lunedì 19 dicembre 2022

Un comandante partigiano in urto con i suoi sottoposti

Pontedassio (IM): uno scorcio della strada statale 28

Ai primi di gennaio [1945] la Divisione Bonfante contava circa trecentocinquanta uomini compresi i comandi, i servizi, le intendenze.
La I Brigata ["Silvano Belgrano"] dislocata nelle valli di Diano e di Andora comprendeva i tre distaccamenti: A. Viani, G. Garbagnati, F. Agnese.
La II Brigata, operante in Val d'Arroscia Nord e Val Pennavaira aveva ormai solo quattro distaccamenti: F. Airaldi, G. Bortolotti, G. Catter, I. Rainis. Il distaccamento E. Bacigalupo era stato sciolto dopo la morte di Menini ed il suo  nome era stato assunto dalla III Brigata.
La III Brigata: Val d'Arroscia sud e Val Lerrone, comprendeva il G. Maccanò, il Castellari, il De Marchi e il Florenza. Il distaccamento M. Agnese, rimasto al di là della "28" nella Val di Mendatica, era in pratica poco più di una banda locale.
Il 5 gennaio, mentre il Comando divisionale si spostava sempre di banda in banda, anche in Liguria scese la neve.
Da anni non ne veniva tanta. Quando scesi dal fienile vicino a Degna dove avevo dormito, due pioli della scala ne erano coperti. Si sprofondava fino al ginocchio e camminando si lasciava un solco nella massa farinosa. Gli ulivi si piegavano sotto il peso, il cielo era di un bianco latteo. Il freddo che alla fine di dicembre era intenso, si mitigò un poco, poi cominciò a piovere.
Quella mattina il Comando della Bonfante era a Degna, di passaggio. Sostò qualche ora per la contabilità e la corrispondenza, poi si spostò a Casanova presso il S.I.M. Più tardi un gruppo: Osvaldo [Osvaldo Contestabile], Pantera [Luigi Massabò] e Nenno, responsabile S.I.M., partirono per la valle di Diano per ispezionare il Comando di Mancen [Massimo Gismondi] e ristabilire i contatti con gli informatori di Pontedassio. Boris [Gustavo Berio, vice commissario della Divisione "Silvio Bonfante"] e Giorgio [Giorgio Olivero, comandante della Divisione "Silvio Bonfante" dalla costituzione - a dicembre 1944 - della medesima alla Liberazione]  partirono per un'altra direzione.
Il giorno 10 Pantera era di ritorno con Osvaldo dopo aver subìto al Passo del Merlo un mitragliamento da parte di una pattuglia tedesca. Da Degna Pantera si spostò a Vellego.
In quel periodo il comando era instancabile: marciando nella neve, dormendo, mangiando dove e come poteva, riunendosi e suddividendosi cercava di mantenere collegate le bande, di sondare i sentimenti degli uomini, di conoscere i loro bisogni, di controllare l'attività dei nuovi comandi brigata.
Perché l'opera di Giorgio fosse realmente efficace erano necessari dei buoni collaboratori, energici e capaci sia nei vari servizi che nei comandi inferiori. Oltre agli uomini, che forse non mancavano, era necessario lo spirito di collaborazione ed era questo che faceva difetto.
Il Comando passava, vedeva, giudicava ed ordinava. Appena si allontanava la situazione tornava come prima.
I nuovi Comandi brigata, lungi dall'alleggerire l'opera del Comando divisionale, costituivano nuovi problemi da risolvere; furono allora più un ostacolo nel far giungere gli ordini alle bande che un appoggio reale.
A poco a poco Giorgio si accorse di ciò, notò l'atmosfera di sfiducia e di non collaborazione che si formava intorno a lui, come molti, ormai sfiduciati e contrari a qualunque cambiamento, ignorassero praticamente i suoi ordini.
La situazione era delicata; sarebbe stato opportuno in parecchi casi sostituire gli elementi che non rendevano, rinnovare ad esempio i quadri del S.I.M., rifare su altre basi il recapito staffette, cambiare in parte anche i quadri dei comandi brigata. Il problema era duplice: mentre ci volevano motivi chiari e concreti per destituire un comandante, era necessario avere un elemento migliore da mettere al suo posto, un individuo che si sapesse in grado di ricoprire la carica e che godesse la fiducia degli uomini. E se questi uomini fossero anche stati trovati come si poteva esser sicuri della loro futtu-a volontà cli collaborare? Nel movimento partigiano l'energia ed il prestigio dei capi erano di importanza decisiva. Quando un capo godeva della fiducia dei subalterni riusciva difficile destituirlo, ci voleva qualcosa di grosso, di provato.
Mancen e Fra' Diavolo [Giuseppe Garibaldi] avevano stima e prestigio presso i loro uomini, Nenno responsabile del S.I.M. aveva cento motivi per giustificarsi se il servizio funzionava poco.
A poco a poco Giorgio si convinse che, senza la collaborazione degli inferiori, la sua opera era vana, che tale collaborazione si poteva ottenere ormai solo cambiando uomini con un gesto d'autorità del comando.
Contemporaneamente i comandi di brigata si convinsero della necessità di sostituire Giorgio.
Come si giunse a questo punto? Le cause furono molte e varie.
Dallo sbandamento di Upega un certo numero di bande si era salvato in Val d'Arroscia: Ramon [Raymond Rosso], Basco e Domatore con i loro uomini erano vissuti praticamente autonomi fino a tutto novembre. Anche prima, al tempo di Piaggia, solo la volontà potente di Simon [Carlo Farini] aveva potuto trattenere concentrate in piccolo spazio molte bande e vedemmo come per tutta l'estate il rafforzamento dell'autorità del Comando della Cascione avesse trovato ostacolo nello spirito di autonomia delle bande. Vedemmo come la stessa Matteotti nella sua breve esistenza si fosse permessa più volte di ignorare, anche in circostanze assai gravi, gli ordini superiori. Da quando erano tornati tutti dal Piemonte i distaccamenti si erano dispersi su una zona vastissima, senza contatti regolari fra loro ed il comando, collegati solo attraverso le intendenze. I capibanda erano tornati così per necessità di cose all'autonomia finanziaria che avevano avuto nella primavera, operando anche requisizioni necessarie, ma che da lungo tempo erano ormai prerogativa dei comandi superiori e delle intendenze e che dovevano tornare tali.
Il Comando era diventato segreto, il S.I.M. funzionava poco, gli ordini per la campagna invernale erano parsi confusi. Lentamente i capibanda si erano convinti che al Comando non sapessero che decisioni prendere e che pertanto dovevano arrangiarsi da soli come avevano fatto già tante altre volte. Quando era nata la Divisione Bonfante, nominando Mancen e Fra' Diavolo comandanti di Brigata, si era cercato di scegliere gli uomini migliori, quelli che erano più amati ed apprezzati dai garibaldini. L'autorità dei nuovi eletti era duplice, derivava dal comando divisionale e dagli uomini. Era quindi facile che, sopravvalutando l'ascendente che avevano sugli uomini, i comandi Brigata si sentissero autonomi, pensassero in molti casi di poter ignorare le disposizioni superiori se non le ritenevano utili.
Avrebbe potuto Giorgio far nominare altri uomini invece che Mancen e Fra' Diavolo? Uomini meno noti ed apprezzati, che derivassero la loro autorità solo dal Comando divisionale e che fossero quindi meno indipendenti? Teoricamente sì, la scelta era però difficile ed egualmente pericolosa, perché comandanti di Brigata poco apprezzati dagli inferiori potevano non essere a loro volta obbediti dai capibanda ed era poi pericoloso circondarsi di elementi di secondo piano in un momento tanto grave. D'altra parte non era possibile allora prevedere quanto sarebbe accaduto. Vi fu poi il caso di Ivan [Giacomo Sibilla], comandante della II Brigata. Egli proveniva dalla Cascione e quindi derivava la sua autorità esclusivamente dal Comando superiore: ebbene la sua collaborazione non fu affatto superiore a quella degli altri due comandanti di Brigata.
L'atteggiamento dei comandanti di Brigata fu dovuto, oltre che alle circostanze che favorivano l'autonomia, alla figura morale del nuovo comandante.
Probabilmente se al Comando di Divisione ci fosse stato il Curto [Nino Siccardi, comandante della I^ Zona Operativa Liguria] o Cion [Silvio Bonfante] non saremmo arrivati ad un urto. Anche Cion e Curto furono disobbediti nel passato, ma sempre con discrezione ed in circostanze un po' eccezionali. Nessuno mai pensò apertamente che dovessero venir sostituiti.
Cion e Curto avevano creato loro la Cascione e la I Brigata, avevano portato gli uomini al combattimento innumerevoli volte e di loro si raccontavano cento episodi audaci e fortunati che tanta presa avevano sul nostro spirito avventuroso. Di Curto si raccontava che una volta si fosse avvicinato ad una sentinella tedesca con una sigaretta spenta in bocca e le avesse chiesto a gesti del fuoco. Quando il tedesco aveva messo le mani in tasca per prendere i fiammiferi, Curto gli aveva tolto l'elmetto e lo aveva stordito con una martellata. Un'altra volta Curto aveva trovato un partigiano e si era fatto da lui accompagnare ad attaccare una caserma di Brigate Nere. Avvicinandosi con noncuranza alla sentinella, Curto gli aveva piazzato d'improvviso una pistola alla schiena immobilizzandola. Il compagno era entrato in caserma, aveva preso tutti i mitra e le altre armi che erano su una rastrelliera, poi si erano allontanati portando seco il bottino e la sentinella prigioniera. Naturalmente nessuno controllava se queste storie erano vere, circolavano per tali e a tutti piaceva crederle; esse si adattavano perfettamente alla figura sobria e quasi ascetica di Curto che nessuno aveva mai visto non solo spaventato, ma nemmeno emozionato.
Cion era stato diverso, meno portato all'azione isolata, era stato il capobanda per eccellenza, romantico ed impulsivo, sapeva restar freddo davanti al pericolo conducendo i suoi uomini alle imprese più rischiose. Aveva organizzato le nuove reclute di primavera, le aveva addestrate ad una scuola di ardimento indimenticabile, tre delle bande migliori e gran parte dell'armamento della I Brigata erano stati opera sua.
Se queste doti fossero necessarie e utili per esser un buon comandante di divisione o di brigata, per organizzare e manovrare in combattimento od in ritirata molti uomini non è facile dire. Si potrebbe rilevare che Cion tendeva a ritenere che tutte le bande avessero la combattività della Volante; che spesso rinunciò alla superiorità numerica quando avrebbe potuto facilmente averla, che la difesa di Garessio in luglio e l'attacco di Cesio in ottobre guidati da lui non ebbero successo forse per tali mancanze. Si potrebbe anche dire di Curto che il suo coraggio qualche volta si mutava in mancanza di percezione del pericolo, che se prima di fermare il Comando ad Upega avesse avuto un po' di paura non sarebbe stato male. Ma tutto questo a noi pareva solo imperfezione trascurabile in personalità che erano dei capi indiscussi, che consideravamo degli autentici trascinatori.
Giorgio era di un'altra pasta. Era comparso in luglio come vicecomandante della I Brigata e da allora era vissuto un po' nell'ombra del Cion occupando successivamente le cariche da lui lasciate nell'ascesa. Era andato anche lui in combattimento, aveva partecipato alla cattura dei San Marco, aveva al suo attivo lo scontro di Degna ed il combattimento di Vessalico e nessuno poteva dire di averlo visto timoroso sotto il fuoco o di fronte al nemico. Le sue gesta però non avevano fatto rumore, non avevano il carattere eroico, romantico, partigiano della battaglia del Ceresa del 19 di giugno, di Pievetta in luglio, di Monte Grande in settembre, cui era legata per sempre la fama di Cion e di Mancen.
Dal bosco di Rezzo in settembre fino a Fontane, Giorgio era stato al comando della I Brigata, ma il Comando di divisione troppo vicino aveva continuamente limitato la sua libertà di azione non permettendo di valutare quante e quali delle decisioni prese in quel periodo furono realmente opera sua; avvertivano in lui il giovane di un'altra classe sociale. Gli uomini lo rispettavano, lo stimavano, ma avevano per lui della simpatia, non la venerazione che era stata tributata ad altri capi partigiani. Il suo stesso nome: Giorgio, mancava del carattere romantico o grottesco che eccitava la nostra fantasia in quei tempi, e spesso gli stati d'animo si basavano sull'imponderabile.
Probabilmente Giorgio era l'elemento più adatto per guidare la Bonfante nel periodo invernale, per interpretare esattamente le disposizioni del Comando zona, per creare un minimo di organizzazione. Aveva le idee chiare, la disciplina, la volontà per riuscirvi. Era attivo ed instancabile. Erano tutte qualità positive che, dato l'ambiente, diventarono negative poiché fecero sentire il peso della sua autorità su chi non non era più abituato a sottostarvi. Un mediocre, che si fosse accontentato di una autorità nominale, sarebbe stato tollerato, Giorgio non lo fu: i comandanti di brigata si decisero ad agire contro di lui e chiesero al Comando zona la sua destituzione.
Tutto ciò andò maturando lentamente nella prima metà di gennaio fino al giorno 20; in questo periodo Giorgio e Boris cercarono instancabilmente di superare la resistenza interna e la minaccia esterna che si facevano sempre più gravi e vollero conquistare con ogni mezzo l'animo degli uomini e dei capibanda per poter applicare le direttive del Comando zona anche scavalcando i comandi brigata. Se fossero riusciti nel loro compito avrebbero potuto chiedere la destituzione dei comandanti di brigata sapendo di poter contare sui capibanda.
Pantera ed Osvaldo cercavano di riorganizzare i servizi mantenendosi estranei al dramma. Ambedue furono nel complesso neutrali.
Il loro contegno fu prezioso perché mantenne un ambiente sereno, evitò che la situazione precipitasse, mantenne la possibilità di una soluzione di riserva.
Chi appoggiò Giorgio fu Boris. Studente e borghese anche lui. Gli fu compagno nelle peregrinazioni e lo aiutò con la sua conoscenza degli uomini e dell'ambiente.
Mentre alla Bonfante perdurava questo stato di fatto al di là della "28" iniziava terribile il dramma della Cascione.
Ai primi di gennaio Mario, già commissario della I Brigata col Cion, era rimasto gravemente ferito alla testa e, privo di conoscenza, si disperava di salvarlo. Senza il grave incidente Mario sarebbe stato commissario della Bonfante e la sua opera ci sarebbe stata preziosa.
Poco dopo altre notizie ben più gravi: il nemico ha attaccato la Cascione.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980

