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martedì 8 giugno 2021

Questi rastrellamenti uno dopo l'altro, che così a questo modo non ci sono mai stati


Le prime avvisaglie del poderoso rastrellamento, che durera' quattro giorni, incominciano a manifestarsi il mattino del 4 settembre 1944.
La massa d'urto nemica raggiungerà nello scontro il suo momento critico e decisivo dopo il mezzogiorno del 5, quando una squadra d'assalto garibaldina, conquistata la vetta del Monte Grande, riuscirà a bloccare l'accerchiamento che oramai stava per chiudersi su più di un migliaio di combattenti partigiani del ponente ligure. 

La sera prima, l'agente “argentino” (anziano ragioniere di Borgoratto [Lucinasco (IM)]), che riusciva ad avere notizie sul nemico quasi sempre esatte, invia una staffetta munita del piano tedesco di attacco, che prevede un impiego di circa 8000 uomini, a Giacomo Sibilla (Ivan), comandante del II° battaglione (IV^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Elsio Guarrini" della II^ Divisione d'Assalto "Felice Cascione"), dislocato alla Cappelletta del Monte Acquarone [Lucinasco (IM)], con i Distaccamenti 5° e 6°.

Conscio dell'importanza della notizia Ivan corre a Villatalla [Frazione di Prelà (IM)] dove è gia' installato il comando della divisione e l'ispettorato di zona. Consegna a Curto [Nino Siccardi, comandante della II^ Divisione] il foglio dei piani su cui tra l'altro è scritto: “... pare che 8000 tedeschi abbiano intenzione di circondare a attaccare i partigiani imperiesi...”

Curto rimane incredulo. 
Ivan ritorna indietro per raggiungere il suo battaglione e marciare su Oneglia. In fondo alla scala dove è  installato il comando, incontra pure l'ispettore Simon [Carlo Farini, Ispettore Generale del Comando militare Unificato Ligure] a cui spiega quanto ha saputo.
È proprio in quel momento che giunge una donna ansante per la corsa fatta, portando la notizia che i tedeschi sono già ai Molini di Prelà. Allora Ivan risalito alla Cappelletta e raccolti i suoi uomini con una marcia forzata si trasferisce a Prati Piani, mentre il 7° Distaccamento “Romolo” si sposta da Ville San Pietro a San Bernardo di Conio [Frazione  di Borgomaro (IM)].

In giornata, la V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione è la prima a percepire quanto sta accadendo e riesce a sganciarsi in tempo senza subire perdite.

Invece la IV^ Brigata, che nelle prime ore del mattino del 4 era scattata all'attacco verso la costa, e che aveva scorto da Collabassa, tra Pontedassio (IM) e Montegrande [località di San Bernardo di Conio], lungo le strade procedenti verso il nord, colonne tedesche con mezzi motorizzati, in serata e nella notte tra il 4 e il 5 disorientata e schiacciata da più parti, è obbligata a ritirarsi dalla Val Prino.

Uniformandosi all'ordine ricevuto dal Comando a mezzogiorno, ripiega in pessime condizioni di visibilita' sulla I^ Brigata ["Silvano Belgrano"] a San Bernardo di Conio. Però è necessario trattenere i tedeschi per qualche ora sotto il paese di Villatalla per dar modo alla Brigata di ritirarsi completamente, evitando di essere agganciata. 
Per questo compito non facile si prestano Curto, Giulio [Libero Remo Briganti, commissario della II^ Divisione], Simon e altri uomini del Comando, per la posizione che occupavano in quel momento, dominante le due strade di accesso al paese (mulattiera e carrozzabile) le cui conformazioni rendevano il movimento dei tedeschi lento e circospetto. 
Nel pomeriggio questi comandanti, quando non restava loro altro da fare che ritirarsi e raggiungere le formazioni, riescono a sganciarsi e ripiegare. 

Prevedendo un inseguimento immediato e con lo scopo di coprire alcune forze esaurite della IV^, la I^ Brigata si schiera su posizioni difensive nei pressi delle colline intorno a Montegrande.
Invece il Comando della Divisione, quelli delle Brigate I e IV e il Distaccamento d'Assalto "Giovanni Garbagnati", comandato da Massimo Gismondi (Mancen) prendono posizione presso San Bernardo di Conio e il Battaglione Lupi, comandato da Eraldo Pelazza, prende posizione presso il passo della Mezzaluna.
Partigiani dei distaccamenti della IV^ Brigata, ritiratisi dalla Val Prino, giungono a San Bernardo di Conio al tramonto, portando drammatiche notizie: colonne di tedeschi avanzano da tutte le direzioni, incendiando i casolari che incontrano. Si stenta a credere a tutto ciò. 

Mentre gli alleati avanzano da Ventimiglia lungo la riviera, come possono gli avversari perdere tempo in rastrellamenti? 
Curto, Cion [Silvio Bonfante, vice comandante della II^ Divisione], Giulio, Simon non riescono a rendersi conto della situazione. 
Ma vedendo quelli della IV^ Brigata affluire ininterrottamente sulle posizioni della I^, sono seriamente preoccupati. Ma la notte trascorrerà senza che si verifichino gravi episodi.

I tedeschi si spingono su Borgomaro, occupano la zona di Moltedo, raggiungono il paese di Carpasio e dilagano nella Valle di Triora. Da Pieve di Teco si spingono su Pornassio e su San Bernardo di Mendatica. 

La trappola è pronta; scatterà il mattino successivo.

Chiara, la moglie di Curto, infermiera nell'ospedale partigiano di Valcona, informata della terribile minaccia che incombe sulle formazioni comandate dal marito, parte in cerca del comandante Martinengo [Eraldo Hanau, del Gruppo Divisioni Alpine del comandante Mauri] che ha nelle bande complessivamente duecento uomini rimasti fuori dall'accerchiamento.
Incontrato il comandante alle Navette, Chiara non riesce a convincerlo a portare aiuto agli accerchiati.  
Martinengo non osa rischiare l'incolumità dei suoi uomini nell'impresa disperata di tentare di aprire un varco ad una massa di uomini già sbandati, non preparati a un simile intervento e che, di conseguenza, non avrebbero appoggiato l'azione dall'interno del cerchio. Martinengo conclude il suo discorso dicendo che Curto, in qualche modo, se la sarebbe cavata ugualmente.

