Visualizzazione post con etichetta Todt. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Todt. Mostra tutti i post

domenica 29 marzo 2020

Incursione dei partigiani nella caserma Siffredi


Dove sorgeva la caserma Siffredi oggi insiste il Tribunale di Imperia
 
Nella notte dal 28 al 29 giugno u.s. una trentina di partigiani asportarono dalla caserma "Siffredi" di Oneglia, adibita a dormitorio di operai della Todt, circa 40 moschetti nonché un quantitativo imprecisato di coperte, prelevando il custode.
Ermanno Durante, Questore di Imperia, Al capo della Polizia - Maderno, Relazione settimanale sulla situazione economica e politica della Provincia di Imperia, Imperia, 3 luglio 1944 - XXII° 
 
La prima azione importante cui partecipai fu quella dell'incursione nella caserma Siffredi in Via XXV Aprile [attuale nome dell'arteria ad Imperia Oneglia], dove erano accantonati i lavoratori della TODT, e dove in un magazzino era depositata una sessantina di fucili.
Fucili che ci sarebbero serviti perché nel nostro distaccamento non tutti erano in possesso di un'arma, compresi noi, ultimi arrivati. 

Comunicai a "Merlo" [n.d.r.: Nello Bruno caduto il 25 gennaio 1945 da commissario di un Distaccamento della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione Felice Cascione"]  la  notizia.
Egli mi disse: «Dove prenderesti questi fucili?». Risposi: «Alla caserma Siffredi».
"Merlo" fece una smorfia e mi chiese: «La caserma presso la stazione ferroviaria di Oneglia?».
Alla mia affermazione esclamò: «Ma tu sei matto?».
Io tacqui e lui si allontanò dicendomi: «Ne riparleremo». 
Il giorno successivo mi chiamò nel suo stanzino e mi disse: «Siediti e dimmi come organizzeresti questo colpo».
Gli spiegai il mio piano che per me era semplicissimo, conoscendo il luogo e la situazione.
Lui ascoltò con molta attenzione e, dopo essere rimasto qualche minuto soprappensiero, mi disse: «Prendi una decina di uomini, vai a compiere il recupero delle armi e... buona fortuna».

Il giorno successivo, forse il 28 o il 29 giugno 1944, partii con una decina di uomini comandati dal caposquadra Corradi "Battaia", che aveva qualche anno più di noi e, quindi, era più esperto.
Strada facendo, incontrammo il partigiano "Binello" il quale, vedendoci armati e provvisti di viveri, ci chiese dove eravamo diretti. Gli rispondemmo che andavamo a prendere dei fucili nella caserma Siffredi. "Binello" rimase un attimo senza parlare, poi sentenziò: «Ma dove volete andare! Sembrate una banda di profughi... date retta a me, ritornate indietro e andatevene a dormire!».

[...] in serata giungemmo presso il frantoio del "Bisciallo" [...] mi diressi verso Oneglia.
Ero abbastanza tranquillo poiché in tasca avevo ancora il tesserino bilingue della TODT.
Giunto a casa mia [...] mi recai nella caserma Siffredi per constatare se il guardiano del deposito era sempre il mio vecchio amico "Cassina", il milanese, e, soprattutto, se nel deposito vi erano ancora i fucili [...]
Il "Cassina", che era un gran brav'uomo [...]: «Sono quindici giorni che non ti vedo... come mai?».
[...]
Verso la mezzanotte mi recai al luogo dell'appuntamento presso la chiesetta delle Cascine (intitolata a San Luca), dove mi attendeva la squadra di "Battaia".
Fatti i segnali convenuti e ricevuta la risposta, io e tutta la squadra, attraverso scorciatoie, ci avviammo verso la caserma.