3 gennaio 1945 - Da Curto [Nino Siccardi, comandante della I^ Zona Operativa Liguria] a "Simon" [Carlo Farini, ispettore della I^ Zona]: Relazione sulla visita del comandante Curto alla Divisione "Silvio Bonfante"
3 gennaio 1945 - Dal comando della I^ Zona Liguria a "Simon": Si comunicava che "qualche elemento della Divisione Bonfante si è presentato ai tedeschi, guidandoli in qualche azione di rastrellamento".
3 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al Comando della I^ Zona Operativa Liguria: Relazione sul rastrellamento effettuato ad Armo e a Pieve di Teco il 30 dicembre 1944, durante il quale era avvenuto l'arresto di Lionello Menini.
3 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo”: Direttiva: "Occorre provvedere, nei paesi in cui non vi sono garibaldini, ad inquadrare i giovani nelle squadre di riserva locali. Queste dovranno sorvegliare i passi durante la notte. Si ricorda che l'adesione ha carattere volontario. Il comando di tali squadre spetta al vice comandante di Brigata".
4 gennaio 1945 - Dal Comando della I^ Zona Operativa Liguria al comando della II^ Divisione ed comando della Divisione "Silvio Bonfante": Il massimo di spesa giornaliera per le missioni era fissato in 100 lire. Tutti gli oggetti di valore requisiti dovevano pervenire al Comando di Zona con apposita documentazione.
5 gennaio 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvio Belgrano" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che 2 garibaldini del Distaccamento “Angelo Viani” avevano ucciso un sergente degli arditi di San Marco che, arrestato, aveva tentato la fuga.
5 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 88, al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Si segnalava che "sono state occultate delle armi nei pressi di Nasino (SV). Materiale bellico frutto di un lancio inglese fatto al capitano "Cosa": pare si tratti di 130 casse. Sono stati inoltre occultati a Fontane un pezzo anticarro da 75 mm ed una "Topolino"".
5 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 92, ai comandi delle Brigate dipendenti - Si trasmetteva l'ordine ricevuto dal comando della I^ Zona Operativa Liguria circa la necessità di comunicare tempestivamente qualsiasi azione intrapresa contro il nemico.
6 gennaio 1945 - Dal comando del Distaccamento di Pancho al comando della I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano" [comandata da Massimo Gismondi] della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che c'era stato un rastrellamento nemico al Passo della Verna ai danni del Distaccamento "Luigi Novella" del I° Battaglione "Carlo Montagna" della V^ Brigata della II^ Divisione "Felice Cascione": erano stati, tuttavia, catturati 2 tedeschi (o austriaci).
6 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante"[comandante "Giorgio" Giorgio Olivero] a tutti i reparti - Si comunicava che il comandante "Mario" [Carlo De Lucis, commissario della Divisione] era autorizzato a prelevare somme presso il C.L.N. ed i privati.
8 gennaio 1945 - Dal S.I.M. della I^ Zona Operativa Liguria al comando della Divisione "Silvio Bonfante" ed ai Distaccamenti di Fra Diavolo - Informazioni militari. Sul transito in Caramagna [Frazione di Imperia] di 2 camion con 40 tedeschi a bordo: 3 delatori (Musso, Ozenda ed un terzo di cui era solo indicata la descrizione fisica) avevano indicato la strada per Vasia (IM). Da Ceva (CN) erano giunti 60 fascisti a Porto Maurizio [Imperia]. Ad Albenga (SV) erano arrivati molti tedeschi: era probabile un rastrellamento nella zona ingauna.
8 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" - Il comando rispondeva negativamente alla richiesta di armi automatiche a causa della scarsità delle medesime e rimarcava che Fra Diavolo [Giuseppe Garibaldi] risultava irreperibile.
9 gennaio 1945 - Dalla Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 97, al Comando della I^ Zona Operativa Liguria - Veniva comunicata la situazione delle Brigate dipendenti dalla Divisione: nella I^ Brigata, "Silvano Belgrano", "Mancen" [Massimo Gismondi, comandante della I^ Brigata] aveva dei problemi; nella II^, "Nino Berio", "Ivan" [Giacomo Sibilla] e "Gigi" [Giuseppe Alberti, commissario] non erano molto idonei agli incarichi; nelle altre, "Fra Diavolo" [Giuseppe Garibaldi] e "Giorgio" assolvevano in modo adeguato i loro incarichi.
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), "La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)" - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

mercoledì 7 dicembre 2022

Un partigiano di Zoagli fucilato a Taggia

Taggia (IM)

Taggia (IM): uno scorcio di Piazza Farini

Marco Bini (Squalo), appartenente al distaccamento di Gino Napolitano, individuato da una donna presso il mercato di Taggia in Piazza Farini e indicato alle Brigate Nere da questa come partigiano, cercò di nascondersi dentro la farmacia della piazza, ma fu catturato, torturato e fucilato il 16 novembre 1944 sul muro di cinta a sud del cimitero di Taggia.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020

n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944-8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]
 
Il 16 novembre 1944 viene fucilato a Taggia (Località Ravallo) il garibaldino Mario Bini (Squalo) fu Emilio, nato a Zoagli il 20-9-1918, catturato in rastrellamento il giorno prima e torturato per una notte intera.
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, a cura Amministrazione Provinciale di Imperia e con patrocinio 
IsrecIm, Milanostampa Editore - Farigliano, 1977 
 
Taggia (IM): Salita Sforza

Taggia (IM): portici di Via Soleri (Pantan)