All'alba del 5 Settembre i nazifascisti iniziano l'attacco generale per stroncare definitivamente la resistenza imperiese.

Danno la sveglia le prime raffiche di mitra verso le 5 del mattino.
L'avamposto garibaldino al passo della Teglia, investito da forti pattuglie di avanguardia nemiche che con i bengala illuminano a giorno il teatro della battaglia, mette in allarme i Distaccamenti circostanti.
Sfondata la difesa partigiana in direzione del crinale che da nord ovest conduce alla vetta del Montegrande, i Tedeschi occupano quest'ultima piazzandovi i propri mitragliatori.

Regnano l'ansia e il fermento nei casoni dove sono dislocati i Comandi. Tutto viene disposto per il combattimento ravvicinato poichè, per quanto informano le staffette che giungono da ogni parte, i tedeschi si trovano vicinissimi. Hanno investito in pieno la zona da Colla d'Oggia, da Monte Grande, dal bosco e non c'è via d'uscita. Hanno occupato anche il passo della Mezzaluna e tutta la cresta montuosa che circonda il bosco di Rezzo a nord e a ovest, fino a Prearba.
Dalle posizioni di Montegrande il nemico è in grado di controllare e di battere il raggruppamento partigiano a San Bernardo di Conio.
Col fuoco intenso delle mitragliatrici pesanti può colpire le colonne di muli, disorganizzare ogni resistenza, ogni tentativo di sganciamento o di difesa.

Curto raduna Giulio, Simon, Cion, Giorgio [Giorgio Olivero, tre mesi dopo comandante della neo-costituita Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] e gli altri componenti il comando divisionale, viene tenuto un consiglio d'urgenza per esaminare la situazione profilatasi in tutta la sua gravità e, anche se può sembrare disperata, viene presa la decisione di attaccare Montegrande per conquistarlo e così dominare dall'alto tutta la zona e quindi spingere a destra per aprire un varco ai circondati verso nord ovest; oppure (ed è quello che si verificherà), bloccare il nemico sulle posizioni raggiunte per dar tempo ai garibaldini di disperdersi nei monti della Giara e altrove possibile, prima di rimanere agganciati in un mortale combattimento.

Mentre due mortai partigiani prendono sotto il fuoco la cima del Montegrande, Mancen con tredici volontari inizia la scalata del monte per conquistare la posizione tedesca. Non solo questi uomini sono carichi di armi, ma anche di ansia tremenda perché sanno bene a cosa vanno incontro, però al di sopra dei loro stati d'animo sta la decisione, consci della responsabilità di avere nelle proprie mani la vita di centinaia di uomini. Quasi alla cima del monte, i volontari, sviluppando un fuoco intenso, attaccano la posizione tedesca e la conquistano. Il nemico si ritira abbandonando armi, materiale ed un mulo carico con due casse di cottura. I garibaldini, catturato un tedesco, corrono oltre, inseguendo il nemico fin quasi al passo della Fenaira.
Si creano così le condizioni per guadagnare molto tempo, dato che il nemico, disorientato dall'azione partigiana, blocca i suoi movimenti. L'esercito scalzo può salvarsi perchè l'obiettivo strategico prefissato dal comando è stato raggiunto. I distaccamenti possono iniziare lo sganciamento e disperdersi nei boschi, al coperto dall'offensiva nemica, verso basi più sicure.
La dispersione delle brigate I^ e IV^ occupa tutto il pomeriggio del giorno 5 e la notte successiva. Il tempo peggiora, scrosci di pioggia e banchi di nebbia investono le cime dei monti, un uniforme grigiore avvolge ogni cosa. Nella notte i muli vengono disseminati per le stalle di Rezzo e per le località vicine.
Il Battaglione Lupi riesce a spostarsi verso nord incolume.
Curto e il comando - scrive il partigiano Gino Glorio [Magnesia] in un suo diario - vedono e comprendono che è impossibile pretendere ancora forza dal morale e dal fisico dei combattenti. Sarebbe necessario dare loro un poco di cibo, ma i magazzini di Case Rosse sono andati perduti e la pioggia impedisce di accendere il fuoco. Parecchi distaccamenti, che avevano trascorso il giorno in tre marce continue, sono senza cibo da 48 ore, nella notte del 5 i partigiani accerchiati non possono andare a dormire nei casoni che il nemico in rastrellamento può incendiare... intuiscono che bisogna aprofittare del buio per uscire dall'accerchiamento. Con questo intento le formazioni si sciolgono, con la prospettiva di riunirsi altrove, cessato l'accerchiamento. Così avviene. La mattina del 6 i tedeschi, ricevuti ulteriori rinforzi, iniziano la terza fase del rastrellamento, occupano borghi e punti strategici, cercano di chiudere il sacco, ma ad un certo momento si accorgono che il sacco è vuoto. I partigiani, dopo una drammatica ma brillante ritirata strategica basata sull'individuale, riescono a mettersi in salvo. I tedeschi, durante i loro movimenti, incendiano tutte le baite che incontrano, da ogni parte si innalzano colonne di fumo. Tre partigiani, catturati nei dintorni, vengono fucilati a San Bernardo di Conio.
Gli unici uomini ancora nella zona del rastrellamento sono Curto e gli appartenenti al comando della Divisione, rimasti fino all'ultimo per cercare di controllare l'esecuzione dello sganciamento. Vengono sorpresi all'alba. Riescono a rifugiarsi in un casone ubicato cinquecento metri sopra la chiesetta della Madonna della Neve di Rezzo.
Il loro numero ridotto (sessanta uomini, comprese tutte le staffette dei vari distaccamenti e squadre), permette loro di occultarsi, evitare la cattura e l'annientamento.
Però solo per un caso fortuito non vengono scoperti.
Come previsto, le colonne nemiche frugano i fienili, le baite, i casoni. San Bernardo di Conio è dato alle fiamme, da ogni parte del bosco si innalzano colonne di fumo. Ad un certo momento sette Tedeschi si dirigono verso il casone dove è occultato il comando divisione. Quando sono scorti è troppo tardi per fuggire. Che fare? Si può sperare non entrino? No, perché essi avanzano proprio verso il casone. E allora? Allora il garibaldino Francesco Alberti (Monte), maniscalco di Conio, si offre, andrà lui, vedrà se potrà convincerli e fermarli. E' un poco anziano, quarantacinque anni, vestito da contadino, lascerà le armi nel casone.
La partita è disperata, se i Tedeschi si accorgono dell’inganno, la sua fine sarà atroce, e come potrà lui ingannarli se conosce a stento la lingua italiana?
Ma i compagni, prima di essere presi, spareranno e i loro colpi gli eviteranno una fine penosa.
Il volontario esce, richiude la porta, scende pochi metri, si ferma presso una vigna a sfogliarla.
I compagni, con il fiato sospeso, osservano attraverso le fessure della porta.
I tedeschi scendono, si fermano, chiamano con le loro voci gutturali.
Il partigiano si alza, viene circondato, discute, dal casone non si afferrano le parole.
I tedeschi gesticolano, indicano ripetutamente la casa, poi il gruppo si avvicina: non c’è dubbio, vengono.
I partigiani si schierano a semicerchio intorno alla porta, puntano un mitragliatore.
Se quelli entrano, una raffica e si balza fuori, qualcuno forse potrà salvarsi.
Quanto impiegheranno a giungere fin qui?
Un minuto forse, ma può darsi che prima circondino la casa o che piazzino una mitraglia contro la porta o che attendano rinforzi, o che brucino il casone senza entrarci.
I minuti passano eterni, che sarà successo?
I partigiani si accostano all’uscio: i tedeschi sono sempre lì fuori, ridono, parlano, che fanno?
Si guarda tra una tavola e l’altra: sono sempre lì a pochi metri che mangiano mele selvatiche, alcuni raccolgono frutti sugli alberi di mele che crescono presso il casone, gli altri sono seduti sull’erba.
Si potrebbe far loro una sorpresa balzando fuori all’improvviso: i tedeschi non sarebbero in grado di reagire perché, è evidente, non pensano di essere osservati.
L’idea è buona, se ne potrebbero uccidere parecchi, per poi disperdersi nel bosco.
È buona, ma non si può: i tedeschi che sono un poco più in basso hanno un ostaggio prezioso, il compagno che ha rischiato per tutti, più di tutti.
Il tempo passa e il nemico è sempre lì fuori. E se qualcuno vuole provare ad entrare?
Riposatisi, i tedeschi si alzano prendendo in mezzo il partigiano che era uscito dalla casa e se ne vanno verso Rezzo.
Lui aveva detto loro di essere un contadino che era in quel momento uscito dal suo casone, quindi a Rezzo i tedeschi chiesero agli abitanti se lo conoscevano, se era un bandito o realmente un contadino del luogo.
La gente confermò le parole del prigioniero: i tedeschi lo trattennero per qualche ora, poi lo rilasciarono... 
Francesco Biga, U Cürtu. Vita e battaglie del partigiano Mario Baldo Nino Siccardi, Comandante della I^ Zona Operativa Liguria, Dominici editore, Imperia, 2011

