sabato 10 agosto 2024

Cade Romano, che si diceva avesse preso parte a Roma all'attentato di Via Rasella

Degna, Frazione del comune di Casanova Lerrone (SV). Fonte: F.A.I.

Il 26 gennaio 1945 riprese il grande rastrellamento ai danni delle formazioni della Divisione "Silvio Bonfante", iniziato sei giorni prima. Verso la sera del 26, infatti, il Distaccamento “Giuseppe Catter” della III^ Brigata “Ettore Bacigalupo” con una marcia di quasi cento chilometri si portò dalla Val Pennavaira alle pendici del monte Torre. Giunti nei pressi della Cappella Soprana di Stellanello (SV), quattro garibaldini si accantonarono in un sito da cui avvistarono una colonna di “Monte Rosa”. “Il commissario Gapon (Renzo Scotto), il capo squadra Bruno (Bruno Amoretti), i garibaldini Marat e Franco (Dante Del Polito) combatterono eroicamente, uccidendo il tenente comandante del pattuglione, un sottoufficiale e quattro soldati. Il nemico rimane disorientato e facilita lo sganciamento dei garibaldini”: così annotò Luigi Massabò “Pantera”, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", nella sua Cronistoria militare della VI^ Divisione “Silvio Bonfante” [n.d.r.: documento inedito perlomeno nel 1999, al momento della stesura della qui citata tesi di laurea, documento conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia]. Tra quei partigiani vi era anche “Marat” (Renzo Urbotti, nato nel 1920 a Reggio Emilia), che dopo pochi metri morirà per le ferite riportate nello scontro. Anche il giorno 27 gennaio 1945 fu segnato da vasti rastrellamenti nemici, in particolare da formazioni della “Muti” e della “Monte Rosa”, che batterono la zona di Ginestro [Frazione di Testico in provincia di Savona]. Alle 7 del mattino “la pattuglia a fondo valle comunica che il nemico si avvicina alla nostra zona… le squadre vengono disposte in ordine di combattimento. Il garibaldino Brescia (Longhi Mario) allo scoperto, con il suo inseparabile M.G., apriva il fuoco contro il nemico avanzante. Una raffica avversaria gli asportava l’arma dalle mani… veniva colpito mortalmente alla testa”: ancora una memoria di Luigi Massabò “Pantera”, Op. cit. Durante lo stesso combattimento periva, altresì, il garibaldino “Romano” (Paloni Silvio). Le due squadre del Distaccamento “Giovanni Garbagnati” della I^ Brigata “Silvano Belgrano” della Divisione "Silvio Bonfante" riuscirono ad aprirsi la strada per la fuga perdendo un fucile tapum ed una macchina da scrivere. Il 28 gennaio le truppe addette ai rastrellamenti abbandonarono le valli presidiate nei giorni precedenti (Pennavaira, Arroscia e Lerrone), ad eccezione della valle di Andora che sarà abbandonata il giorno successivo. Unico grande presidio della zona rimarrà quello di Borgo di Ranzo, sede comunale di Ranzo (IM), che ospiterà circa centoventi soldati delle “Brigate Nere”. Cessato il pericolo costituito dai rastrellamenti dei giorni precedenti, il Comando Divisionale della “Bonfante” dispose lo spostamento nella valle d’Arroscia (parte nord) del Comando della III^ Brigata e della sua Intendenza, mentre il Distaccamento "Giuseppe Maccanò" della III^ Brigata “Ettore Bacigalupo” si spostava nella zona di Aurigo ed il Distaccamento “Gian Francesco De Marchi”, sempre dell’appena citata Brigata, in Val Pennavaira.  Rocco Fava di Sanremo (IM), "La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)" - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Il riposo di Gapon [n.d.r.: Felice Scotto, commissario della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della Divisione Garibaldi "Silvio Bonfante] è breve, il freddo è intenso e fermarsi all'aperto sarebbe fatale per tutti. I quattro scendono a un casone a Cappella Soprana, il pensiero dei compagni che fra poco saranno in salvo li tranquillizza in parte, ma dà anche un'acuta malinconia. Nel casone sono soli, intorno freddo, neve, squallore. Che fare? Accendono un fuoco per scaldarsi, per ravvivare l'ambiente, per asciugare gli abiti bagnati, per sentirsi meno soli.
Non saranno più soli fra poco: un gruppo di Cacciatori degli Appennini ha visto il fumo levarsi dal casone; di solito a quell'altezza i casolari sono vuoti d'inverno: quel fumo puzza di ribelli, gli alpini decidono di andare a vedere.
Gli alpini salgono lungo il pendio cauti, silenziosi: è necessario cogliere i partigiani di sorpresa e intorno il terreno è bianco di neve e scoperto; se i ribelli avessero una mitraglia pesante e sparassero sarebbero guai.
Bruno avvista gli alpini ed avverte: «Gapon, c'è la Monte Rosa!». I partigiani guardano la colonna che sale e comprendono che ormai è tardi per uscire: i fascisti sono troppo vicini e loro troppo stanchi, verrebbero colpiti agevolmente nella fuga allo scoperto. Non rimane che attendere, attendere cosa? Di essere assediati che hanno solo tre moschetti ed un mitra Mas francese, che tira solo a raffica ed a breve distanza?
Gapon ha un piano, disperato, ma il solo possibile: attendere, attendere che il nemico sia a pochi metri, che l'ufficiale in punta di piedi si avvicini ad una porta, allora Gapon si affaccia all'altra che è a fianco della prima e spara sul tenente, gli altri assieme tirano sul grosso. Il nemico è sorpreso, esita, i nostri tirano ancora, gli alpini ripiegano lasciando sul terreno il tenente e cinque morti, allora i partigiani escono e si danno alla fuga. Bruno viene ferito ad una gamba, Marat [Renzo Urbotti] cammina a stento. Allora Gapon decide di fermarsi da solo, tratterrà il nemico facendo fuoco col MAS, attirando su di sé i colpi degli alpini, darà forse agli altri la possibilità di salvarsi. Gapon ha pochi colpi, spara come può raffiche brevi, poi si ritira a balzi, inseguito dalle raffiche del nemico, fin quando un banco di nebbia provvidenziale lo mette al coperto.
Lo scontro di Cappella Soprana costò al nemico sei morti, a noi uno: Marat che non riuscì a superare i disagi della marcia e del clima, che con Bruno perse la strada e nella notte finì assiderato presso il passo di Cesio.
Nei giorni tra il 24 ed il 27 Pantera [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"], che era rimasto nascosto presso Casanova, riesce a raggiungere Osvaldo [Osvaldo Contestabile, commissario della stessa Divisione partigiana] a Segua [borgata del comune di Casanova Lerrone (SV)].
La situazione in Val Lerrone è sempre grave, pattuglioni nemici del presidio di Casanova percorrono la carrozzabile a tutte le ore, tuttavia la frazione di Segua, per la stessa vicinanza allo stradone, è trascurata dagli alpini che non sospettano che un Comando partigiano possa rimanere in una zona tanto esposta. Il Comando vi sosterebbe ancora se non gli fosse giunta una notizia di una gravità incalcolabile: a Casanova è stato catturato Pimpirinella, una staffetta che è al corrente della sede del Comando, anzi conosce la stessa ubicazione dei rifugi di Segua. Poco dopo si sparge la voce che, durante l'interrogatorio, Pimpirinella ha parlato.
Il nemico da Casanova può piombare a Segua in mezz'ora, non vi è quindi da esitare, il comando deve partire. Per dove? Si decide di andare a Ginestro: là c'è un gruppo numeroso del G. Garbagnati, la banda di Stalin; in caso di bisogno si potrà contare su uomini decisi e su armi discrete. Partono così Pantera, Osvaldo ed una staffetta, quello che rimaneva del Comando della Bonfante.
Il nemico invece di attaccare Segua aveva già come obiettivo Ginestro. Perché? Ci fu chi lo mise al corrente dello spostamento? Probabilmente no, forse la verità fu diversa da quanto avevamo supposto. E' probabile che Pimpirinella, interrogato dagli alpini su dove fosse il comando divisionale, abbia compreso che tenersi sulla negativa era rischiare la pelle o la tortura. Non volendo tradire e sapendo che era nella zona di Degna fece il nome di Ginestro. Perché proprio Ginestro? E' difficile dirlo, probabilmente perché il nemico aveva già visitato Vellego, Casanova, Degna, Poggiobottaro e Tèstico. A Poggiobottaro anzi era entrato più volte nella casa dove era il S.I.M. senza trovare traccia dei partigiani nascosti. Il nemico sapeva che il Comando era in Val Lerrone, aveva creduto che fosse ancora presso Marmoreo ed aveva battuto la zona a fondo. Non si poteva far quindi il nome di questi paesi perché il nemico non vi avrebbe creduto e sarebbe passato alle torture. Non rimaneva incontrollata che qualche frazione isolata come Segua e Ginestro; è probabile che il prigioniero abbia fatto questo nome per salvarsi e sviare le ricerche; per questo in seguito verrà da Pantera accusato di tradimento. L'accusa resterà però solo teorica perché Pimpirinella sparì e si disse che fosse deportato in Germania.
A Casanova quindi il 26 si sospettava che il Comando della Bonfante fosse a Ginestro: prevedendo una forte resistenza si decise di tentare il colpo in grande stile, non uno avrebbe dovuto sfuggire.
Ginestro è situato in una valletta laterale scavata da un ruscello che nasce sotto lo stradone Tèstico-Cesio e che finisce nel Lerrone. Due mulattiere provenienti da Degna e da Vellego scavalcano il Lerrone, si uniscono a fondovalle  presso la cappella dell'Ascensione, indi salgono nella valletta ripida e chiusa costeggiando il rivo sul lato occidentale. Il paese di Ginestro è situato in alto, verso la testata della valle, la massima parte sul versante occidentale verso Cesio, qualche casupola sul versante di fronte. Le due creste della piccola valle sono percorse da sentieri e mulattiere, i pendii sono a castagni, ulivi e rovi, molti rovi che rendono impraticabili le zone senza strade ed anche qualche sentiero come quello che dalla frazione orientale dovrebbe portare a Degna.
Questo il terreno, ottimo d'estate, mediocre d'inverno perché l'occultamento vi è difficile per la ristrettezza della zona e la scarsità di alberi a foglie perenni. Se si occupano in tempo le creste, la valle è difendibile. In caso di attacco di sorpresa ci si potrebbe ritirare su Poggiobottaro, Tèstico, Vellego e Degna, è però possibile essere anche attaccati simultaneamente da tutti questi punti ed allora la situazione può diventare disperata.
Due squadre del Garbagnati presidiano la frazione orientale, in quella principale ad occidente c'è una buona banda locale su cui si può contare, almeno per il servizio di guardia: sono giovani che non hanno risposto al bando italo-tedesco di Casanova e quindi condividono il nostro destino. Le sentinelle partigiane controllano la cresta orientale di Poggiobottaro e gli accessi da Tèstico, i borghesi la cresta verso Cesio e la mulattiera di fondovalle.
La mattina del 27 i borghesi danno l'allarme: colonne provenienti da Degna e Vellego risalgono la valle puntando verso il paese: sono Cacciatori degli Appennini, non si sa quanti siano ma è evidente la loro intenzione di rastrellare.
Appena dato l'allarme i partigiani impugnano le armi e puntano verso la cresta: se riescono ad arrivare in cima potranno dare una buona lezione ai rastrellatori perché con le mitraglie pesanti piazzate sulla cresta potranno battere agevolmente la strada di Ginestro. E' necessario salire rapidamente per non essere colti sul versante in fase di spostamento. Purtroppo è già tardi: come si temeva, il nemico non attacca solo da fondovalle. Mentre salgono, i garibaldini incontrano la pattuglia che era in cresta che scende: ci sono i tedeschi che da Tèstico salgono sull'altro versante. Sono già in cresta? E' probabile perché, quando la sentinella li ha avvistati, erano ormai vicini. La pattuglia ha preferito scendere ad avvisare piuttosto che dare l'allarme sparando per non rivelare la propria presenza. Questo ritardo ci è fatale: ormai i partigiani sono tra due fuochi: bloccati sul pendio da tre lati col nemico di fronte, di sopra e di fianco.
Riconquistare la cresta è difficilissimo perché dal versante di fronte gli alpini possono controllare i nostri movimenti e spararci addosso; sperare che il nemico non ci veda è impossibile, perché la manovra indica chiaramente che il rastrellamento è per noi. Non rimane che cercare di ripiegare verso Degna per il vecchio sentiero impraticabile, passando come si potrà. Se necessario si darà battaglia per aprirsi il varco.
La lotta si sviluppa violenta: il nemico piazzato tra gli ulivi e nel paese di fronte tira sui nostri con tutte le sue armi, i partigiani, occultati tra i roveti ed i cespugli, si spostano a tratti, a brevi balzi rapidi, verso il fianco libero, cercando di non esporsi ai colpi nemici. Le armi del Garbagnati rispondono ai colpi cercando di individuare le mitraglie più pericolose, di coprire la ritirata dei compagni.
I partigiani sono abituati a vedere la morte da vicino; pure poche volte una banda si trovò in una situazione così grave; erano necessari tutta l'esperienza, l'allenamento, il coraggio affinati in lunghi mesi di lotta per riuscire a sganciarsi. Nella ritirata si forma un gruppo composto da Osvaldo, Pantera, Formica, Pirata e Brescia: procedono a sbalzi fra i rovi fin quando vengono bloccati da un piccolo dirupo: quattro o cinque metri più sotto è la piazzola di una carbonaia battuta delle mitraglie nemiche, più in là il bosco. E' necessario saltare sotto il fuoco. Prima tenta Osvaldo: una raffica di colpi gli strappa la coperta dalle spalle e lo ferisce leggermente ad un piede, ma riesce a passare. Poi è la volta di Pirata, che era stato con la Matteotti: viene colpito ad un braccio e perde il fucile automatico. Poi è la volta di Pantera, Formica e Brescia: passano incolumi. Al margine del bosco Brescia si ferma, prende il mitragliatore che ha portato con sé e riprende a sparare sui fascisti che gridano ai partigiani di arrendersi. Per meglio sparare si alza in piedi, invano incitato da Pantera a venir via. Una raffica nemica lo colpisce alle braccia, un'altra gli crivella il ventre. Gli altri proseguono la ritirata al coperto del bosco. Cade Romano, che si diceva avesse preso parte a Roma all'attentato di Via Rasella. Chissà come era finito in settembre con i San Marco di base a Chiappa:  quando i partigiani si erano avvicinati al suo reparto aveva fatto arrendere i compagni evitando il combattimento. Mentre il «Garbagnati» ripiegava Romano si smarrì e scese a fondovalle assieme a Mimmo. Scontratisi con una pattuglia nemica vennero catturati entrambi. Poco dopo Mimmo tentò la fuga e, lasciando la giacca fra i rovi, riuscì a dileguarsi. Romano, fuggito anche lui, incontrò un'altra colonna e venne fulminato da una scarica. Sono perduti per il «Garbagnati» la mitraglia di Brescia ed il fucile di Pirata, le altre armi e parte del materiale vengono invece salvate. Il terreno è aspro ed impervio, in molti punti vere barriere di rovi vengono sfondate dai partigiani lanciatisi tra le spine per aprirsi un varco: nuovi sentieri vengono aperti nel sottobosco nella disperata fuga della banda sotto il fuoco nemico. Anche questa volta si riesce ad uscirne; a poco a poco la valle si allarga, i colpi si fanno più radi, i partigiani passano in Val Lerrone, quindi la banda si disperde.
Le perdite nemiche non furono accertate; qualche tempo dopo il corpo di un alpino fu trovato nella cappella dell'Ascensione: forse un ferito dissanguatosi che aveva cercato un inutile rifugio. Di altri caduti non avemmo notizia.
Il nemico incendiò a Ginestro la cappelletta che era stata la nostra base, saccheggiò a fondo Ginestro usando i metodi propri delle squadre comandate dal cap. Ferraris del quale alcuni dissero di aver riconosciuto la voce che intimava ai partigiani la resa, poi tornò da dove era partito: il colpo era andato in gran parte a vuoto.
Pantera ed Osvaldo ripiegarono su Degna, poi di là proseguirono per Ubaghetta. Osvaldo era malato, una febbre forte lo aveva colpito da qualche giorno e la sua marcia era difficile e lenta. Ad Ubaghetta il nemico si accorse dell'avvicinarsi dei nostri e li attese appostato con una mitraglia: avrebbe ripetuto il colpo già riuscito e che era costato la vita di Miscioscia. Quando i nostri erano ormai quasi a tiro incontrarono un civile che, in preda ad una violenta emozione, li avvertì che il nemico li aspettava. Così questa volta l'agguato andò a vuoto.
Lo scontro di Ginestro fu l'ultimo del rastrellamento: il 28 ed il 29 i nemici sgomberarono la Val Pennavaira, la Val Lerrone, la Valle di Stellanello. In Val d'Arroscia rimase solo un presidio a Ranzo.
Ancora una volta i partigiani possono riunirsi, contarsi, seppellire i loro morti, riannodare le file strappate.
Il bilancio del rastrellamento? Quale era stato intanto l'obiettivo nemico? L'annientamento del movimento partigiano?
L'inverno ci aveva obbligato a scendere in una zona militarmente infelice, senza possibilità di ritirata. Eravamo rimasti in pochi, male armati: se il nostro annientamento non fosse riuscito ora, non sarebbe riuscito mai più. Il rastrellamento invernale era stato la migliore e forse ultima occasione che aveva avuto il nemico.
I mezzi impiegati? Vari: l'attacco diretto contro le bande, il presidio dei paesi, il pattugliamento degli stradoni per impedire il raggruppamento degli sbandati, per aumentare le possibilità di catture fortite. Le minacce contro i civili dovevano impedire che i banditi trovassero appoggio, potessero mimetizzarsi tra i giovani dei paesi per poi tornare ad accrescere gli effettivi delle bande.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 156-160

