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lunedì 18 ottobre 2021

Aveva già aiutato i 360 prigionieri jugoslavi

Roberto Lepetit - Fonte: Wikipedia

[...] Robert Georges Lepetit, di natali francesi, fonda la Lepetit&Dollfus nel 1868 con il cognato Albert (poi allargata ad un altro socio Auguste Gansser nel 1878). Nel 1915 nasce la Ledoga dalle iniziali dei tre cognomi. Nel 1894 sorge lo stabilimento di Garessio, per produrre il tannino, ricavato dalle cortecce e dal legno del castagno, utilizzabili nel settore dei coloranti per la concia delle pelli.
A questa lavorazione si affianca e prende rilevanza commerciale e industriale l’attività farmaceutica. Nasce infatti a Garessio nel 1903 il primo farmaco di sintesi italiano, l’Almateina, un disinfettante intestinale cui fanno seguito efficaci medicinali antinevralgici e antireumatici. Mancato il capostipite Robert, subentrano i figli Roberto e Emilio: il primo fautore di grandi ricerche scientifiche e il secondo brillante e coraggioso nella gestione amministrativa.
Alla morte di Emilio nel 1919 e di Roberto nel 1928, proprio Roberto Enea Lepetit, figlio ventiduenne di Emilio - nato a Lezza di Erba nel 1906 - si assumerà la responsabilità di dirigere l’azienda. Il geniale imprenditore riuscirà a imporre sui mercati la Lepetit che conquista posizioni di leadership del settore. Vanto dello stabilimento di Garessio, che nel 1940 occupava 200 maestranze, anche quello di aver avviato la produzione del Tiazene il primo sulfamidico italiano. Negli anni successivi uscirà il Cloramfenicolo, il primo antibiotico di sintesi realizzato in Italia. Il prodotto è stato trattato per trent’anni nello stabilimento di Garessio, venduto in Italia con marchio Sintomicetina, prescritto per combattere tifo, paratifo e brucellosi.
Condizionato e sempre più insofferente al regime fascista, a partire dal 1942 Roberto Lepetit dalla sede centrale di Milano decide di aderire alla lotta partigiana prendendo contatti con il Comitato di Liberazione Alta Italia. Dopo il bombardamento di Milano del 24 ottobre del 1942 con la moglie Hilda e i due figli Emilio (nato nel 1930) e Guido (classe 1932) si trasferisce a Garessio.
Successivamente nel settembre 1943, nei giorni successivi all’Armistizio, Lepetit, come scrisse sua moglie Hilda nel diario: "aveva già aiutato i 360 prigionieri jugoslavi che erano detenuti nel campo del Miramonti, facilitandone la fuga quando si era intuito l’arrivo dei tedeschi…".
Lo racconta anche Francesco Chiancone, ex direttore del laboratorio della ricerca medica e biologica alla Lepetit, nel libro “Un uomo da Milano a Ebensee”, precisando: «Il Cappellano don Divina, il col. Vincenzo Ardù comandante del campo e altri ufficiali avevano lasciato il campo, vestendo abiti borghesi e radunando gli sbandati sulle montagne. La gente di Garessio li ospita e li nasconde in casa e nei seccatoi; Lepetit dona loro abiti, medicinali e viveri. Gli incontri con i partigiani della Valle Casotto - sempre con il fidato Paolo Odda - si fanno frequenti, con la scusa della visita ai castagneti della fabbrica. Il colonnello Rossi (Paolo Ceschi) e poi il maggiore Mauri (Enrico Martini) gli chiedono viveri, indumenti, medicinali e con lui elaborano piani di difesa e di azione. La sua partecipazione attiva alla lotta partigiana diventa sempre più intensa. “Roby” è il nome di battaglia da lui assunto».
Chiancone fa riferimento anche agli scontri tra nazifascisti e partigiani del febbraio ’44 quando sotto al Miramonti perì tragicamente il dipendente, Leonardo Esposito, barese, che stava rientrando all’Albergo Giardino dove alloggiavano tutti i lavoratori Lepetit arrivati da Milano. «Garessio, che pareva lontano dalle implicazioni della guerra diventa teatro di scontri ravvicinati tra partigiani e occupanti tedeschi che controllano la cittadina. Così agli allarmi aerei di Milano si sostituiscono i rastrellamenti degli operai che vengono spediti in Germania come lavoratori; la cittadinanza parteggia naturalmente per i nostri e diventano più frequenti e ossessive le perquisizioni nelle case, alla ricerca di partigiani nascosti o per punire chi li ha aiutati.. ».
Nel maggio del 1944 la situazione a Garessio si fa sempre più pericolosa e Lepetit decide di rendere più diretti i contatti con la Resistenza in Lombardia. Qui, con l’amico Sandro Piantanida raccoglie informazioni, organizza campi di atterraggio per paracadutisti sul lago di Como a Volesio. Viene arrestato il 29 settembre 1944 nel suo ufficio di Via Tenca, ora via Lepetit, la strada dedicata a sua memoria dal Comune di Milano. Viene accusato per una serie di messaggi con dati in codice, subisce interrogatori estenuanti e violenze fisiche nell’Albergo Regina da parte delle SS e viene imprigionato nel carcere di San Vittore.
Il 16 ottobre ‘44 il trasporto a Bolzano, perché aveva rifiutato di firmare una supplica che gli avrebbe concesso la libertà. Resta per un mese nel campo di concentramento in Alto Adige da cui riesce a scrivere ed a fare avere di nascosto una ventina di lettere per la moglie - che andrà alcune volte a trovarlo per portargli pacchi -; forte in lui il “terrore di andare più a nord di qui”. Riesce a far installare nel campo una farmacia per convogliare medicinali e viveri per i 1.400 prigionieri, ma il 18 novembre viene destinato alla Germania.
Entra nel terribile lager di Mauthausen, poi in quello Melk (dove 8.000 internati lavoravano nelle gallerie ricavate dai tedeschi per nascondere le officine belliche) e il 13 aprile 1945 avviene l’ultimo trasferimento nel campo di sterminio di Ebensee, in Austria. Il 27 aprile viene ricoverato in infermeria forse per tubercolosi e morirà il 4 maggio. Tre giorni dopo il campo sarebbe stato liberato dagli Alleati. Quattro giorni prima, il 30 aprile, Hitler si era suicidato nel bunker di Berlino.
Ferruccio Parri, capo del primo governo italiano del dopoguerra ispirato dai movimenti della Resistenza, ricordando l’incontro clandestino a Milano con Roberto Lepetit nella primavera del ’44 ebbe a dichiarare: «Intendevo dietro di lui un ambiente ed energie nuove ancora per me, o quasi, nel panorama sociale che il movimento della resistenza veniva tumultuosamente abbozzando. E ascoltando le sue informazioni mi studiavo, quasi involontariamente, di capire la mentalità, l’educazione, le ascendenze spirituali di quest’uomo, semplice e schivo, cordiale e riservato. L’umanità del suo sorriso disarmava la mia diffidenza quasi professionale e lo rivelava meglio delle parole, quasi pudiche della generosità e determinazione che erano il fondo del suo carattere. Era un signore».
La vedova Hilda fece erigere nel campo di Ebensee, opera dell’amico Gio’ Ponti, celebre architetto e designer, un’alta croce, recentemente restaurata e conservata dall’ANED, l’Associazione nazionale ex deportati, con la scritta: “Al marito qui sepolto, compagno eroico dei mille morti che insieme riposano e dei milioni di altri martiri di ogni terra e di ogni fede, affratellati dallo stesso tragico destino, una donna italiana dedica, pregando perché così immane sacrificio porti bontà nell’animo degli uomini”.
Redazione, Garessio dedica la Giornata della Memoria a Roberto “Roby” Lepetit, IDEAWEBTV.IT, 26 gennaio 2021
 
[...] Roberto Lepetit, nasce il 29 agosto 1906 a Lezza (oggi Comune di Ponte Lambro). Lasciati presto gli studi classici per lavorare nell’azienda di famiglia, ne divenne unico responsabile nel 1928, dopo la morte del padre e dello zio. Negli anni ’20 la Lepetit aveva vissuto un boom e il gruppo crebbe con 16 stabilimenti in Italia e presenze in 36 paesi del mondo. Roberto Lepetit, giovane amministratore delegato e direttore generale della Lepetit era un uomo brillante e spiritoso, un imprenditore illuminato, di aperte idee sociali. Benché fosse obbligato, come industriale, a restare inquadrato nelle organizzazioni sindacali del regime, Lepetit in breve tempo matura una tale avversione al fascismo, e in modo così poco nascosto, che nel 1942 fu espulso dai Partito Fascista. In quell’anno ebbe i primi contatti clandestini con esponenti del Comitato di Liberazione Alta Italia, e si avvicinò al Partito d’Azione. Alla fine del 1942, come tanti, fu costretto dalla guerra a sfollare da Milano. Trasferì a Garessio, nel cuneese, la famiglia e il personale dell’azienda. Così si allontanò dai bombardamenti alleati, ma si venne a trovare nel bel mezzo di una durissima guerriglia partigiana. Alla fine di novembre 1943 i tedeschi arrivarono in forze e occuparono il paese. Ma Lepetit aveva già dato il suo contributo per far fuggire gli jugoslavi prigionieri in un campo di concentramento nella valle e aveva stretto rapporti con i partigiani della Val Casotto.
Il 3 maggio 1944 Lepetit decise di cambiare aria, perché aveva capito di essere ormai sospettato dal podestà locale e dai tedeschi. Portò per qualche tempo la famiglia a Rho e tornò a lavorare nella sede di Milano. Il 6 luglio 1944, poi, l’azione forse più pericolosa a cui Lepetit abbia partecipato: nella campagna attorno a Castellazzo di Rho riceve una missione aviolanciata. La sede della Lepetit a Milano era ormai diventata un punto di riferimento per la Resistenza, fino al 29 settembre 1944, giorno del suo arresto. Dopo gli interrogatori e le torture a San Vittore, fu mandato in campo di concentramento; prima a Bolzano, poi a Mauthausen, quindi a Melck e infine a Ebensee.
Morì il 4 maggio 1945, due giorni prima che gli americani arrivassero al campo di concentramento di Ebensee e nove giorni dopo la liberazione di Milano. Oggi la memoria di Roberto Lepetit è affidata ad una croce eretta sulla fossa comune di Ebensee. La moglie Ilda ha voluto che vi fossero scritte, in tre lingue, queste parole: “Al marito qui sepolto - compagno eroico dei mille morti che insieme riposano e dei milioni di altri martiri di ogni terra e di ogni fede - affratellati dallo stesso tragico destino - una donna italiana dedica - pregando perché così immane sacrificio - porti bontà nell’animo degli uomini”.
“Alla figura del nostro concittadino è stata intitolata la piazza di Lezza e le scuole elementari di via Trieste” ha ricordato il sindaco Ettore Pelucchi. [...]
Redazione, Pietre d’inciampo, a Milano c’è anche un pezzo di Ponte Lambro, Erba Notizie, 16 gennaio 2020 