Montegrande - Fonte: Mapio.net

Riproduzione in un Notiziario - Fonte: Fondazione Luigi Micheletti - della G.N.R. di un documento interno dei garibaldini, ma caduto in mani repubblichine

San Bernardo di Conio, Frazione di Borgomaro (IM): memoriale della battaglia partigiana di Montegrande del 5 settembre 1944 - Foto: Mauro Marchiani


Qui in Liguria invece, schiacciati su terreno poco e gramo di confine, le armi bisogna sgraffignarle ad una ad una, con dei colpi di mano; qui è un'altra guerriglia che dura più accainata, a raspare sempre nei gerbi di tutti i giorni uguali.
Ma a pensarci o no è lo stesso, perché tanto non si può sapere com'è la faccenda o come si metteranno le cose andando avanti col tempo che passa: voglio dire se si può cambiare sta faccenda sì o no; si sa soltanto che ogni giorno è peggio, e avanti così.
Bisognerebbe sapere invece, come la mettono laggiù al quartier generale angloamericano, per potersi regolare suppergiù; epperciò si rimane sempre così nell'incerto, con tutti sti bruttezzi che andando gli dicono dietro.
La radio la sentono al comando, ma quando funziona la dinamo solo di tanto in tanto: va bene lo sfondamento di Cassino l'occupazione di Roma lo sbarco in Normandia e proprio lì in Provenza a due passi, che quasi quasi manco te lo credi; ma non te lo dicono sti merdosi che adesso qui è ancora peggio, con più raffiche di prima.
Non te lo dicono perdio, di questi rastrellamenti uno dopo l'altro, che così a questo modo non ci sono mai stati.
E allora, anche se di là è finita, non te ne frega proprio un tubo di saperlo sì o no; dunque non serve a un piffero nemmeno sta menata della radio, che un po' la senti e un po' non la senti più per via della dinamo, perché è solo una grande fregatura; ed è inutile perdere il tempo a lamentarsi; eppoi chissà perché sono sempre lì a sfrugugliarti, un accidenti che se li porti via.
Fanno presto loro coi ponti caserme ferrovie impianti centrali depositi e tutto il bataclan da far saltare, mettendoci l'esplosivo al posto giusto; fanno presto a dirlo per radio, dicendoti anche forza patrioti sabotate ancora di più, che saranno lì a momenti i liberatori: ma invece non è vero, macché.
Sono a Mentone dice radio Algeri; Italia combatte dice a Ventimiglia; radio Londra addirittura che passeggiano già coi partigiani, tra Bordighera e Sanremo. Tu adesso li senti sul serio ste carogne che te lo dicono e ti tocchi se ci sei, se è prnprio vero o se sei scemo; ma loro sì, o lo fanno apposta o sono propriamente ciucchi, perché è vero che te lo dicono e te lo ripetono, proprio come se fosse vero.
Eppure, va a sapere com'è, anche il comando però dice chissà, forse sarà vero; e così anche questi qui, ci fanno la figura dei fessi proprio uguale, e tutti insieme. Eppertanto, danno subito l'ordine incredibile, tutti giù nel bosco di  Rezzo; tutti insieme senza discutere e con la roba per fare più presto.
Una trappola così precisa fatta apposta, i partigiani non l'avevano mai vista da nessuna parte; non l'avevano mai vista né sentita dire.
Quella volta, c'erano tutti concentrati sotto il tiro dei tedeschi nei cespugli carichi di brina prima dello spuntar del sole; al mattino presto, su tutte le creste intorno ben bene all'ingiro, c'erano già in agguato fascisti e tedeschi da tutto l'universo.
Colonne motorizzate, durante la notte, si erano già messe in postazione collegandosi ai valichi; poi fu rastrellamento all'ingrande, completamente circondati in cresta e in fondovalle.
Qui adesso è così mondocane, e chissà com'è successa questa porca bidonata a più di mille uomini tutti insieme concentrati in questa trappola; sì che lo diranno in parecchi modi dopo, con la radio e senza: ma adesso è così e basta, e non serve dirlo in un modo più che in un altro, com'è.
44. Adesso serve soltanto non girarti in questa trappola della malora, perché tirano incrociati sui passi.
Con le mitraglie puntate, sbarrano dal Colle d'Oggia al Montegrande, per collegarsi con la Mezzaluna e il Prearba, chiudendoti nel cerchio che così non ci scappi più; non fai manco in tempo a capire come succede, che già ti sparano addosso precisi rastrellando il bosco passo passo alla tedesca, con tutto l'occorrente.
Ecco perché dunque, anziché star lì fermo, ti devi muovere a tutti i costi; anche se ti sparano addosso e non capisci; ma se allora devi rigirarti così incastrato sotto tiro, ecco che tanto vale buttarti a casaccio la va come la va, sennò fai la fine del topo.
Se non vuoi farla, chiudi gli occhi e vattene a ramengo te con tutti i tuoi stracci, che più fottuto di così non si può assolutamente; cosa te ne fai adesso di sapere come sarà dopo andando; adesso non ti serve manco più sapere com'è sul momento, tanto ci vedi benissimo che ci sei proprio incastrato.
