mercoledì 19 ottobre 2022

Sono giovani e meno giovani, che chiedono di esser inseriti nelle bande partigiane

Un casone nel territorio del comune di Montalto Carpasio (IM). Foto: Eraldo Bigi

13/6/44
All'alba mi sveglio col rumore dei compagni che prima di me erano già fuori indaffarati.
Mi muovo su quel giaciglio dove ho trascorso la notte, sono duro dalla testa ai piedi; esco fuori, vicino vedo una fontana, mi sciacquo bene la faccia e drizzandomi su me stesso guardo attorno: l'accampamento è invaso da una marea di uomini che giungono da ogni parte; sono giovani e meno giovani, che chiedono di esser inseriti nelle bande partigiane.
Rivedo molti amici e molta gente che conoscevo in città, vedo "Curto" [Nino Siccardi] che già conoscevo e che non sapevo fosse il comandante della Brigata.
C'è una riunione di capi partigiani.
Ernesto Corradi è nominato capo banda e inviato al confine francese sul monte Grammondo.
Io e il compagno Leonardo Roncallo raggiungiamo l'ultimo tornante della strada che domina la vallata di Carpasio dove montiamo di guardia.
A causa della confusione che regna al campo, fino a tarda sera rimaniamo sul posto dimenticati, costretti a cibarci con germogli di rovi.
La banda "Macallè"
Il nostro gruppo con altri compagni entra a far parte della banda "Macallè" (Scarella Giovanni caduto il 17 marzo 1945 a Costa di Carpasio); Luciano Sciorato è nominato commissario.
14/6/44
Prima del tramonto con pochi fucili e qualche attrezzo da cucina, partiamo per Monte Faudo, durante la notte sostiamo lungo la strada sotto i castagni. All'alba riprendiamo il cammino e poche ore dopo giungiamo a destinazione.
15/6/44
Da quel pendio guardavo la mia valle, il mio paese e, pensando alla mia gente, non sapevo darmi pace.
Erano trascorsi appena tre giorni dalla partenza e il peso di quella ingiustizia mi stroncava già i nervi.
Costretto su quelle montagne a dormire sotto gli alberi e senza mangiare, con la vita in pericolo, dopo poco tempo avevo cominciato a sentirmi alla stregua degli animali.
Osservavo i miei compagni soprattutto i più giovani, meno esperti a quel vivere, in preda allo sgomento.
Le notti erano fredde. Ero stanco e male equipaggiato, avevo quasi niente per coprirmi; ogni giorno che passava la situazione si faceva sempre più insostenibile;
dovevo procurarmi altri indumenti per affrontare la situazione con minor disagio.
Qualcuno come me possedeva una vecchia coperta, altri nemmeno quella.
Dovevamo costruirci senza attrezzi un riparo per la notte, ma non sapevamo nemmeno da che parte incominciare; guardavamo i più vecchi cosa facevano.
Ci mettiamo al lavoro strappando dei rami, improvvisiamo delle baracche coprendole col fieno, sperando che non piova.
Arriva l'ora del pranzo, ci viene distribuito un pezzo di carne nel brodo, dentro al quale galleggiano molti insetti che in quella stagione vivono nell'erba dei prati.
Iniziava così il primo giorno di vita partigiana; seguiranno giorni tristi fra turni di guardia e corvée.
Dentro di me stava maturando il desiderio di ritornare a casa anche solo per poche ore. Chiedo il permesso al capobanda, ne ricevo un netto rifiuto, mi fa capire che lasciare il campo da soli è un pericolo per tutti; insisto dicendo che mi sarei trattenuto solo il tempo utile per procurarmi altri indumenti; cede alle mie insistenze, ma per punizione non mi accetterà più nella sua banda.
19/6/44
Prima del tramonto parto quasi correndo, sperando di fare cattivi incontri lungo la strada; in meno di un'ora sono a casa lo stupore dei miei genitori che preoccupati mi consigliano di nascondermi.
Rimango un'intera giornata in casa a prepararmi il necessario per ripartire.    
Per una notte ancora godo profondamente di quelle piccole gioie che la vita domestica mi può offrire e che per molto tempo dovrò dimenticare.
21/6/44
È l'alba, sono già fuori dalla porta, mio padre vuole accompagnarmi; mia mamma, guardando  verso l'alto attraverso le foglie del pergolato, mi fa osservare che pioviggina.
Con gesto di rassegnazione mi muovo seguito dal mio genitore.
Salutiamo la mamma mentre mi fa le ultime inutili raccomandazioni, ci inoltriamo su quella vecchia mulattiera, fiancheggiata da arbusti, che pochi giorni prima avevo percorso con i miei compagni.
Strada facendo mio padre mi incalzava di domande sulla vita partigiana, ma rispondevo evasivamente per non amareggiarlo.
Presso la chiesetta di Santa Brigida ci fermiamo; nel frattempo giungono altri compagni di Garbella, anche loro cercano riparo nella vita partigiana.