29 gennaio 1945 - Da "Pantera" [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione sull'andamento della Divisione e sulla dislocazione dei suoi reparti, rispetto ai quali segnalava lo spostamento del Distaccamento "Giuseppe Maccanò" della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" nella zona di Aurigo e del Distaccamento "Gian Francesco De Marchi" della menzionata Brigata in Val Pennavaira.
31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione: "... Il 26 gennaio il commissario di Brigata [III^ Brigata "Ettore Bacigalupo"] 'Gapon' [Felice Scotto] veniva attaccato dai soldati della RSI, ma infliggeva loro la perdita di 6 uomini. I soldati repubblicani occupavano Alto, Nasino, Borgo Ranzo, Borghetto d'Arroscia, Ubaga e Ubaghetta; il 21 gennaio occupavano altresì Casanova Lerrone, Marmoreo, Garlenda, Testico, San Damiano, Degna e Vellego. Il 22 gennaio il nemico abbandonava Borghetto d'Arroscia, Ubaga e Ubaghetta. Il 27 gennaio le forze avversarie attaccavano una squadra la quale riportava la perdita di 2 garibaldini. Durante il rastrellamento il capo di Stato Maggiore della Divisione insieme ai comandanti 'Cimitero' [Bruno Schivo] e 'Meazza' [Pietro Maggio] con 2 Distaccamenti attaccavano in più punti il nemico infiggendo la perdita di 13 uomini e subendo l'uccisione di 1 solo partigiano".
31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" a... allegato n° 24 circa le perdite subite nel mese di gennaio 1945: "... il 23 Germano Cardoletti; il 26 Ettore Talluri, Bruno Cavalli, Walter Del Carpio, Giuseppe Lobba, Oreste Medica, Ugo Moschi, Luciano Mantovani, Fausto Romano, tutti deceduti a Degolla e a Cappella Soprana Renzo Orbotti; il 27 a Ginestro Mario Longhi (Brescia) e Silvio Paloni (Romano)...".
2 febbraio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione sui fatti di Ginestro e di Testico del 27 gennaio 1945, quando vennero attaccate 2 squadre del Distaccamento "Garbagnati" e rimasero uccisi "Brescia" [Mario Longhi] e "Romano" [Silvio Paloni].
3 febbraio 1945 - Dal commissario prefettizio di Albenga ai podestà di Ortovero, Villanova d'Albenga, Casanova Lerrone, Vendone, Nasino, Castelbianco, Castelvecchio, Zuccarello, Cisano sul Neva e Garlenda - Trasmetteva l'ordine della Feldgendarmerie di fare rientrare nella Brigata Nera di Albenga le giovani reclute che, appena arrivate all'arruolamento, si erano allontanate dalla caserma, perché passibili di fucilazione come "banditi".
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