Te lo dico io adesso com'è: è che tu te ne vai imprecando, sotto le raffiche più che puoi, come ti viene in gola con tutta la rabbia che hai dentro, rigirandoti col pericolo che c'è; tu te ne vai con tutta questa rabbia della trappola di morte e non te la spieghi, quando invece credevi di scendertene al mare cantando, avendo finito di fare la guerra.
Così, loro sparano e anche tu spari tutto più che puoi, con tutta la scalogna che ti capita, in questo andartene balordo sotto le raffiche; alé, ten e vai dritto, tanto è lo stesso in salita o no, al Montegrande; perché loro sono già lassù e tu li devi stanare, altro che balle.
Tutte ste cose che dici adesso però, standotene seduto comodo a raccontarle dopo tanto tempo, allora non le pensavi nemmeno, mancandoti il fiato; allora te ne andavi sotto le raffiche e basta, non essendoci assolutameme il tempo, con tutti quegli spari sempre di più da tutte le parti.
Ma ecco che sempre più balordo, in mezzo al putiferio, ti accorgi finalmente dei sanmarchini che sparano da forsennati; per la miseria se te ne accorgi che ci sono anch'essi, coi mortai puntati sul Montegrande: a sparare come capita capita, e non ti sembra vero.
Tu non lo capisci come fanno a trafficare con sti mortai, anche senza i congegni di puntamento, soltanto col filo a piombo; il fatto sta però, che li sparano in riga tutti giusti, sti colpi sui tedeschi l'un dopo l'altro, sempre di più.
Così, tutti insieme, quelli del Mancen che erano già partiti, con gli altri a sparare; tutti si arrampicano in tutti i modi col fiato grosso al Montegrande, e intanto coi mortai aprono il varco.
I sanmarchini mortaisti al coperto o sul pulito, anch'essi salgono di prepotenza tra i cespugli, e  tutti  insieme  alla  fine occupano  la  cima  del  Momcgrandc, ripulendola ben bene all'ingiro.
Cosicché quella volta, di lassù, i tedeschi contro i partigiani non ci sparano più, mentre quelli del Mancen gridano - bona né.
Poi siccome gli angloamericani, quella volta glielo hanno fatto capire ai partigiani di strafottersene, prendendoli anche in giro; da soli nel bosco adagio, dopo quell'assalto, gli sbandati ritornano ai posti di prima come se niente fosse: però da quella volta, i garibaldini e i sammarchini si capiscono di più; i tedeschi invece, mollano la presa perché non ce l'hanno fatta manco stavolta; eppure gli era capitata l'occasione eccezionale.
Epperciò, i partigiani ricominciano dal principio; ma senza più stare a sentire via radio, cosa dicono dal sud quei capatazzi del cavolo; e d'ora in poi la guerra se la fanno in proprio da sbandati che tanto è lo stesso, mondocane.
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, pp. 67-69

Ettore Bacigalupo. Nato a Chiavari (GE) il 13 luglio 1924; allievo meccanico; vice comandante del Distaccamento "Angiolino Viani". All’alba del 5 settembre 1944 i tedeschi e i fascisti iniziano l’attacco generale per stroncare definitivamente la Resistenza imperiese. Il pronto intervento dei garibaldini sorprende il nemico e permette al comandante Belgrano di organizzare la difesa e, valutata la situazione, ordina alle altre squadre di arretrare su posizioni migliori. Nel tentativo di recuperare un mitragliatore abbandonato cade il caposquadra Ettore Bacigalupo. Il 15 settembre 1944 il Comando divisionale propone il conferimento alla memoria della medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione: "Avvertito che una postazione attaccata dai Tedeschi aveva perduto il mitragliatore, si slanciava al seguito del comandante di distaccamento al contrattacco per recuperare l’arma. Accolti nel tentativo dalla violenta reazione del nemico ormai attestato sulla posizione perduta, i garibaldini persistevano sinché, visto inutile ogni tentativo, iniziavano il ripiegamento. Ettore Bacigalupo, con le lacrime agli occhi per la perdita di quel mitragliatore tedesco da lui conquistato alcuni giorni prima, non volle desistere dall’impresa. Riportatosi sotto la postazione nemica l’attaccava nuovamente con l’audacia dei forti. Lanciatosi improvvisamente contro i Tedeschi dal riparo che aveva raggiunto, imbracciando un mitragliatore “Octis”, riusciva a far tacere la mitragliatrice nemica, ma, colpito da una raffica di machinenpistole, cadeva esamine. Il suo corpo fu poi ritrovato deturpato dalla rabbia nazista. Monte Grande (Rezzo-Imperia) - 5.9.1944"
Redazione, Arrivano i Partigiani, inserto "2. Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I RESISTENTI, ANPI Savona, 2011