A Milano, in una via poco lontana dalla Stazione Centrale, nel cortile di un anonimo palazzo di uffici c’è una targa in marmo. Quella targa, grigia e un po’ sbiadita, ricorda il sacrificio di un giovane industriale, Roberto Lepetit, a cui è intitolata anche la via attigua. Esiste una storia a riguardo, rimasta per decenni sepolta tra lettere private ed archivi aziendali, che negli ultimi anni è stata portata alla luce da un saggio di Susanna Sala Massari <1. La storia di questo tenace personaggio che si oppose al fascismo e si immolò alla causa della Resistenza ebbe un tragico epilogo che trova espressione nuovamente in una targa, questa volta ad Ebensee, in Austria. Lì, nel campo di concentramento della città, Roberto Lepetit trovò la morte a pochi giorni dalla Liberazione <2.
La sua storia, indissolubilmente legata al colosso farmaceutico Lepetit (ancora oggi ben presente), è venuta alla luce, seppur in ritardo, accendendo i riflettori su una famiglia che annovera tra i suoi membri, spesso con gli stessi nomi che si ripetono nelle generazioni, molti personaggi degni di nota. Alcuni sono ricordati esclusivamente in un ambito tecnico, legato all’industria e alla chimica farmaceutica, come il capostipite Robert Georges; altri, come suo figlio Roberto Giorgio, per la grande capacità manageriale ed innovazione nei processi industriali del tempo; altri ancora, come il sopraccitato Roberto, per le gesta eroiche e la fine tragica.
[...] Roberto Giorgio, figlio di Robert Georges, pose le basi per la costruzione del gruppo farmaceutico Lepetit, innovando e specializzando l’azienda di famiglia, arrivando a realizzare il primo antinfluenzale di sintesi iscritto nella farmacopea italiana <3.
Roberto, nipote di Roberto Giorgio, si schierò a fianco delle formazioni partigiane durante il secondo conflitto mondiale. Trasformò lo stabilimento piemontese di Garessio (Cuneo) in rifugio e punto di appoggio per i gruppi della Resistenza, che rifornì di viveri e medicinali fino a quando fu arrestato dai nazisti e deportato. [...]
[NOTE]
1 S. Sala Massari, Roberto Lepetit. Un industriale della Resistenza, Milano, Archinto editore, 2015.
2 Cfr. F. M. Chiancone, Un uomo da Milano a Ebensee. 1940-1945: Roberto E. Lepetit, Bari, Laterza, 1992.3 E. Merlo, Lepetit, in “Dizionario biografico degli italiani”, vol. 64, 2005, consultabile anche nel sito: http://www.treccani.it/enciclopedia/lepetit_(Dizionario-Biografico)/ (ultima visita: 15 giugno 2017).
Tamara Balbo, Emilio Lepetit, un industriale e socialista, Asti Contemporanea, n. 16 - 2017, ISRAT Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Asti
 
«E’ la mia prima volta a Garessio anche se di questo paese ho sempre sentito parlare molto. Ho visitato la fabbrica, ho riassaggiato i “garessini” che mi portava nonna ed entrando in villa ho percepito un naturale legame, molto forte. La tragedia del nonno per anni fu argomento tabù: una sorta di fuga dal dolore. Ma nel 1998, quando morì nonna, decisi di aprire quelle scatole con su scritto “guerra”. Fu una lettura scioccante, però utile a curare, elaborare e superare. E quelle lettere, quei documenti conservati per anni, sono stati utili per il libro. In diverse occasioni ho avuto modo di percepire l’affetto e riconoscenza che lega Garessio a Roberto Lepetit. Gli stessi sentimenti che sento ora ancora così vivi». Anche lui si chiama Roberto, ed è il nipote del noto industriale Lepetit a cui Susanna Sala Massari ha dedicato il volume “Roberto Lepetit. Un industriale nella Resistenza” presentato giovedì sera 7 maggio nel salone comunale su iniziativa del Polo culturale “Città di Garessio. «Un momento importante per la nostra città - ha detto il presidente del Polo culturale, Sebastiano Carrara - ma pure per la valle: la storia Lepetit ha avuto significativi risvolti su tutto il territorio». Presente, oltre al nipote e all’autrice, anche il direttore dell’Istituto Storico della Resistenza della provincia di Cuneo, Michele Calandri. Il libro ripercorre la vita di Roberto Lepetit approfondendone la storia aziendale, sociale e politica. Durante il fascismo e la guerra, Lepetit mise a disposizione le sue risorse e le sue relazioni per aiutare partigiani, ebrei, soldati alleati, utilizzando anche le sue fabbriche come copertura e i suoi dipendenti più fidati come agenti segreti. Internato nel campo di concentramento di Bolzano, svolse una preziosa attività clandestina e riuscì a organizzare una farmacia interna. Deportato a Mauthausen, morì nel sottocampo di Ebensee. [...]
Marco Volpe, Roberto Lepetit, patriota e martire, L'Unione Monregalese, 14 maggio 2015 
 
A pag. 76 del libro che il Comandante Mauri scrisse intorno alla lotta partigiana nella zona di Cuneo e delle Langhe, leggiamo: «A Garessio, quale sarà la casa di Lepetit? È imprudente fare domande, ma non può essere che quella che ha esposto la bandiera abbrunata, il lutto per la Val Casotto. Soltanto Roberto Lepetit può fare un simile gesto in un paese brulicante di armati nemici».
Ci bastano queste brevi parole per farci scorgere in mezzo alla folla di quei valorosi combattenti della montagna, una figura che si stacca con caratteri suoi sullo sfondo del complesso e turbinoso scenario della Resistenza italiana.
Incontriamo, dunque, con Roberto Lepetit un uomo nuovo in quella storia di rischi, di patimenti e di eroismi che dal settembre 1943 all’aprile 1945 segnò nella luce del sole le ultime tappe di una lunga aspra via, che nella tenebra degli anni, pochi soltanto, coraggiosi e chiaroveggenti, avevano fino allora battuto a testimoniare dignità di uomini e di cittadini.
[...] Il giorno successivo, il 29 ottobre 1944, dopo aver consigliato la moglie a non affannarsi per lui, ma ad affidarsi alla sorte, osserva tristemente: « Vivendo qui dentro ci si può formare un’idea di quella che sarà la situazione dopo la guerra, delle lotte tremende che ci saranno... ».
Il suo caso, tuttavia, non è ancora risolto; in data 30 ottobre leggiamo: «Ieri ed oggi c’è stato il caso Lepetit che ha fatto le spese di tutto il campo! H... si è battuto come un leone ed ha attaccato violentemente i comunisti. Stamane il capo di questi è venuto a parlamentare con me. Intanto sono sempre nella A e credo ci resterò, dato che c’è l’accordo interpartiti!».
Finalmente, qualche giorno dopo annuncia: «Il mio caso pare definito, ma ha durato e interessato tutti per diversi giorni. Anche i comunisti hanno ricevuto istruzioni dal C.L.N. di Milano di aiutarmi».
Più che a sè, pensa continuamente alla possibilità di sollevare la terribile miseria che gli sta intorno e che egli stesso condivide con gli altri: è sempre vivo in lui l’uomo pratico, pronto a prodigarsi per il benessere di chi lo circonda, come testimoniano queste lettere che in buona parte contengono indicazioni di internati, ch’egli aiuta moralmente facendo recapitare notizie alle famiglie, e materialmente, dividendo con loro i molti aiuti che riceve dai suoi e organizzando per loro e per tutti gli altri prigionieri del campo, senza distinzione, un intero impianto farmaceutico: «Come vedi, scrive il 9-11-’44 alla moglie, grazie alla tua organizzazione, sono traboccante di roba e faccio grandi regali a destra e sinistra. Sto diventando popolare in tutto il campo e tutti sono gentili con me».
Pochi giorni prima, il 7-11-’44, aveva raccomandato: «Bisognerebbe vedere se a Milano fra tutti gli amici, comitati ecc. si potessero organizzare congrui rifornimenti di generi alimentari per tutti gli internati del campo, indirizzando all’Intendenza del campo. Sarebbe una cosa veramente utile. Tenete conto che c’è una popolazione di circa 1400 anime». [...]
Questa rievocazione storica della figura di Roberto Lepetit amministratore delle Società Anonime Ledoga-Lepetit - nato a Lezza (Como) il 29 agosto 1906 e morto il 4 maggio 1945 a Ebensee (Austria) - è stata condotta sopra una serie di testimonianze originali, che costituiscono un’importante raccolta di documenti di proprietà della famiglia Lepetit. Essi sono soprattutto:
1) Un gruppo di 20 lettere scritte a matita e pervenute clandestinamente alla moglie dal campo di Bolzano.
2) Un grosso volume manoscritto che contiene tutta la documentazione dei messaggi trasmessi e ricevuti dal gruppo G.B.T. della Missione militare Furrow.
3) Una relazione originale dello stesso capo missione.
4) Copia dell’originale tedesco del testo dell’interrogatorio fatto ai dirigenti della Società Ledoga-Lepetit a Garessio, il 28-7-44 dal Gruppo Polizia tedesca del commissariato di Savona, dove risulta la testimonianza esplicita della denuncia del podestà di Garessio.
5) Testimonianze varie di collaboratori e di compagni, italiani e stranieri, dei vari campi di concentramento, nonché di uomini della Resistenza.