Una vecchia immagine della Caserma Siffredi

Quando giungemmo nell'attuale via XXV Aprile, dissi alla mezza dozzina di partigiani che mi erano vicini di stare attenti perché ad una cinquantina di metri (appena sopra all'allora ditta Isnardi) si trovava una scuderia dove i tedeschi tenevano sei cavalli e materiale bellico, e presso la quale sia di giorno che di notte vi erano sentinelle di guardia.
Per entrare nella caserma dovevamo attraversare la strada uno o due per volta, cercando di non farci scorgere dalle sentinelle.
Io, che ero il primo, mentre mi accingevo ad attraversare la strada, sentii delle voci vicinissime; mi schiacciai contro il muro di una rampa, sperando di non essere visto.
Un pensiero mi assalì: per essere in giro a quest'ora con il coprifuoco, questi debbono essere soldati o poliziotti, e allora fuggire indietro su per una piccola salita (eravamo in un sentiero vicino all'oleificio fratelli Calvi, che da anni non esiste più) voleva dire farsi sparare nella schiena.
Non andò come speravo perché le due persone che passavano ci videro (seppi poi che erano due guardie notturne in borghese, forse allora non usavano ancora le divise) e ci chiesero chi eravamo e che cosa facevamo in quel luogo a quell'ora.
Non risposi e non diedi loro il tempo di aggiungere altre parole, li tirai con forza in un vicoletto lì vicino e a voce bassa dissi: «State zitti o siete morti!».
Li perquisii: uno dei due, il capo, aveva una piccola pistola a tamburo che sembrava un giocattolo, l'altro non aveva alcuna arma.
Li mandai accompagnati da un partigiano in cima al viottolo per farli consegnare agli altri partigiani che erano in attesa che si compisse la nostra azione.

Due alla volta attraversammo la strada e ci portammo dentro la caserma.
[...]
Bussai alla porta dove all'interno dormiva il "Cassina".
Dovetti bussare una decina di volte, e sempre più forte, il guardiano aveva il sonno duro.
Presso la porta destra del deposito c'era un dormitorio, un lungo camerone nel quale dormiva un centinaio di lavoratori, ed alcuni di loro vennero sulla porta per vedere cosa stava succedendo.
Rimasero sorpresi di vedere sei uomini in borghese ed armati.
Mi rivolsi a loro invitandoli perentoriamente ad andare a dormire perché non c'era niente che potesse interessarli.
Intanto mi venne in mente che in fondo alla camerata vi erano i servizi igienici, compresa un'uscita che dava sul piazzale.
Pensai che, se qualcuno avesse voluto denunciarci, poteva uscire da quella porta.
Mandai un partigiano a controllare quella uscita. Dato un calcio alla porta, finalmente il guardiano si svegliò e chiese chi lo stava cercando.
Risposi: «Sono Badellino, vengo a ritirare la coperta».
Il pover'uomo venne subito, ma, quando aprì la porta rimase di stucco poiché si trovò davanti cinque giannizzeri armati e male in arnese (il partigiano "Olimpio" aveva per copricapo la fodera interna, in pelle, di un elmetto per cui sembrava un guerriero delle crociate).

Il "Cassina", tremante, mi guardò con uno sguardo interrogativo.
Gli dissi di non avere paura, che lo avremmo lasciato tranquillo e avremmo preso solamente i fucili accatastati che gli indicai con la mano.
Allargò le braccia, rassegnato.
Gli chiesi una decina di coperte e del filo di ferro per legare i fucili a mazzi. 
Il "Cassina" ubbidì immediatamente.
In ogni coperta, avvolgendoli, sistemammo sette od otto fucili, legandoli insieme.
In questo modo confezionammo sette od fasci, e ci preparammo ad uscire con i carichi sulle spalle.
Il "Cassina", pensando al poi, impaurito mi chiese: «Cosa faccio adesso, cosa dirò al lagerfuhrer (capocampo)?».
Pensai un attimo, quindi gli dissi di darmi un pezzo di corda per legarlo stretto alla branda. Così facemmo.
Lo imbavagliai con un asciugamano invitandolo a stare tranquillo almeno per un'ora.
Lo avvisai che, se non avesse rispettato il mio ordine, sarebbe stato ucciso da un partigiano che io avrei lasciato di guardia, facendogli presente che ciò mi avrebbe rattristato perché lo consideravo un amico.
Mi assicurò che così avrebbe fatto.