sabato 3 agosto 2024

Partendo da Capo Nero, il primo muro Todt lo troviamo nei pressi della storica "Pria Longa"

Sanremo (IM): Corso Imperatrice

E proprio nell'estate del 1943, anche nella città di Sanremo, la TODT, affiancata in molti casi dalle imprese italiane Paladino di Roma, Bertelè e Piazzoli di Milano, realizzava importanti opere difensive, un muro anti sbarco inframmezzato e guarnito da tutta una serie di postazioni mobili e permanenti, bunker poderosi usati sia come punti di osservazione che come piazzole per batterie costiere.
Il vallo anti sbarco sanremese era dislocato in tre punti precisi della battigia, per la precisione dove la presenza di spiagge consentiva ad eventuali mezzi da sbarco di entrare facilmente in città. Per questa semplice ragione tattica vennero trascurati tutti quei tratti di costa scoscesi, a strapiombo sul mare o separati da questo con muri particolarmente alti, come quelli ferroviari di Villa Helios, corso Imperatrice e la Brise.
Partendo da Capo Nero, il primo muro TODT lo troviamo nei pressi della storica "Pria Longa" (località già nota per il famoso sbarco delle truppe d'occupazione genovesi comandate dal Generale Agostino Pinelli nel giugno del 1753). Tale tratto di fortificazione, superato il rio Foce, si concludeva ad ovest del porticciuolo dell'Imperatrice con una postazione fissa antiaerea e costiera piazzata sul caposaldo più esposto a mare di quella che avrebbe dovuto divenire la dipendenza estiva della casa da gioco sanremese.
Da questo punto e sino al Mulino Bianchi, ex Casa del Fascio, costruito sull'argine destro del torrente San Romolo, i muri di contenimento del sedime ferroviario e del sovrastante Corso Imperatrice, erano di per sé più che sufficienti ad impedire qualsiasi atterraggio di mezzi da sbarco. Tuttavia, proprio di fronte ai giardini dell'Hotel Royal, a scanso di equivoci, era stata eretta una bella postazione per mitragliere, tuttora presente e mascherata da cespugli di pitosforo.
A partire dallo spiazzo antistante il Mulino Bianchi (Sporting Club), il vallo riprendeva la sua continuità verso levante, circondando, lungo la via Umberto (odierna Via Nino Bixio), il porto cittadino reso così del tutto separato e inaccessibile dal lato terra.
Questo secondo tratto, senza dubbio il più importante, terminava oltre i bagni Italia, sul confine con il Morgana, là dove inizia il contrafforte di contenimento a mare della passeggiata Trento & Trieste. A monte degli stabilimenti balneari del Morgana, l'intera via Fiume sino alla sua confluenza con il Rondò Francia, allora priva degli odierni palazzi, aveva tutti i giardini limitrofi minati.
Il terzo e ultimo tratto di muro della TODT riprendeva oltre il bar Sud-Est con un grosso bunker sul mare e, superata la foce del torrente San Martino, sempre intercalato da numerose postazioni campali, giungeva sino all'inizio della Brise, poco sotto il passaggio a livello di fronte al campo Polisvortivo. Al termine del tratto a mare della via alla Brise, sopra l'accesso della galleria ferroviaria in regione Vesca, era, ed è ancora presente, un massiccio bunker adibito ad osservatorio fisso e postazione difensiva costiera.
Queste le opere, facenti parte del Vallo Ligure, realizzate dall'impresa dello sfortunato ingegnere Fritz Todt nel Comune di Sanremo con maestranze locali, formate perlopiù da cittadini allettati da una paga sicura in tempi incerti e grami, ma anche da coloro i quali non volevano più combattere in prima linea una guerra che stava diventando tristemente fratricida.
Renato Tavanti, Sanremo. "Nido di vipere". Piccola cronaca di guerra. Volume primo, Atene Edizioni, 2005

Con i limitati mezzi a nostra disposizione iniziammo con Ciccio Corrado e Virgilio Oddo, nel maggio 1944, il montaggio di una radiotrasmittente someggiabile, da 75 W.
[...] «Alfa» domanda 24 ore di tempo per procurarsi la benzina ed intanto nasconde nel suo ufficio le cassette contenenti l’apparecchio. Il figlio di Millo, Luigino, interessa anche il Dr. Giampalmo della Todt che possiede una Topolino con tanto di O.T. Artz sul parabrise. Adesione e partenza il mattino successivo prestissimo: Luigino Millo, il Dr. Giampalmo, che l’accompagna, e la Topolino hanno la loro gatta da pelare. Quando si dice la fortuna! Fuori Sanremo due militari tedeschi della SS fermano la macchina: «noi andare Imperia…».Sospiro di sollievo dei nostri amici e scorta sicura per almeno venti chilometri con due angeli custodi che nel frattempo si erano sistemati alla meglio sulle cassette.
Ad Imperia una staffetta li attende e, come Dio vuole, filtrando attraverso quattro blocchi tedeschi, la macchina arriva a Tavole accolta da un «urrà» formidabile.
Mario Mascia, L’epopea dell’esercito scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia

A metà ottobre 1944 avvenne a Sanremo la più grave deportazione in massa di civili della provincia.
I tedeschi, partiti con questo obiettivo da Savona, operarono diverse centinaia di controlli ai danni dei cittadini sanremesi.
Centinaia di persone furono avviate al centro di raccolta, costituito nell'attuale Piazza Eroi Sanremesi, circondata da SS armate di mitra e financo di mitragliatrici.
Dopo diverse ore di fermo un numero considerevole di abitanti venne rilasciato, mentre 150 uomini, quelli fisicamente più idonei, vennero fatti salire su camion per essere trasportati alle carceri di Marassi a Genova.
Genova fu una tappa intermedia.
La triste meta era per loro, due settimane dopo, il campo di concentramento di Bolzano.
Si legge in Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, ed. Amministrazione Provinciale di Imperia, Milanostampa, 1977: "a turno sono rapati e passati alla doccia... nell'ufficio materiale ricevono il distintivo: un triangolino di stoffa rossa ed una striscia con il numero di matricola".
Dopo un paio di mesi di vita irta di stenti e di sacrifici, i prigionieri catturati a Sanremo vennero utilizzati, quando le potenze dell'Asse erano ormai agonizzanti, come "liberi lavoratori" in organizzazioni similari alla Todt, di stanza in Alto Adige.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Il 16 ottobre 1944 tra 130 e 160 persone furono catturate durante un rastrellamento nel quartiere della Pigna di Sanremo e inviate al lavoro a Bolzano e nella rete dei suoi sottocampi, e tra il 15 e il 17 novembre altre 60 furono prese nel corso di un’azione antipartigiana nel quartiere collinare sanremese di S. Romolo. Altra manodopera fu prelevata nel corso di rastrellamenti in centri montani e della costa.
Redazione, Liguria, Tante braccia per il Reich

La colonna con i rimorchi dei «Molch» arrivò in città nella notte, destinazione la base che l’organizzazione Todt aveva realizzato a Ponente della città i cui resti (i bunker e le gallerie d’approdo) sono venuti alla luce pochi mesi fa nell’ambito della costruzione del nuovo albergo a Pian di Poma. Li avevano nascosti nella galleria del treno di Capo Nero, perchè non venissero colpiti in caso di bombardamenti o notati da eventuali voli di ricognizione alleati.
Giusto il tempo di renderli operativi, dotandoli ciascuno di due siluri, e da Berlino venne disposto l’attacco. Ma i «Molch», lentissimi e con grandi problemi di manovrabilità (non avevano la retromarcia), non ebbero successo. Incrociarono per circa 30 ore al largo di Mentone e di Villefranche prima di incappare nella squadra alleata che, soprattutto grazie al radar, individuò subito la loro presenza e ritenendo che si trattasse di normali sommergibili li ricoprì di decine e decine di bombe di profondità (che fecero esplodere anche alcuni siluri).
Giulio Gavino, Il fallimento delle “salamandre” di Hitler in missione dalla base segreta di Sanremo, Il Secolo XIX, 21 settembre 2018