martedì 18 maggio 2021

Con dei trucchi e con i travestimenti, avrebbero catturato due partigiani

Chiusavecchia (IM) - Fonte: Wikipedia

Giovanni Nino/Tracalà Berio, nato ad Imperia il 24 aprile 1924; comunista. Già a settembre del 1943 è attivo nella lotta partigiana recuperando armamenti abbandonati dai militari che consegna a Felice Cascione e ai suoi uomini di stanza nell’entroterra dianese. A fine febbraio 1944 si unisce con Massimo Gismondi “Mancen” ed altri a Silvio Bonfante “Cion”. Il 23 settembre 1944 a Pieve di Teco (IM) un consistente numero di elementi della banda di fuoriusciti italo-francesi e di esaltati fascisti del capitano Giovanni Ferraris, travestiti da partigiani, ostentano la loro presenza compiendo soprusi e violenze con lo scopo di attirare i ribelli. La notizia mobilita alcuni partigiani che scendono per una ricognizione; sul posto si trovano in missione Menini e Calderoli. Nino Berio, zoppicando perché ferito in un precedente combattimento, si trasferisce in bicicletta. Arrivato a Pieve di Teco cade nell’imboscata e fatto prigioniero dai fascisti è condotto a piedi nudi a Chiusavecchia dal capitano Ferraris. Legato alla porta di un casone a braccia nude con filo spinato e torturato per un giorno intero con percosse e colpi di pugnale, viene infine portato presso il ponte di Garzi e fucilato. Dalla lettera del commissario divisionale Carlo De Lucis “Mario” ai commissari di distaccamento (21 novembre 1944): “Invitato a tradire i compagni in cambio della libertà, Nino rifiuta. Atrocemente torturato con ferri roventi al viso e col pugnale, risponde cantando l’inno della Guardia Rossa. Queste furono le sole parole che i suoi carnefici poterono strappare”. 
Redazione, Giovanni Berio, A.N.P.I. Leca, 8 maggio 2014
 
Giovanni Daniele Ferraris fu comandante della Gnr Compagnia Ordine Pubblico Imperia. Dopo la dissoluzione della 4a Armata molti nizzardi lasciarono il loro territorio ed aderirono alla RSI. In duecento ad Imperia si arruolarono nel 627° CP GNR, potenziando presso la caserma Ettore Muti a Porto Maurizio la Compagnia O.P. (Giovanni Ferraris) oppure contribuendo a formare con i superstiti del Btg. GNR Nizza in ritirata alla fine del 1943 dalla Provenza il Btg GNR Borg Pisani (Massimo Di Fano). Altri furono incorporati nel 626 CP GNR  di Savona e in cento costituirono la Compagnia Nizza della 27a BN di Parma. Il Btg. Borg Pisani da aprile a novembre 1944 si pose nelle casermette della Guardia alla Frontiera di Taggia e di Arma di Taggia partecipando insieme alla 34a ID e a Reparti della RSI al presidio della costa ligure allo sbocco di Valle Argentina. Tutti aspetti che il Ferraris riportò in certe sue memorie scritte del tutto omissive delle efferatezze da lui commesse.
Adriano Maini
 
... banda Ferraris, il famigerato capitano Ferraris, ma allora ancora tenente. Un nome, quello di Ferraris, temuto: dotato di coraggio e di capacità militari, anima di tanti rastrellamenti, l'ideatore della Controbanda, l'uccisore di Nino Berio (Tracalà) a Chiusavecchia. Egli si era guadagnato la fiducia delle S.S. Tedesche, tanto da essere da loro decorato con la croce di ferro di II^ classe, per la spietatezza delle sue azioni.
Attilio Mela, Aspettando aprile, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1998   