Bianca Ceva, Una figura della Resistenza. Roberto Lepetit in Il movimento di liberazione in Italia dal 1949 al 1973, n. 11, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, 1951, ripubblicato in Rete Parri 


Lettera di Roberto Enea Lepetit (Roby) alla Moglie scritta in data 16-11-1944 da Lager di Bolzano
L’immagine riproduce la prima facciata dell’ultima lettera di Roberto Enea Lepetit, scritta alla moglie Hilda dal Lager di Bolzano pochi giorni prima di essere inviato a Mauthausen.
Proprietà della foto: Carte private di Roberto Lepetit
Testo dell'immagine:
16 nov. 1944 – ore 16.30
Mia carissima,
finalmente ieri sera ho avuto la tanto attesa tua lett.: quella del 6-7 u.s. Con quella della Lina e del Pepino Perego. Grazie, mia Bastina.
Ho letto e riletto infinite volte la tua lett.
Quanto mi rincresce saperti tanto presa e preoccupata da mille problemi. Mi dici che hai trovato un appartamento a Milano dove metterai intanto la mamma. E’ venuta su da Levanto o sta per venire?
Mi rincresce dell’epidemia di influenza
Più che mai raccomando a tutti di stare molto riguardati. Inutile raccomandarlo al Grasso ed ancor più a quel fessacchione di suo fratello.
Si è più azzardato a farsi vivo con te?
Nella tua lett. mi dai tante buone speranze, ma io non voglio crederci - per non illudermi e un po’ per scaramanzia - ed invece sto preparandomi l’animo e le mie cose per una partenza che ormai è in atto - non si sa ancora
se per sabato/domenica pross. oppure per la prossima settimana.
Si parla di una part. Di circa 600 persone.
Io spero molto di essere fra quelli che rimangono (e dovrebbero essere molti dato che stiamo circa 1600) - anche perché la farmacia sta prendendo piede. Sto preparando pacchi assistenziali per i partenti - a ciò autorizzato dal med. ted. e complimentato dal nuovo capo campo.
Staremo a vedere!
Oggi tempo bello ma freddissimo - tutto bianco in giro per la nevicata di jeri. Nel campo ghiaccio ma niente neve. Grande allarme. Almeno 400/500 apparecchi passati in vicinanza - stasera è giunta notizia dell’offensiva scatenata in Olanda.
Speriamo che tutto ciò concorra ad abbreviare i termini della tragedia.
Igor Pizzirusso, Roberto Enea Lepetit (Roby), Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana
 

Lettera di Roberto Enea Lepetit (Roby) alla Moglie scritta in data 16-11-1944 da Lager di Bolzano
L’immagine riproduce la seconda facciata dell’ultima lettera di Roberto Enea Lepetit, scritta alla moglie Hilda dal Lager di Bolzano pochi giorni prima di essere inviato a Mauthausen.
Proprietà della foto: Carte private di Roberto Lepetit
Testo dell'immagine:
Continuano ad arrivare tuoi pacchi nel campo.
Ieri sera c’era un pacco per me, ma era della Pella. Ottimo contenuto.
Sono felice che i bambini stiano bene e se la passino bene. Speriamo tanto ricevere qualche riga da loro.
Ringrazia tanto il Pepp. Perego della sua buona lettera che mi ha fatto tanto piacere.
Ringrazia anche la Lina delle sue.
Speravo far partire oggi - invece nulla.
Consegno stasera o domattina sperando in bene. Si dice ci sia domani una part. Per Milano - mi pare strano.
Comunque sia - mando ugualmente.
Pare che la suoc. di Marghi è partita per Milano - pare ti cercherà.
La lett. di Neri falla avere al Nanni.
Lui penserà a farla recapitare.
Oggi ho fatto una bella doccia "privata" con Hanss-Hans e Elmo-splendido.
Sto bene. Con l’aiuto di un altro Med. Internato - mi sono fatto fare un permesso dal ted. per 5 giorni rinnovabili allo scopo di evitare le adunate. Cosa ottima anche questa. Ed ora ti lascio - alle 17.50 devo essere a casa essendoci l’adunata (da jeri) e dopo l’ad. ci chiudono dentro per il rancio e per dormire.
Ciao, mia Hilda, in ogni casi ti scriverò ancora. Tu scrivimi ugualmente, così se rimango riceverò notizie.
Tuo Roby
Igor Pizzirusso, art. cit.
 
Il tipo biondo, quasi rossiccio, aveva un impermeabile chiaro e un cappello marrone ancora in testa. Davanti a lui, la segretaria, seduta al suo posto, aveva l'atteggiamento di una bambina in castigo. «Strano che la Signorina tolleri una persona che sta nel suo ufficio con il cappello in testa», pensò il dottor Zumaglino. Ma richiuse subito la porta e scese in portineria. Solo allora si accorse che stava succedendo qualcosa di strano. Peppino Perego, il portiere, era rosso in viso. Lo spinse verso l'ascensore e gli sussurrò: «Sono venuti i tedeschi, cercano il Cavaliere!». Attorno all'edificio c'erano le Ss con i mitra spianati. Erano arrivate con un autobus verde, seguito da alcune automobili che avevano indugiato un poco davanti all'ingresso della Lepetit, in via Carlo Tenca, per poi spostarsi sul retro, in via Mauro Macchi. Sopra, nell'ufficio di Roby Lepetit, erano entrati in due, con grosse rivoltelle in pugno. Il caso volle che proprio in quel momento suonasse l'allarme antiaereo su Milano. «Eccoli, i vostri alleati!», imprecarono i due, spingendo in un angolo Roby e il suo amico e collaboratore Adolfo Fichera. Lepetit aveva cercato di approfittare del trambusto per far sparire alcune striscioline di carta che aveva in tasca. Invano: i due gliele strapparono di mano. Poi ammanettarono insieme lui e Fichera, li spinsero fuori, li unirono a Aldo Borletti detto Micio, già ammanettato con la segretaria Lina Pregnolato (la «Signorina»), e li caricarono in macchina. Era una giornata luminosa e calda, quel 29 settembre 1944. L’auto nera si fermò davanti all'Hotel Regina, sede del comando tedesco. Borletti, Fichera e la segretaria tornarono a casa qualche giorno dopo. Roby Lepetit no. Fu mandato in campo di concentramento, prima a Bolzano, poi a Mauthausen, quindi a Melck e infine a Ebensee. Morì il 4 maggio 1945, due giorni prima che gli americani arrivassero a Ebensee e nove giorni dopo che i partigiani avevano liberato la sua Milano. Roberto Lepetit, industriale chimico e farmaceutico e uomo della Resistenza, è stato dimenticato. Eppure la sua è una bella storia, privata e pubblica. Che si tinge anche di giallo: chi lo tradì, quel giorno di settembre?
[...] Nacque così, con i primi anni del Novecento, la Lepetit Farmaceutici e il gruppo si ampliò con una consociata argentina e nuovi impianti a Darfo (Brescia) e Oneglia (Imperia). Il fratello Emilio ebbe invece profondi interessi sociali. Scrisse il volume Il socialismo, pubblicato da Hoepli nel 1891, e partecipò alla fondazione del Partito Economico, che propugnava l'attenzione al mondo operaio e la composizione dei conflitti di classe. Da Emilio e Bianca Moretti il 29 agosto 1906 nacque Roberto Lepetit. Il padre morì che Roby aveva 13 anni. Lasciati presto gli studi classici per lavorare in azienda, ne divenne unico responsabile dopo la morte, nel 1928, anche dello zio. Negli anni Venti, la Lepetit aveva vissuto un boom: nei nuovi laboratori di ricerca della sede milanese di via Macchi era stata messa a punto un'ampia gamma di vitamine e sulfamidici, poi esportati in tutto il mondo; nello stabilimento di Garessio era iniziata la produzione di chemioterapici. Il gruppo crebbe con 16 stabilimenti in Italia e presenze in 36 Paesi del mondo. Roby, giovane amministratore delegato e direttore generale della Lepetit, era un uomo brillante e spiritoso, amico di Micio Borletti e di Giò Ponti (che progettò la sede di via Carlo Tenca). Un padrone illuminato, di aperte idee sociali. Ci sono foto di famiglia che lo ritraggono in camicia nera, ma non doveva davvero starci comodo. Non perdeva occasione di criticare le scelte del regime. I buoni del Tesoro emessi a raffica dal governo? «Carta da parati!», diceva. Il Duce? Se il Re lo avesse chiamato a rapporto e poi chiuso in un gabinetto, dandone comunicazione alla radio, il Paese sarebbe rimasto tranquillo. I grandi industriali come Pirelli, Agnelli, Donegani? Da punire perché avevano consegnato l'industria italiana al fascismo. Benché fosse obbligato, come industriale, a restare inquadrato nelle organizzazioni sindacali del regime. Lepetit in breve tempo maturò una tale avversione al fascismo, e così poco nascosta, che nel 1942 fu espulso dai Fasci. In quell'anno ebbe i primi contatti clandestini con esponenti del Clnai, il Comitato di liberazione Alta Italia, e si avvicinò al Partito d'azione. Alla fine del 1942, come tanti, fu costretto dalla guerra a sfollare da Milano. Trasferì a Garessio, nel Cuneese, la famiglia e il personale dell'azienda, che stabilì nell'Albergo Giardino. Così si allontanò dai bombardamenti alleati, ma si venne a trovare nel bel mezzo di una durissima guerriglia partigiana. Dapprima scaramucce, poi scontri sempre più duri, con agguati, lanci di bombe, rastrellamenti, fucilazioni. Alla fine di novembre del 1943 i tedeschi arrivarono in forze e occuparono il paese. Ma Lepetit aveva già dato il suo contributo per far fuggire gli jugoslavi prigionieri in un campo di concentramento nella valle e aveva stretto rapporti con i partigiani della VaI Casotto. Nell'inverno del 1944 i tedeschi tornarono in paese, attestandosi all'Albergo Miramonti. Era il 25 febbraio. Già la mattina dopo i partigiani attraversarono il Tanaro per aggirare il nemico, attaccarlo e scacciarlo. La guerra per il controllo di Garessio proseguì con alterne fortune. Ma il 3 maggio 1944 Lepetit decise di cambiare aria perché aveva capito di essere ormai sospettato dal podestà locale e dai tedeschi. Portò la famiglia per qualche tempo a Rho, tornò a lavorare nella sede di Milano. Nel dicembre 1943 Lepetit aveva incontrato un ufficiale che veniva dal Sud: portava una radio e l'ordine di impiantare un servizio di trasmissioni. La famiglia ancor oggi conserva un grande raccoglitore con i quaderni dei messaggi in codice ricevuti. Il 6 luglio 1944, poi, l'azione forse più pericolosa a cui Lepetit abbia partecipato: nella campagna attorno a Castellazzo di Rho riceve una missione militare aviolanciata. Il figlio Emilio, che allora aveva 14 anni, la descrive così, in un quadernetto su cui ha tracciato con inchiostro e pennino parole e disegni: «Verso mez­zanotte sentimmo un aereo avvi­cinarsi. Corremmo ad accendere i fari di segnalazione che per rendere più visibili avevamo rinforzati con tanti falò quanti erano i fari. L’aereo ci passò sopra la testa una prima volta molto basso. Ritornò dopo poco, più alto e si videro questa volta anche due cose confuse che parevano palloni». Erano due paracadutisti. Con loro furono lanciati apparecchi radiotrasmittenti, armi e altro materiale per la Resistenza. Nella primavera del 1944 s'incontrò viso a viso con uno dei capi della Resistenza al Nord, Ferruccio Parri. Lo racconta Parri stesso: «Quando conobbi Roberto Lepetit in un fuggevole incontro clandestino sui bastioni tra Porta Romana e Vigentina, un pomeriggio dolce e arioso della primavera 1944, intendevo dietro di lui un ambiente ed energie nuove ancora per me, o quasi, nel panorama sociale che il movimento della resistenza veniva tumultuosamente abbozzando. E ascoltando le sue informazioni mi studiavo, quasi involontariamente, di capire la mentalità di quest'uomo, semplice e schivo, cordiale e riservato. La umanità del sorriso disarmava la mia diffidenza quasi professionale, e lo rivelava meglio delle parole, quasi pudiche della generosità e determinazione che erano il fondo del suo carattere. Era un signore. Dietro di lui avevo già allora un poco intravisto certa borghesia lombarda del Risorgimento, generosa, e soprattutto pronta a pagare il dovere dell'esempio, prima obbligazione della nobiltà». La sede della Lepetit a Milano era ormai diventata un punto di riferimento per la Resistenza. A chi gli consigliava prudenza, Roby ribatteva: «Qualche rischio bisogna pur correrlo». Lo ripeté a un amico anche il giorno prima di essere arrestato. Dopo gli interrogatori e le torture all'Albergo Regina e a San Vittore, finì per trenta giorni nel campo di Bolzano. Da lì riuscì a far uscire, di nascosto, venti lettere che arrivarono alla moglie Hilda, scritte a matita con calligrafia meticolosa su fogli e foglietti d'appunti. Vi sono raccontati con parole misurate il grande affetto per la famiglia, la speranza di tornare, la vita e gli stenti del campo, ma anche gli aiuti e le medicine per tutti che riuscì a far entrare dentro i recinti di filo spinato. Questo fece nascere, come scrisse alla moglie, il «caso Lepetit»: «Grana contro di me. Lunga conferenza con Cinelli (Capo dei comunisti) per la Farmacia e per la destinazione dei pacchi. VuoI conoscere le mie intenzioni per appoggiarmi in pieno o per boicottarmi!». Il giorno dopo affida alla moglie un pensiero profetico, intuizione della Guerra fredda: «Vivendo qui dentro ci si può formare un'idea di quello che sarà la situazione dopo la guerra, delle lotte tremende che ci saranno...» (29 ottobre 1944). Seguono scontri, dibattiti, trattative. Il «caso Lepetit» si risolve soltanto con l'arrivo dell'ordine dall'esterno: «Anche i comunisti hanno ricevuto istruzioni dal Cnl di Milano di aiutarmi». Ma il 18 novembre 1944 Roberto Lepetit, allineato con gli altri prigionieri nel cortile freddissimo del campo, sentì chiamare il suo numero: fu caricato su un treno e portato a Mauthausen, poi nel gennaio 1945 nel terribile campo di Melck e infine, nell'aprile di quell'anno, mentre i suoi compagni liberavano l'Italia, a Ebensee. Oggi, perduta la memoria di un personaggio senza partito - guardato con sospetto dai comunisti perché era un «padrone», azionista critico anche nei confronti dei «suoi» - è stato dimenticato anche il giallo dell'arresto. Chi fu il Giuda che lo tradì? Allora furono sussurrate accuse nei confronti di un personaggio, indicato come il professor Cifarelli, che era piovuto dal cielo, con un paracadute, nel luglio 1944 e si era introdotto negli ambienti della Resistenza con il nome di «Pippo», accreditandosi come uomo al servizio dello Stato Maggiore inglese. Altri dubbi sfiorarono uno stretto collaboratore di Roby, Guido Zerilli Marimò, il più alto dirigente della Lepetit. Zerill sfuggì all'arresto, quel 29 settembre 1944. Poi, grazie ai suoi ottimi agganci con uomini del regime, si mostrò molto impegnato per la liberazione del prigioniero, chiedendo alla famiglia e agIi amici di non tentare alcuna mossa alternativa e di non interferire. Ma malgrado le promesse di riportarlo rapidamente a casa da San Vittore non ottenne alcun risultato. Hilda, dopo aver avute notizia dell'arresto del marito, si mise in viaggio da Volesio, sul lago di Como, verso Rho, dove temeva ci potessero essere carte compromettenti. Voleva farle sparire. Ma al suo arrivo a Come con il traghetto, sul pontile trovò ad aspettarla Zerilli che la dissuase dal proseguire, dicendole che non c'era più niente da fare e che la perquisizione era già avvenuta. Era vero? E se sì, come faceva a saperlo? I figli di Roby, Emilio e Guido erano troppo piccoli per occuparsi dell'azienda. Hilda lasciò la gestione nelle mani di Zerilli, che in breve tempo divenne il proprietario della Lepetit, che poi vendette, alla fine degli anni Cinquanta, alla multinazionale Dow Chemical. Negli anni Settanta Zerilli ricomparve tra i proprietari (con Vittorio Cini, Serafino Ferruzzi e Gregorio Imenez) della Alphom Finance, una società coinvolta negli oscuri giri di denaro della finanza d'avventura, da Sindona a Calvi, e gestita da Florent Ravello Rey, faccendiere che trescò anche con mafiosi e uomini dei servizi segreti. Non basta questo, naturalmente, per accusare Zerilli di essere il Giuda. Altri protagonisti di questa storia lo descrivono come amico fedele e collaboratore prezioso di Roby. Di certo c'è solo che oggi la memoria di Roberto Lepetit è affidata soltanto a una croce eretta sulla fossa comune di Ebensee. Hilda ha voluto che vi fossero scritte, in tre lingue, queste parole: «Al marito qui sepolto - compagno eroico dei mille morti che insieme riposano ­ e dei milioni di altri martiri di ogni terra e di ogni fede - affratellati dallo stesso tragico destino - una donna italiana dedica - pregando perché così immane sacrificio - porti bontà nell'animo degli uomini».
Gianni Barbacetto, Il signore della Resistenza, Diario del mese, 21 gennaio 2005