Sergio Grignolio (Ghepeu), di Sanremo, lavora giovanissimo come fabbro. Di formazione comunista. Nel 1943 é richiamato alle armi. Dopo l'8 settembre é arrestato e lavora alla Todt per i Tedeschi. Il 1à maggio 1944 effettua un lancio di volantini in fabbrica e poi fugge in montagna. E' stato protagonista di azioni cruente e difficili.
Redazione, Fondo Memoria Orale, Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea

22 Ottobre [1944]
La X Flottiglia Mas che era all'Albergo Splendido, dopo il bombardamento navale dell'altro giorno, dove l'albergo è stato quasi colpito, si è trasferita momentaneamente all'Albergo Astoria, in attesa di trovare altrove, poiché questa casa è già a disposizione della "Wermacht" e della "Todt".
[n.d.r.: dal diario di una ragazza rimasta ignota, figlia di albergatori di Sanremo]
Renato Tavanti, Sanremo. "Nido di vipere". Piccola cronaca di guerra. Volume terzo, Atene Edizioni, 2006

4 gennaio 1945
Risulta che la ditta Paladino è diventata un covo di autentici ribelli, renitenti, disertori e simili.
Certamente questi individui sono mimetizzati per il periodo invernale ed è più che certo che passato il periodo del freddo se ne torneranno ai monti in primavera e li avremo di nuovo di fronte.
Informare il comando tedesco.
Diario (brogliaccio) del Distaccamento di Sanremo (IM) della XXXII^ Brigata Nera Padoan, documento in Archivio di Stato di Genova, ricerca di Paolo Bianchi di Sanremo

7 marzo 1945 - Dal CLN di Sanremo, prot. n° 389/SIM,  alla Sezione SIM della V^ Brigata - Comunicava che 'Piero', responsabile del CLN di Ospedaletti, entrato nella ditta Paladino, si trovava in quel periodo a Taggia con una lettera di garanzia dello scrivente Comitato.
8 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM della V^ Brigata, prot. n° 325, al Comando Operativo della I^ Zona ed alla Sezione SIM della II^ Divisione - Comunicava che nella zona di Taggia (IM) 22 operai della ditta Paladino stavano costruendo baracche, gallerie e trincee...
20 aprile 1945 - Da "Santamaria" al commissario "Orsini" - Informava che "sono arrivati presso lo scrivente 3 uomini, di cui 2 ex Bande Nere ed 1 ex lavoratore dell'organizzazione Paladino".
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Francesco Paladino in RSI dirige l'Organizzazione Paladino (nel dopoguerra viene celebrato re degli imboscati). Nato a Scilla (RC) il 5 novembre 1890, muore a Sanremo (IM) il 16 ottobre 1974.
Redazione, Fondazione RSI

domenica 28 luglio 2024

I nazifascisti trovano Ubaghetta deserta

Borghetto d'Arroscia (IM). Foto: Pampuco. Fonte: Wikipedia

La notte tra il 19 e il 20 gennaio 1945 sembra tranquilla, ma lo è solo in apparenza, perché il nemico è già in movimento. I Tedeschi dislocati a Cesio partono, raggiungono il passo di Ginestro e quindi puntano sul paese di Vellego che raggiungono rapidamente. Avvisati dalle sentinelle borghesi, i giovani si mettono in salvo; però a Degna, il paese successivo sulla carrozzabile, non giunge subito la grave notizia. Dopo un'ora è anch'esso investito, ma i nazifascisti non sembrano avere idee bellicose, cercando solo una guida per farsi condurre in Val Arroscia. I giovani del paese, chiusi in casa, sentono il rumore delle armi, degli zoccoli dei muli e delle scarpe chiodate; non possono uscire, non possono andare ad avvisare gli uomini del Comando della “Bonfante”, mentre la colonna nemica passa a circa duecento metri di distanza dallo stesso.
Sapranno del passaggio del nemico nella tarda mattinata, quando ritornerà indietro la guida borghese che aveva accompagnato la colonna sulla cresta della montagna. La colonna diretta a Bosco è accompagnata dalla oramai spia famosa “Carletto”.
Il Comando della “Bonfante” non ha alcuna possibilità di avvisare i garibaldini dislocati a Bosco. Oramai è tardi. Sperano che le sentinelle del luogo abbiano potuto avvistare il nemico che stava avvicinandosi. Si spera che anche questa azione sia una puntata isolata e non faccia parte di un momento del grande rastrellamento previsto.
Scrive Gino Glorio (Magnesia) nel suo diario: "Il Comando della Divisione “Bonfante” si sposta a Degna per esaminare la situazione più da vicino; quanti erano e come armati, con muli o senza, perché la guardia borghese non ha funzionato? In Val Lerrone la situazione si mantiene calma, ma che avviene di là? Se il nemico, come probabile, tornerà alla base per la carrozzabile della Valle Arroscia, sarà possibile agganciarlo? Sembra che al di là della cresta gli avvenimenti siano più gravi di quanto si temesse. Un borghese che si è spinto in cresta, riferisce che le colonne di fumo si levano da Degolla e da Costa Bacelega, segno che il nemico non si è limitato alla puntata su Bosco, lunghe raffiche di mitraglia indicano che la lotta è ancora in corso. Le ore passano lente, uguali, verso mezzogiorno giunge a Segua uno sbandato da Bosco. Aveva i pantaloni strappati e lo sguardo inquieto dell'animale braccato. Racconta che con i suoi era sveglio da qualche minuto, aveva rimesso al fuoco le castagne e si preparava a lavarsi, quando vede a breve distanza i Tedeschi che scendono tra gli ulivi. Urla “I Tedeschi”, e via senza voltarsi. Quelli sparano ma il fuggiasco non vede più niente, e non sa cosa sia successo agli altri. Erano quasi circondati e la resistenza si presentava impossibile. Dopo una corsa selvaggia tra i rovi e gli ulivi, si era trovato fuori tiro senza armi ma con l'asciugamano in mano. Da mezzogiorno fino a sera nessuna novità. A sera una colonna tedesca scende dalla cresta verso Degna. L'allarme è portato in paese dalla figlia di Bertumelin, contadino del luogo che aiutava molto i garibaldini. In pochi istanti borghesi e partigiani spariscono tra gli alberi, mentre i Tedeschi, preannunciati da una raffica di mitragliatrice, entra in paese. Dopo mezzora Degna è di nuovo libera, il nemico ha proseguito per Cesio. Si spera sia tutto finito. Il giorno 21 niente di nuovo in Val Lerrone. Il comandante Olivero e Gustavo Berio (Boris) lasciano la Divisione, vanno oltre la strada statale 28 in cerca del Comando I Zona Operativa Liguria, per appellarsi alla sua autorità, poiché non riescono più a controllare la situazione. La Divisione rimane così affidata al commissario Osvaldo Contestabile e al vicecomandante Luigi Massabò (Pantera). La sera del 21 il SIM, trasferitosi a Poggio Bottaro, annuncia che il rastrellamento è sospeso in seguito all'offensiva sovietica; non si capisce il collegamento tra i due eventi, ma la notizia è quella. Il 22 la situazione si chiarisce di colpo. La Valle Arroscia è presidiata dai Tedeschi e dai Cacciatori degli Appennini...".
Ma vediamo un poco più da vicino cosa è accaduto nei paesi attaccati il primo giorno di rastrellamento. All'alba del 20 un poderoso schieramento di forze irrompe nella zona della "Bonfante" col compito di rastrellare e distruggere definitivamente le formazioni partigiane ivi dislocate.
Francesco Biga  (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. IV. La Resistenza nella provincia di Imperia dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 35-37

Il 21 gennaio 1945 il comandante Giorgio Giorgio Olivero ed il vice commissario Gustavo Boris Berio lasciarono la sede della Divisione "Silvio Bonfante", per provare a fare il punto della tragica situazione al comando di Zona, lasciando la formazione affidata al vicecomandante Luigi Pantera Massabò. Il 21 gennaio la divisione repubblichina Monte Rosa occupava Casanova Lerrone (SV), Marmoreo, Frazione di Casanova Lerrone (SV), Garlenda (SV), Testico (SV), San Damiano, Frazione di Stellanello (SV), Degna, Frazione di Casanova Lerrone (SV), e Vellego, Frazione di Casanova Lerrone (SV), dopo avere già occupato il giorno prima Alto (CN), Borgo di Ranzo (sede comunale di Ranzo), Borghetto d'Arroscia (IM), Ubaga e Ubaghetta, Frazioni di Borghetto d'Arroscia (IM). A Marmoreo il nemico uccise il civile Settimio Testa.Nei tre giorni successivi le formazioni della Divisione "Silvio Bonfante" sfuggirono ai rastrellamenti  nemici di San Damiano, Rossi, Frazione di Stellanello (SV) e Marmoreo, Frazione di Casanova Lerrone (SV). Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Nelle prime ore di sabato 20 gennaio tre colonne naziste e alcune compagnie di Cacciatori degli Appennini giungono in zona provenienti da Borghetto d’Arroscia, Casanova Lerrone e Pieve di Teco. La pattuglia garibaldina avvista il nemico e apre il fuoco (dal diario militare di Luigi 'Pantera' Massabò). Al rientro dalla zona di Marmoreo dove ha portato viveri, il ventitreenne addetto all’Intendenza Mario Miscioscia avvista una delle tre colonne nazifasciste che si sta dirigendo verso Ubaghetta. Impossibilitato a sorpassarla senza farsi notare e trovandosi in una posizione che gli rende difficile la fuga, per dar l’allarme ai compagni Mario lancia contro la colonna una bomba a mano e s’avvicina ulteriormente per scaricarle contro la pistola: il colpo di mano nemico viene così scongiurato. Una raffica però colpisce mortalmente Mario: all’ufficiale fascista che gli offre di darsi prigioniero in cambio delle cure che gli avrebbe fatto prodigare, risponde: “Preferisco la morte al disonore di venire con voi”, frase riferita dallo stesso ufficiale a persone di Borgo di Ranzo. I nazifascisti trovano Ubaghetta deserta: i partigiani dislocati nei dintorni si sono allontanati e anche i contadini hanno abbandonato le loro case. Tuttavia, nel tentativo di sottrarsi al rastrellamento, sabato 20 gennaio 1945 il ventenne Germano [Cardoletti (Redaval)] resta ferito gravemente a una gamba con frattura dell’osso. In qualche modo riesce a nascondersi ma verso sera viene scoperto e catturato dai nazifascisti: portato su una scala a Borghetto d’Arroscia gli viene praticata una medicazione superficiale e viene adagiato su un dito di paglia con una sola coperta. Il maggiore comandante del battaglione dice che Germano sarà portato all’ospedale di Pieve di Teco. Eppure per tre giorni Germano resta privo di ogni cura: dei circa 60 uomini della compagnia presente a Borghetto solo un sergente maggiore mostra attenzione verso di lui. Probabilmente Germano viene interrogato, forse con percosse e torture, ma nessuna informazione ottengono i fascisti sulle posizioni dei distaccamenti in zona. Alla sera di lunedì 22 gennaio un tenente coi capelli grigi annuncia che il tribunale militare (pare composto solo da lui e da un altro soldato) s’è adunato e ha condannato Germano a morte. Nel tentativo di salvargli almeno provvisoriamente la vita, il locale sacerdote don Casa si offre invano con altri per portarlo all’ospedale. Al sacerdote che dalle ore 5.30 di martedì 23 gennaio 1945 è in attesa dell’ultimo colloquio, neppure viene concesso di parlare a Germano se non cinque minuti prima dell’esecuzione. A quel punto la voce di Germano è talmente debole che il sacerdote non è certo d’aver compreso il nome del padre Cesare e quello della madre Erminia. Alle ore 7 lo sfinito Germano viene fucilato a vent’anni dal plotone fascista d’esecuzione sulla piazzetta del municipio di Borghetto d'Arroscia in provincia di Imperia.
Redazione, Scheda biografica di Germano "Redaval" Cardoletti, Centro Documentazione Resistenza ANPI Voghera