Lascio mio padre immobile davanti alla chiesetta e con i miei amici mi allontano verso Monte Faudo dal quale, come prevedevo, sono costretto a proseguire verso il bosco di Rezzo.
Alle tredici giungiamo a destinazione ospitati dalla banda "Vittorio" (Acquarone) accampata sotto il bivio della strada che, dividendosi, prosegue verso Rezzo da un lato e il passo di Teglia dall'altro.
Siamo alloggiati in una stalla umida e buia con il pavimento ancora bagnato dallo sterco delle pecore.
Trascorriamo la giornata in cerca di erba secca per costruirci un giaciglio per la notte.
Sopra di noi altri compagni sono alloggiati nel fienile, dal quale cade giù polvere di fieno e foglie secche miste a vecchie ragnatele, e perciò in poco tempo ci confondiamo col fondo della stalla.
Sono seduto appoggiato con la schiena allo zaino, verso il muro; vicino a me, sdraiato a terra, c'è Giulio Borelli che, amareggiato, annoda un fazzoletto per ripararsi la testa dalla polvere che sta cadendo; mi guarda e con gesto disperato dice "Domani torno a casa, a questa vita non ci resisto".
Quindi, raggomitolandosi sotto una coperta, grida ai compagni di sopra di muoversi il meno possibile.
In quei giorni di esasperata sopportazione della vita, mentre giovani di ogni ceto cercavano rifugio dove forse c'era maggior pericolo, un piccolo episodio è rimasto vivo nella mia mente.
Ognuno di noi sembra rassegnato ad ogni evenienza di pericolo, quando nell'angolo più buio di quella stalla due compagni di Garbella, Giuseppe Daprelà e Pierino Michelis, con una candela e un foglietto scritto fra le mani, per dimenticare, si mettono a cantare la Paloma; benché stanco e distratto, sollevato da quella canzone mi addormento.
Appena è l'alba esco da quell'ovile più stanco del giorno prima, mi avvicino a un gruppo di partigiani, uno dei quali sta distribuendo del latte caldo.
Lo sguardo di quegli uomini già provati dalla lotta partigiana mi mette soggezione e, appena ricevo la mia razione, mi allontano.
A pochi passi da me tre partigiani interrogano alcuni prigionieri i quali saranno fucilati in giornata.
Sento le colpe di cui sono accusati mentre penso alle loro famiglie che non li vedranno più tornare, dimenticando in quel momento quali nemici pericolosi fossero per noi.
Mi aggiro per l'accampamento tormentato dalla situazione che mi circonda.
Più tardi sono chiamato per rifornire d'acqua la cucina; con un secchio mi allontano nel bosco verso il ruscello, attorno a me sento quello strano ma meraviglioso silenzio interrotto dal cinguettio degli uccelli; mi sarei fermato per dimenticare ogni cosa. Ricordavo le scampagnate fatte con gli amici in tempo di pace. Invece d'ora in poi, la banda che è poco distante da me, ogni momento dovrà guardarsi da un nemico spietato.
Riempio il secchio e faccio ritorno. Sono ancora distratto dai miei ricordi quando un rumore di passi mi distoglie.
Sul mio sentiero un partigiano armato accompagna verso di me un uomo con le mani legate e la faccia stravolta, cui mi viene ordinato di dare da bere. Sorpreso e preoccupato, quasi tremante avvicino il secchio alla bocca di quel giovane dallo sguardo implorante, che non dimenticherò mai. Immaginando quello che sta per accadere mi allontano in fretta, ma non in tempo per non sentire il colpo di pistola e la caduta di quel corpo sui rovi.
Colpito da quel fatto di sangue, torno alla cucina sconvolto e intimidito, nascondendo ai miei compagni il mio stupore.
Da tre giorni sono ospite della banda "Vittorio", in mezzo a un viavai di partigiani che partono e arrivano per le varie missioni.
Ero confuso e disorientato da quella vita disordinata alla quale non avevo ancora fatto l'abitudine.
Assisto al breve processo di altri due prigionieri che più tardi saranno fucilati.    
Privo di esperienza, non capivo ancora quegli uomini che uccidevano per non essere uccisi.
24/6/44
Sono le 14.30. Ho appena digerito un po' di brodaglia con pane e formaggio, sul bosco è scesa una fitta nebbia e l'aria umida penetra sotto i vestiti.
L'apparenza di un pomeriggio tranquillo ci concede solo una tregua sulla paura che ognuno di noi conserva.
Quel bosco che appariva un rifugio sicuro per la nostra guerriglia, in quegli istanti di apparente calma è sconvolto dal crepitio di un mitragliatore che ci mette in allarme.
Da San Bernardo di Conio un'autoblinda seguita da alcune centinaia di tedeschi sta venendo verso di noi, alle raffiche dei mitragliatori seguono i colpi di mortaio che esplodono in varie zone provocando piccoli incendi.
Rimango immobile per pochi istanti, cerco di capire cosa succede.