Taggia (IM): Piazza Cardinale Gastaldi

"Squalo" fu preso per colpa di una giovane, una certa Clerice Maranini, che incontrò in Piazza Farini a Taggia mentre vi si svolgeva il mercato frutticolo. Tra i due che già si conoscevano, si accese una discussione alquanto vivace. Nel frattempo passò un soldato tedesco (più che tedesco, polacco) e la Maranini, indicandogli il partigiano, gli disse: "Lui bandito, tu prendere prigioniero". Come se non gli avesse neanche parlato, il soldato polacco proseguì per la sua strada. La giovane piena di rabbia si rivolse a "Squalo" dicendogli "ti faccio prendere" e si avviò verso il Palazzo Spinola dove erano alloggiati un buon numero di fascisti "Brigate Nere". Il giovane la vide salire la scalinata del Palazzo, parlare con la sentinella ed entrare dove era il corpo di guardia, per uscirne poco dopo con un gruppo di fascisti e dirigersi verso la piazza. "Squalo", invece di scappare tra la gente del mercato per poi introdursi nel primo carrugio che gli capitava e salvarsi, entrò nella farmacia che si trovava nella piazza, nascondendosi dietro al bancone, ma venne scoperto subito dai fascisti e fatto prigioniero (il farmacista era uno squadrista della fu "marcia su Roma"). Non si è mai saputo perchè "Squalo" non si sia messo in salvo scappando, o pure perchè non abbia tentato di difendersi dal momento che aveva con sé due rivoltelle: forse non si aspettava un tiro così mancino della ragazza. "Squalo" veniva ucciso dietro il muro a sud del cimitero tra Taggia e Arma, dove vi erano delle piante di ulivo e tra queste, poco distante, vi si trovavano delle ragazze che raccoglievano le olive ed assistettero all'esecuzione del partigiano. Una di queste ragazze, Basso Angela, quindicenne, oggi mia moglie, ricorda ancora quel giorno anche perchè, dalla paura di aver visto uccidere "Squalo", le cascarono tutti i capelli, che per fortuna in seguito crebbero di nuovo, e, narrandomi il fatto, dice: 'Quel giorno arrivarono negli ulivi circa una ventina di fascisti assieme ad un ufficiale ed il prigioniero tra loro. Squalo aveva le mani legate dietro la schiena, venne messo con le spalle al muro e gli misero una benda sugli occhi mentre l'ufficiale gli concedeva l'ultima sigaretta accendendogliela. Non gli concessero nemmeno il tempo di fumarla che gli spararono quasi subito, infine l'ufficiale gli diede il solito colpo di grazia, con la rivoltella, alla testa'. Il corpo del povero "Squalo" fu trasportato dentro la camera mortuaria su di una scala di legno a pioli dal becchino Anfossi Bartolomeo e da un giovane, un certo Garino Giovanni che aveva assistito all'esecuzione di nascosto. Naturalmente il becchino trovò crudele l'uccisione del giovane e lo manifestò ai fascisti, i quali per poco non lo arrestarono. Il becchino aveva due figli nei partigiani uno dei quali, il più giovane, Anfossi Luigi di 16 anni, venne in seguito fucilato a Sanremo nel castello Devachan il 5 marzo del 1945 con altri 15 compagni. Tornando alla ragazza che fece la spia a "Squalo" facendolo prendere dai fascisti, dopo questa bravata si mise sotto la protezione dei tedeschi, standosene sempre chiusa nel comando delle "SS" che si trovava a Taggia nella casa del generale Fornara in piazza Gastaldi. Lei ormai sapeva cosa le sarebbe aspettato se fosse stata catturata da noi partigiani. Dopo circa un mese dal caso "Squalo" mi incontrai con la Maranini all'angolo del tabaccaio di via Soleri: ero assieme a mio cugino Romano e scendevamo dalla Salita Sforza. Come al solito andavamo a controllare se vi fossero novità da parte dei nazisti in paese, mentre lei invece andava a trovare i suoi genitori che abitavano a metà salita. Quando ci incontrammo, io e lei voltammo l'angolo allo stesso momento urtandoci di fianco, ma come se nulla fosse stato continuammo ciascuno per la nostra strada. Con Romano ci intendemmo subito con uno sguardo, tornammo subito a casa mia a prendere la rivoltella che tenevo nascosta sotto una grossa cassapanca e infilandomela nella cintura sotto la giacca tornammo alla Salita Sforza con l'intento di prelevare la spia, portandola direttamente in montagna dai miei compagni. Purtroppo arrivammo tardi: la ragazza era già andata via. Credo che quando io e lei ci urtammo nel voltare l'angolo del tabaccaio, si sia accorta del mio turbamento e avendo pensato al peggio per lei se ne sia andata subito. Delusi dell'azione fallita, ce ne ritornammo a casa passando sotto i portici di Via Soleri e per quelli di Piazza Gastaldi, ed è di lì sotto a questi portici che vedemmo la Maranini che lavorava all'uncinetto da una finestra del comando tedesco; lei a sua volta vedendoci ci sorrise con fare di scherno come per dire: "ve l'ho fatta". Io dissi a Romano "scappiamo o per noi finisce male", visto che poteva anche farci prendere dai tedeschi. La Maranini è stata une delle tre "spie" che si salvarono a guerra finita perché andarono via da Taggia prima del 25 aprile 1945, evitando la giustizia partigiana.
Il partigiano Giuseppe Alosi (Tempesta) insieme ad altri compagni crearono la canzone "Squalo":
Da Fontane scendeva un partigiano
un giovin pieno di grande fantasia
che aveva nel cuore la malinconia
perchè lontano aveva il suo grande amor.
Da lungo tempo lui non lo vedeva il grande amore di egli
lo pensava era lo splendore di tutta la sua vita
ma il destino così l'abbandonò.
Lo disse al capo l'informatore in pianto
Squalo è caduto da grande partigiano
sono i vil militi che l'hanno trucidato
Squalo non torna non tornerà mai più.
Grida vendetta il battaglion di Gino
grida vendetta il suo grande amor
o caro Squalo tu sarai sempre con noi
e di questi cuor tu sarai un grande eroe
.
Natale Massai (Mompracem), La morte di "Squalo",
documento IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999
 
Sono passati 72 anni e oltre da quella gelida mattina del 16 novembre 1944 nella quale, dopo una notte passata a reggere gli spasmi e a reprimere gli urli conseguenti alle brutali torture infertegli, un giovane di 26 anni veniva trascinato da alcuni scherani in camicia nera davanti ad una roggia della campagna di Ravallo, prossima ad Arma di Taggia, ed ivi falciato con una raffica di mitra. Solo sei anni più tardi riuscirà alla madre, Anna Bortolani, di traslarne i resti nel luogo natale.
Quel giovane si chiamava Mario Bini, ma negli ambiti da lui frequentati a quel tempo tutti lo conoscevano come “Squalo”, giacché questo era il nomignolo di copertura affibbiatogli dai compagni di lotta con i quali condivideva il comune impegno ideale di partigiano militante teso ad opporsi con ogni mezzo alle soperchierie d'un sistema illiberale e tiranno, ben supportato, peraltro, dalle forze armate d'un alleato invasore.
La storia di Mario Bini non è dissimile da quella di tanti altri fuorusciti o ex militari disertori del decomposto Regio Esercito Italiano finiti ai confini della Storia e della comune condizione umana con una scelta un poco temeraria ma convinta. Egli, nato a Zoagli nel Settembre del 1918 e, in seguito, tipografo di professione, era stato richiamato alle armi nel 1940 e assegnato in qualità di Furiere al 26° Reggimento delle Guardie di Frontiera con il quale aveva operato in Slovenia e Croazia, prima, e a San Casciano d'Isonzo più tardi, ottenendo in ultimo i gradi di Sergente.
Dopo l'epocale ribaltone dell'8 Settembre del 1943, la neonata Repubblica Sociale di Salò lo aveva comandato nei ranghi di Marina e, presumibilmente, trasferito presso un Comando nell'Imperiese. Ma, per nulla intenzionato a battersi per un regime, quello fascista, che aborriva, egli era salito in montagna raggiungendo la compagine garibaldina al comando di Gino (Luigi Napolitano).
Dopo la sua cattura, avvenuta ai margini d'un sanguinoso rastrellamento, e dopo la sua morte, la formazione di prima appartenenza dovette sciogliersi a seguito delle gravose perdite subite e Gino fu nominato Com.te del rinato 1° Btg. “Mario Bini” della V Brg. “Luigi Nuvoloni” inquadrata nella Divisione “Cascione”: una nomina e un esito luminosi dopo una così infausta fine. I suoi commilitoni gli dedicheranno persino un canto.
Ma è il finale che ha quasi qualcosa di epico pur nella sua ristrettezza territoriale ed evenemenziale: l'Amministrazione Comunale di Zoagli, una volta appresi per bocca di Vittorio Civitella, curatore storico della ricerca affidatagli dai familiari, i contorni di questa storia e nella consapevolezza che il concittadino Mario Bini è stato il primo e unico partigiano combattente di origini zoagliesi e insignito di “Certificato Alexander”, non ha esitato a indire per Sabato 22 aprile p.v. la cerimonia istitutiva e commemorativa insieme.
Consuelo Pallavicini, Zoagli: sabato il ricordo del partigiano Mario Bini, Levante News. La voce del Tigullio, 17 aprile 2017 