venerdì 19 luglio 2024

Quel giorno dovevano salire i Tedeschi in paese

Viozene, Frazione del Comune di Ormea (CN). Foto: Arbenganese. Fonte: Wikimedia

Nella notte dal 5/6 dicembre 1944 alcune donne, giunte da Ponte di Nava, recano la notizia che il giorno dopo i Tedeschi sarebbero saliti a Viozene [Frazione del Comune di Ormea (CN)] ed io fui informato di ciò.
Il mattino seguente, dopo aver celebrato la Santa Messa, uscito fuori della chiesa fui colpito da uno strano ed insolito silenzio che regnava in paese. Domandato il motivo mi fu risposto che quel giorno dovevano salire i Tedeschi in paese e che a quella notizia, portata a Viozene nella notte, quasi tutti i partigiani e la popolazione erano fuggiti prima che facesse giorno.
Avevo dormito nella vecchia canonica attigua alla chiesa, ma alla notizia mi recai nella nuova per dare l'allarme in caso vi si trovassero ancora delle persone. Trovai l'edificio aperto e vuoto mentre i pochi partigiani ammalati si erano già allontanati, lasciando tuttavia chiari segni della loro presenza in passato. Allora cercai di far sparire ogni traccia sospetta, specialmente nel salone del primo piano adibito ad infermeria, quindi ritornai in chiesa in attesa di eventi.
Nel primo mattino, mentre le persone rimaste stavano chiuse in casa, un gruppo di partigiani di stanza in Pian Rosso, tra cui un certo Gian Luigi Martini di Diano Marina ed un certo Ramoino di Cesio, forse ignari dell'allarme della notte precedente, scesero in paese in cerca di viveri. La popolazione diede loro tutto il necessario purchè si allontanassero subito, dato il pericolo incombente; così non tardarono a riprendere la via di Pian Rosso, quantunque considerassero con scetticismo la paura dei Viozenesi. Appena giunsero in località Baraccone, ove ha inizio il sentiero che sale a Pian Rosso, dalla Costa del Pagano, di fianco a Viozene, dalle fasce allora coltivate, all’altezza della Borgata Toria, incominciò un infernale fuoco di mitragliatrici e di altre armi da fuoco tedesche.
I Tedeschi (come dopo si seppe) dalle prime ore del mattino si erano appostati in quel posto da cui si poteva avere sott’occhio tutta Viozene e la zona circostante. Ai primi colpi sparati, il Martino sopraddetto incominciò a zoppicare: era stato colpito da una pallottola ai piedi e si diresse, camminando come poteva, verso la Borgata Mussi, preceduto da un suo compagno di Genova.
Il Ramorino, con altri compagni, si precipitò a valle verso il Negrone e con quanti erano con lui riuscì a mettersi in salvo nella zona di Pian Cavallo. Il Martino ed il suo compagno, mentre stavano fuggendo verso la Borgata Mussi, si imbatterono in una formazione di Tedeschi appostati nei pressi di detta Borgata.
La zona di Viozene, con un piano ben premeditato, era stata chiusa, fin dalle prime ore, in una ferrea morsa da Tedeschi provenienti da Ponti di Nava e da Upega. I due furono immediatamente fucilati sul posto: il compagno del Martino (di cui lo scrivente non ha potuto conoscere il nome) sul sentiero che da Viozene porta ai Mussi, proprio nel punto in cui il ruscello attraversa detto sentiero; il Martino che seguiva a distanza, essendo ferito ai piedi, un po’ più avanti verso Viozene, al di sopra dello stesso sentiero. Una croce di legno fu posta per entrambi sul luogo ove furono fucilati.
Per tutta la giornata continuarono gli spari e le raffiche tedesche in tutte le direzioni, tra il terrore della popolazione rimasta in paese, chiusa nelle loro case, in attesa di qualche tragico destino. Verso sera i Tedeschi, muovendo dai Mussi e da Toria, si riunirono in Viozene.
Il Parroco sottoscritto, subito ricercato, fu appoggiato al muro della Chiesa per essere fucilato. Gli scarponi militari ed altri indumenti, avuti in cambio da soldati italiani di passaggio, che gli trovarono addosso, dopo avergli aperto la talare, furono sufficienti cause della sua condanna. Mentre già il gruppo di soldati Tedeschi stava estraendo le pistole, uno scoppio fortissimo, a brevissima distanza, li mise nello scompiglio e li fece momentaneamente fuggire in cerca di un rifugio. Il sottoscritto approfittò di questo momento di confusione per fuggire anche lui e andò a nascondersi in un oscuro angolo in fondo alla Chiesa. Ricercato poco dopo, non fu ritrovato dai Tedeschi, i quali dalla Chiesa entrarono nella Sacrestia e di qui nella vicina Canonica mettendo a soqquadro e distruggendo ogni cosa.
Tutti gli uomini trovati in paese furono, a forza, fatti uscire dalle loro case e condotti, tutti insieme, in un prato nel centro dell’abitato (nel luogo ove fu costruita la casa del Sig. Dulbecco) davanti ad un nido di mitragliatrici; intanto la soldataglia, entrata nelle case, faceva man bassa di quanto trovava e rubava il poco bestiame della popolazione. Fatto bottino di quanto ancora trovarono in Paese, i Tedeschi presero la via di Ponti di Nava.
Si seppe poi anche che essi al mattino, salendo a Viozene, avevano ucciso un innocente individuo, residente in una Borgata di Ormea, il quale stava scendendo verso Ponti di Nava e di cui il sottoscritto non sa il nome. Fu ucciso dai Tedeschi a Rio Bianco ed ivi rimase seppellito (nella nuda terra) fino al termine della guerra.
La giornata si chiuse tra il terrore della popolazione, privata di tutto il bestiame che ancora le era rimasto e nella pesante incertezza sulla sorte di quanti erano fuggiti.
Per fortuna in quella triste giornata Viozene non ebbe a subire perdite tra la popolazione.
I fuggiti di casa, specialmente i giovani, rimasero tutto il giorno nascosti nei cespugli, nelle caverne e negli anfratti di Pian Cavallo e del Mongioie, donde potevano seguire le mosse dei Tedeschi. Questi, però, due giorni dopo, l’8 dicembre, fecero ritorno a Viozene e vi rimasero fino alla fine del mese. Imposero il coprifuoco nelle ore notturne ed entravano sovente nelle case private ordinando da mangiare ed imponendo che fosse loro preparato ciò che da essi veniva stabilito.
In quei giorni venne devastata la Canonica di Viozene (Villa Bottaro), quella che era stata adibita ad ospedale. I Tedeschi la resero inabitabile, rompendo finestre, porte, mobili, portando via coperte, biancheria ed altri oggetti.
Non soltanto in quel periodo i Tedeschi rimasero in Viozene, ma giorno e notte mantennero, fino a quando se ne andarono, un rigoroso controllo dei valichi delle Saline e del Bocchin dell’Aseo. In quel tempo essi avevano lanciato un forte attacco contro i Partigiani delle Valli Ellero e Corsaglia. Molti cercavano di porsi in salvo verso Viozene attraverso i valichi sopraddetti ed inconsciamente venivano a cadere nelle mani dei Tedeschi che, legati con delle corde, a piccoli gruppi, li conducevano a Viozene e di lì ai forti di Nava, ove venivano fucilati. Questa fu la sorte di tanti giovani di cui le famiglie ignorarono per sempre il luogo ed il genere di morte che ebbero a subire.
Verso la fine di dicembre tutti i Tedeschi ritornarono a Ponti di Nava. La popolazione derubata dai Tedeschi del bestiame e degli scarsi prodotti agricoli (avena, grano, patate) si dibatteva nella penuria, sempre più carente di viveri; unico sostentamento erano le patate.
Don Paolo Regis, Diari, A Vaštéra, Anno XXII - Primavera - Estate 2012

domenica 7 luglio 2024

Il radiotelegrafista inglese Mac tenta un collegamento con Nizza

Fontane, Frazione del comune di Frabosa Soprana CN): manifestazione in ricordo della Resistenza del 21 ottobre 2013

