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 149-152 
 
Nella notte tra il 19 e il 20 gennaio 1945 i tedeschi, partendo da Cesio, cercano di portare un duro colpo alla Divisione Bonfante, iniziando un rastrellamento che interessa una parte consistente della Valle Arroscia e delle località, in particolare, di Alto, Nasino, Casanova Lerrone. A Bosco, frazione di Casanova Lerrone, riescono a circondare un casone che ospita un gruppo di partigiani. Dopo un aspro combattimento i dodici uomini che si trovano dentro il casone riescono a rompere il cerchio di fuoco e qualcuno evita la cattura. Cadono sul campo il sovietico Gospar, Rolando Martini (Indusco), William Bertazzini (Rosa), Gino Bellato (Gino). Bartolomeo Vio (Tron), della banda locale di Vendone, che in servizio notturno stava controllando le strade, benché ferito alla caviglia riesce a salvarsi con una fuga a perdifiato. Sono catturati e fucilati sul posto i civili Amedeo Bolla, di anni 41, e Matteo Favaro di anni 23. A Marmoreo è ucciso il civile Settimio Testa. I garibaldini che sono riusciti a sottrarsi alla cattura raggiungono le altre squadre del distaccamento.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999  

mercoledì 23 luglio 2025

Una cartoleria centro smistamento di documenti e di materiale per i primi gruppi partigiani di Imperia

Imperia: Via Ospedale ad Oneglia

Dall'Archivio Storico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia (IsrecIm) affiorano storie straordinarie di fatti e di persone che costituiscono la Storia di questo angolo di Paese, il Ponente ligure, in un periodo particolare e determinante quale la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza, che è stato raccontato in alcune opere fondamentali tra cui la Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria).
E molte altre ne possiamo annoverare, di valenti studiosi e studiose locali, opere che hanno costituito le fonti di questo lavoro, insieme alla raccolta di testimonianze dirette.
Questo è un libro di passione, non pretende di essere esaustivo, ma è un percorso dentro la memoria locale per riprendere il filo di ideali, sentimenti, esperienze e aspettative che interessano ancora, per «orientarsi nella modernità confusa e smarrita», come dice Lidia Menapace.
Daniela Cassini, Gabriella Badano e Sarah Clarke LoiaconoProtagoniste. Storie di donne e Resistenza nel Ponente ligureIsrecIm - Regione Liguria - Fusta Editore, 2025,  p. 7