13 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 199 e prot. n° 200, lettere indirizzate rispettivamente al direttore della cartiera di Ormea e alla direzione dello stabilimento "Lepetit" - Venivano ringraziati per l'offerta di cartine da sigarette e di medicinali.
da documento IsrecIm  in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

martedì 10 agosto 2021

I partigiani passano più al sicuro dove lo si crede meno possibile

Caprauna (CN) - Fonte: Mapio.net

24 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 240 bis, al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava che, appena ricevuto il secondo lancio alleato, aveva intenzione di reintegrare i Distaccamenti dei loro organici; che la zona destinata al secondo lancio aveva subito il 22 marzo un rastrellamento nemico; che erano state prese le misure "per fare fronte a diversi lanci ripetuti" nonostante le perplessità già espresse circa i "rischi legati ad azioni troppo ravvicinate"; che le radio richieste sarebbero state inviate al più presto.
24 marzo 1945 - Dal comando della II^ Brigata "Nino Berio" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Informava che il Distaccamento "Igino Rainis" era stato avvertito dalla popolazione di Caprauna (CN) circa la presenza di un paracadute ad oltre 2.000 metri dal campo di lancio e che il paracadute recuperato aveva recato munizioni e divise.
26 marzo 1945 - Dal Comando Operativo [comandante "Curto", Nino Siccardi] della I^ Zona Liguria al comando [comandante "Giorgio", Giorgio Olivero] della Divisione "Silvio  Bonfante" - Comunicava che per ordine del Comando Militare Unificato Regionale [CMURL] la Divisione veniva rinominata "VI^ Divisione d'assalto Garibaldi Silvio Bonfante" e chiedeva notizie sull'imminente riunione tra CLN e garibaldini.
28 marzo 1945 - Dal comando della I^ Zona Operativa Liguria al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - In considerazione del fatto che il campo di lancio scelto per la II^ Divisione offriva maggiori possibilità di ricezione per un grande lancio diurno, si reputava positivamente il fatto di trasferire per il momento parte della Divisione nella zona di lancio di Pian Rosso, mentre l'altra componente avrebbe dovuto attendere il lancio notturno già programmato [a Pian dell'Armetta nella zona di Caprauna (CN)]. Direttiva di effettuare sollecitamente il richiamato trasferimento, attesa l'imminenza del lancio.
31 marzo 1945 - Dal capo di Stato Maggiore ["Ramon", Raymond Rosso] della VI^ Divisione, prot. n° 19, al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Veniva comunicato che i preparativi per il primo lancio erano stati ottimi.
4 aprile 1945 - Dal capo di Stato Maggiore ["Ramon", Raymond Rosso] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 23, al comando della VI^ Divisione - Comunicava le modalità del secondo riuscito lancio alleato del 2 aprile 1945 a Caprauna: "alle ore 14.30 sento il messaggio. Parto in tromba, vado a Leverone e Aquila, salgo in Alto (CN) e metto tutti in moto visto che nessuno sa nulla. Passo da Fernandel [Mario Gennari, comandante della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della VI^ Divisione], metto i suoi uomini in postazione a Passo San Giacomo, mentre dalle altre parti metto borghesi in guardia. Libero lo tengo sul campo. Meazza non viene: la staffetta borghese non l'ha avvistato. Alle 21.00 accendo i fuochi; alle 21.45, dopo essere passati 5 aereoplani, arriva il nostro. Ci fa il medesimo segnale Morse che facciamo noi, poi comincia la pioggia. Un solo apparecchio. Abbiamo tanta nebbia, però tutto procede bene. Ad un tratto danno l'allarme: hanno visto una luce. Faccio montare i bren, caricare i caricatori, idem per gli sten. I muli arrivano: sono immediatmanete caricati e spediti a Fernandel. Alle 24.00 avevamo sgomberato il campo... L'operazione é finita. Tutto ha funzionato bene... improvvisa faceva scattare l'allarme tra i partigiani. Avevo dato l'ordine di caricare in fretta i muli con gli Sten ed i Bren e le relative munizioni. Alle ore 24 il campo era completamente sgombero". Ramon concludeva chiedendo, data la penuria di armi e di munizioni, chiarimenti circa prossimi lanci. Allegava un elenco di materiale ricevuto, dove figuravano 13 mine, 200 bombe a mano, 4 Bren, 8 Sten, 19 bombe incendiarie, 17 detonatori e molte munizioni.
5 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione, prot. n° 310, al comando della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" - Emanate disposizioni per un nuovo lancio e per la condivisione, con la II^ Brigata "Nino Berio", del materiale ricevuto.
5 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione, prot. n° 311, al Comando della I^ Zona Operativa Liguria - Segnalato l'elenco del materiale ricevuto con un lancio alleato del 18 marzo: 1 mitragliatrice Breda, 9 Sten, 2 Bren e 23 sacchetti di plastico.
da documenti IsrecIm  in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Monte Armetta - Fonte: Mapio.net