A seguito dell'attacco a Baiardo [10 marzo 1945] da parte di Distaccamenti della V^ Brigata [della II^ Divisione d'Assalto Garibaldi "Felice Cascione"], si scatena furiosa la reazione nemica. Vittorio Guglielmo (Vittò), comandante della "Cascione", (il quale non aveva partecipato all'azione perché a livello tattico, secondo lui, era impossibile conquistare il caposaldo nemico), il "Curto", Armando Izzo comandante della V^ Brigata, il capitano inglese Bentley, il suo radiotelegrafista Mc Dougall, Guido Arnaldi (Guido), Felice Miraglio (Felice), Maiano Alfredo (Lupo), ed altri garibaldini quali staffette o addetti al deposito Intendenza sito nelle case della borgata di Gerbonte, si mettono in marcia verso la stessa grotta pensando di trovarvi rifugio sicuro. Intanto nella notte tra il 10 e l'11 giungono da Sanremo truppe tedesche appartenenti ai RAP (Raggruppamento Anti Partigiani), che riescono a prendere di sorpresa la suddetta borgata senza che fosse dato alcun allarme. Però la tattica partigiana era quella di non rimanere molto tempo nei luoghi abitati. Questa tattica salva il gruppo di uomini menzionati dall'accerchiamento. Infatti, su invito di "Vittò" e di "Curto", che intuiscono il pericolo vicino, prima dell'alba gli uomini, abbandonando Gerbonte e incamminandosi nel torrente Argentina, si dirigono verso la grande grotta che si apre su una parete verticale nelle rocche di Loreto-Ciaberta per rifugiarvisi (raggiungere la grotta voleva dire salire per una scala di corda lunga una ventina di metri). Però, durante lo spostamento, "Vittò", che è in testa alla colonna, scorge nell'oscurità una pattuglia, forse nemica, ad un centinaio di metri di distanza, che marcia in senso contrario. Per non destare allarme e dato che non è sicuro di chi siano, non dice niente e tutto finisce liscio.
Quando il gruppo raggiunge la grotta in posizione di sicurezza, il capitano Bentley si accorge di avere dimenticato l'antenna della radio trasmittente nelle case di Gerbonte, per cui si presenta la necessità di andarla a recuperare. Viene incaricato della missione la staffetta "Lupo", il quale, purtroppo, appena giunto sul posto, viene colpito dal nemico che già si trova nei dintorni: una raffica di arma automatica lo coglie ignaro e lo piega senza lasciargli il tempo di pronunciare una sola parola. Il ritardo del ritorno di "Lupo" fa insospettire il gruppo, per cui parte in missione il garibaldino "Felice". Anch'esso, dopo aver sentito le raffiche nemiche, cerca di mettersi al riparo, ma un colpo di Mauser lo colpisce a morte. E' giorno fatto e le mitragliatrici tedesche piazzate a Creppo impediscono ogni ulteriore tentativo di salvataggio per i due compagni, oramai caduti. Lo stesso giorno 11, nei pressi di Bregalla, viene ucciso dai Tedeschi il garibaldino Paolo Oddo (Bruno).
Catturati il 3 marzo in Grattino (Valle Argentina), dopo otto giorni di torture subite a Molini di Triora dove erano stati condotti, i garibaldini Quinto Verrando (Basilede) e Livio Maggi (Maggio) sono obbligati a ritornare nei pressi di Agaggio Superiore, in località dove i Tedeschi pensavano fossero i partigiani, perché ne indicassero l'ubicazione precisa. Rifiutatisi di parlare, in Pian del Carré ricevono un colpo di pistola alla nuca. Quinto muore subito, mentre il compagno Maggi viene lasciato agonizzante, nella sua pozza di sangue: soccorso dai contadini, morirà dopo una diecina di giorni di indicibili sofferenze. Anche i garibaldini Giobatta Lanteri (Seccù) e Gustavo Stoppiani cadono in combattimento, l'uno nei pressi di Goina (Triora) e l'altro a Molini di Triora. A Latte di Ventimiglia, il 13 è fucilato il garibaldino Guido Costanzo (Clark).
Ritornando alla grotta, il gruppo vi rimane per tre giorni. Ma, poiché le batterie della radiotrasmittente sono scariche, il radiotelegrafista inglese Mac Dougall, accompagnato da "Guido", è obbligato a recarsi alla centrale elettrica di Loreto per caricarle. Costruita un'antenna di emergenza, il radiotelegrafista tenta nuovi collegamenti con Nizza. Individuata la fonte delle onde della trasmittente, i Tedeschi continuano i rastrellamenti nel torrente Argentina e sulla montagna, ma con esito negativo. Non immaginano che le onde radio escano da una parete rocciosa, verticale, della montagna.
Dopo tre giorni, essendo la zona rastrellata dai Tedeschi, che continuano a pattugliare i dintorni, e non potendo quindi effettuare le trasmissioni per la vicina presenza nemica, "Curto" consiglia di cambiare zona. Alle prospettate difficoltà da parte di "Guido", che ritiene pericoloso lo spostamento, quello, nel tipico dialetto ligure, risponde: "Nel libro dei garibaldini non c'è scritta la parola paura", per cui esce per primo. Inosservato, tra colonne tedesche, riesce a spostarsi per raggiungere il territorio della V^ Brigata, a levante della Valle Argentina. Dietro di lui, uno ad uno, escono anche gli altri componenti il gruppo, tranne i due Inglesi, paralizzati dal terrore, ma sono obbligati a rassegnarsi alla sorte e a seguire gli altri.
Mentre ci stiamo avvicinando ai giorni dei lanci aerei, ai quali dedicheremo nei prossimi capitoli ampio spazio, seguiamo un momento l'itinerario di marcia e spostamento del Comando I^ Zona Operativa Liguria verso il campo dei lanci stesso.
Questo Comando istituito, come sappiamo, il 21 dicembre 1944, nel marzo 1945 è così composto:
Comandante: Nino Siccardi (Curto); Commissario: Lorenzo Musso (Sumi); Ispettore: Raffaello Paoletti (Giulio).
Il gruppo, messosi in movimento e attraversato il torrente Argentina, per Bregalla, Monte Pellegrino, verso mezzanotte giunge tra la galleria del Garezzo e San Bernardo dove pernotta. Il giorno dopo marcia verso la valle di Mendatica che è coperta di nebbia, mentre è in corso un vasto rastrellamento. Si odono raffiche di mitra e colpi di fucile Mauser. Infine, per San Bernardo di Mendatica e Valcona giunge a Upega, dove i componenti, dopo tre giorni di fame, riescono a mangiare un piatto di minestrone caldo. Nel pomeriggio al gruppo si aggregano tre prigionieri russi che hanno disertato dai Tedeschi. Il gruppo pernotta a Upega, dove il mattino del 16 da una centralina locale il radiotelegrafista inglese Mac tenta un collegamento con Nizza; ma il collegamento non riesce a causa della corrente elettrica che è alternata. Successivamente il gruppo si sposta nuovamente a Valcona dove rimane altri tre gioni, e poi a Pian Rosso, a monte di Viozene, dove si prevede avvengano i lanci. Don Paolo Regis, parroco locale, si reca ad Ormea, nel tentativo di far ricaricare le batterie della trasmittente. Ma il tentativo non riesce, anzi, viene fermato dai Tedeschi mentre transita con la batteria sulla bicicletta. Si salva per fortuito caso. Il 23, nell'impossibilità di effettuare le trasmissioni, il radiotelegrafista Mac, "Sumi", il parroco e "Guido", tentano di raggiungere Fontane di Frabosa attraverso il Bochin d'Azeo (Mongioie) innevato. Vi riescono in un modo drammatico; ad ogni modo, giunti a Fontane, effettuano alcune trasmissioni. Il radiotelegrafìsta rimarrà sul posto fino al primo lancio che avverrà quasi alla fine di marzo.
Francesco Biga (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. IV. La Resistenza nella provincia di Imperia dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 238-241

domenica 30 giugno 2024

I tedeschi davano alle fiamme le stazioni ferroviarie di Ventimiglia e di San Remo