Pieve di Teco (IM) - Fonte: Mapio.net


Piaggia - Foto di Fabrizio Benedetto via Mapio.net

Il mattino del 23 settembre [1944] alcuni abitanti di Pieve di Teco raggiungono Piaggia [Frazione di Briga Alta (CN)] per protestare presso il Comando divisione per il fatto che gruppi di garibaldini, sfoggiando molti fazzoletti rossi con sopra la scritta «Cion» [Silvio Bonfante] e proferendo minacce, erano entrati nelle trattorie e nelle botteghe per mangiare e prelevare merce senza pagare, avevano gozzovigliato per le strade e manifestato l'intenzione di cercare il battaglione «Lupi» di Pelazza per disarmarlo (1).
«Simon» [Carlo Farini] e il Comando divisionale, seriamente preoccupati dalla notizia, ordinano di inviare squadre di polizia: una trentina di uomini armati solo di moschetti al comando del commissario «Mario» [Carlo De Lucis] che possedeva molto ascendente sui garibaldini, per indagare sui fatti e prendere provvedimenti.
Partiti da Piagga e attraversato San Bernardo di Mendatica, scendono verso Pieve di Teco. Con loro è Nino Berio (Tracalà), l'unico armato di mitra che, zoppicante per antica ferita (2), presa in prestito una bicicletta a Cosio, fila rapido verso Pieve da solo per ordinare il pranzo per le squadre in arrivo. Sul luogo erano già in missione Ugo Calderoni (Ugo), comandante del distaccamento mortai «E. Bacigalupo», «Menini» e «Staffetta di legno».
Quasi a Pieve gli uomini delle squadre, scorti sull'asfalto della strada alcuni bossoli di mitra e macchie di sangue, rimangono un attimo perplessi.
Cosa sarà capitato...? Qualche metro avanti, al lato della strada, il cadavere di Ugo Calderoni (Ugo) di Achille, nato a Genova il 25.3.1923, giace supino ancora caldo. Lo sbigottimento è enorme, poi tutto diventa chiaro. I partigiani in Pieve sono fascisti travestiti che tendono imboscate. Con questo timore e per prudenza i garibaldini si nascondono rapidi tra gli alberi delle «fasce» soprastanti la strada.
Frattanto giunge rapida una ragazza informatrice, racconta che a Pieve una cinquantina di fascisti in divisa partigiana avevano arrestato e disarmato alcuni garibaldini, tra cui Nino Berio mentre osservava una vetrina di un negozio, puntandogli il mitra nella schiena.
Reagì esclamando: - Compagni, non fate scherzi! - allorché i fascisti si palesarono. Lei intervenne dichiarandosi del S.I.M. e pertanto avente diritto di conoscere la causa dell'arresto di Nino.
- Vattene! - le risposero - se non vuoi guai -. Capì l'imprudenza commessa, gli uomini non sapevano cosa fosse il S.I.M.; non erano certo partigiani ma fascisti camuffati, per questo era fuggita.
Inoltre la ragazza informa i garibaldini che i fascisti, nascosti per le strade di Pieve in agguato, attendevano i partigiani.
Dopo un rapido scambio di idee «Mario» e i compagni si convincono che non possono più sorprendere il nemico armato con numerosi mitra e sarebbe mancato il tempo necessario per raggiungere la statale 28 prima del colle San Bartolomeo e attenderlo per affrontarlo e liberare i compagni. Per chiedere rinforzi ormai era tardi. Conveniva ritirarsi e preparare qualche piano più concreto.
Il ritorno a Piaggia è doloroso e l'ira è grande. Se «Ugo» fosse stato assassinato in luogo nascosto, l'imboscata avrebbe avuto esito inesorabile e mortale.
Alcuni distaccamenti  partigiani, alla notizia si lanciano su Pieve armati fino ai denti, ma non vi trovano più alcun fascista.
Oltre a «Ugo» e a Nino, cadono nel tranello e vengono catturati i garibaldini Franco Luigino Bellina (Bellina) nato a Udine il 3.9.1924, ucciso a pugnalate, Antonino Alessi (Nino) di Antonino, nato a Messina il 3.3.1925 e Pasquale  Tirella (Pasquale) di Francesco, nato a Ragusa il 7.2.1920, uccisi mediante impiccagione a colle San Bartolomeo; Giacomo Carinci (Scotto) fu Virgilio, nato ad Albenga il 15.6.1920 e Nino Berio vengono condotti a piedi nudi a  Chiusavecchia dove è il capitano F. della  brigata nera (3).
Giacomo Carinci cade trucidato sotto i colpi dei carnefici. Nino Berio (Tracalà) di Giuseppe, nato a Imperia il 24.4.1924, legato alla porta di un casone a braccia nude con filo spinato e torturato per un giorno intero con percosse e colpi di pugnale, viene infine portato presso il ponte di Garzi e fucilato. Il nemico stesso ammira il suo coraggioso comportamento (4) .
Nei pressi di Muzio anche il garibaldino Quinto Molli (Bosches) s'imbatte nei falsi partigiani, i medesimi che erano stati in Pieve di Teco. Accortosi dell'inganno apre il fuoco. Saltato nel torrente Arroscia ferito, riesce a mettersi in salvo aiutato dalle sorelle Giacomina e Pierina Pescio.
(1) I fascisti sapevano del dissenso esistente tra il Comando I^ brigata ed Eraldo Pelazza, comandante del battaglione «Lupi»; altro caso che testimoniava l'esistenza di una spia nel Comando garibaldino.
(2) Il coraggioso Nino Berio, partigiano dal settembre 1943, zoppicava perché era stato ferito a metà luglio circa da un proiettile alla gamba sinistra. Il mitra di cui era dotato durante la sua missione a Pieve di Teco era stato portato in montagna (a Piaggia) qualche giorno prima da Giorgio Alpron (Cis), la cui moglie lo aveva recuperato in una soffitta della casa in Peagna (Albenga)
[nd.r.: invero Frazione  del comune di Ceriale (SV)] di proprietà di una certa signora Roggero.
(3) Il capitano della brigata nera locale F., abile rastrellatore e uomo crudele, in coppia con M. Z. di F. detta la «Francese» o la «Donna Velata» simile a lui, diventerà tristemente famoso nel dicembre 1944 e nei primi mesi del 1945 per le sue azioni antipartigiane.
(4) Invitato a tradire i compagni in cambio della libertà Nino Berio rifiuta. Atrocemente torturato con ferri roventi al viso e col pugnale, risponde cantando l'inno della «Guardia Rossa» (lettera del commissario divisionale «Mario» ai commissari di distaccamento del 21.11.1944). Queste furono le sole parole che  i suoi carnefici poterono strappare dalla sua bocca. Il 28.9.1944 il C.L.N. provinciale inviò alla famiglia Berio la seguente lettera di cordoglio: «
A nome di tutti i partigiani componenti il C.L.N. vi porgiamo le più sentite condoglianze. Il nome del vostro caro figliolo sarà eternato  sul bronzo, accanto agli altri eroi della nuova Italia. L'olocausto della sua vita e il suo martirio serviranno di esempio a tutti noi e stimoleranno il nostro spirito combattivo per essere più degni dei nostri giovani eroi immolatisi  per un avvenire di libertà e di pace. Il vostro Nino non è morto invano, noi lo vendicheremo. La pietà oggi e domani può rappresentare un delitto: saremo spietati per vincere e far scomparire dalla faccia della terra tutti coloro che  oggi sono i nostri carnefici. L'aiuto che noi vi porgiamo non è certo il prezzo del suo sacrificio ma è l'infinitesimale attestato di solidarietà...».
Lettera del 4.10.1944 in risposta al C.L.N., dei famigliari di Nino: «
...La famiglia Berio, sinceramente commossa, ringrazia in codesto Comitato tutti i partiti dell'antifascismo e con essi tutti i compagni, gli amici e le buone persone che li compongono, per le prove di affettuoso cordoglio dimostratole in occasione della perdita del suo adoratissimo figlio Nino...».

Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. La Resistenza nella provincia di Imperia da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977, pp. 81,82,83
 
Valfrè Carlo, nato a Ventimiglia il 7 luglio 1921, milite della Compagnia OP di Imperia.
Interrogatorio di Valfrè Carlo del 7.5.1946:
[...] Nego di aver partecipato al rastrellamento avvenuto nel mese di settembre 1944 a Villa San Pietro dove il Ferraris con la Squadra Comando si travestì da partigiano. Non ho partecipato al rastrellamento in borghese a Pieve di Teco, avvenuto il 22 settembre essendo rimasto di guardia al presidio di Chiusavecchia. Al ritorno della compagnia dal rastrellamento, ebbi occasione di vedere in mezzo al Ferraris e militi in borghese due partigiani che furono rinchiusi in una stanza della sede del comando compagnia... scesi ci congiungemmo con la squadra del tenente Di Carlo dove intesi dagli stessi militi che erano stati uccisi due partigiani ed il milite Zappella aveva un orologio al braccio di uno dei due uccisi. Da qui siamo rientrati a Dolcedo con il partigiano della San Marco, il quale venne poi ucciso nei pressi del cimitero dal milite Cartonio Antonio.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 

Giovanni Nino Berio

Garzi - Fonte: mialiguria.it

Dopo pochi giorni da quando eravamo giunti a Piaggia, da Pieve di Teco giunsero alcuni civili, nostri collaboratori, per informarci che nel paese gironzolava una quarantina di partigiani che si comportavano con arroganza e prepotenza, mangiavano nei ristoranti, bevevano nei bar, prendevano oggetti ed altro nei negozi, senza pagare. La cosa ci apparve anomala e strana, per cui il Comando decise di inviare una decina di uomini per constatare come stavano le cose.
Uno dei responsabili della spedizione era Nino Berio ("Tracalà"), il quale, sapendo che a Pieve "filavo" con una ragazza, venne sotto l'albergo Pastorelli per chiamarmi, invitandomi a prendere il fucile, le munizioni, le altre cose necessarie, e a seguirlo perché si partiva subito.
Non mi feci ripetere l'invito e, in un attimo, fui per la scala che portava all'aperto.
Però in fondo alla scala incontrai il commissario "Mario", il quale, vedendomi armato di tutto punto, mi chiese dove stavo andando. Lo informai di quello che mi aveva detto "Tracalà."
Lui mi disse che la squadra era già pronta e mi invitò a ritornare sui miei passi. Senza permettermi obiezioni mi invitò a riprendere posto ìn fureria dove c'era tanto da fare. "Mario" era un uomo deciso e non accettava di essere contraddetto, ragion per cui a malincuore ritornai in ufficio. lnfatti si dovevano inviare molti ordinì che dovevo scrivere a macchina, per riorganizzare la brigata.
Quelli che scorrazzavano in Pieve di Teco erano fascisti, travestiti da partigiani, del capitano Ferraris.
Alcuni nostri compagni caddero nell'agguato. Ugo Calderoni fu ucciso per la strada, Nino Alessi venne impiccato a Colle San Bartolomeo, Nino Berio, condotto a Chiusavecchia, fu torturato e poi ucciso (fu tenuto una notte legato ad un albero con filo spinato, bruciato con ferri roventi, colpito con una decina di pugnalate non mortali, quindi fucilato quando i torturatori non provavano più divertimento); qualcun altro fece la stessa fine, dei catturati nessuno si  salvò.
Sarebbe stato meglio che si fossero tolti la vita (come fecero altri nei mesi seguenti) anziché cadere prigionieri. Avrebbero sofferto meno e dato meno soddisfazione a quei sadici carnefici.
Due giorni dopo che il triste episodio era accaduto pensai che "Mario", involontariamente, mi aveva salvato la vita. (Che, per varie circostanze, mi salvassi, non era la prima volta, e non sarà l'ultima).
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998
 
I falsi partigiani sono adesso nella zona di Pieve di Teco - è la metà settembre del 1944 - ne uccidono parecchi di quelli veri, Ugo Calderoni, 21 anni, di Genova, e Franco Luigino Bellina, 20 anni, di Udine, a pugnalate, Antonino Alessi, di Messina, e Pasquale Ticella, 24 anni di Ragusa, impiccati, Giacomo Carinci, di Albenga, e Nino Berio, 20 anni, di Imperia, fucilati. Ci vorrà del tempo prima che siano neutralizzati.
Ricciotti Lazzero, Le Brigate Nere, Rizzoli, 1983
 