lunedì 5 dicembre 2022

Sulla costa si sentiva parlare di partigiani

Imperia: il ponte stradale della Via Aurelia sul torrente Impero

Già nel febbraio del 1944 il mio carissimo amico Giovanni Berio (Tracalà) mi aveva esortato a salire in montagna tra i partigiani. Lui aveva già partecipato alla battaglia di Alto avvenuta il 27 gennaio 1944, durante la quale aveva trovato eroica morte il comandante Felice Cascione ("u Megu", che era dottore in medicina) e, a causa dello scioglimento della banda, si trovava sbandato. Al tempo stesso mi aveva fatto capire che la mia permanenza nella TODT (ditta militarizzata che costruiva bastioni antisbarco per conto dei tedeschi) non era cosa giusta e non era cosa ben vista.
Mi trovavo nella TODT per evitare di essere arruolato nell'esercito della Repubblica Sociale di cui avevo già ricevuto la cartolina precetto (sono della classe 1924).
Feci notare a Giovanni che ben poca cosa si sapeva del movimento partigiano e che qualcuno con il quale avevo parlato mi aveva sconsigliato di salire in montagna, poiché era ancora una iniziativa incerta. Comunque mi misi d'accordo con lui: saremmo partiti verso la metà di febbraio. Quando venne il giorno prestabilito e dissi a mia madre che avevo deciso di partire e che mi necessitavano indumenti pesanti e un paio di scarponi (che non avevo).
La poveretta si mise a piangere convulsamente pregandomi di posticipare la partenza di almeno due mesi in attesa della bella stagione. Durante l'attesa avrebbe provveduto a procurarmi il vestiario necessario. Mio padre invece non aprì bocca. Non manifestò alcun parere. Però capii che la mia decisione non gli sarebbe dispiaciuta.
Alla fine, impressionato dalla manifesta disperazione di mia madre, con Giovanni convenni di rimandare la partenza per la montagna di qualche tempo.
Alcuni di noi già dal 25 luglio 1943 (quando cadde Mussolini) si erano iscritti alle cellule segrete del PCI. Avevano ricevuto l'incarico dal partito di sorvegliare gli ex fascisti, notare se si riunivano segretamente e se tentavano di riorganizzarsi (qualcuno ci consegnò anche la pistola per convincerci che avevano rotto ogni rapporto col fascismo risorgente sotto l'egida dei tedeschi). Il nostro capo cellula era Nello Bruno ("Merlo", caduto in montagna nel gennaio del 1945). La cellula era composta da Tino Moi ("Tino"), che cadrà anche lui il 25 luglio 1944, da Bruno Denardi, da un altro compagno di cui non ricordo più il nome e dallo scrivente.
In agosto il governo Badoglio, succeduto a quello di Mussolini, non agevolò indubbiamente gli antifascisti, anzi rese loro la vita dura vietando ogni manifestazione ed ogni iniziativa che avesse una parvenza di democrazia.
Poi, come è noto, l'8 del settembre successivo, in occasione dell'armistizio, i tedeschi occuparono militarmente il nostro paese e diedero vita all'esercito fantoccio della repubblica di Salò, mobilitando vecchi e nuovi fascisti.
Allora Cascione ed altri imperiesi più compromessi con l'antifascismo, tra cui Nello Bruno, Eolo Castagno ("Garibaldi"), Nino Berio e diversi altri, presero la via della montagna, e noi, meno compromessi e più giovani, restammo, in attesa di significativi eventi.
Sulla costa si sentiva parlare di partigiani, di uno scontro con il risorto esercito, ma di stampo fascista, nel territorio di Colla Bassa (Montegrazie). Gli episodi venivano ingigantiti dalla fantasia popolare e in noi aumentava la volontà di raggiungere i nostri amici in montagna per compiere la nostra doverosa parte di combattenti per la libertà.
Apprendemmo che, dopo la dolorosa morte di Felice Cascione, la sua banda si era sbandata per tale motivo, ma anche per l'inclemenza del tempo e per la non ancora perfetta organizzazione della vita in montagna. Qualcuno tornò a casa, qualcun altro si rifugiò presso i partigiani badogliani che si stavano organizzando e che già ricevevano aiuti militari dagli inglesi attraverso lanci aerei.
Ma nella primavera del 1944 quasi tutti gli imperiesi ridiscesero sulla costa dove si stavano organizzando bande garibaldine, rinforzate da coloro che, non ubbidendo ai bandi fascisti di richiamo alle armi, avevano preferito raggiungere i compagni per combattere contro i nazifascisti.
La situazione era diventata critica: ci si poteva intrufolare nella TODT come avevo fatto io, o presentarsi ai Comandi fascisti per essere arruolati nell'esercito della Repubblica Sociale, o salire in montagna. Questa ultima soluzione a moltissimi sembrò la migliore.
Alfine giunse anche il momento della mia partenza. Chi organizzava coloro che avevano intenzione di partire era Bruno Denardi che, anche lui, aveva deciso di rientrare in banda. Alle ore 6 del mattino (ultimi giorni di maggio 1944) ci trovammo in sei in località "Ergi", presso il cimitero di Diano Gorleri [n.d.r. Frazione del comune di Diano Marina (IM)]: De Nardi, Duccio, Tenni, lo scrivente, ed un altro che credo fosse Carlo detto "U Gallu du Bimbu".
Ci dirigemmo verso il Pizzo d'Evigno dove speravamo di incontrare una banda detta "volante" comandata dall'onegliese Silvio Bonfante ("Cion"), banda che aveva già incorporato Germano Belgrano ("Germano"), Massimo Gismondi ("Mancen"), "Cigrè", "Sardena", "Tino" e tanti altri già miei compagni di gioventù.
Giunti nei pressi di Diano Arentino sentimmo delle raffiche di mitragliatrice provenienti dalla vallata di Stellanello, il che ci costrinse a cambiare direzione. Denardi disse che probabilmente si trattava di un rastrellamento: se avessimo proseguito, probabilmente saremmo finiti in bocca ai nazifascisti. Decidemmo di ritornare sui nostri passi, per portarci nella vallata di Dolcedo attraverso Borgo d'Oneglia e Sant'Agata, in cerca di altre bande partigiane.
Trascorremmo la notte in modo precario in una centralina elettrica, a monte della strada statale 28, nei pressi del ponte del borgo. Il mattino seguente, dopo una ulteriore discussione, Denardi ci convinse che era più opportuno incamminarci verso Tavole e Villatalla in quanto era certo che anche là dovevano trovarsi delle bande partigiane.
In seguito, se avessimo voluto, potevamo trasferirci nella zona di Stellanello, già nostra prima meta.
Giunti nei pressi di Pianavia [n.d.r.: frazione del comune di Vasia (IM)], sentimmo molto distante un'altra sparatoria. La gente del paese ci informò che partigiani si trovavano a Villatalla [n.d.r.: frazione del comune di Prelà (IM)] verso cui ci incamminammo.
Sulla piazza principale del paese incontrammo un gruppo di armati intenti a pulire patate e verdura presso una fontana. Preparavano il rancio. Tra i cuochi riconobbi Angelo, mio vecchio compagno di scuola, ed alcuni altri.
Ci accompagnarono in una stanza dove aveva sede il Comando. Ivi incontrai Rinaldo Rizzo (Tito) e Gustavo Berio (Boris). Questi ci salutarono e ci destinarono al distaccamento che era dislocato a Pianavia, comandato da Angelo Setti (Mirko) e che aveva per commissario Nello Bruno. Il distaccamento era composto da circa quaranta uomini e tra questi riconobbi dei miei amici di antica data, tra i quali alcuni con i quali ero cresciuto nella mia prima giovinezza (avevamo fatto il premilitare insieme). Ricordo "Nino u fransese", "Nani u careté", "U pastissé" ed altri.
Ad essere sincero, da questi non ebbi una affettuosa accoglienza: sapevano che ero stato nella TODT per cui rimasero un poco freddi.
Qualcuno mi disse: «Era ora che ti decidessi a venire su in montagna». Cercai di giustificarmi e tutto finì lì.
Dopo oltre quarant'anni "U pastissé" mi disse che qualcuno avrebbe voluto fucilarmi per la mia permanenza nella TODT, ma non mi disse chi aveva espresso questo parere. Sono sicurissimo che, se questo intendimento arrivò nelle orecchie di "Merlo", lui non trattò certamente bene coloro che desideravano la mia morte. Sapeva che io facevo parte di una cellula di giovani del Pci. Rileggendo una memoria riguardante un colpo che avevamo fatto nella caserma Siffredi ad Oneglia, mi venne in mente il nome di colui che voleva sempre uccidere tutti (a parole). Forse era costui che desiderava anche la mia morte.
La prima notte che trascorsi nell'accampamento, mi misero di guardia ma, non avendo esperienza e un po' di paura, scambiai un albero che ondeggiava a causa di un po' di vento per un nemico. Preoccupato, andai a svegliare "Nino u fransese", il compagno con il quale avevo più confidenza. Egli venne, gli feci vedere l'ombra sospetta e lui subito si diresse in quella direzione.
Dopo un po' mi chiamò e mi disse: «Guarda che bell'albero... se in ogni albero scorgi un nemico, questa notte non dorme più nessuno». Ci rimasi male e il giorno successivo venni "sfottuto" un poco da tutti.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