Sanremo (IM): la vecchia stazione ferroviaria

Il grande rastrellamento Pigna-Triora-Upega era stato attuato dai nazifascisti, a quanto si seppe, per sgomberare dall'insidia partigiana le strade che conducevano al Saccarello, e di là in Piemonte, necessarie per la ritirata in caso di sbarco alleato che i Tedeschi e le autorità fasciste temevano, sulla costa ponentina.
Molti sintomi, oltre alle informazioni fornite dai servizi di sicurezza, erano evidenti: non passava inosservato il diuturno lavoro di otto spazzamine e di cacciatorpediniere angloamericani sulla costa ligure, mentre una buona parte della flotta alleata del Mediterraneo si era concentrata nella rada di Villafranca, e si susseguivano ininterrottamente i bombardamenti aerei sulla costa.
In luglio e in agosto i nazifascisti avevano disposto uno schieramento lineare sulla costa con le forze della Wehrmacht e con le divisioni italiane "San Marco" e "Littorio"; ma nell'autunno, appunto per timore dello sbarco, lo modificarono dislocando le forze sui passi montani in profondità, fuori dal tiro delle artiglierie navali e per bloccare con poche forze, l'infiltrazione nella pianura cuneese delle forze alleate che fossero sbarcate sul litorale ligure. Questa fu la vera causa dei grandi rastrellamenti operati e delle distruzioni provocate. Il 29 di ottobre i Tedeschi davano alle fiamme le stazioni ferroviarie di Ventimiglia e di San Remo, facevano saltare il ponte sul Roja, la polveriera di Bussana e tutti i pali delle linee elettriche. Avevano già distrutto le centrali elettriche delle stazioni ferroviarie di Albenga e Diano Marina, requisito migliaia di biciclette, autoveicoli e cavalli, fatto saltare i carri cisterna sui porti onegliese e portorino, invitato la popolazione con manifesti a sgomberare la costa, minato la zona delle ex Ferriere [ad Imperia], minato la statale n. 28 tra Pontedassio e Chiusavecchia con mine da 200 chilogrammi di tritolo ciascuna (le mine erano poste a quaranta metri circa di distanza una dall'altra), minato le banchine dei porti, distrutto l'impianto del gas a Porto Maurizio, asportato i motori dal pastificio Agnesi, ecc.
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. La Resistenza nella provincia di Imperia da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio dell'Istituto Storico della Resistenza di Imperia, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977  

25 ottobre 1944
Oggi abbiamo avuto [a Sanremo] diverse incursioni aeree, mentre le navi hanno continuato a sparare verso Bordighera e Ventimiglia.
26 ottobre 1944
Questa mattina i tedeschi hanno fatto saltare la stazione di Ventimiglia, già precedentemente minata. Pure a Sanremo sono state poste mine, al porto, alla stazione, sotto la galleria ferroviaria vicino alla Villa Helios e sulla strada (via Aurelia), la villa Belloni e Villa Helios.
27 ottobre 1944
Da ieri c'è molto passaggio di materiale bellico proveniente dalla frontiera; una cinquantina di tedeschi si sono fermati a dormire nel nostro albergo e domattina ripartiranno verso Genova. La maggior parte di questi sono demoralizzati e non vedono l'ora di ritornare alle loro case.
28 ottobre 1944
Altri cinquanta tedeschi si sono fermati a dormire per questa notte. Vengono da Grimaldi; gli americani sono giunti alla frontiera e loro pattuglie arrivano fino a Grimaldi.
30 ottobre 1944
Le truppe tedesche fanno saltare i ponti sul Col di Tenda per impedire agli anglo-americani d'avanzare.
[n.d.r.: dal diario di una ragazza rimasta ignota, figlia di albergatori di Sanremo]
Renato Tavanti, Sanremo. "Nido di vipere". Piccola cronaca di guerra. Volume terzo, Atene Edizioni, 2006

sabato 22 giugno 2024

Un giovane caduto partigiano accomunato nella memoria all'eroico Baletta ed a un patriota di Bordighera

Lastre dedicate a Mario Ponzoni e Giovanni Olivo in Pieve di Teco (IM). Fonte: Pietre della memoria

«In quelle immagini mio padre riassumeva la sua gioventù». Lo dice Gabriella Manfredi, figlia del compianto onorevole democristiano Manfredo nel giorno dell’anniversario della Liberazione. La Manfredi ha deciso, infatti, di divulgare le memorie del compianto padre, Manfredo Manfredi.
«Costretto a sedici anni a raccogliere il cadavere del suo migliore amico fucilato da un plotone di esecuzione dell’esercito tedesco, condannato a morte dopo un processo farsa in cui non si era potuto nemmeno difendere dall’accusa di aver prodotto documenti di identità falsi per dei “banditi”. Condannato per aver aiutato i nemici dell’esercito tedesco e secondo la legge militare tedesca fucilato dal plotone di esecuzione, a diciotto anni». «Quel ragazzo si chiamava Mario Ponzoni. Mio padre aveva  16 anni, troppo pochi per andare sui monti a combattere, ma abbastanza per raccogliere i cadaveri dei fucilati dai nazifascisti», racconta con commozione Gabriella Manfredi.
«Solo dopo molti anni mio padre - prosegue la Manfredi -  iniziò a raccontare quegli episodi, che ho trascritto in forma di diario. Episodi che avevano segnato profondamente la sua vita e conseguentemente le sue scelte di impegno politico contro ogni sopruso. Il giorno dell’inaugurazione del monumento ai caduti di Pieve di Teco, posto proprio sul luogo delle esecuzioni, mio padre disse chiaramente che non aveva mai dimenticato l’odore di quei momenti. “Quell’odore del sangue sulle mie mani era il profumo della Libertà” gridò agli astanti durante il suo discorso, con la rabbia di un sedicenne che vede morire il suo amico più caro. Fu anche quella rabbia a sostenere mio padre, e molti altri come lui, in quel lungo percorso di ricostruzione di un Paese devastato ma non sconfitto. La morte di quei ragazzi ci regalò un sogno chiamato Libertà. Sta a noi coltivare quel sogno, non permettiamo a nessuno di pensare che quel sacrificio sia stato vano, che quelle giovani vite siano state spezzate per regalare la Libertà a chi non la merita».
[...]
Di seguito il “diario” di Manfredo Manfredi di quei giorni tragici concessoci dalla figlia Gabriella che ringraziamo.
6 gennaio 1945
Ecco, è successo. Hanno arrestato Mario. Mario amico mio, ti hanno portato ad Albenga, dicono ci sarà un processo! Ma tu cosa hai fatto?? Hai solo diciotto anni, che reato hai mai commesso? Non si riesce a sapere nulla, il Parroco ha detto che si informerà.  Aspettiamo, ma io ho paura amico mio.
10 gennaio
Amico mio non ci posso credere! Ti hanno processato, un tribunale militare tedesco, stasera è passato il banditore con il suo tamburo per declamare a tutta Pieve la tua condanna. Amico mio, ti hanno condannato a morte. A morte!! Il tamburo rullava, e la voce stentorea ci invitava a non uscire di casa domattina, per nessun motivo. Mario ho tanta paura, non posso immaginarti solo stasera in quella cella. Il mio cuore non regge al pensiero di domani.
11 gennaio 1945
Fa freddo stamattina, i campi sono brinati, un silenzio strano ci avvolge come un sudario. Ecco il rumore delle camionette, le portiere sbattono, i chiodi degli scarponi risuonano sul selciato, insieme a pochi secchi comandi. Nel silenzio un urlo, riconosco la voce di tua madre che grida il tuo nome tra i singhiozzi, mentre l’eco dei passi si perde. Silenzio. Spari. E ancora silenzio. Le portiere sbattono ancora, le camionette ripartono. Arriva il parroco trafelato, piange. Devo andare. Devo venire da te l’ultima volta amico mio. Ti vedo sdraiato nel campo gelato di brina. Quanto sangue, esce dai fori del tuo bel maglione verde, impregna il terreno gelato, che non è più bianco ma rosso, rosso vermiglio. Penso che il tuo maglione è verde, il tuo sangue rosso e la terra bianca di gelo. Sono i colori della mia bandiera, della mia Patria. E quell’odore, di sangue misto a polvere da sparo, non lo dimenticherò mai! Ho solo sedici anni, ma sono diventato un uomo.
Diego David, Manfredo Manfredi nel suo “diario” del 1945: «L’odore di sangue misto a polvere da sparo non lo dimenticherò mai», Riviera24.it, 25 aprile 2021 

Per la prima volta parlo pubblicamente di mio fratello Giovanni Olivo, eroe della Resistenza. Lo faccio con pudore, perché nessuna parola è efficace per esprimere il senso della sua grande e breve esistenza. Giovanni aveva 21 anni quando il 2 Marzo 1945, fucilato dai tedeschi a Pieve di Teco, donò la propria vita per un grande ideale. A me non fu concessa la gioia della condivisione come sorella: ci ha separato la differenza di età. Infatti avevo dieci anni quando lui, studente in medicina all’Università di Bologna, si rifugiò a Rezzo, dove aderì alla lotta partigiana, donando la propria giovinezza. Il suo nome è inciso sui Cippi che ricordano tutti i caduti: Arezzo, Pieve di Teco, Imperia e Bordighera.
La sua assenza-presenza è incisa nel mio cuore. La sua testimonianza è stata per me un faro di luce nei momenti in cui la vita mi ha dato modo di svolgere ruoli delicati, prima come insegnante ed educatrice, in seguito nel ruolo delicatissimo di pubblico amministratore, quale Sindaco della nostra amata Bordighera.
Ho accettato e affrontato situazioni impegnative, spesso laceranti, guardando a Lui, a mio fratello Giovanni, che offrì se stesso perché altri avessero la Vita. Ho voluto che da Rezzo, dove era stato tumulato dopo la sua morte, ritornasse a Bordighera, rispettando il desiderio dei nostri genitori.
E tornò in un giorno speciale: il 14 Maggio 1996, festività di S. Ampelio [...]
Renata Olivo in Paize Autu, Periodico dell’Associazione “U Risveiu Burdigotu”, Anno 7, nr. 4, Aprile 2014