Come già detto, accanto all'organizzazione Gruppi di Difesa della Donna, abbiamo un'infinità di donne che hanno sopportato una serie ben lunga di sacrifici.
Non erano forse donne della Resistenza tutte le madri, le spose e le sorelle dei patrioti? Non erano esse stesse partecipi dei rischi e dei tormenti dei loro cari? Quante preghiere venivano pronunciate nelle case o nelle chiese per la salvezza dei propri congiunti!
Nei casoni e nei fienili, impropriamente chiamati ospedaletti da campo partigiani, in ogni ora del giorno e della notte le donne erano pronte ad accogliere feriti e malati per curarli, sfamarli e rincuorarli. E tra esse, le suore negli ospedali hanno offerto esempi di dedizione infinita, sopportabile da chi è retto da una fede trascendente che fornisce il duplice dono del sacrificio e del coraggio nell'affrontare la morte stessa con una serenità d'animo eccezionale e consapevole.
Il servizio staffette nelle formazioni molte volte veniva svolto da ragazze che, attraverso sentieri mozzafiato, si recavano in zone distanti anche alcuni chilometri per portare circolari, notizie o segnalazioni.
E in banda la donna con il fucile in mano rivestiva il ruolo, tipicamente maschile, del guerriero in lotta. Sparava come l'uomo nell'impeto della battaglia, e della delicatezza della sua figura e del disagio tra quegli spari nulla doveva affiorare, perché in certe situazioni non poteva esistere debolezza o privilegio.
Quanti ruoli la donna abbia sostenuto nella Resistenza è difficile dire, perché se si possono descrivere fatti accaduti, mi pare non sia possibile penetrarne lo spirito, l'ispirazione, i moventi autentici per cui scatta l'azione. Ho cercato, comunque, di chiarire come la partecipazione della donna nella Resistenza italiana, perciò anche in quella imperiese, sia costituita da una vasta gamma di impegni ed abbia origine da svariate direzioni.
E mi rammarico per l'impossibilità di ricordare l'interminabile serie di interventi di donne nella lotta, perché una ricerca seria presenterebbe problemi pressoché insolubili ed un impegno gravoso anche per il fatto che tante protagoniste, veramente modeste ed aliene da riconoscimenti ed onori, non intendono fornire notizie sulla loro attività resistenziale, mentre altre, purtroppo, sono invecchiate, malate o scomparse. Ed ancora, come ho già accennato in altra parte, occorrerebbe per ognuno dei tanti argomenti, una singola pertinente pubblicazione.
In appendice a questo capitolo è riportato l'elenco delle donne partigiane, patriote e collaboratrici del movimento organizzato di Liberazione nella nostra provincia. Ma, prima dell'elenco finale, mi siano permesse alcune citazioni e qualche breve commento.
Pietro Roggerone, nel corso di un rastrellamento, viene arrestato e condotto a Sanremo con una decina di prigionieri in ostaggio; una ragazza, Anna Lanteri, riesce a far fuggire tutto il gruppo (1). Risulta inoltre che la coraggiosa ragazza abbia salvato addirittura una cinquantina di civili incappati in un rastrellamento. Successivamente sarà arrestata.
Le SAP non sono un'organizzazione prettamente maschile. Anche le donne sanno combattere: «Nei primi mesi dei 1945 i sapisti della III Brigata riuscivano a disarmare una quindicina di militari italiani e tedeschi. Azioni rischiose nelle quali si distinsero per il coraggio dimostrato anche le giovanissime sapiste Palma Bianca e Daolio Nanda, seguite da un folto gruppo di donne, quali Elena Caterina, Robino Carolina, Garibaldi Geromina, Trevia Elisabetta, Agnese Teresa, Bestoso Emilia, Piana Gilda, Verda Lucia, Vittoria Giobbia (Sanjacopo), ed altre della Val Steria che si adoperarono instancabilmente per la lotta di Liberazione...» (2).
La professoressa Vittoria Giobbia (Sanjacopo), donna eccezionale il cui antifascismo è radicato ed autentico dirige le SAP femminili in Diano Marina. Organizzatrice abile e coraggiosa, lancia alla gioventù studentesca il suo appello alla lotta. Costituisce otto nuclei resistenziali: a Cervo, San Bartolomeo, Tovo Faraldi, Villa Faraldi e quattro a Diano Marina.
Verso la metà dell'ottobre 1944 è ricercata dalle SS perché la sua abitazione in Diano Marina (al n° 1 di via Genova) viene riconosciuta come centro dell'attività clandestina. Fugge, ma non si rassegna. Riprende i contatti con l'organizzazione femminile di Imperia e, naturalmente, con quella di Diano Marina. Ritorna alla guida del movimento femminile ed è preziosa collaboratrice del CLN locale con i collaterali movimenti maschili della Resistenza. Donna di cultura, incaricata dei corsi di traduzione della Facoltà di lettere dell'Accademia di Digione, già dal sorgere del fascismo in Italia si era rivelata come una delle più acerrime nemiche della dittatura (3).