Dopo aver ricevuto due lanci aerei nella zona di Caprauna, che erano serviti a rifornire discretamente di munizioni per le armi automatiche individuali, in particolare di Sten Gun, e per i fucili delle formazioni, si dovettero evitare altri lanci nella stessa zona per la critica posizione del campo, e a causa del fatto che ad ogni lancio seguiva un attacco nemico con grave rischio per il materiale. In considerazione di ciò il Comando Operativo aveva ordinato alle due Divisioni, "Bonfante" e "Cascione", di radunarsi nella zona di Viozene. Per motivi di ordine operativo la "Bonfante" si portò nella zona con la I Brigata e mezza della II. Si sarebbero dovuti ricevere lanci in grande stile, invece, come è già stato fatto notare, i lanci furono di piccole proporzioni. Alla "Bonfante" furono destinati dieci mitragliatori Brent, una quindicina di Sten, quaranta fucili, alcune migliaia di colpi per armi automatiche, parecchi capi di vestiario. Prolungandosi il periodo di permanenza a Viozene, fu deciso alla fine di ritornare in Zona Operazioni, perché non ne valeva la pena per quanto si poteva ricevere dal cielo. Il ritorno non fu privo di rischi, poiché oltre trecento uomini con parecchi muli carichi di materiale dovettero attraversare la Statale 28 sotto Ormea, strada oramai strettamente sorvegliata. Nel viaggio verso Viozene si era attraversata la strada a Cantarana, ma i Tedeschi se ne erano accorti per cui ivi avevano messo una postazione con mitragliatrice quadrinata, pensando di impedire il ritorno agli uomini della "Bonfante". Anche questa volta i Tedeschi avevano dimenticato che i partigiani passano più al sicuro dove lo si crede meno possibile. Infatti dopo una estenuante marcia di sedici ore, uomini e materiale, munizioni e strumenti di sabotaggio ad  esplosivo, tutti i Distaccamenti furono rinviati alle loro basi con l'ordine di preparare l'attacco generale, intensificando le azioni contro il nemico. È quello che iniziarono a fare con ritmo intensissimo tutti i Distaccamenti, secondo i piani prestabiliti. Ma prima di descrivere l'offensiva finale della Divisione, riteniamo strategicamente importante riportare lo schema della dislocazione delle sue formazioni al primo aprile 1945:
Comando della Divisione Comando   Poggio Bottaro
Comando I Brigata "S. Belgrano"    Valle Merula (Andora)
Distaccamento "A.Viani"                Valle Merula
Distaccamento "F. Agnese"           Valle Steria (Cervo)
Distaccamento "G. Garbagnati"     Valle Steria (Cervo)
Distaccamento "F. Piacentini"      Valle Merula (Cervo)
Distaccamento "M. Agnese"         San Damiano (Andora)
Comando II Brigata "N. Berio"     Valle Arroscia
Distaccamento "F. Airaldi"          Valle Arroscia
Distaccamento "A. Amato"          Valle Arroscia
Distaccamento "G. Bortolotto"     Valle Pennavaira
Distaccamento "C. Brando"         Valle Pennavaira
Distaccamento  "I. Rainis"           Valle Pennavaira
Comando III Brigata "E. Bacigalupo"  Valle Pennavaira
Distaccamento "G. Catter"          Valle Pennavaira
Distaccamento "B. De Marchi"     Valle Pennavaira
Distaccamento "E. Castellari"      Valle Arroscia
Comando IV Brigata "D. Arnera"   Alta Val Tanaro  [n.d.r.: secondo altre fonti, questa Divisione ai primi di aprile 1945 veniva ancora indicata genericamente come "Val Tanaro"]
Distaccamento "M. Longhi"        Alta Val Tanaro
Distaccamento "G. Maccanò"       Alta Val Tanaro
Distaccamento "G. Carrara"       Alta Val Tanaro
Distaccamento "I. Ghirardi"       Alta Val Tanaro
Distaccamento "L. Fiorenza"      Alta Val Tanaro
Per le gravi perdite subite nel mese di marzo, il Distaccamento "M. Agnese", già comandato da Giovanni Trucco (Franco) caduto, viene sciolto e gli uomini superstiti sono distribuiti nei Distaccamenti della III Brigata. Il nuovo Distaccamento "S. Belgrano" della I Brigata assume il nome del caduto "M. Agnese". Vengono costituiti con vecchi e nuovi combattenti i Distaccamenti "A. Amato" della II Brigata, "G. Berio" e "L. Fiorenza" della IV Brigata "D. Arnera" [si veda precedente nota del redattore].
Il morale degli uomini è elevatissimo.
Il servizio informazioni partigiano (SIM) segnala che il nemico ha rinforzato le guarnigioni di Diano Marina, di Cervo, di San Bartolomeo e di Andora. Tutti i militari sono consegnati e rimangono nelle trincee da loro costruite quasi tutto il giorno. Il tempo è molto migliorato per cui si creano le condizioni per sviluppare con meno difficoltà le azioni contro il nemico, in particolare sulle strade costiere e sulla Statale n. 28 (Imperia, Pieve di Teco, Garessio). Cerchiamo ora di descrivere l'offensiva partigiana, che pensiamo rappresenti nel suo insieme l'ultima serie di attacchi contro il nemico, prima della Liberazione. Ma ciò non è stato facile e molte perdite dovranno ancora subire i civili  e i partigiani.
Mentre per cause sconosciute, il primo aprile 1945, a Pornassio i Tedeschi uccidono il civile Giacomo Frumento, e sarà l'inizio di un lungo stillicidio, il giorno stesso una squadra del Distaccamento "Brando C." attacca un pattuglione tedesco sulla Statale 28, quest'ultimo lascia sul terreno un morto e due feriti; all'alba, nei pressi di Garessio, altri partigiani, del Distaccamemto "I. Rainis" si scontrano con una pattuglia tedesca la quale perde quattro uomini; dello stesso Distaccamento, il giorno successivo a Calderara, con bombe al plastico, alcuni partigiani fanno saltare un carro tedesco trainato da cavalli.
Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV: Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 264-266

Contributo notevole alla ripresa avrebbe apportato un secondo lancio atteso da settimane e che supponevamo importante. Se poi, come si diceva, parecchi lanci si fossero susseguiti ogni notte, ed uno forse era già avvenuto ai primi di aprile, in breve l'armamento sarebbe stato formidabile e ciò avrebbe semplificato molti problemi.
Dove sarebbe avvenuto il lancio più grosso? A Caprauna? Era probabile, chè non c'erano altre zone sotto il nostro controllo che si prestassero per tale operazione; pure, dopo l'inutile attesa della terza decade di marzo, si andava diffondendo la voce che il Comando avrebbe provveduto altrimenti.
Ai primi di aprile il Comando divisione riunì quasi metà degli effettivi della Bonfante: una squadra per ogni banda della I Brigata e partì per ignota destinazione: aveva così inizio l'operazione L2.
Opinione comune a sud della Val d'Arroscia era che il secondo lancio sarebbe sceso ancora in Val Pennavaira perché le colonne di muli erano partite verso Nord.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, p. 229
 
Il mese di aprile 1945 si aprì per i tedeschi con un  prolungato allarme per il da tempo temuto sbarco nemico, dato che sul litorale erano stati avvistati diveersi natanti alleati.
I comandi nazisti irrigidirono la disciplina, consegnarono le truppe in caserma, addirittura nelle zone di Diano, Cervo ed Andora fecero dormire gli uomini nelle gallerie usate anche come depositi di munizioni. Fecero continuare i lavori di fortificazione dei presidi e ne fecero iniziare di nuovi, come per il posto di vedetta sul torrente Impero ad Imperia o per lo sbarramento anticarro sul ponte San Pietro a Diano Marina.
In caso di sbarco ostile le forze germaniche avrebbero abbandonato la costa per dirigersi su Ormea (CN) e poi nelle Langhe dove, easurita l'ultima resistenza, si sarebbero arrese agli alleati.
Dal 1° aprile e nei giorni successivi dai presidi di Cervo e di Pontedassio drappelli di soldati tedeschi incominciarono a dirigersi verso il Piemonte lungo la strada n° 28, dopo avere tagliato la linea telefonica, e smontato e poi caricato su mezzi ippotrainati centraline telefoniche e batterie antiaeree.
Il 1° aprile al comando di "Tamara" una squadra del Distaccamento "Igino Rainis" del Battaglione "Ugo Calderoni" della II^ Brigata "Nino Berio" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" uccideva in un'imboscata 4 soldati tedeschi a Garessio (CN)
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I

Andora (SV) - Fonte: Mapio.net

1 aprile 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 123, al Comando Operativo della I^ Zona Liguria ed al comando della VI^ Divisione - Segnalava, rispetto al corso, di cui aveva già fatto cenno in un precedente rapporto, per la preparazione delle spie, istituto dalla Gestapo, che il medesimo era iniziato a metà marzo 1945, diretto dal capitano Maranzano; che partecipavano al corso Antonio Bracco, Gennaro Iacobone e Marchetti; che gli idonei al corso si sarebbero, poi, dovuti infiltrare nell'esercito alleato e prendere collegamenti con i tedeschi già insinuatisi in quelle file. Comunicava, inoltre, che la strada n° 28 era nelle mani dei tedeschi fino ai Ponti di Nava; che ad Aquetico i tedeschi avevano adibito molti uomini a lavori di trinceramento e di costruzione di fosse anticarro, che ad Andora (SV) l'Orstkommandatur aveva ceduto il posto a 30 repubblichini.
1 aprile 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 123 bis, al comando della VI^ Divisione ed al CLN di Alassio (SV) - Segnalava che il comando del Fascio Repubblicano era in possesso di un elenco di partigiani, consegnato dal maresciallo Gargano alle autorità repubblichine di P.S. e poi al Fascio e forniva i 29 nomi dei mentovati partigiani perché il CLN potesse avvertirli.
1 aprile 1945 - Da "Livio" [Ugo Vitali] responsabile S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al comando della VI^ Divisione - Riferiva che ad Andora (SV) erano giunti 5 uomini, di cui forniva descrizioni fisiche e nomi, con il compito di indagare sui patrioti; trasmetteva le parole d'ordine del nemico valide per tutta la Liguria dal 1° al 16 aprile; comunicava i nomi di 3 soldati ricercati dai repubblichini in quanto disertori; avvertiva che due individui, appartenenti alle Brigate Nere e che parlavano bene francese, inglese e tedesco, erano partiti per la montagna con lo scopo di infiltrarsi tra i partigiani.
2 aprile 1945 - Dalla Sezione S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] della II^ Brigata "Nino Berio" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al comando della VI^ Divisione - Nella relazione si affermava che nella notte precedente i soldati tedeschi avevano interrotto la strada in Località Fontana Calda tra Martinetto e Castelbianco (SV)...
3 aprile 1945 - Dalla Sezione S.I.M. della VI^ Divisione, prot. n° 126, al comando della VI^ Divisione - Si segnalava l'individuazione della spia Rina Boero a Gazzo [Frazione di Erli (SV)].
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo II