[...] «Per me in particolare questa cerimonia - prosegue il sindaco - ha una connotazione personale perché mia madre era nel gruppo degli arresti insieme a Mario Ponzoni. Mia mamma insegnava nelle frazioni di Pieve di Teco, era maestra e una delle staffette arrestate insieme a Mario Ponzoni che poi fu fucilato e mia mamma e le sue colleghe sono state condannate a morte ma sono riuscite in qualche modo a scappare a Cuneo e si sono nascoste per due anni. Lei non me l’ha mai raccontato e per assurdo lo sono venuto a sapere in età avanzata però è un qualche cosa che sta nell’anima perché il fratello di Mario Ponzoni, Rino, era il mio padrino ed è stata una persona indimenticabile nella mia vita. Ben vengano queste cerimonie che servono a richiamare il ricordo collettivo, gli orrori della guerra e dall’altro l’orgoglio di appartenenza alla propria terra».
«La memoria è il faro nella notte - ha sottolineato il vicesindaco di Albenga Alberto Passino - di quella notte buia che ha visto il nostro paese precipitare nell’orrore. Grazie alla Resistenza e purtroppo anche al sangue anche giovane che è stato versato siamo riusciti a lavare l’onta che il ventennio del nazi-fascismo ha portato alla rovina la nostra bellissima Italia. Grazie quindi alla Resistenza che qua celebriamo purtroppo con i suoi anche ai suoi giovani morti. Grazie a Roberto Di Ferro, medaglia d’oro al valor militare, l’Italia si è potuta riscattare ed è nostro compito come Istituzioni, come cittadini, come Anpi guardare ai giovani perché attraverso l’educazione, attraverso la scuola si possano creare occasioni di confronto, dove la memoria venga sollecitata e riscoperta affinché nulla di più brutto possa di nuovo accadere e ancora grazie a chi ha donato la vita per la nostra libertà».
«Qui ricordiamo Baletta - spiega Giovanni Rainisio, presidente dell’Istituto Storico della Resistenza di Imperia - un ragazzo di quattordici anni che si è schierato, ha scelto di stare dalla parte della libertà, della democrazia, di opporsi all’occupazione tedesca e al regime fascista. È stato un esempio importante, una delle sei medaglie d’oro della Resistenza della nostra provincia ed ha contribuito a far ottenere alla nostra provincia la medaglia d’oro al valor militare della Resistenza. La nostra provincia ha avuto un momento importante nella liberazione, ha avuto più di 600 caduti militari e ha quasi 800 deportati. Credo che la memoria debba essere un momento importante perché è necessario ricordare tutti coloro che si sono sacrificati ma la memoria è importante per il futuro. Se non sappiamo perché siamo qui è perché  viviamo in democrazia, in libertà in una Costituzione varata dalla Resistenza non capiamo che cosa fare per il nostro futuro e soprattutto i giovani se non sanno cos’è stata la Resistenza, se non comprendono il sacrificio che la democrazia e la libertà è costata al nostro paese è difficile che poi si impegnino per un futuro migliore. La libertà e la democrazia non sono conquiste una volta per sempre, le conquiste della democrazia vanno alimentate, sostenute continuamente perché il rischio per la pace, democrazie e libertà è sempre incombente».
«Venire a commemorare Roberto Di Ferro - conclude Vio -  è un momento in cui inevitabilmente torniamo a vivere quei momenti che hanno vissuto le nostre genti. La famiglia di Roberto Di Ferro proveniva da Malvicino ma oramai era albenganese a tutti gli effetti, un ragazzo di 14 anni che aveva adottato, scelto ed abbracciato i valori e i partigiani e i resistenti antifascisti di allora raccontavano che scelse di partecipare alla lotta partigiana consapevole dei rischi che questa comportava e con altri partigiani venne catturato qui vicino, a Trovasta, e dopo un massacro umano a cui fu sottoposto, perché si dice che i tedeschi pensavano che essendo il più giovane avrebbe ceduto alle pressioni fisiche e avrebbe quindi svelato i nomi dei compagni partigiani».
Daisy Parodi, Pieve di Teco, 79esima commemorazione di Roberto Di Ferro, «La più giovane vittima della Resistenza», Riviera24.it, 23 marzo 2024

Imputati: DESCHEIMER - Obleutnant, MENIE - Leutnant, BAUMANN - Gefreiter, KOGER - Hauptmann
Violenza con omicidio art. 185 c.p.m.g.
Parte lesa: PONZONI MARIO
Condanna a morte a seguito di Sentenza del Tribunale Militare del Battaglione tedesco (p. 11). Il Proc. gen. mil. Borsari chiede ai Comandi dei Carabinieri di ZONA svolgere investigazioni. Il 20 settembre 1946 il Gabinetto del Ministero della Guerra chiede informazioni al Land Forces Sub
Commissione A.c. di Roma (p. 25)
ARCHIVIATO DAL GIP DI TORINO (DOC. 89/0)
Relazione finale (Relatore: on. Enzo Raisi), Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti (istituita con legge 15 maggio 2003, n. 107), Approvata dalla Commissione nella seduta dell’8 febbraio 2006, Trasmessa alle Presidenze delle Camere il 9 febbraio 2006, ai sensi dell’articolo 2, comma 4, della legge 15 maggio 2003, n. 107

Codice scheda:C00/00001/01/02/00010
Titolo: R.G. “Ruolo generale dei procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi”: n. 919
Descrizione: Organo giudicante:
Procura Generale Militare presso la Corte di Cassazione:
R.G. “Ruolo generale dei procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi”:
n. 919
Procura Militare presso il Tribunale Militare di Torino.
PM.: Dott. Luigi Gili
RGNR: 328/95
G.I.P. presso il Tribunale Militare di Torino:
Dott. Sandro Celletti
RG:1746/95
Provvedimento di “archiviazione provvisoria”:
14.01.1960 - Procuratore Generale Militare Dott. Enrico Santacroce
Provvedimento di archiviazione G.I.P.:
21.09.1995 - impossibile rintracciare gli autori e ricostruire i fatti per il lungo tempo trascorso
Indagati:
Indagato n. 1: Descheimer
Status: Militare tedesco, tenente, Comandante del battaglione di stanza a Pieve di Teco
Altri dati biografici: presidente del Tribunale militare di guerra del battaglione
Indagato n.2: Menie
Status: sottotenente
Altri dati biografici: primo assessore del Tribunale militare di guerra
Indagato n.3: Baumann
Status: caporale
Altri dati biografici: secondo assessore del Tribunale militare di guerra
Indagato n.4: Koger
Status: capitano
Altri dati biografici:
Parti lese:
Parte lesa n.1: Mario Ponzoni
Genere: maschio
Status: civile
Altri dati biografici: nato il 12.061926 a Pieve di Teco (Im), impiegato comunale. Minorenne al momento della sua uccisione.
Principali fatti contestati agli indagati:
Data e luogo del fatto: 11.01.1945, Pieve di Teco (Im)
Tipologia: violenza con omicidio
Descrizione sintetica: il 30.12.1944 Mario Ponzoni è arrestato per rilascio di una carta d’identità falsa al partigiano Berti (soprannominato Nenini) e l’11.01.1945 è condannato dal Tribunale Militare di Guerra tedesco (senza la presenza di un difensore) alla pena di morte che viene eseguita lo stesso giorno.
Reati contestati: Omicidio e violenza contro privati nemici art. 185 c.p.m.g.
Denuncia:
Tipologia denuncia: individuale
Data: 28.10.1945
Autorità ricevente: Carabinieri di Pieve di Teco.
Nominativo / Autorità denunciante: Omero Ponzoni
Tipologia denunciante: civile, padre della vittima
Sintesi denuncia: il 30.12.1944 il figlio del denunciante, Mario Ponzoni, è arrestato per rilascio di una carta d’identità falsa ai partigiani e l’11.01.1945 è condannato dal Tribunale Militare di Guerra tedesco (senza la presenza di un difensore) alla pena di morte che viene eseguita lo stesso giorno
fascicolo procura generale militare:
Documenti contenuti nel fascicolo:
Copertina fascicolo Procura Torino (frontespizio), Indice atti, Iscrizione notizia di reato, Copertine (2) fascicolo Procura Generale Militare (frontespizio), Scheda Procura Generale Militare, Appunti manoscritti, Lett. Procura Generale Militare al Governo Militare Zona US in Germania, lettera 28.03.1946 del Procuratore Generale Militare Borsari al Ministro della Guerra, lettera 08.04.1946 del Procuratore Generale Militare Borsari ai Carabinieri di Pieve di Teco, rapporto Carabinieri di Pieve di Teco con allegate dichiarazioni del testimone Ponzoni, Omero, Sentenza 11.01.1945 del Tribunale di Guerra Tedesco, Lettera 24.04.1946 della Procura Generale Militare ai Carabinieri di Pieve di Teco , Autorizzazione a procedere del Ministero della Guerra in data 19.04.1946, rapporto Carabinieri di Pieve di Teco in data 09.05.1946, richiesta di consegna degli imputati avanzata al Ministero degli Affari Esteri dal Procuratore Generale Militare Borsari in data 09.09.1946, relazione Commissione delle Nazioni Unite per i Delitti di Guerra, carteggio relativo alla richiesta di estradizione di Baumann, Archiviazione provvisoria 14.01.1960, Richiesta indagini Procura di Torino in data 08.04.1995, Richiesta di Archiviazione 18.07.1995, Comunicazione Carabinieri Torino 13.12.95. Tot.pagg. 37
Archiviazione provvisoria:
14.01.1960
Data di inoltro alla Procura Militare presso il Tribunale Militare di Torino:
03.12.1994
fascicolo del PM - Indagini preliminari - Archiviazione del Gip:
Data notizia di reato: 23.11.1994
Data iscrizione: 09.02.1995
Indagini preliminari: 09.08.1995
Richiesta di archiviazione del PM: Dott. Luigi Gili
Data: 08.07.1995
Motivazione: esito infruttuoso delle indagini finalizzate ad ottenere notizie sugli indagati, scarse probabilità di reperire gli indagati stante il lungo tempo trascorso.
Archiviazione G.I.P.: Dott. Sandro Celletti
Data: 21.09.1995
Motivazione: - impossibile rintracciare gli autori e ricostruire i fatti per il lungo tempo trascorso
Redazione, Fascicolo: R.G. “Ruolo generale dei procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi”: n. 919, Archivi della Resistenza e del '900