Alba Rizzo di Camporondo (Diano Borganzo) è la staffetta che informa giornalmente i patrioti locali di stanza nei pressi di Diano Roncagli. Verso le 15 del 1O gennaio 1945 un gruppo di Tedeschi, guidato da una spia mascherata, irrompe all'improvviso nella zona e minaccia di sorprendere l'accampamento dei garibaldini di «Stalin»; anche da altre due direzioni giungono colonne nemiche. La ragazza intuisce il pericolo, percorre la salita a perdifiato ed avvisa i partigiani che riescono a mettersi in salvo occultando il materiale. Alba è stremata: al giungere dei Tedeschi si butta a terra e si salva fingendosi morta (4).
Analogamente, il 2 agosto 1944, un'altra ragazza, Lucia Ardissone, dopo un'estenuante corsa riesce ad avvisare una decina di giovani di Roncagli che dormono in una baita in località denominata «Piano della Chiesa», salvandoli perciò dalla morte (5).
Il 29 gennaio 1945 durante un rastrellamento Francesco Camiglia tenta la fuga attraverso i tetti, ma è ferito e chiede un disperato aiuto alla madre. Viene catturato e trascinato verso un albero di pero per essere impiccato. Gli passano il cappio intorno al collo. La madre, presa dalla disperazione raccoglie tutte le forze e si scaglia con un urlo straziante contro i Tedeschi che la respingono (6).
Povera madre, la Resistenza è fatta anche di te. Il popolo ti deve gratitudine, come gratitudine deve alla madre del sapista Augusto Vignola che, per tanti giorni, paziente e trepida di speranza, si avvia alle carceri di Oneglia con il pacchetto contenente il cibo per il figlio prigioniero. Patetica madre, tuo figlio è stato assassinato da alcuni giorni. Anche tua è la Resistenza.
Mi disse un giorno Vera Belgrano (Pia): «Nel capitolo dedicato alle donne della Resistenza Imperiese non dimenticarti di Liliana e di Maria, che avevano sposato i fratelli Quaglia, noti pollivendoli di Oneglia, un triste giorno i due giovani con il camioncino per il trasporto del pollame passarono su una mina posta dai partigiani sulla via Aurelia per far saltare automezzi nemici in transito. Sfortunatamente il camioncino saltò in aria ed i due fratelli morirono. Erano due bravi giovani antifascisti e le loro mogli collaboravano con noi del GDD. Un mattino, dopo il triste fatto mi recai in casa di una delle vedove e la trovai nell'atto di pregare davanti alla fotografia del marito vicino al lumino. Assistere a tanto dolore, dignitoso e composto mi si restrinse il cuore di commozione...». Eppure, comprendendo la fatalità, dell'accaduto, le due donne continuarono la lotta contro il fascismo portando documenti della Resistenza, anche a rischio della loro vita (7).
La stessa Vera Belgrano passa momenti drammatici. Nel corso di un rastrellamento i Tedeschi perquisiscono la sua casa a Costa di Oneglia: buttano tutto sotto sopra, ma fortunatamente non trovano la macchina da scrivere ed i documenti del FdG e dei GDD.
«Forse - dice Vera - i Tedeschi erano troppo impegnati a cercare denaro ed oggetti preziosi, che trovarono ed asportarono; ma ho benedetto quel furto che mi ha salvato la vita!».
Giovanna e Nina sono le sorelle di Giacomo Amoretti (Menicco). Che dire di loro? Sono della famiglia Amoretti e non mi sembra il caso di enumerarne i continui pericoli sopportati con quella cartoleria all'inizio di via Ospedale, diventata centro smistamento di documenti e di materiale per i primi gruppi partigiani.
Tra i miei ricordi, Velia Amadeo, mia cugina. Ero piccolo e, malgrado il gran numero di anni passati, mi rivedo alla finestra dell'abitazione di mia nonna, al primo piano di piazza San Francesco, dove è situata l'attuale Camera del Lavoro. Assisto agli ultimi sprazzi di quel carnevale del 1930. È la sera del 3 marzo e vedo le scene di allegria popolare di quell'epoca. Rivedo sulla piazza i miei zii Alessandro (Pepen) e Raffelina, spontanei ed allegri come era possibile allora. Ma qualche centinaio di metri distante, dal porto di Oneglia scivola silenziosa sull'acqua una barca di pescatori sulla quale c'è la loro figlia Velia con tre antifascisti. Vogliono espatriare, fuggire lontano dalla nostra terra oppressa, per continuare all'estero la loro battaglia. Il mattino seguente, la notizia della fuga tramuta quella gioia spontanea in cupa disperazione. Velia non ritornerà più nella sua casa, ingoiata con i compagni dai gorghi del mare.
Ed Anna, madre di Wladimiro, è la sorella di Giacomo Seccatore, sempre perseguitato dal fascismo. Anche lui morirà presto, vittima delle sue idee e della lotta per la libertà. Anna Seccatore abita sullo stesso pianerottolo della mia famiglia. Le porte dei due appartamenti sono affiancate, in quel corridoio di piazza San Francesco, nel portone adiacente a quello già ricordato di mia nonna. Wladimiro ed io siamo piccoli ed amici; dalle parole carpite dai miei genitori sento che la madre di lui vive anni di tormento per il fratello imprigionato, confinato e perseguitato.
[NOTE] 
(1) Cfr. F. Biga. Diano e Cervo nella Resistenza, op. cit., pag. 100. 
(2) Ibidem, pag. 186.
(3) Ibidem, pag. 236.
(4) Ibidem, pag. 195.
(5) Ibidem, pag. 114.
(6) Ibidem, pag. 200.
(7) Testimonianza orale di Vera Belgrano (Pia).

Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 1992, pp. 582-585

19 Ottobre [1944]. 
Qualche giorno fa un gruppo di patrioti uccisero un milite che si trovava a giocare alle bocce al "Borgo". Per questo fatto, presero la signorina B., sorella di un "fuorilegge" appartenente a una distinta famiglia di commercianti della città e, tradottala non si sa dove, i militi della G.N.R. gliene fecero passare d'ogni qualità. Una ragazza giovanissima tra le mani di quella gente chissà che cosa deve aver provato: sofferenze atroci, tanto che ora si trova in uno stato pietosissimo in una clinica sotto la cura di diversi professori, i quali fecero una denuncia al Comando della G.N.R. dimostrando come stanno le cose. I colpevoli, tre o quattro, sono stati arrestati e ora si attende il processo che dovrà esserci in questa settimana.
[n.d.r.: dal diario di una ragazza rimasta ignota, figlia di albergatori di Sanremo]
Renato Tavanti, Sanremo. "Nido di vipere". Piccola cronaca di guerra. Volume terzo, Atene Edizioni, 2006, p. 20

28 febbraio 1945 - Dai Gruppi Difesa della Donna della provincia di Imperia al Comitato regionale del Fronte della Gioventù e dei Gruppi Difesa della Donna - Relazione sull'attività del mese di febbraio, da cui si evince che i gruppi erano organizzati e retti da un triumvirato femminile, composto da un'operaia e da due intellettuali; che la citata operaia si stava adoperando per creare nuovi comitati; che le donne intellettuali curavano la stampa e la propaganda tra le giovani nella scuola e nelle fabbriche; che erano stati riallacciati i contatti con le vallate e con l'organizzazione del Fronte della Gioventù; che il servizio di spionaggio era già in funzione e che alcune impiegate delle Poste avevano già fornito notizie utili a salvare la vita a diversi partigiani.
Documento IsrecIm  in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)- Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

giovedì 3 luglio 2025

I partigiani sostarono temporaneamente nella tana dei disertori, celata da una piccola cascata

Pietrabruna (IM)