Noi uscimmo. Siccome di quell'uomo mi fidavo e gli involti delle coperte con i fucili pesavano, non lasciai l'uomo di guardia ed uscimmo sul piazzale diretti fuori della caserma.
Ma nel casamento a fianco si accese una luce ad una finestra ed io, sapendo che era proprio la stanza del capocampo, raccomandai ai miei compagni di camminare in silenzio.
"Olimpio" mi disse: "Se è la stanza del capocampo perché non andiamo ad ucciderlo?".
Risposi: «Guarda che al piano di sopra ci sono altri dieci o o quindici soldati tedeschi bene armati...».
Riattraversammo Via XXV Aprile, raggiungemmo alcuni uomini che avevo lasciato di guardia nel vicoletto, nel caso avessero dovuto coprirci la ritirata.
Ci aiutarono a portare le armi fino in cima allo stesso, dove sostavano altri uomini in attesa del nostro arrivo.
Dopo aver ridistribuito a più uomini (compresi i due prigionieri) i carichi dei fucili ci incamminammo verso Oliveto.
Da questa località volevamo raggiungere, attraverso il torrente Impero, il paese di Borgo d'Oneglia dove eravamo sicuri di trovare qualche mezzo per trasportare i fucili.
Appena sopra Oliveto, scorgemmo in basso, nei pressi della chiesetta delle Cascine, alcuni razzi illuminanti e sentimmo alcune raffiche di mitra lontane.
Cercammo di camminare in fretta, ma ci accorgemmo di girare a vuoto: nessuno di noi conosceva la strada e di notte era molto difficile rintracciarla.
In accordo con il caposquadra "Battaia" decidemmo di attendere l'alba in modo da orientarci meglio. Così facemmo.
All'alba ci portammo sulla stradina che da Costa d'Oneglia conduce sulla strada statale 28 e, facendo attenzione a non incappare in qualche mezzo in transito, attraversammo strada e torrente Impero due o tre per volta (mentre transitava un autocarro di tedeschi i quali, probabilmente, ci scambiarono per contadini al lavoro) e raggiungemmo Borgo d'Oneglia dopo una mezz'ora di marcia.
In questo paese la banda locale, che era efficientissima, dopo averci dato da bere del latte, mise a nostra disposizione un paio di muli su cui caricammo i fucili e dei viveri, incamminandoci poi verso Pianavia.
Preciso che nella caserma Siffredi, dove era alloggiato il capocampo, soggiornava anche un centinaio di tedeschi che dovevano, il giorno dopo, portarsi sopra un altro treno, oltre il ponte della ferrovia, interrotto da un bombardamento aereo, per cui, se avessimo attuato il consiglio di "Olimpio", è facile immaginare come sarebbe andata a finire.
Quando con "Battaia" decidemmo di lasciare liberi i due prigionieri, che non erano più ventenni, "Olimpio" ci rimproverò dicendo che, se avessero individuato qualcuno e noi, certamente lo avrebbero denunciato ai fascisti; secondo lui, sarebbe stato meglio farli fuori. Ma io non mi sbagliai: si comportarono bene, non fecero la spia, uno di loro continuò a salutarmi con simpatia dopo la liberazione, and negli anni nei quali divampò l'ostracismo contro i partigiani.
Forse "Olimpio" non era crudele come voleva apparire: probabilmente era solo un poco spavaldo. Che fosse coraggioso lo dimostrò quando in piazza del Duomo a Porto Maurizio sparò contro i brigatisti neri che avevano la caserma nelle vicinanze.
A proposito del partigiano "Binello", probabilmente fu armato anche lui con uno dei fucili che prelevammo nella caserma. [...]