mercoledì 30 novembre 2022

I Tedeschi da San Bartolomeo salgono a Villa Faraldi

Villa Faraldi (IM). Fonte: Oggi Cronaca

La battaglia delle Fontanelle, a monte di Villa Faraldi: questi è un piccolo Comune di montagna nella Valle Steria, sovente sede di Distaccamenti partigiani; con tutta la sua popolazione partecipa alla lotta armata contro i nazifascisti dall'ottobre 1943 alla Liberazione. Inoltre fu centro di rifornimenti e informazioni militari. Talmente indomiti gli abitanti che il nemico dovette porvi un presidio dal novembre 1944 al marzo 1945. Furono mesi di perquisizioni, fame, razzie e sofferenze inaudite. E nell'ora decisiva della battaglia scatenatasi l'11 e il 12 aprile, quale conseguenza di una rappresaglia tedesca, come un solo uomo la popolazione insorse, in collaborazione di due Distaccamenti partigiani, per scacciare il nemico e non mollò più, fino al vicino giorno della Liberazione. Ma vediamo da vicino gli avvenimenti: il giorno 10 tre garibaldini dell'Intendenza ("Lolli", "Gambetta" , "Pieren"), venuti a conoscenza che Tedeschi (un ufficiale e un soldato), armati di m.p. e di Mauser, erano a San Bartolomeo al Mare, presso un laboratorio di sartoria, decidono di disarmarli. Dopo una baruffa rimane ucciso l'ufficiale e gravemente ferito il soldato. I tre partigiani riescono ad allontanarsi mentre sopraggiunge una pattuglia di un presidio nemico dislocato a un centinaio di metri di distanza. In seguito a questa azione il nemico reagisce iniziando con una rappresaglia sulla popolazione civile di San Bartolomeo, per cui il mattino del giorno successivo fucilano i civili che incontrano per la strada. Cadono sotto il piombo nemico Angelo Arimondo di anni 32, Emanuele Arimondo di anni 34, Giovanni Elena di anni 20, Giordano Sesto di anni 19, Luciano Grosso di anni l6 e Andrea Regolo di anni 32.
Quindi, ricevuti rinforzi, i Tedeschi da San Bartolomeo salgono a Villa Faraldi, distante circa cinque chilometri dal mare. Entrano nelle case con la forza trascorrendovi la notte. All'alba del giorno 12 salgono guardinghi verso la montagna, ma quando raggiungono la cappella di San Bernardo, sono investiti dal primo fuoco partigiano. Sotto i colpi dei fucili lanciagranate, sono obbligati a indietreggiare, mentre i garibaldini del Distaccamento "Garbagnati" sono riparati in trincee in località Fontanelle, affiancati da una diecina di giovani di Villa Faraldi. I Tedeschi, ricevuti rinforzi (circa duecento uomini), attaccano nuovamente.
La battaglia si riaccende e dura fino alle ore quattordici circa, dopo di che, mancate le munizioni e a causa dei colpi di mortaio nemico, il "Garbagnati" è obbligato a ritirarsi, affiancato dal Distaccamento "Piacentini", il quale era giunto di rinforzo. I garibaldini si ritirano a Stellanello in Valle Andora dove riordinano le file, e dove trovano il comandante Massimo Gismondi (Mancen) con un gruppo di combattenti.
Il nemico, visto fallito il proprio intento, pensando di attuare una dura rappresaglia, riunisce tutta la popolazione di Villa Faraldi sulla piazza della chiesa, davanti ad una mitragliatrice pesante puntata contro di essa. Però, all'ultimo momento sospendono il previsto massacro e con una dozzina di ostaggi si avviano verso Imperia, compreso il parroco Michele don Ghiglione, che finisce nelle carceri a disposizione delle SS.
Il 24 aprile 1945, gli ostaggi e Don Ghiglione saranno liberati da alcuni guardiani delle carceri e da partigiani scesi dalle montagne circostanti per dare la libertà a molti detenuti politici.
Il giorno 12 aprile, a causa dell'uccisione di un sott'ufficiale tedesco a Cerisola, il comando nemico di Albenga ordina una rappresaglia facendo fucilare i civili Nano Giobatta, Clemente Rota e Alfredo Brancher. Una ventina di Tedeschi giunti a Borghetto d'Arroscia perquisiscono alcune case ed arrestano il dottor Lavaggi, segretario comunale il quale, accusato di essere in combutta con i partigiani, in località San Pantaleo lo fucilano e gettano il corpo esanime nel torrente sottostante. Il commissario "Andrea", del Distaccamento "Piacentini", accompagnato da un garibaldino, mentre va in missione a Oneglia, si scontra con una pattuglia tedesca nei pressi di Diano Serreta: caso singolare, entrambe le parti non subiscono perdite.
Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV: Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005 

12 aprile 1945 - Da "K 20", prot. n° 14, alla Sezione S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Sosteneva che: "L'allarme sbarco continua; nelle valli di Cervo e Diano Marina i nemici hanno intensificato il servizio di guardia dopo i fatti di San Bartolomeo al Mare del 10 u.s. Il coprifuoco è stato anticipato alle ore 18.00. La popolazione nutre un senso di sfiducia verso la fine della guerra".
13 aprile 1945 - Dal comando della Divisione SAP "Giuseppe Mazzini" [di Albenga (SV)] al Rappresentante [Robert Bentley, capitano del SOE britannico, ufficiale di collegamento alleato con i partigiani della I^ Zona Operativa Liguria] dell'Alto Comando Alleato ed al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava che come da accordi presi iniziava il servizio informazioni; che i tedeschi avevano asportato dal forte di Zuccarello tutte le munizioni; che facevano la stessa operazione dai magazzini situati nei pressi di Albenga; che l'11 aprile era transitato "da est ad ovest un camion con rimorchio carico di 70 fusti pieni di benzina"; che nella galleria tra Ceriale e Borghetto vi era un treno blindato, armato con 4 pezzi da 120 e con 2 mitragliatrici da 20 mm; che il nemico aveva intensificato la sorveglianza nelle valli vicine ad Albenga sino ad istituire un nuovo posto di blocco sulla strada Arnasco-Albenga-Coasco [Frazione di Villanova d'Albenga (SV)].
13 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" ai comandi della II^ Brigata "Nino Berio" e della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" - Comunicava che "tutti gli sforzi futuri dovranno essere orientati all'eleminazione delle infiltrazioni nemiche". Disponeva che la II^ Brigata sorvegliasse la Valle Arroscia e disturbasse di continuo con pattuglie e fucilieri ogni movimento nemico. Ordinava che la III^ Brigata si portasse su nuove posizioni per liberare la Val Lerrone: il comando di Brigata ed il Distaccamento "Giuseppe Catter" [comandante "Gino" Giuseppe Gennari] a Testico, il Distaccamento "Elio Castellari" a Marmoreo, il Distaccamento "Gian Francesco De Marchi" a Casanova Lerrone.
13 aprile 1945 - Dal comando della II^ Brigata "Nino Berio" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" ai comandi dei Distaccamenti dipendenti - Comunicava che, per vari motivi, quali la morte del vice commissario "Franco" [Giovanni Trucco, caduto in combattimento a Trovasta il 27 marzo 1945] ed il passaggio a comandante della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" di "Fernandel" [Mario Gennari], il nuovo organico di comando della Brigata era così composto: comandante "Gino" [Giovanni Fossati] commissario "Athos" [Pellegrino Caregnato] vice commissario "Tino" [Agostino Salvo] capo di Stato Maggiore "Sirio" [Antonio Di Stefano] responsabile politico "Gigi" [Giuseppe Alberti].
15 aprile 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al comando della VI^ Divisione - Informava che nella mattinata del 14 aprile il comandante ["Mancen", Massimo Gismondi] con una squadra del Distaccamento "Franco Piacentini" aveva attaccato in località Colletto di Moglio [comune di Alassio (SV)] 8 tedeschi e 2 fascisti e che il nemico aveva reagito sparando 3 colpi di mortaio contro i partigiani, che non avevano potuto, a causa della presenza di campi minati, avvicinarsi troppo.
15 aprile 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al comando della VI^ Divisione - Avvisava che in quella mattinata si erano sentite, provenienti da Testico (SV), alcune raffiche di mitra; che il comandante ["Mancen", Massimo Gismondi] era subito partito con una squadra del Distaccamento "Angiolino Viani" per "portare aiuto in caso di necessità"; che i garibaldini si erano disposti nel seguente modo: una squadra del Distaccamento "Angiolino Viani" sotto il cimitero di San Gregorio per fermare i tedeschi in caso di fuga, il Distaccamento "Franco Piacentini" a difesa del Passo del Merlo e del Passo dei Pali, il Distaccamento "Francesco Agnese" rimaneva a San Damiano; che l'azione dei tedeschi era durata 2 ore.
15 aprile 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" ai comandi del Distaccamento "Marco Agnese", del Distaccamento "Giovanni Garbagnati", del Distaccamento "Franco Piacentini" e del Distaccamento "Angiolino Viani" - Disponeva che una squadra del Distaccamento "Franco Piacentini" si portasse alle ore 23 di quel giorno a Testico (SV) per fare brillare un ponte, con la collaborazione di una squadra del Distaccamento "Angiolino Viani" e del garibaldino "Pirata" del Distaccamento "Giovanni Garbagnati", ed al comando del capo di Stato Maggiore ["Cis", Giorgio Alpron] e che il giorno dopo, 16 aprile, alle ore 4 dovessero trovarsi in Testico a disposizione del comando della Divisione "30 garibaldini ben armati". da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998 - 1999