La nebbia impedisce di vedere ogni cosa. Siamo presi dal panico e disarmati cominciamo a fuggire in tutte le direzioni, mentre la banda armata si allontana dal campo appostandosi.
Mi muovo seguendo di corsa alcuni compagni.
In pochi minuti attraversiamo la strada che dal bosco scende verso il paese di Rezzo e, favoriti dalla nebbia, raggiungiamo la vecchia casa adibita ad ospedale.
Da essa alcuni partigiani e la giovane "Candacca" (Pierina Boeri) stanno uscendo in fretta trasportando un ferito e tutta quella attrezzatura che avrebbe potuto servirci in seguito.
Con loro ci sono quattro prigionieri tedeschi. Ci aggreghiamo al gruppo, aiutando gli uomini a portare il necessario.
Prima di notte raggiungiamo la parte più sicura del bosco.
In mezzo a noi c'è "Curto". Non conoscendolo, nessuno avrebbe pensato quale persona di grande responsabilità egli era. Solo l'averlo vicino infondeva coraggio.
Molto pratica del posto, "Candacca" va in perlustrazione e, prima del tramonto, ritorna dandoci via libera.
Partiamo al buio seguendo un sentiero, portando a turno la barella con il ferito; in piena notte arriviamo al passo della Mezzaluna e sostiamo dentro due casoni; fa molto freddo, a me capita il primo turno di guardia.
Appena rientro mi trovo ancora vicino a Borelli che si lamenta perchè deve dormire nell'umido.
Intirizzito dal freddo ho solo voglia di riposare e rassegnato mi sdraio vicino a lui.
25/6/44
Prima dell'alba siamo tutti svegli, la giornata limpida ci permette una buona visibilità. Siamo stanchi, affamati e visibilmente scossi dal rastrellamento.
Sostiamo vicino al muro dei casoni, al riparo dell'aria pungente, con il bavero della giacca alzato.
Incerti pensiamo verso quale località andare, se non ci sono già i tedeschi l'unico rifugio è Triora.
Dobbiamo pensare al ferito e trovare riparo anche per noi.
Ci dividiamo in due gruppi per essere meno notati; dopo aver caricato il ferito su di un mulo, alcuni compagni prendono in consegna i quattro tedeschi e si avviano sulla strada più agibile verso il suddetto paese.
Per pochi minuti osserviamo il piccolo gruppo allontanarsi, poi ci inoltriamo su di un sentiero appena tracciato, sperando di raggiungere prima di loro la stessa meta.
Fra noi ci sono Don Martini e suo fratello, il dottore.
Dopo una mezz'ora di strada ci coglie un violento temporale. Ci troviamo così sotto un'acqua torrenziale, senza un riparo, con visibilità di pochi metri.
Davanti a noi è completamente scomparsa la traccia del sentiero.
Disorientati, in mezzo alla campagna, ancora lontani dalle abitazioni, bagnati, come si dice, dalla testa ai piedi, proseguiamo con fatica facendoci strada fra gli arbusti.
Graffiandoci la pelle, lacerandoci i vestiti e con le scarpe infangate, raggiungiamo nel porneriggio la borgata di Guina: un gruppo di quattro case sparse per la campagna.
Bussiamo alla porta di quelle abitazioni in condizioni disperate: fradici, sporchi, affamati, sfiniti dalla stanchezza, irriconoscibili.
Siamo ricevuti da contadini con affettuosa cortesia. Ci dividiamo fra le famiglie per recare meno disturbo. In quelle povere case ci viene cotto un minestrone in un paiuolo appeso al centro della stanza, vicino al fuoco possiamo asciugarci i vestiti.
26/6/44
Trascorsa la notte nei fienili di quelle abitazioni, dopo una breve colazione partiamo per Triora dove giungiamo prima delle dodici.
Il paese è pieno di partigiani, postazioni con mitragliatori pesanti e pezzi di artiglieria sono disseminate dappertutto, arroccato su quella altura, lo stesso sembra inespugnabile.
Diverse bande sono accampate sulle colline circostanti collegate col centro abitato, dove mi sembra ci fosse il Comando di Brigata.
Tutto sembra tranquillo e il paese vive isolato come una piccola repubblica.
27/6/44
Dopo quella drammatica avventura, riposati ritorniamo verso l'Alpa Grande.
Molti partigiani ancora sbandati vagano su quelle montagne, intravvedo fra loro Aurelio Lavagna (Venerdì), che mi restituisce lo zaino smarrito durante il rastrellamento.
28/6/44
Rientriamo nel bosco dove eravamo già accampati; come gruppo di sbandati provenienti da ogni parte, siamo tutti disarmati, però abbiamo raggiunto un numero sufficiente per formare una nuova banda.  
Giorgio Lavagna (Tigre), Dall'Arroscia alla Provenza, Fazzoletti Garibaldini nella Resistenza, Isrecim - ed. Cav. A. Dominici - Oneglia - Imperia, 1982