mercoledì 28 aprile 2021

Esecuzione di partigiani al Prato San Giovanni

Lionello Menini - Fonte: Giorgio Caudano, Op. cit. infra

27 dicembre 1944 - Alle 7,30 la compagnia dei pionieri tedeschi e parte di quelli acquartierati nel palazzo scolastico [di Pieve di Teco] partono per Chiusavecchia. Portano con sé anche sei partigiani fatti prigionieri nei pressi di Ormea.
28 dicembre 1944 - Anche i nostri due ospiti tedeschi se nesono andati. Fino al 20 corrente le ulive erano pagate L.800 al doppio decalitro, ora sono ribassate alla metà. Tale fatto va attribuito non al deprezzamento della moneta (chè non è più possibile conoscerne il giusto valore) ma al fatto che, per essere eccezionale il movimento della truppa tedesca nelle nostre vallate e per il freddo veramente siberiano, il traffico per le nostre strade si è fatto addirittura impossibile; la borsa nera è diminuita di oltre la metà. Sia i posti di blocco, situati nei punti obbligati di transito, sia le truppe stesse, rendono assai improbabile la viabilità per ogni tipo di approvvigionamento.
29 dicembre 1944 - Questa notte intenso passaggio di automezzi e carriaggi in marcia verso Nava.
30 dicembre 1944 - Rastrellamento in Armo. Hanno portato a Pieve 11 patrioti e 2 civili, cioè Beppe Cacciò e Giovanni Ferrari (Giuanollu di Zerbi) nella cui casa era alloggiato mio figlio. Per il paese di Armo è stata una giornata di grande emozione, avendo i tedeschi radunati sul piazzale della Chiesa tutti gli uomini validi per il controllo dei documenti. Poi li rilasciarono dopo averli, però, portati fino a Pieve; questo fatto ha impressionato molto la popolazione già molto impaurita.
31 dicembre 1944 - Giornata caratterizzata dal terrore da cui è invasa la popolazione per tutti gli arresti di ieri. Si teme che gli undici partigiani, fatti prigionieri, debbano essere fucilati. I due civili sono trattenuti e sorvegliati in Municipio. Si dice debbano essere ancora sottoposti a rigoroso interrogatorio.
1 gennaio 1945 - Corre voce che gli arrestati del 30 scorso, siccome erano tutti disarmati, debbano solo essere trasportati in una Casa di lavoro, perché non rappresentano per i tedeschi un giustificato pericolo. Certo è che, se così fosse, il male sarebbe minore, ma io personalmente dubito molto su tanta generosità, perché troppo rigorosa era la sorveglianza che io stesso vidi attorno a loro, quando giunsero in Pieve.
2 gennaio 1945 - I tedeschi sono ritornati in Armo, dove hanno circondato la casa di Giuvanollu Ferrari e hanno portato al Comando in Pieve il padre e la figlia Pierina. Qui sono sottoposti a stringenti interrogatori, sempre per il sospetto che abbiano occultato nella propria abitazione, o nelle adiacenze, dei patrioti.
3 gennaio 1945 - Nel solito prato, oltre torrente, questa mattina sono stati giustiziati quattro dei patrioti catturati ieri l'altro in Armo. Il prato, detto di San Giovanni, dove vengono giustiziati questi eroi, è di proprietà di Augusto Gandolfo. La popolazione è terrorizzata.
4 gennaio 1945 - Due agenti della polizia annonaria sono stati accompagnati a casa da noi e vi hanno pernottato. Sono le 9 e comincia a nevicare.
5 gennaio 1945 - La neve stamattina misura uno spessore di 20 cm.; gli alberi d'ulivo però non hanno ancora subito danni, essendo neve asciutta e leggera. Verso mezzogiorno si è levato un vento leggero che è stato sufficiente però per liberare le piante dal loro peso.
6 gennaio 1945 - È una giornata caratterizzata da una intensa ricerca di alloggi per ufficiali e sottufficiali di truppa tedesca e repubblichina, proveniente dal Piemonte e diretta al litorale. Questa mattina i quattro superstiti degli arrestati in Armo, sono stati tradotti in Ormea, ov'è il Tribunale militare tedesco.
7 gennaio 1945 - Ieri sera, verso le 10, è giunto da Ormea un battaglione di truppa repubblichina che ha passato la notte qui in Pieve e stamattina alle 9 è ripartito verso la riviera.
8 gennaio 1945 - Nulla di speciale da segnalare, tranne il «lanciatore di grida» che ha chiamato i civili per la guardia ai fili telegrafici e telefonici in Val di Lavina.
9 gennaio 1945 - Giuvanollu Ferrari d'Armo è stato lasciato libero ieri verso le ore 6 dal Comando tedesco. È venuto a salutarmi. È in un vero stato di prostrazione, giustificato dall'arresto e dalla deportazione della figlia Pierina. Il Comando tedesco continua a chiedere alloggi.
10 gennaio 1945 - Nulla da segnalare, tranne un forte passaggio di truppa tedesca nella notte. Non è possibile accertare qualsia stata la loro direzione.
Nino Barli, Vicende di guerra partigiana. Diario 1943-1945, Valli Arroscia e Tanaro, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, tip. Dominici Imperia, 1994, pp. 143,144
 
Intanto l'ufficio SIM della Divisione "Silvio Bonfante" viene informato che il rastrellamento nazifascista preannunciato è rinviato di qualche giorno, perché la Divisione fascista "Cacciatori degli Appennini", che avrebbe dovuto effettuarlo, si trova impegnata contro la II^ Divisione d'assalto Garibaldi "F. Cascione". La notizia è trasmessa ai Comandi delle Brigate dipendenti, che hanno il tempo, così, di mettere in esecuzione con rapidità le direttive contenute nelle circolari n. 22 e n. 23. I garibaldini meno atti sono inviati a rafforzare le squadre di riserva, passate alle dipendenze dirette del vicecomandante di Divisione Luigi Massabò (Pantera). Anche le altre disposizioni contenute nelle ricordate circolari sono messe in esecuzione.
In attesa del grande rastrellamento, i Distaccamenti della nuova Divisione cercano di infliggere in qualche modo nuovi colpi al nemico: il 2 di gennaio una squadra del Distaccamento "A. Viani", smina un campo in Valle Andora, l'esplosivo è inviato a Ubaga, al Distaccamento di Giuseppe Garibaldi; il 3 altra squadra del "G. Catter", con il comandante Mario Gennari (Fernandel), al rientro da una missione, si scontra con una pattuglia tedesca sulla strada Albenga-Garessio, il nemico lascia sul terreno un morto e un ferito. Lo stesso nemico, che pare sia in attesa di eventi, compie micidiali puntate provocando vittime tra i civili.
Nel piccolo centro di Armo, in alta Valle Arroscia, era dislocato un nucleo partigiano dell'Intendenza Divisionale, per immagazzinare rifornimenti provenienti dal Piemonte. A fine dicembre vi si trovava ammalato pure Lionello Menini, comandante del Distaccamento Mortaisti "E. Bacigalupo". Su indicazione di una spia, il mattino presto del 31 dicembre 1944, un centinaio di Tedeschi, provenienti da Pieve di Teco, investono la zona di Armo, Trovasta e Moano. Alcuni garibaldini sfuggono al rastrellamento, altri cadono prigionieri, tra cui tre Austriaci disertori, e i civili Giuseppe Cacciò e Giovanni Ferrari.
Il Menini riesce a far fuggire altri due partigiani prima di essere catturato. Portato al comando tedesco di Pieve di Teco è riconosciuto come capo partigiano. Chiuso in carcere confessa di essere partigiano ma, malgrado sia sottoposto a feroci torture, non parla, mantiene il silenzio. Il 3 di gennaio è condannato a morte. Prima di morire riesce ad inviare un biglietto al suo Commissario (Giuseppe Cognein) per informarlo che gli Austriaci avevano parlato e che non era dispiaciuto di morire per una causa giusta.
Francesco  Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV: Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 19,20 

Su indicazione di una spia il mattino del 31 dicembre 1944 un centinaio di tedeschi proveniente da Pieve di Teco investono la zona. Alcuni garibaldini sfuggono al rastrellamento, altri (tra cui tre austriaci disertori) cadono prigionieri. Menini riesce a far fuggire due suoi uomini, esponendosi all'arresto. Portati al comando di Pieve di Teco vengono riconosciuto come partigiani. Dopo tre giorni di percosse e un processo farsa in cui confessa di essere partigiano, è emessa per lui e per altri tre partigiani della II^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Sambolino" della Divisione "Gin Bevilacqua" operante nella II^ Zona Liguria G.B. Valdora, Ezio Badano e Lorenzo Cracco la sentenza di morte.
Giorgio Caudano, I Caduti della Lotta di Liberazione nella I^ Zona Operativa Liguria
[ A cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016 ]
 
Ezio Badano - Fonte: Giorgio Caudano, Op. cit. infra

Lorenzo Cracco - Fonte: Giorgio Caudano, Op. cit. infra

Su indicazione di una spia il mattino del 31 dicembre un centinaio di tedeschi provenienti da Pieve di Teco investono la zona. Alcuni garibaldini sfuggono al rastrellamento, altri (tra cui tre austriaci disertori) cadono prigionieri. Menini riesce a far fuggire due suoi uomini, esponendosi all’arresto. Portato al comando di Pieve di Teco è riconosciuto come capo partigiano. Dopo tre giorni di percosse e un processo farsa in cui confessa di essere partigiano, è emessa per lui e per altri tre partigiani della II^ Brigata d’assalto “Sambolino” Divisione Garibaldi “Gin Bevilacqua” operante nella II^ Zona ligure (due savonesi: G.B. Valdora “Ferroviere” e Ezio Badano “Zio”, e un veneto Lorenzo Cracco) la sentenza di morte. Prima di morire riesce ad inviare un biglietto al suo Commissario, Giuseppe Cognein, per informarlo che gli austriaci avevano parlato e che non era dispiaciuto di morire per una causa giusta. L’esecuzione ha luogo il 3 gennaio 1945 al Prato San Giovanni.
Lionello Menini va incontro alla fucilazione cantando la canzone “La guardia rossa”. A lui viene intitolato un Battaglione della Brigata “Nino Berio” - Divisione d’assalto Garibaldi “Silvio Bonfante”.
Proposta alla memoria di Lionello Menini  la medaglia di bronzo con la seguente motivazione: “Fatto prigioniero dai Tedeschi durante un colpo di mano contro l’Intendenza Divisionale, essendosi attardato sino all’ultimo a dare ordini, si comportava sino alla sua ultima ora con la serenità dei forti, non smentendo la sua condotta da partigiano che lo aveva elevato a stima di tutti. Oltraggiato e seviziato, non mancò mai di incoraggiare i suoi compagni di sventura. Portato al luogo dell’estremo supplizio, attraversava la via di Pieve di Teco con la testa fieramente eretta, cantando le nostre canzoni. Avvicinato nella prigionia da elementi fidati, inviava informazioni utilissime. Lo stesso nemico ne elogiò la condotta. Pieve di Teco (Imperia) 30-12-1945"
Arrivano i Partigiani, I RESISTENTI,  ANPI Savona, 2011
 