venerdì 25 novembre 2022

Un lancio alleato che non era stato destinato ai partigiani imperiesi

Rifugio Mongioie. Fonte: Mapio.net

Il mattino del 16 [novembre 1944] lasciammo Viozene [Frazione di Ormea (CN)]. Discutemmo un po' sulla via da tenere. La strada della Fascette era la più breve, ma forse era gelata. Pure parecchi di noi avrebbero voluto passare per Upega a salutare le tombe di Cion, Giulio e di tanti compagni noti ed ignoti. Scegliemmo infine l'altra via, quella del varco del Tanarello. Marciammo fino al pomeriggio, conoscevo la strada per averla fatta il 13 agosto. Pure quel giorno mi parve più lunga e più triste. Anche qui, come già oltre il Mongioie, alberi spogli e cumuli di foglie, fango gelato, ghiaccio e squallore.
Superato il varco del Tanarello trovammo una colonna di muli che bloccava il sentiero: erano le bestie che le popolazioni di Pigna, Langan, Triora avevano affidato alla V^ Brigata quando i tedeschi avevano cacciato i partigiani dalle retrovie del fronte francese. Erano sessanta muli che ci avevano seguito nella ritirata: «Se un giorno tornerete ci ridarete le nostre bestie. Se saranno morte pazienza, tanto se restano qui le prenderanno i tedeschi...», avevano detto i contadini di Pigna, ma ora i partigiani della V^ tornavano con i muli verso il sud. Chissà per dove erano passati? Forse per Val Casotto, non certo per il Bocchino. Anche la strada del Tanarello era in qualche punto impraticabile per i muli, solo le pecore vi passavano facilmente. Quelli della V^ vi si erano inoltrati restando bloccati. Dovemmo così lasciare la strada più breve ed inerpicarci sulla mulattiera di Baussun, il percorso era così allungato di qualche ora. Salimmo con la colonna fino in cresta, poi l'abbando­ nammo per scendere lungo il ripido pendio e raggiungere di nuovo il fiume. Passammo da Baussun dove in settembre c'era Battaglia con i suoi; ora i casoni erano deserti. Il tetto sfondato, la paglia fradicia.
Marciammo ancora a fondovalle per raggiungere Piaggia, intorno sempre lo stesso abbandono: fuochi spenti, carbonaie abbandonate, casolari deserti: dove i mesi scorsi ferveva la vita ora il freddo sole invernale stentava a fondere i ghiaccioli che ogni notte sulle rive del fiume si riformavano più spessi. Solo i partigiani si aggiravano ormai tra i rami stecchiti ed i pascoli brulli: il vento gelido delle cime ha spinto pastori e boscaioli verso il mare.
Ecco un gruppo di uomini che viene verso di noi sul nostro sentiero. Chi sono? Partigiani. Li abbiamo riconosciuti subito perché ci siamo accorti della loro presenza a breve distanza: il sentiero corre nel bosco.
Sono uomini di Martinengo, ci salutiamo, poi continuiamo il cammino. Ho già visto il primo di loro da qualche parte, non ricordo dove, poi marciando rammento: è lui, Nasone, il commissario di una banda della V che per conto di Turbine avevo cercato a Case di Nava [nel territorio del Comune di Pornassio (IM)] il 10 luglio. Giungiamo a Piaggia alle tre, troviamo Curto, Boris, Achille e qualche altro del comando divisionale. Pantera e gli altri del comando I^ Brigata erano partiti qualche istante prima verso la Val di Triora alla ricerca del gruppo di Osvaldo e Pablo. Scorgemmo il gruppo di Pantera che saliva rapido per la mulattiera che portava alla cima del Frontè, non ci sarebbe stato possibile raggiungerlo, eravamo stanchi e Pantera aveva un particolare motivo per sbrigarsi: i contadini, che avevano visto le giacche militari dei partigiani della V Brigata che erano con noi, gli avevano segnalato che un forte nucleo di tedeschi o repubblicani si avvicinava a Piaggia.
Sostammo a Piaggia. Poco dopo di noi giunse il dottore e comunicò di aver visto nel bosco dei paracadute impigliati nei rami. Era bene mandare degli uomini a controllare ed in caso a recuperare il materiale.
Perché gli alleati avevano effettuato un lancio in quella zona deserta? A chi era diretto? E' possibile che qualche fuoco acceso da sbandati abbia tratto in inganno gli aerei. Comunque quello era per noi il primo lancio! Qualche illusione, qualche speranza, ma per poco: non c'era niente di utile per noi, solo bombe di mortaio di un tipo inglese. Le seppellimmo, avremmo avvertito i badogliani, forse avremmo potuto combinare con loro qualche scambio, poi recuperammo i paracadute.
Curto e Boris partirono anche loro verso Triora. Noi restammo ancora. Era inutile inseguirci l'un l'altro, non ritenevamo probabile che il gruppo Osvaldo fosse in Val di Triora, fuori della zona della I^ Brigata: fin quando non avessimo saputo con precisione dove fossero ambedue i nuclei del comando I^ Brigata non ci saremmo mossi da Piaggia.
Il 15 passammo il Mongioie, il 16 rimanemmo a Viozene, il 17 giungemmo a Piaggia, il 18 partì Curto. Poco prima della partenza di Curto anche il dottor Caduceo e Cobra l'infermiere ci lasciarono. Ne avevano avuto autorizzazione dal Curto. Motivi di salute, hanno detto, in realtà le incognite della situazione e lo spostarsi in zone a loro poco note avevano fiaccato il loro morale. Caduceo sarebbe tornato a Viozene dove la popolazione mancava di dottori, Cobra lo avrebbe accompagnato. Non erano i primi e non sarebbero stati nemmeno gli ultimi compagni a lasciarci. Cobra mi affidò una valigetta con pochi medicinali. Io gli diedi una mia giacca, ci abbracciammo.
Eravamo stati buoni compagni perché rari erano gli studenti fra i garibaldini e la sua partenza mi rattristò. De Marchi e Gazzelli erano morti, Caduceo ci lasciava, la I^ Brigata restava così senza dottori, solo con Libero che era ancora uno studente di medicina, ma nessuno d'ora in poi sarebbe rimasto con noi se non per sua volontà. Purtroppo anche lasciando le formazioni partigiane gli ex San Marco non cancellavano il loro passato, venivano solo a perdere l'appoggio che, malgrado tutto, eravamo ancora in grado di dare con la nostra organizzazione e le nostre povere armi. Cobra e Caduceo si fermarono nell'alta Val Tanaro sperando di trovarvi una relativa sicurezza. Fu un errore che avrebbero scontato amaramente.
Passarono altri cinque partigiani, avevano lasciato la loro banda a Montegrosso di Mendatica, anche loro abbandonavano la lotta: la Cascione si andava lentamente sfaldando.
Un gruppo di noi era ancora occupato nel bosco col materiale del lancio quando scese la sera. A Piaggia eravamo rimasti in tre: Luigi, Cappello ed io.
Luigi era anziano, l'avevo conosciuto la sera del 2 luglio nel bosco di Rezzo quando ci eravamo presentati al comando garibaldino; Luigi quella sera aveva cantato la nostra canzone Katiuscia che io udivo allora per la prima volta. Chissà se se ne ricordava. Luigi si sarebbe fermato a Piaggia dove aveva delle conoscenze, Cappello ed io esitammo. L'ambiente di Piaggia era già freddo in ottobre; al nostro ritorno poi erano sorte divergenze col Curto per la scomparsa di zucchero ed altro materiale di Faravelli che prima dell'ultimo rastrellamento era stato affidato a civili. La popolazione, che, come abbiamo visto, si era allarmata credendoci tedeschi, pareva in quei giorni angustiata dalla nostra presenza: pure non avrebbe dovuto preoccuparsi per rappresaglie tedesche. Non ne aveva subite in ottobre per quanto il nemico avesse scoperto che era stata sede del nostro comando. Un contadino infatti era stato preso con un permesso di circolazione del comando della Cascione. Interrogato aveva portato i tedeschi all'albergo Saccarello dove il lasciapassare gli era stato consegnato. Le SS che occupavano il paese si erano limitate ad arrestare Pastorelli, proprietario dell'albergo ed a condannarlo a morte per un ordine del comando geoerale che prevedeva tale pena per tutti coloro che ospitavano partigiani. Anche Pastorelli si salvò, perché le SS lasciarono il paese ed il reparto di fanteria subentrato si convinse che l'albergo poteva esser stato da noi occupato senza il consenso del proprietario. Al posto del padre arrestarono il tredicenne figlio Pietro. Lo portarono nelle caserme di Tanarello nella neve e poi di nuovo a Piaggia a pelare patate fino allo sgombero del paese. Cosa la gente di Piaggia abbia pensato dell'imprevedibile contegno tedesco non saprei, era però evidente che aveva paura di noi e così prendemmo un po' di riso e di farina, resti di quella nascosta prima del rnstrellamento, e partimmo per Valcona dove avremmo trovato una famiglia amica che già in passato ci aveva accolto.
La strada per Valcona era coperta di uno strato di ghiaccio, il sentiero percorso decine di volte al buio o con la pioggia era diventato insidioso in pieno giorno. Rivedemmo Seppà dove era stato il comando della I^ in agosto: i due casoni erano deserti, gli usci scardinati. Ecco: lì erano state le stalle, qui il dormitorio; c'era ancora un po' di paglia, e lassù erano gli uffici: c'era ancora il rustico parapetto di legno costruito da noi. Sulla strada la fontana gettava sempre acqua, solo la vasca era in più punti gelata.
Proseguimmo, il rumore dei nostri passi era l'unico suono nel freddo crepuscolo. Anche a Valcona silenzio: che fossero partiti tutti?
Ecco il nostro ospedale, vediamo che ne è stato. La villetta esiste ancora, non l'hanno bruciata. Lì ci fermammo con Turbine il 4 luglio durante il temporale, lì sostai dal 1 al 9 settembre quando De Marchi vi curava i feriti. Ora De Marchi è nel cimitero di Upega. Che ne sarà stato della moglie di Curto e di quell'altra ragazza bionda che ci curavano? Come si chiamava? Silvana mi pare; doveva essere un'infermiera diplomata tanto era brava ed attiva.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980

venerdì 18 novembre 2022

Gli acquazzoni si susseguono incessanti per tutta la giornata e i garibaldini sono bagnati fino alle ossa

Carnino Superiore, Frazione di Briga Alta (CN). Fonte: Mapio.net

Abbiamo visto come, preceduti da tre giorni di cannoneggiamenti, reparti tedeschi provenienti da Isolabona, Saorge e Briga, l'8 ottobre 1944 avessero costretto i reparti garibalbini nella zona di Pigna a ripiegare sotto la minaccia di accerchiamento.
Riassumendo: il rastrellamento continua incalzante. Il distaccamento di «Barba» arretra dal monte Vetta. Una pattuglia del 5° distaccamento, armata di due fucili mitragliatori, è inviata in direzione di Castelvittorio per accertare lo stato delle cose, i movimenti nemici e appoggiare eventuali formazioni che già combattono.
Osvaldo Contestabile, La Libera Repubblica di Pigna, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 1985

Il 9 ottobre 1944 Pigna era saldamente in mano ai tedeschi. Uno dei protagonisti della ritirata partigiana, Giovanni Rebaudo (Janò/Monaco), così racconta quei giorni:
"Visto che l'operazione di rastrellamento si stava estendendo su tutto il territorio dell'imperiese, tra gli altri, venne dato l'ordine al terzo distaccamento (V brigata) di ripiegare gradatamente verso le alture piemontesi, anche per convincere i nemici di avere sgominato le bande. Dopo diversi giorni di marcia in diverse tappe, passando per Cima Marta, Gerbonte, Castagna, Monte Pellegrino, si arrivò a Viozene. Sperando di fermarci qui, requisimmo come nostri accantonamenti tutti i fienili. Ventiquattro ore dopo, mentre si attendevano notizie precise, giunse Vittò, comandante la V brigata Nuvoloni, e si mise a capo della nostra colonna che si incamminò per l'altura verso il Passo del Bocchin d'Aseo sul Mongioie. Sapemmo così che la nostra meta era Fontane, un paese nella provincia di Cuneo, nell'alta Val Corsaglia. Giunti quasi al passo ci fermammo un paio d'ore per riposare mentre si decise il servizio di guardia e chi doveva rimanere al passo per proteggere la marcia della V Brigata verso Fontane. A mezzanotte la marcia riprese e il grosso raggiunse il paese verso l'alba. Al passo rimasero Vittò, Janò capo squadra, Domenico Siboldi (Spada), Antonio Allavena (Cuma), Emilio Arizzi (Penna), Giovanni Bonatesta (Vencu) e Silvio Lodi (Bersagliere), armati di due mitragliatori, oltre alle armi individuali. Allo spuntare dell'aurora, dopo una notte calma ma non fredda, si vide in lontananza, in fondovalle, il movimento di una colonna che ripercorreva la stessa strada fatta da noi la sera prima; erano i nostri del Comando Divisione e della I brigata, già accampati a Upega e a Carnino. Li guidava Curto [Nino Siccardi]. Quando giunsero al passo, potemmo notare che erano reduci da una lotta e si visse un momento di commozione quando Curto, nella sua figura imponente, con il vestito di tweed strappato e sporco di sangue, si buttò nelle braccia di Vittò singhiozzando e poi quando ci disse che erano morti Cion, Giulio, De Marchi [...]."
Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016