Il gruppo [n.d.r.: appartenente alla IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione Garibaldi "Felice Cascione"], in buona parte ricomposto, procedeva in fila indiana, il terreno ora arido e selvaggio saliva rapidamente e, malgrado l'attenzione posta, dei sassi si staccavano dal suolo rotolando verso il basso con pericolo continuo per coloro che seguivano; ciò nonostante, all'apparire d'un melo selvatico non esitai a chinarmi per raccoglierne i frutti caduti che infilai nella camicia, bene o male qualcosa sarebbe entrato nello stomaco; il canalone ora, per le aumentate difficoltà del terreno, si restringeva in una fenditura che a prima vista sembrava precludere la possibilità di proseguire o nascondersi, ma l'apparire improvviso d'una piccola cascata venne accolto con gioia da buona parte del gruppo; con stupore, vidi i primi continuare il cammino e penetrare sotto la volta scrosciante, scomparendo; l'acqua, che diventava ruscello su lucide rocce, non conservava alcuna traccia. Il nascondiglio era chiamato «la tana dei disertori» ed era servito nel tempo a fuggiaschi di varie epoche; all'interno lo spazio era sufficientemente ampio, e con sorpresa vi trovammmo un gruppetto di contadini, prontamente rifugiatisi al rumore del combattimento appena conclusosi; un paio di lanternini ad olio, in un gioco di luci ed ombre illuminava parzialmente il fondo della caverna, mentre nella parte antistante la luce filtrava a sufficienza attraverso la parete d'acqua. I due gruppi  immediatamente si fusero, agricoltori e partigiani, in uno scambio di saluti e informazioni, volti lucidi di sudore e sguardi lesi in un parlottio sommesso, sovrastato a tratti dalle ultime raffiche dei Majerling tedeschi che sparavano nel folto della vegetazione, ultimo sfogo di uno scontro subito.
E finalmente il silenzio, prima dubbioso, nel timore di un probabile ulteriore pericolo, poi sereno, tutti i rumori imprecisi e confusi del bosco ritornarono vivi, chiaro il canto degli uccelli risuonò allegro tutto d'intorno ricreando un'atmosfera di tranquilla sicurezza, e nella poca luce di quella strana dimora i contadini estrassero delle vecchie gavette, dividendone la pastasciutta in esse contenuta con gli affamati giovani del nostro distaccamento. Poco dopo mi permisi di ricambiare la gentilezza con l'offerta di qualche mela, non certo di prima scelta; un saluto e forti strette di mano conclusero la gradita sosta. In colonna frazionata, attenti e silenziosi ci si incamminò verso Pietrabruna, capoluogo della valle omonima, non ancora frequentato dalle nostre formazioni per la facile accessibilità allo stesso da parte dei reparti motorizzati tedeschi e fascisti che in un'ora all'incirca vi giungevano dal mare; in avanscoperta erano stati inviati due garibaldini, buoni conoscitori della zona, e quando quasi vicino ci apparve il campanile del paese circondato da bruni tetti immersi nel verde degli ulivi, trovammo ad attenderci uno dei due, tranquillamente seduto sul ciglio del sentiero. «Il paese e la valle sono calmi» disse, «i nostri informatori e i contadini rientrati dai prati assicurano che i tedeschi proseguono verso il nord, per collegarsi ad altri reparti provenienti da direttrici diverse (l'attacco tedesco si concluse con la battaglia di Montegrande del 5 settembre 1944); questa valle è saltata, vi si può rimanere con tutta tranquillità». E per la prima volta, una cinquantina di uomini invasero le strette viuzze del paese, pittoresco insieme di giovani e meno giovani, volti imberbi e volti barbuti dal grigio colore del tempo, con moderne armi e vecchi fucili, ma tutti con un eguale sorriso; sosta obbligata, Petran, la vecchia e unica trattoria del luogo, posta in prossimità della piazzetta delle corriere. Ci si dispose all'interno e all'esterno, nelle viuzze adiacenti e nel lavatoio, attorniati da paesani gentili e curiosi di sapere, e nell'attesa della mangiata ordinata da Danko [Giovanni Gatti] si parlò e si raccontò, ridendo come ragazzi alla loro prima festa; due ragazzine, con le lunghe trecce e gli occhi della primavera, mi si avvicinarono per avere conferma se proprio io avevo sparato col Majerling, al loro ingenuo ma femminile sorriso sentii di essere quasi un uomo.
Un'allegra confusione regnava nel locale più grande della trattoria, che a malapena ci accolse tutti; di fronte a ciascuno, un fumante piatto colmo di carne e un colorito bicchiere di vino; un'animazione fuori dell'ordinario, si continuava a parlare ancora del combattimento, era un meccanismo che seguitava a ruotare e ripetersi, per la maggior parte di noi era stata la prima volta ed era pienamente comprensivo lo stato di euforia collettivo. La tensione però tendeva ad allentarsi col passar delle ore, il vino ed il pranzo ingerito, inoltre, cominciarono a produrre i loro effetti e una strana, benefica stanchezza mi prese, ma durò per poco: dal di fuori un grido «i tedeschi» e fu come se possenti molle ci scagliassero all'esterno; pochi attimi e si era tutti all'aperto con le armi in pugno, ma non avevo dimenticato di portare un morbido cosciotto di arrosto, pregiata preda che tenevo saldamente stretta nella mano libera. Confusione e incertezza generale, fortunatamente l'allarme si rivelò fasullo, alcuni di noi intendevano ritornare a tavola, ma la maggioranza, di contrario avviso, preferì allontanarsi, incamminandosi verso la nuova base prima che le ombre della sera rendessero più difficile il rientro. E sulla strada del passo della Follia, in colonna si affrontò la ripida salita, mentre dalle ultime case di Pietrabruna i paesani ancora numerosi salutavano a larghi gesti. La lunga giornata volgeva al termine, il sole quasi furtivameme scivolava oltre l'orizzonte, per la stanchezza, il peso dell'arma sulle spalle sembrava raddoppiato, e quando ancora una volta mi trovai a guardare verso Santa Brigida, mi ritornò alla mente N. la ragazza dell'appuntamento, i fatti del giorno l'avevano cancellata, la poesia di un tramonto la fecero riapparire, ma solo nel ricordo; N. non la incontrai più.
Il primo rastrellamento da noi subito s'era concluso, l'originale trappola architettata dai nazisti e realizzata con un grosso spiegamento di forze aveva raggiunto solo parzialmente lo scopo, arrecando ad alcuni reparti soltanto delle perdite contenute, ma altri contingenti, fra i quali il nostro, forse più fortunati, ne erano usciti completamente indenni riuscendo inoltre ad impegnare l'avversario ed arrecargli sensibili perdite. Il nostro infatti, seppure di recente formazione e costituito in parte con elementi di scarsa preparazione militare, aveva superato brillantemente l'esame, determinando all'interno dello stesso una maggior stima reciproca, che rinsaldò ulteriormente la coesione del gruppo.
Renato Faggian (Gaston), I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza Imperiese. Diario partigiano 1944-45, Ed. Cav. A. Dominici, Imperia, 1984,  pp. 53-55