Una sera, nei primi giorni del gennaio 1945, mentre mi recavo da un nostro informatore, con il quale avevo appuntamento nei pressi del cimitero di Vessalico, incontrai Bol (il socio di Walter che avevamo fucilato) il quale, non avendo notizie del suo compare, veniva a cercarlo.
Non volevo ucciderlo senza fargli un regolare processo e così gli dissi che non potevo portarlo in azione con me perché era disarmato, ma che l'avrei fatto accompagnare al Distaccamento da Libero. Incaricai un partigiano che era con me di accompagnarlo, mi allontanai, e lui seguì l'uomo incaricato da me di fargli da guida. Forse aveva già intuito dal mio comportamento che sospettavo di lui: il fatto è che chiese al suo accompagnatore notizie di Walter e questi, con la più grande ingenuità, gli disse che lo avevamo processato e condannato a morte.
Bol capì di essere stato scoperto e, approfittando dell'oscurità, si allontanò dal suo accompagnatore, il quale solo allora capì la «fesseria» compiuta; ma ormai era cosa fatta.
Al mio rientro dall'incontro con l'informatore, fui informato di quanto era accaduto e ciò mi convinse che oramai i tempi erano maturi per un rastrellamento. Chiesi al Comando di Divisione l'autorizzazione provvisoria a lasciare la zona, proponendo alcune località dove avrei potuto spostare i miei Distaccamenti. L'autorizzazione non mi venne concessa: il Comando di Divisione non aveva nessuna segnalazione di rastrellamento imminente e riteneva che era meglio non fare circolare grossi gruppi di uomini con la possibilità che venissero segnalati al nemico. Ma il nemico ormai sapeva della nostra presenza: lo provavano l'arrivo di Walter e, dopo la fucilazione, quello di Bol, che io, come un principiante, m'ero fatto scappare.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Istituto Storico della Resistenza di Imperia, 1994, p. 156

3 gennaio 1945 - Tribunale Militare tedesco - Copia della sentenza di condanna a morte per i garibaldini Lionello Menini Menini, comandante del Distaccamento "Bacigalupo" della I^ Zona Operativa Liguria ed Ezio Badano Zio, G.B. Valdora Ferroviere e Lorenzo Cracco della II^ Brigata "Sambolino" della Divisione d'Assalto Garibaldi " Gin Bevilacqua" operante nella II^ Zona Operativa Liguria. La sentenza del Comando Tedesco recita così:
TRIBUNALE MILITARE DEL FELDERS BLL 34 contro banditi.
Presidente Tenente e comandante di compagnia Dexheimer (ufficiale con facoltà di giudice)
1° Assessore: S. Tenente Menjen
2° Assessore: Maresciallo capo Gelhana
GLI ACCUSATI
1° Menini Lionello nato il 25.10.1919 a Siena
2° Gracco Lorenzo nato il 5.5.1921 a Valdagno
3° Valdora Giovanni nato il 1.1.1922 a Savona
4° Badano Ezio nato il 3.5.1919 a Savona
Sono condannati a morte.
Loro furono catturati il 30.12.1944 nel paese di Armo, quale resto della banda, la quale si era colà soffermata per parecchi giorni. Una parte dei banditi, dopo una breve sparatoria, riuscì a sfuggire all'attacco della compagnia tedesca su Armo del giorno 30.12.1944. Presso gli accusati non furono trovate armi. Secondo le testimonianze di tre soldati tedeschi, risulta che gli accusati appartenevano ad una banda di partigiani. L'accusato Menini, secondo la dichiarazione dei tre soldati tedeschi, è un capo bandito. Per questo motivo il Tribunale si è convinto che gli accusati hanno partecipato ad attiva lotta contro le Forze Armate Germaniche.
In campo 3 gennaio 1945

da documento IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), "La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)" - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

domenica 11 aprile 2021

Salva l'arme, necessaria alla lotta partigiana

Prelà (IM) - Fonte: Mapio.net

In un casone isolato in località Nicuni località presso Tavole, Frazione del comune di Prelà (IM), trovò rifugio un gruppo di partigiani che nella mattinata del 31 gennaio sarebbe dovuto scendere a Vasia per prelevare tre abitanti, tra cui due donne, sospettate di essere delle spie. Alle prime luci dell’alba il casone viene circondato da tedeschi e dagli uomini della controbanda del tenente Ferraris. La battaglia infuriaria, Dulbecco, Raviola e Ricci venono colpiti a morte dai nemici. Rimasti senza munizioni i partigiani debbono arrendersi, qualcuno riesce a scappare, tra cui il comandante del distaccamento Gino Gerini, che racconterà poi l’episodio. Ascheri, Zanoni e un russo vengono catturati e fucilati sul posto. Nel rastrellamento che segue vengono catturati altri quattro partigiani Ernesto Deri, Adler Brancaleoni, Matteo Cavallero, Biagio Giordano. Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I Caduti della Lotta di Liberazione nella I^ Zona Operativa Liguria, ed. in pr., 2020
 
n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016   ]

Il 25 gennaio, il partigiano Ferrero (Tom o Staffetta Gambadilegno), del X° Distaccamento "Walter Berio", catturato dal nemico il giorno 17 (come abbiamo già ricordato) e rimasto ferito, viene medicato, sottoposto a  duri interrogatori, tradisce i compagni poiché conduce i fascisti nella tana che nascondeva il Distaccamento e che lui stesso aveva aiutato a costruire. Così cadono in mano al nemico ben undici garibaldini, tra cui il comandante Vittorio Aliprandi (Dimitri) e il commissario Nello Bruno (Merlo), i quali preferiscono togliersi la vita piuttosto di arrendersi. Sette di loro saranno fucilati ad Oneglia e due a Torretta di Vasia.
Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV: Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005 

Agostini Annibale: nato a Genova il 13 maggio 1911, agente in servizio presso la Squadra Antiribelli della Questura di Imperia
Interrogatorio del 10.10.1945:
[...] Ammetto di aver preso parte al rastrellamento avvenuto a gennaio u.s. in Villatalla ove furono catturati 9 partigiani e due capi banda si suicidarono per non cadere nelle nostre mani. Tale rastrellamento venne effettuato su indicazioni fornite da un partigiano a nome Ferrero il quale ci accompagnò sul posto. I 9 partigiani catturati nella predetta azione erano 7 italiani e due russi. Gli italiani furono consegnati alla Questura e nei verbali vennero
indicati come prigionieri dei partigiani da noi liberati, in quanto appartenenti all’esercito repubblicano. Seppi in seguito che cinque dei fermati vennero uccisi dai tedeschi per rappresaglia come da manifesti affissi sui muri della città. Non sapevo che anche i due russi vennero fucilati dai tedeschi. Dall’esame degli atti della questura sarà possibile accertare che cercai di salvare i predetti facendoli figurare come elementi prelevati e tenuti prigionieri dai partigiani.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia,  StreetLib, Milano, 2019

... un reparto della Brigata Nera con elementi della polizia dipendenti dalla Questura eseguiva azione di rastrellamento in territorio di Vasia, Pantasina, Arborei, riuscendo a catturare nove partigiani, fra cui due di nazionalità russa. Un capo banda ed un commissario politico per evitare l'arresto si suicidavano, sparandosi un colpo di pistola alla tempia.
Sergiacomi, Questore di Imperia, Al capo della Polizia - Sede di campagna (visto di arrivo del Ministero dell'Interno della RSI in data 7 marzo 1945), Relazione mensile sulla situazione politica, militare ed economica della Provincia di Imperia, 1 febbraio 1945  - XXIII°

Dintorni di Vasia (IM) - Fonte: Mapio.net

Il 25 gennaio 1945 rappresenta un’altra tragica pagina nella storia della IV^ Brigata “Elsio Guarrini”, poiché il X° Distaccamento “Walter Berio” venne quasi completamente sgominato. Gli undici uomini del X° Distaccamento «con a capo Dimitri e Merlo, uno dei più vecchi garibaldini, commissario, si era portato in una località tra Pantasina [Frazione di Vasia (IM)] e Villatalla [Frazione di Prelà (IM)], in un fondo valle, presso un ruscello. Il rifugio sembrava sicuro: un muro a secco era stato eretto all’entrata della tana, dove la vita era orribile per il fango e l’umidita”. Una spia (probabilmente la staffetta Toni, guidò da Porto [Maurizio di Imperia] i briganti neri al rifugio. Tolgono le pietre e già sorride loro I’idea di un facile eccidio. Peró due colpi secchi di revolver annunciano che il luogo è ormai una tomba sacra… Merlo si è infatti sparato al cuore e Dimitri alle tempie; per non sottostare all’onta della prigionia… le camicie nere infieriscono sui due cadaveri» (da L’epopea dell’esercito scalzo, di Mario Mascia, ed. A.L.I.S., 1946, ristampa del 1975 a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia).
Gli altri nove garibaldini vennero arrestati e di questi solo due si salvarono dalla fucilazione.
[...]  il 31 gennaio rappresentò l’ennesima pagina nera per la IV^ Brigata “Elsio Guarrini” della “Cascione”. Come ricordava Gino Gerini (Gino), il 30 gennaio «giungemmo, al crepuscolo, in regione Nicuni, tra Tavole e Val Prino. Scoprimmo un casone isolato fra i castagni e decidemmo di passarvi la notte». I garibaldini avevano in progetto la cattura di tre pericolose spie di Vasia. Così Gino dispose che «Deri, Livio e Cristo prelevassero le spie. Nello stesso tempo io, Lupo e Battista, l’amministratore della Brigata, partimmo per Tavole per ritirare importanti documenti e rientrammo in base verso mezzanotte, accompagnati da Timoscenko, che aveva effettuato una visita a casa».
Il mattino del 31 gennaio due colonne tedesche circondarono il casone in cui si trovavano i garibaldini. A “Gino” non rimase altro che ordinare la fuga.
[...] Tra i deceduti vi erano “Battista” (Manfredo Raviola), “Timoscenko” / “Timocenko”/ Timochenko (Tommaso Ricci), “Cristo” (Bartolomeo Dulbecco), che morirono nel vallone di Villatalla ed altri tre, “Matteo” (Matteo Zanoni), “Insalata” e “Leone”, che furono prima torturati e poi fucilati.
E nella testimonianza di Mirko (Angelo Setti): «Il 31 gennaio 1945, causa una delazione, a Nicuni [località di Tavole, Frazione di Prelà (IM)] un reparto partigiano fu circondato dai nemici: caddero "Timoscenco" (Tommaso Ricci), "Matteo" (Matteo Zanoni), "Battista" (Manfredo Raviola), "Joseph" (Ivan Poliesciuk di Odessa), "Cristo" (Bartolomeo Dulbecco) e "Livio" (Ernesto Ascheri). Caddero ancora "Deri", "Oscar", "Stella" ed "Insalata"».
Il 31 gennaio, in effetti, due colonne militari congiunte di tedeschi e italiani (approssimativamente 200 militari) risalirono all'alba le colline, scontrandosi con un gruppo di partigiani posizionato in località “Nicuni”, presso Tavole, Frazione di Prelà. Nello scontro morirono sei partigiani: Tommaso Ricci, Manfredo Raviola, Bartolomeo Dulbecco e Ernesto Ascheri (tutti originari di Imperia), Matteo Zanoni (di Brescia), e Ivan Polesciuk (quest'ultimo russo).
Altri quattro partigiani Ernesto Deri, Adler Brancaleoni, Matteo Cavallero, Biagio Giordano furono costretti ad arrendersi essendo rimasti senza munizioni. Andando a raggiungere nella prigionia Carletti Doriano “Mizar” catturato il 25 gennaio, durante un precedente rastrellamento nella vicina frazione di Villatalla. A questi rastrellamenti partecipava anche una donna: Maria Zucco, nota come la donna velata, che collaborava coi fascisti nel riconoscere e indicare partigiani e renitenti alla leva.
"Lupo" e "Veloce (Sebastiano Martini, comandante di Battaglione) il 4 febbraio 1945 segnalarono la grave situazione in cui si trovava la IV^ Brigata, precisando che il I° Battaglione “Carlo Montagna” constava di 65 uomini, il II° di 70 ed il III° di 90.
Nei giorni successivi il comando della Cascione comunicava al Comando Operativo della I^ Zona Liguria che "... il 31 gennaio un nuovo attacco alla IV^ Brigata causava la perdita dei garibaldini 'Battista' [Manfredo Raviola, amministratore], 'Timoscenko', 'Livio' e 'Deri'..."
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999 
 