[ n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944-8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, Edito dall'Autore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016  ]

La zona che si stende dal confine francese a Pigna e che scende a Castelvittorio-Buggio-Carmo Langan, alle ore 22 dell'8 ottobre 1944 non è più sotto il controllo garibaldino; della situazione viene confermato con un messaggio anche il 3° battaglione della IV brigata e l'8° distaccamento di "Gori" [comandante "Gori", Domenico Simi] della V brigata, ritornato nella zona di Beusi a monte di Taggia (1).
Dopo monte Vetta è perduto il passo Muratone; il distaccamento comando della V brigata è obbligato a indietreggiare da Carmo Langan e a ritirarsi su Triora. Il Comando brigata si prefigge, nell'eventualità di una ritirata, di seguire la direttrice Triora-Piaggia per raggiungere il Comando divisione.
Il distaccamento di "Moscone" [comandante "Moscone", Basilio Mosconi] che si trovava a Cima Marta per proteggere Pigna dal lato di Briga e che, esaurito il suo compito, attendeva ordini precisi, alle 11 del giorno 9 è messo in allarme dalle vedette: una colonna tedesca sale da Briga, il distaccamento si mette in postazione e l'attacca con raffiche di mitraglia per rallentare la marcia e permettere alla colonna dei muli diretta a Bregalla di guadagnare terreno e mettersi al riparo. Gli acquazzoni si susseguono incessanti per tutta la giornata e i garibaldini sono bagnati fino alle ossa; camminano stanchi e taciturni, quasi abbiano paura di parlare. Bregalla è raggiunta nelle prime ore della notte e gli uomini cercano riposo nei casoni presso monte Castagna insieme a un gruppo del distaccamento di "Lilli", confortati dalle castagne bollite, in attesa dell'alba.
Il distaccamento di "Doria" ["Fragola Doria", Armando Izzo], giunto a Croce di Campo Agostino al crepuscolo del giorno 8 sotto una pioggia insistente, non può fermarsi perché il nemico incalza. Il distaccamento marcia lento, disposto in fila indiana quando, oltre Croce di Campo Agostino, viene affrontato da un'intera compagnia tedesca: si accende una sparatoria, la sorpresa annulla la difesa. I garibaldini a stento si ritirano verso la Madonna del Passaggio. "Doria", colpito ad una gamba, rotola per una scarpata tra i cespugli ma riesce a salvarsi e a raggiungere la fonte Provenziale.
Il giorno dopo, all'imbrunire, è a Prearba dove sfugge miracolosamente ancora ai tedeschi. Rintracciato e aiutato da due partigiani in perlustrazione, raggiunge Ciabaudo ricevendovi premurosa assistenza dai contadini del luogo. Dispiegando nel modo più poderoso le loro forze i Tedeschi tentano il 9 di ottobre di stringere in una morsa inesorabile le forze partigiane della V brigata, manovra che, per l'abilità dei comandi garibaldini, non riesce.
Circa 400 Tedeschi si piazzano a Collardente e 300 nella zona di Pigna; altre truppe con cannoni aprono il fuoco su Buggio nel tentativo di annientare reparti del 4° distaccamento posto a difesa della zona.
Oltre 200 Tedeschi si dispongono in offensiva nella zona di Graj. Si delinea il grave pericolo dello sbarramento della via di ritirata Triora-Piaggia.
Il comandante "Vittò" [anche "Ivano", Giuseppe Vittorio Guglielmo] col suo Stato maggiore cerca di studiare un nuovo schieramento facendo perno su Triora con utilizzazione del 3° del 1°, e di metà del 5° distaccamento, in posizione nella zona sopra Bregalla; il 2°, il 6° e il distaccamento comando sono già a Triora da dove cercano di richiamare l'8° distaccamento di "Gori".
Informata dalla situazione, la I brigata pone vigilanza alla strada che da Collardente porta alla galleria del Garezzo ove sono già in perlustrazione pattuglie avanzate tedesche (2).
Il distaccamento di Gino Napolitano (Gino) che, trovatosi imbottigliato da sud-ovest del monte Ceppo, si era portato a Baiardo, di lì a Carmo-Langan e poi a Buggio, subìto lo sbandamento riesce a riordinarsi a Triora insieme a gli altri reparti (3).
Nei giorni 10 e 11 la calma si ristabilisce. Il nemico sembra abbia subito una battuta d'arresto; sembra stia ordinando le proprie fila, preparando nuovi piani d'attacco. Le perdite garibaldine sono gravi, molti gli sbandati e le armi perdute.
Durante questa tregua il distaccamento di "Gino" ritorna a Carmo-Langan con lo scopo di proteggere il ripiegamento della brigata da un eventuale pericolo di sorpresa. Il lavoro dei commissari, provvisoriamente interrotto, viene riattivato a Triora; si curano i migliori elementi per porli candidati ai tre battaglioni della brigata in via di ricostituzione.
In questo precario periodo di vita della V brigata i garibaldini hanno dimostrato grande compattezza e massimo affiatamento coi Comandi; ciò verrà confermato nei giorni seguenti con l'ulteriore spostamento a Piaggia, poi a Carnino e infine a Fontane in Piemonte.
[...] Intanto il distaccamento di "Franco" raggiunge Piaggia il 12 assieme ad una quindicina di garibaldini di "Leo". Da Ventimiglia giungono notizie che i Tedeschi stanno risalendo la valle Roja in forze, lasciando sulla costa solo elementi della marina, mentre a Oneglia pattuglie formate da nazisti e brigate nere partono per perlustrare le strade che danno accesso alle vallate.
La situazione diviene nuovamente critica.
I Tedeschi, distruggendo e incendiando case e fienili per la campagna, compaiano nei dintorni di Triora e la banda locale di Molini si sbanda.
Anche la IV brigata si prepara al peggio: il 7° distaccamento di "Veloce" si tiene pronto a partire per spostarsi sotto monte Ceppo sperando di venirsi a trovare alle spalle dello schieramento nemico, qualora questi operasse verso sud in valle Argentina; nella notte sotto il monte giungono garibaldini sbandati del distaccamento di "Gino" attaccato in mattinata a Langan. Molini è investita da colonne di nazifascisti che riprendono l'offensiva il mattino del 13.
Le prime raffiche prolungate si odono di fronte all'accampamento del distaccamento di "Moscone"; colonne di fumo s'innalzano dai tetti delle case di campagna in località Goletta, il nemico dà fuoco a tutto quello che scorge, compresa la casa ove era stato posto il Comando della V brigata.
Il distaccamento riesce a prendere posizione sul monte Castagna e a rimanervi per quatto ore. Al tramonto, ricevuto l'ordine da "Vittò" di spostarsi, dopo una marcia notturna sotto lo scrosciare incessante della pioggia e per sentieri invisibili ed infangati, raggiunge il paese di Piaggia sul fare dell'alba.
I Tedeschi avevano annunciato il loro arrivo a Triora con una breve sparatoria su Langan, dopo aver attraversato il bosco di Tenarda; come abbiamo accennato, incendiati i casoni della Goletta, scendono per i castagneti di Mauta e giunti in località La Besta non proseguono sulla via maestra ma deviano per una scorciatoia che porta alla Noce, indizio evidente che qualche conoscitore dei luoghi li stava guidando.
Giunti nel luogo detto Casin sparano al campanile del capoluogo, come avviso del loro arrivo.
Ondate di soldati tedeschi si susseguono per tutta la giornata. Si fermano nel paese occupando le case private Tamagni, Capponi, Bonfanti, Ausiello, Costa, Moraldo, ecc. L'artiglieria sosta sotto i portici dell'asilo e dell'ospedale; ivi sostano pure le cucine della truppa, mentre la sanità viene sistemata in casa di Lina Novaro (La Baracca) ed i cavalli nella scuderia del "Casermone".
Intanto tutta la V brigata è in ripiegamento verso Piaggia. Avviene in modo ordinato e con calma. Al tramonto del 13 tutti i distaccamenti sono nella zona in attesa di una sistemazione provvisoria. In due giorni la formazione viene riorganizzata con gli effettivi rimasti in efficienza comprendenti 350 garibaldini.
Mancano ancora i distaccamenti di "Gino" che, rimasto tagliato fuori, riuscirà in seguito a raggiungere Piaggia attraverso il passo della Mezzaluna e la galleria del Garezzo, scansando le colonne nemiche, e l'8° distaccamento di "Gori" (4), in posizione avanzata a Beusi, a monte di Taggia, ove rimarrà per tutto il mese appoggiato a levante dal 3° battaglione di "Artù" della IV brigata.
(1) Da nota del vicecomandante della V brigata ad "Artù".
(2) Da rapporto del Comando V brigata inviato al Comando divisionale il 9.10.1944.
(3) Testimonianza orale di Gino Napolitano (Gino).
(4) Si aggregarono all'8° distaccamento di "Gori" composto di ottanta uomini, cinque garibaldini di "Gino", il distaccamento di Baiardo (Audace), quello di Luppi Bruno (Erven) - già rimasto ferito il 26.6.1944 a Sella Carpe -, con venti uomini bene armati, venticinque uomini della banda locale di Arma di Taggia, altri sbandati e due austriaci fuggiti dalle formazioni germaniche.