Sandro Badellino *, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

* Sandro Sandro Badellino. Entrò a far parte della Resistenza il 10 Maggio 1944, nella squadra comandata da Angelo Setti "Mirko", che operava nella zona del Monte Acquarone, tra la Valle Impero e la Val Caramagna. Quasi subito partecipò ad una prima fortunata azione alla Caserma "Siffredi" di Oneglia, che comportò un buon bottino di armi. In seguito passò nella formazione "Volante" di Silvio Bonfante "Cion" che agiva nella Val Steria (Testico, Rossi, Stellanello), e nella "Volantina" del Comandante "Mancen" Massimo Gismondi [in seguito comandante della I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"]. Ai primi di agosto 1944, durante uno scontro, Badellino subì varie ferite che lo costrinsero convalescente per un mese dopo essere sfuggito alla cattura. Costretto nuovamente alla fuga dal suo rifugio in seguito ad una spiata, raggiunse il Bosco di Rezzo nella circostanza del famoso rastrellamento che si concluderà con la Battaglia di Monte Grande. Sebbene ferito, vi partecipò affiancando la squadra di mortaisti che, colpendo le postazioni tedesche da San Bernardo di Conio [Borgomaro (IM)], ebbe un ruolo determinante nella riuscita dell’operazione. In seguito ricoprì l'incarico di intendente presso il Distaccamento "Comando" di Mancen. Il 25 Aprile 1945 scese ad Andora (SV) in qualità di Commissario di Brigata.
 Vittorio Detassis

giovedì 27 febbraio 2020

Una radiotrasmittente da Sanremo (IM) ai partigiani in Tavole

Una vista d'epoca su Sanremo (IM)
 
Con i limitati mezzi a nostra disposizione iniziammo con Ciccio Corrado e Virgilio Oddo, nel maggio 1944, il montaggio di una radiotrasmittente someggiabile, da 75 W.  
  
Non era stata ancora portata a termine la nostra modesta ma pericolosa opera, quando una staffetta partigiana ci sollecita l'urgente consegna dell'apparecchio.

La consegna, a quanto ci era dato arguire, pareva dovesse avvenire a Sanremo; invece fummo informati che era demandato a noi l'incarico di portarla a Tavole [n.d.r.: Frazione del comune di Prelà (IM)].
Sul come portarla ci era data ampia libertà, ma la staffetta, con risolino sardonico, ci dava qualche ragguaglio sui  molteplici posti di blocco sparsi sul non breve tragitto e ci lasciava col rituale... in bocca al lupo.
Ci poniamo al lavoro: a mezzo di Filippo Millo, chiediamo al compagno «Alfa» (Alfredo Esposito), amministratore della Soc. Coop. Trasporti Facchini, di interessarsi lui della bisogna col solito camioncino portafortuna, che tanto bene era andato per trasportare armi ai partigiani.
«Alfa» domanda 24 ore di tempo per procurarsi la benzina ed intanto nasconde nel suo ufficio le cassette contenenti l'apparecchio.
Il figlio di Millo, Luigino [n.d.r.: Lodovico Millo], interessa anche il Dr. Giampalmo della Todt che possiede una Topolino con tanto di O.T. Artz sul parabrise.
Adesione e partenza il mattino successivo prestissimo: Luigino Millo, il Dr. Giampalmo, che l'accompagna, e la Topolino hanno la loro gatta da pelare.
Quando si dice la fortuna! Fuori Sanremo due militari tedeschi della SS fermano la macchina: «noi andare Imperia...».
Sospiro di sollievo dei nostri amici e scorta sicura per almeno venti chilometri con due angeli custodi che nel frattempo si erano sistemati alla meglio sulle cassette.

Tavole, Frazione di Prelà (IM), Santuario della Madonna del Piano
 
Ad Imperia una staffetta li attende e, come Dio vuole, filtrando attraverso quattro blocchi tedeschi, la macchina arriva a Tavole [Frazione di Prelà (IM)] accolta da un «urrà» formidabile.

Intanto il famigerato U.P.I. [Ufficio politico e investigativo della Guardia nazionale repubblicana (fascista), in sigla G.N.R.] lavora.
Ciccio Corrado cade nell'inganno teso da falsi partigiani: viene arrestato, interrogato, torturato e massacrato (8-10-44).
Il povero ragazzo non parla.
Col suo silenzio e con il sacrificio della sua giovane esistenza salva tanti amici...

Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia

 
[ n.d.r.: Lodovico Millo, nato a Ventimiglia il 2 settembre 1921; dapprima imprigionato a Villa Ober di Sanremo con Sergio Grignolio (Ghepeu) - il quale riuscì a fuggire in quell'occasione ai nazisti -, alla Liberazione diresse per il CLN di Sanremo "La voce della democrazia" - su cui Italo Calvino scrisse il memorabile "Ricordo dei partigiani vivi e morti" - e, per il partito comunista, "La nostra lotta", sulle cui colonne sempre Italo Calvino pubblicò, tra gli altri suoi articoli, una struggente intervista a Lina Meiffret, l'eroina antifascista salvatasi fortunosamente dalla sua odissea di detenuta in lager tedeschi; in seguito Millo sarà un noto cardiologo di Sanremo ]
 
Lodovico Millo, classe 1921, allievo ufficiale già nei combattimenti di Roma, fu a disposizione del CLN di Sanremo. Francesco Parodi, classe 1920, sottotenente, già in territorio di guerra, fu nel Comando della Divisione “F. Cascione”.
Francesco Biga, Ufficiali e soldati del Regio Esercito nella Resistenza imperiese in Atti del Convegno storico LE FORZE ARMATE NELLA RESISTENZA di venerdì 14 maggio 2004, organizzato a Savona, Sala Consiliare della Provincia, da Isrec, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Savona (a cura di Mario Lorenzo Paggi e Fiorentina Lertora)
 
Chi canterà le  gesta dell’armata errante, l'epopea dei laceri eroi, le imprese dell’esercito scalzo, chi canterà l’anno di gloria e sangue trascorso sui monti? Chi enumererà la schiera di quelli che non scesero, dei tanti morti lasciati lassù, con nello spento sguardo l’ultimo bagliore del combattimento o l'ultimo spasimo della tortura? Chi tramanderà la lunga storia di imboscate e guerriglie, di battaglie e sbandamenti, di raffiche e cespugli, di fughe e assalti?
I primi morirono. Ma non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è ora leggendario, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s'arruolarono sotto la tua bandiera. E pure morì sotto il martirio nazista l'animatore di una delle prime bande a Baiardo: Brunati, il partigiano poeta. E la trista Germania inghiottì Lina Meiffret, prima partigiana [...]
Italo Calvino, Ricordo dei Partigiani vivi e morti, articolo apparso sul numero 13 de La voce della democrazia, Sanremo, martedì 1° maggio 1945  

Gli oppressori tedeschi hanno lasciato Sanremo, le forze della liberazione sono giunte: siamo liberi. Siamo riuniti nella nostra redazione e la commozione non ci permette di profferire una parola. Abbiamo abbandonato gli angoli scuri e più impensati dove ci riunivamo per tenere viva la fiamma della nostra fede e possiamo alla luce del sole pubblicare il nostro giornale. Non più nascosti dietro mura fidate, ma tra il popolo, oggi ti possiamo leggere “Voce della Democrazia”! Non tutti hanno la fortuna di comprendere la sublime bellezza di questi istanti, soltanto chi ha combattuto sulle montagne, chi ha cospirato in città, subìto le percosse e le torture della polizia nazi-fascista può inebriarsi al profumo di questa magnifica giornata di Aprile.
Purtroppo il ricordo di tanti compagni caduti sotto il piombo teutonico e fascista, ci rende pensierosi e tristi; li abbiamo tutti dinanzi agli occhi, come noi essi attendevano quest’ora, avevano la nostra fede, il nostro entusiasmo e per questo furono massacrati. Li abbiamo visti cadere nelle imboscate in montagna, in pericolose missioni in città, sotto il piombo dei plotoni di esecuzione: tutti dei veri eroi. Nomi non ne facciamo; sono troppi, il popolo li conosce perché sono i suoi figli.
Lodovico Millo, Articolo di fondo, La Voce della Democrazia, 27 aprile 1945. Fonte: IsrecIm