La lapide è riferita ad un episodio di rastrellamento e fucilazione. Il 31 gennaio 1945 in località “Nicuni”, presso Tavole (Comune di Prelà, provincia di Imperia), soldati tedeschi e Brigate Nere fasciste catturano E. Deri, A. Brancaleone, M. Cavallero, B. Giordano. I quattro partigiani vengono imprigionati nelle carceri di Oneglia (Imperia) e, pur essendo torturati, non rivelano i nomi dei loro compagni. Sono quindi condannati a morte e vengono fucilati il 15 febbraio 1945.
Il 10 febbraio 1946 il C.L.N. provinciale di Imperia inaugura una lapide in loro memoria.
Redazione, 102173 - Lapide n.° 2 di Via I. Pindemonte - Imperia, Pietre della Memoria

Una vista dal Colle d'Oggia sino ad Albenga (SV) - Fonte: Mapio.net

Ma vediamo cosa scrive il comandante Gino Gerini, un altro dei protagonisti del tragico episodio: "31  Gennaio 1945. Da diversi giorni il nemico non ci dava tregua. Le spie pullulavano, segnalando i nostri movimenti, e noi eravamo costretti a spostarci di continuo. Il mio Distaccamento comprendeva una trentina di uomini. Eravamo esauriti  dalle marce interminabili; il freddo era intenso e noi, già da  parecchio tempo, ci sostenevamo con castagne secche e patate non sempre bollite. Il 31 gennaio giungemmo, al crepuscolo, in località Nicuni, tra Tavole e Val Prino. Scoprimmo un casone isolato tra i castani e decidemmo di passarvi la notte. La stanchezza non ci faceva dimenticare il dovere: avevamo da compiere una missione importante a Vasia e decisi di approfittare della sosta per portarla a compimento. Sapevamo che tra le spie più pericolose della zona vi era una coppia del paese ed una pettinatrice che occorreva assolutamente rendere innocue. Staccai perciò tre garibaldini Deri, Livio e Cristo, quest'ultimo commissario del Distaccamento, che inviai a Vasia con l'ordine di prelevare le spie. Nello stesso tempo io, Gianfranco Giribaldi (Lupo) e Battista, l'amministratore della Brigata, partimmo per Tavole per ritirare importanti documenti e informarci sui movimenti del nemico. Rientrammo in base verso mezzanotte accompagnati da Timoscenko che, di ritorno da una visita a casa, avevamo incontrato lungo il cammino e vi trovammo i nostri uomini con i tre prigionieri che si lamentavano protestando la loro innocenza. Il fuoco era acceso, la marmitta di castagne bolliva. Sedemmo intorno alla  pentola scherzando e ridendo: le ultime notizie erano ottime, tutte le informazioni raccolte a Vasia concordavano nel dichiarare che i Tedeschi erano in procinto di sgomberare dalla zona, ed anche "Timoscenko" ci confermò che il nemico stava per lasciare Dolcedo. La quasi certezza di un poco di tregua ci faceva sperare in un miglioramento della nostra precaria situazione.
[...] Intanto i Tedeschi avevano scoperto il casone e fu subito evidente che essi cercavano proprio noi perché, immediatamente, balzarono sul ciglio della strada e nelle faxe basse in posizione di attacco.
[...] Resistemmo, ma le munizioni si esaurivano presto ed il nemico premeva. Ad un certo momento l'MG 42 si inceppò e tacque. La nostra posizione era oramai disperata. Urlai agli uomini di ritirarsi come potevano ed io stesso, seguito dai miei compagni, strisciai lungo il muretto e balzando di faxia in faxia, mi ritirai, il più velocemente possibile verso il bosco, più in alto. Di quando in quando ci arrestavamo un momento per rafficare il nemico, forte di oltre duecento uomini, che sicuro del numero e della enorme superiorità del suo armamento, irrompeva da tutte le parti urlando e grugnendo come un branco di belve. La partita era perduta. Appena fuori tiro cercai di raggiungere gli uomini, ma molti mancavano e fu soltanto verso sera che potei mettere insieme una metà del Distaccamento. Eravamo tutti laceri, contusi e bestialmente stanchi, e per di più, terribilmente depressi. E la nostra odissea ebbe inizio. Era nostra intenzione raggiungere la Costa di Carpasio attraverso Passo del Maro, ma in quella direzione operava una colonna nemica per cui fummo costretti a convergere su Conio e Ville San Pietro dove speravamo incontrare nostri Distaccamenti. La neve era alta, il freddo acuto perché un vento gelido spazzava a raffiche il cielo basso. Non avevamo quasi più scarpe, gli abiti erano a brandelli e fradici. La fame ci tormentava senza posa ed a stento avanzavamo, miserabile gruppo di straccioni, ubriachi dalla fatica, sorreggendoci l'un l'altro. Camminammo, camminammo come automi. La mia mente si perdeva in immagini irreali. Probabilmente avevo la febbre e questo mi faceva smarrire il senso della realtà e, credo, ciò mi permise di superare quella spaventevole notte. E la stessa cosa, penso, accadde ai miei compagni, perché altrimenti ci saremmo buttati sulla neve a riposare e a morire. Alla fine, fermandoci infinite volte, raggiungemmo Costa di Carpasio dove ritrovammo alcuni dei nostri, giuntivi per altra strada.
Vi restammo tutto quel giorno e la notte appresso, assistiti dagli abitanti del luogo, che ci nutrirono e ci vestirono con magnifico spirito di fratellanza.
Ma i Tedeschi battevano la zona e le spie non ci davano tregua. La mattina dopo partimmo nuovamente, questa volta in direzione di Tavole. All'uscita da Villatalla, mentre attraversavamo il ponte, scorgemmo in distanza una folla di gente. Ci avvicinammo. Sei bare di sei partigiani caduti sfilavano innanzi a noi, precedute da un grande drappo bianco. I nostri compagni ci venivano incontro, morti, portati a braccia dal popolo per il quale erano caduti. Compagni che qualche giorno prima avevano diviso con noi i pericoli, il pane e il sonno. Essi ora riposano nel piccolo cimitero del paese, all'ombra delle nostre montagne che assistettero alla nostra agonia. Sei uomini, dei trenta del mio Distaccamento, morirono sul posto, e tra di essi il temerario Battista, Timoscenco e Cristo, il Partigiano modello. Su di essi si accanì la furia nemica: i loro corpi furono trovati crivellati dai proiettili e sfigurati a colpi di baionetta. Tre altri: Matteo, Insalata e Leone furono catturati, seviziati, trasportati lontano e fucilati. Bellissima, degna veramente di un eroe, fu la morte di Cristo. Colpito da diversi proiettili egli cadde accanto a Timoscenko pure mortalmente ferito. Sente che la fine è prossima e che la vita se ne va col sangue che fluisce dalle piaghe. Chiama a sè un compagno e gli consegna il mitra: 'salva l'arme' gli sussurra, 'essa è necessaria alla lotta'. Poi si trascina presso Timoscenko e muoiono insieme".
Francesco Biga, Op. cit.

31 gennaio 1945 - Dalla Sezione SIM della II^ Divisione "Felice Cascione" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione sul rastrellamento di Tavole - Villatalla - Nicuni, avvenuto il 31 gennaio 1945: tra i partigiani ci furono 6 morti e 3 prigionieri, "Insalata", "Oscar" e "Testa Bianca".
4 febbraio 1945 - [documento scritto su carta intestata al dopolavoro del PNF] Dal comando della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione "Felice Cascione" al comando della II^ Divisione "Felice Cascione" - Comunicava che il comando di Brigata era volante e ridotto a soli 3 uomini, "Gino", "Danko" e "Lupo", in conseguenza di una grave imboscata in cui erano morti 3 partigiani ed erano stati persi molti documenti, che il I° Battaglione era composto da 65 uomini, che il II° Battaglione aveva 70 uomini dislocati parte a Rezzo parte nella Valle Carpesina, che il III° presentava 90 volontari; che il Distaccamento SAP "Folgore" aveva avuto 7 morti, il X° "Walter Berio" 15 caduti, di cui 10 in seguito ad arresto, e che si era quindi deciso di aggregare al I° Battaglione i superstiti; che le forze nemiche a Montalto Ligure ammontavano a 70 soldati e a 3 ufficiali; che una colonna mobile mista di soldati tedeschi e fascisti, forte di 100 uomini, stava svolgendo diverse puntate in Val Prino.
da documenti IsrecIm  in Rocco Fava, Op. cit., Tomo II