[...] Il grande rastrellamento Pigna-Triora-Upega era stato attuato dai nazifascisti, a quanto si seppe, per sgomberare dall'insidia partigiana le strade che conducevano al Saccarello, e di là in Piemonte, necessarie per la ritirata in caso di sbarco alleato che i Tedeschi e le autorità fasciste temevano, sulla costa ponentina.
Molti sintomi, oltre alle informazioni fornite dai servizi di sicurezza, erano evidenti: non passava inosservato il diuturno lavoro di otto spazzamine e di cacciatorpediniere angloamericani sulla costa ligure, mentre una buona parte della flotta alleata del Mediterraneo si era concentrata nella rada di Villafranca, e si susseguivano ininterrottamente i bombardamenti aerei sulla costa.
In luglio e in agosto i nazifascisti avevano disposto uno schieramento lineare sulla costa con le forze della Wehrmacht e con le divisioni italiane "San Marco" e "Littorio"; ma nell'autunno, appunto per timore dello sbarco, lo modificarono dislocando le forze sui passi montani in profondità, fuori dal tiro delle artiglierie navali e per bloccare con poche forze, l'infiltrazione nella pianura cuneese delle forze alleate che fossero sbarcate sul litorale ligure. Questa fu la vera causa dei grandi rastrellamenti operati e delle distruzioni provocate. Il 29 di ottobre i Tedeschi davano alle fiamme le stazioni ferroviarie di Ventimiglia e San Remo, facevano saltare il ponte sul Roja, la polveriera di Bussana e tutti i pali delle linee elettriche. Avevano già distrutto le centrali elettriche delle stazioni ferroviarie di Albenga e Diano Marina, requisito migliaia di biciclette, autoveicoli e cavalli, fatto saltare i carri cisterna sui porti onegliese e portorino, invitato la popolazione con manifesti a sgomberare la costa, minato la zona delle ex ferriere [ad Imperia], minato la statale n. 28 tra Pontedassio e Chiusavecchia con mine da 200 chilogrammi di tritolo ciascuna (le mine erano poste a quaranta metri circa di distanza una dall'altra), minato le banchine dei porti, distrutto l'impianto del gas a Porto Maurizio, asportato i motori dal pastificio Agnesi, ecc.
Anche le forze garibaldine si erano preparate per collaborare allo sbarco alleato.
A Piaggia il comandante "Simon" [Carlo Farini], dopo l'amara delusione subita i primi giorni di settembre, cercava di rendere efficiente al massimo la II Divisione Garibaldi "F. Cascione" a cui era assegnato il compito di scendere sulla costa per occupare il capoluogo e San Remo.
A tale proposito il 26 di settembre "Curto" [Nino Siccardi] aveva dato istruzioni a tutti i S.I.M. di raccogliere tutte le informazioni possibili sulla dislocazione delle forze nemiche, sul loro armamento, sull'ubicazione delle sedi dei Comandi, dei posti di blocco, delle postazioni, dei magazzini, ecc.; sulla consistenza delle forze e dei trasporti militari.
Vennero preparati due piani, uno generale e l'altro dettagliatissimo, per l'occupazione del capoluogo (1).
Il piano generale venne trasmesso il 6 ottobre da "Curto" e dal Capo di S.M. ai Comandi della I, IV e V brigata e prevedeva il concentramento dei distaccamenti nel modo seguente:
I Brigata: tra Cesio e Pieve di Teco.
IV Brigata: tra Borgomaro e Carpasio.
A disposizione, per l'occupazione di San Remo:
Battaglione "Artù" (3° battaglione della IV Brigata)
Distaccamento "Gino" (della V Brigata)
Distaccamento "Gori" (della V Brigata)
Quindi, la formazione di colonne-trasferimento con i seguenti itinerari:
I Brigata: Cesio-monte Arosio-monte Torre-Evigno-Diano Arentino-Costa d'Oneglia.
IV Brigata: Borgomaro-passo delle Ville San Pietro-Colla Bassa-Borgo Sant'Agata.
V Brigata: monte Faudo-Lecchiore-Dolcedo.
Il Comando divisione avrebbe dovuto marciare con la I brigata.
Prima di procedere all'occupazione delle due località di Porto Maurizio e di Oneglia, la divisione avrebbe dovuto attestarsi sulla seguente linea:
V Brigata: Poggi-Caramagna-Cantalupo-Artallo.
IV Brigata: Borgo Sant'Agata-Borgo d'Oneglia.
I Brigata: Costa d'Oneglia-Gorleri-capo Berta.
Comando divisione a Costa d'Oneglia.
Inoltre, nel piano facevano seguito le disposizioni per i successivi obbiettivi da raggiungere, e le disposizioni varie che si ricollegavano a quelle del piano dettagliatissimo composto da nove pagine dattiloscritte, con tredici allegati e tre piantine relative ai collegamenti, agli eventuali ripiegamenti, al servizio sanitario, ecc (2).
Intanto le S.A.P. avevano preparato venti squadre di difesa cittadina composte ognuna da circa dieci combattenti, in gran parte membri delle cellule del Partito comunista italiano.
Ma fu lunga l'attesa; lo sbarco alleato non avvenne e tutto precedette come prima: rastrellamenti, rappresaglie, incendi, a cui si  contrapponeva la Resistenza di un popolo e delle sue formazioni garibaldine in armi. Così fino alla liberazione.
(1) Progetto occupazione Imperia del 6.10.1944, prot. n° 762/R/24.
(2) Ordine di operazioni n° 1, del 28.10.1944.
 
[...]
"Relazione di Curto sui fatti di Upega
Alla Segreteria della I Zona Liguria
Dal Comando II Divisione d'Assalto Garibaldi "F. Cascione"
Zona, 2 novembre 1944, n. 34/Q/15 di prot.
Oggetto: Relazione sui fatti di Upega.
Alla Segreteria I Zona.                                                                               
Con l'occupazione di Ormea si delineava la minaccia di un attacco ai distaccamenti della I brigata e così pure a quelli della V rifugiatisi presso il Comando di divisione in Piaggia.
Si predispongono imboscate lungo la 28, da Ormea a Ponte di Nava e Forti di Nava sino a S. Bernardo di Mendatica. La sera del 15 forze tedesche attaccano S. Bernardo che viene evacuata rapidamente dalle nostre formazioni. Già nella giornata l'ospedale di Valcona era stato sgomberato ed i feriti che si trovavansi in Piaggia erano stati trasportati con barelle a Upega decidendo di lasciarli in questo paese con l'assistenza medica ed il minimo di personale indispensabile.
Delineatosi l'attacco su S. Bernardo, tutti i distaccamenti della I e V brigata ricevettero l'ordine di ritirarsi in direzione di Carnino, considerando già l'eventualità di un ulteriore spostamento su Fontane in caso di necessità.
Il giorno 16 una parte delle forze raggiungeva Carnino mentre un'aliquota minore arrivava solo a Upega. Io arrivavo a Upega nella mattinata del 16 e vi facevo fermare le forze che ancora vi si trovavano perchè potessero assolvere un conveniente servizio di guardia ed eventuale difesa. Furono predisposte due postazioni con mitragliatrici, una a Colla Bassa, l'altra sulla strada che proviene da Piaggia.
In giornata mi recavo a Carnino ove facevo fermare e dislocare i distaccamenti quivi arrivati; quindi ritornavo a Upega per avere informazioni sullo sviluppo dell'attacco a S. Bernardo.
Le notizie sembravano favorevoli, in quanto pareva che i Tedeschi non fossero arrivati neppure a Piaggia.
Stando così le cose e nella speranza di evitare, fin che fosse possibile, un ulteriore ripiegamento fino a Fontane, decido di organizzare in Upega il Comando di divisione dandone immediata disposizione. Difatti il giorno dopo, verso mezzogiorno, i componenti del Comando arrivano provenienti da Carnino. Il mattino del 17 pensiamo, d'accordo col dott. De Marchi, di trasportare i feriti da Upega a Carnino, ma poiché in Upega non ci sono gli uomini necessari, dobbiamo mandare a chiedere 50 uomini a Carnino che sarebbero dovuti arrivare il 18 mattino per provvedere al fabbisogno.
Come misura di sicurezza, alle due postazioni sopradette aggiungiamo una pattuglia avente lo scopo di sorvegliare la strada militare che attraversa il bosco delle Navette sopra Upega. Pare che i due uomini inviati di pattuglia, raggiunta la casa dei cacciatori vi si siano rifugiati, mettendovisi a dormire; furono così sorpresi da una colonna di Tedeschi proveniente da Briga Marittima e trucidati. I Tedeschi poterono così avvicinarsi ad Upega senza che venissero segnalati, e nelle prime ore del pomeriggio veniva dato l'allarme quando già si trovavano nelle immediate vicinanze del paese. Mentre la popolazione del paese ed i nostri uomini scappano per mettersi in salvo, assieme a "Giulio"
[Libero Remo Briganti] do ordine di provvedere per i feriti e quindi ci rechiamo nella direzione dei Tedeschi, colla speranza di poterli trattenere un po' per dar modo di porre in salvo i feriti nella vicina cappella del cimitero, come già convenuto in caso di bisogno. Ma purtroppo i Tedeschi sono ormai a non più di 50 metri da noi, mentre "Giulio" rimane subito mortalmente ferito da una pallottola che gli perfora il ventre.
Cerco allora di porre in salvo "Giulio" e miracolosamente possiamo raggiungere un nascondiglio, ove dopo circa due ore e mezza, e precisamente alle 17,40 "Giulio" decedeva. Lascio il cadavere e mi reco a Carnino ove decidiamo di avvicinarci al passo del Bocchin d'Aseo con tutte le forze che ancora trovansi tra Carnino e Viozene, per attraversare il giorno dopo il passo stesso e riparare a Fontane, ciò che è avvenuto regolarmente.
In Upega oltre all'eroica morte del commissario "Giulio", trovava pure gloriosa morte "Cion"
[Silvio Bonfante], che si sparava un colpo di pistola al cuore, quando vide l'impossibilità di sottrarsi alla cattura da parte dei Tedeschi e dopo che il dott. De Marchi, che assieme ad altri tre garibaldini portava la barella di "Cion", era caduto mortalmente colpito da una raffica di Mayerling. Pure a fianco di "Cion" era caduto "Vittorio il Biondo" che fino all'ultimo momento non aveva voluto abbandonare il proprio comandante. Anche "Lensen di Artallo" veniva colpito mentre tentava di porsi in salvo (1).
Infine anche il "meghetto" Franco, che già era riuscito a guadagnare il passo di Colla Bassa, cadeva fulminato da una raffica.
Furono pure fatti dai Tedeschi quattro o cinque prigionieri dei quali purtroppo si ignora ancora la sorte.
Il comandante di divisione
Curto
"
1 Dopo circa un mese si venne a sapere che "Vittorio il Biondo" era ancora vivo.      

Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. La Resistenza nella provincia di Imperia da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio dell'Istituto Storico della Resistenza di Imperia, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977