Capita un giorno che le staffette vengono a dire al comando, di una faccenda dei bottegai di Pieve, per questi buoni.
Al comando decidono che bisogna vederci chiaro, con una squadra apposta in ricognizione.
- È strano però - dicono al comando,- non sembra vero se ci sono quelli di Pelazza e i mortaisti di Menini, gente come si deve -; ma mandano lo stesso a vedere, non si sa mai.
Nino Berio il Tracalà, zoppicante per ferita, scende per primo sullo stradale a prendersi la bicicletta, - ho il mitra - dice, - e intanto vado a vedere.
Gli altri vengono dietro tutti tranquilli in fila indiana, e parlano tra loro delle cose della banda.
Ma eccoti di colpo sulla strada, prima delle case, luccicare al sole bossoli di mitra e sangue di traverso sul pietrisco, fino alla cunetta.
Più in là rigido disteso, eccoti il corpo crivellato di Ugo Calderoni, caposquadra mortaista.
Allora perdio, tutti presto sotto la scarpata giù al coperto e subito colpo in canna, pancia a terra col sole di striscio; ma stai fermo lo stesso dove ti trovi.
Eppure, non si riesce proprio a capire com'è successa senza spari e movimenti o altro bordello intorno, sta faccenda strana; com'è possibile insomma, se tutto è a posto e anche nelle case o per le strade non c'è traffico di niente; com'è possibile che sia successa sta cosa strana, che non si riesce a spiegare.
Invece, cos'è successo veramente, col sole di striscio e tutto alla svelta, lo dice propriamente adesso con l'affanno una donna ancora malmessa, che arriva dal paese tutta agitara e con la paura addosso.
Mentre lo dice, si guarda ingiro, e per spiegare come può tutto dal principio, si inciampa un po' nel parlare - macché, manco la gente se n'era accorta subito, perché nessuno se ne poteva accorgere; sì che c'erano delle facce nuove e c'era della stranezza: ma lo dico adesso; invece quando arrivarono, nessuno se ne accorse; come fai a capirlo lì sul momento, se li vedi vestiti proprio uguali, perfino coi fazzoletti rossi i moschetti a tracolla con lo spago e le braghe corte di teli mimetici? Dicevano i nomi giusti dei posti, litigando coi bottegai, e gridavano forte; era proprio tutto uguale e nessuno se ne è accorto, macché.
Così, quando il Tracalà saltò dalla bicicletta, se lo misero in mezzo senza farsene accorgere, parlando uno sull'altro.
- È proprio bello sto mitra corto; scommetto che spara ancora più preciso, fammi vedere.
Ma ci fu ben poco da vedere, quando gli vennero ancora più addosso, col mitra puntato nella schiena.
- Basta scherzi, ragazzi - diceva il Tracalà; ma diventava serio e sempre più pallido.
Si sentiva il sudore freddo, mentre vedeva all'ingiro soltanto facce nuove con le smorfie dei fascisti e il ghigno della morte. Per il trucco del travestimento, era troppo tardi ormai, quando il Tracalà capì che non lo era uno scherzo dei compagni; non lo era proprio: capì che invece senza sbaglio, era il ghigno della morte con la brigata nera di Ferrari addosso, più niente da fare.
Anche quel caposquadra mortaista, quando lo presero, lo presero a tradimento che non ci pensava nemmeno; si divincolò, che quasi ce la fece alla disperata; e così gli spararono lì sul momento.
Lo bruciarono nella rincorsa su per lo stradale, poi lo scansarono nella cunetta a pedate, rotolandolo nel pietrisco.
Invece a Nino Berio il Tracalà, che era stato uno dei primi partigiani salito in banda con Cascione, e Ferrari lo sapeva, gli fecero del resto prima di ammazzarlo come un cane; gli fecero di tutto lungo la strada.
Carico di un treppiedi, camminando scalzo a colpi nella schiena su per la salita e sempre più forte giù per la discesa, legato col filo spinato, glieli fecero fare tutti i tornanti della 28 che non finiscono mai.
Lo sfigurarono da capo a piedi per quel che gli fecero andando, finché lo ammazzarono soltanto in fondovalle ai Garzi, prima di Chiusavecchia; ma non parlò.
Un altro, portandoselo dietro che si impuntava, lo pugnalarono su per la salita finendolo a poco a poco e non lo trascinarono più, basta così.
Due li impiccarono a dei ganci da macellai, proprio in cima al Colle lasciandoli appesi; li lasciarono appesi per la gola bene in vista della gente, e su ciascuno ci attaccarono il cartello - questo è un bandito - legato sui garretti.
Dopo quella notte dei carnefici, il mattino fu diverso con le urla che si sentivano giù giù dal Colle all'intorno dei paesi, per tutta la valle; coi rintocchi dei campanili, prima che all'alba i preti potessero prendersi i cadaveri per le esequie, la gente chiusa in casa sentì ancora la brigata nera tutta sgonguaiata in guarnigione, che cantavano come all'osteria.
Fu in quella notte che, ciascun uomo sentendosi un brivido lungo nella schiena, i cani continuarono ad abbaiare alla catena, quasi a strapparla, per tutta la valle com'è lunga fino al mare.
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, pp. 70,71
 
Ugo Calderoni

Ugo Calderoni. Nato a Genova il 25 marzo 1923. Mortaista, amico fraterno di Menini Lionello, è con lui nel settembre 1944 nel tentativo di liberare K13, agente SIM recluso a Castelvecchio di Imperia  nella sede OP GNR di Giovanni Ferraris.
E’ in ricognizione a Pieve di Teco il 23 settembre 1944 quando viene catturato a tradimento; cerca di reagire, ma è circondato da quattro militi della GNR che lo uccidono.
Il suo corpo è preso a calci dal milite della GNR Antonio Cartonio e fatto rotolare in una cunetta tra sterpaglie e pietrisco per un sommario occultamento.
Accusato della sua morte, oltre al già citato Cartonio, è Emanuele Cremonesi.
Redazione, Arrivano i Partigiani, inserto "2. Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I RESISTENTI, ANPI Savona, 2011
 
Pieve di Teco (IM) - Fonte: Mapio.net

22 settembre 1944 - Circolano in Pieve [di Teco] dei Sanmarchini che, da quanto si vocifera, sarebbero qui venuti per presentarsi ai partigiani. Questa è l'unica constatazione della giornata.
23 settembre 1944 - Giorno di sabato, ore 10,30: scendono dal Colle S. Bartolomeo truppe composte da reparti di Sanmarchini. La popolazione è tutta in subbuglio e frastornata; molti si dileguano per le campagne. Queste temute forze di Sanmarchini pare si siano poi ridotte ad una trentina di Repubblichini che, mascherati, sono transitati per le vie di Pieve. Si dice che fra essi via sia pure il figlio primogenito del Dott. Viale e, a quanto pare, con dei trucchi e con i travestimenti, avrebbero catturato due partigiani. Quello che si attraversa è un periodo assai preoccupante perché si va accentuando la caccia all'uomo con mezzi assolutamente proditori e spregiudicati [...]
25 settembre 1944 - [...] Ore quattro e trenta: del centinaio di patrioti giunti stamane in Pieve, una metà sono andati al Colle S. Bartolomeo a prendere il cadavere di un patriota lassù impiccato proprio innanzi all'entrata dell'albergo Belvedere; l'altra metà son partiti per l'alta Valle Arroscia [...]
26 settembre 1944 - Sono le 10 e dal mio studio assisto al passaggio del feretro del patriota impiccato al Colle S. Bartolomeo. Benché ormai si sia usi a questi spettacoli di pietà, non si può trattenere un senso di sdegno per l'efferatezza oggi così diffusa.
Nino Barli, Vicende di guerra partigiana. Diario 1943-1945, Valli Arroscia e Tanaro, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, tip. Dominici Imperia, 1994  

domenica 18 aprile 2021

E giunse l'alba del 4 settembre 1944

La zona della Cappella di Santa Brigida in Dolcedo (IM) - Fonte: Mapio.net


A Poggi [Frazione di Imperia] qualche casa era stata bruciata dalle formazioni dell'esercito repubblicano inferocite dell'accaduto. Con la sorella, per evitare il pericolo di eventuali ritorsioni, aveva ritenuto prudente abbandonare il paese; gli informatori anche sull'altro fronte erano piuttosto attivi e per il momento sarebbero rimaste in loco, in attesa dell'evolversi degli avvenimenti, che promettevano soluzioni e progetti futuri. L'incontro, piacevole per entrambi, ci diede la possibilità di stabilire un appuntamento per il dopodomani mattina in località Santa Brigida, avvenimenti permettendo; si era infatti in procinto di partire per raggiungere in serata quella posizione, in previsione del balzo finale che ci avrebbe condotti ad Imperia. Al convegno, mi assicurò sorridendo, sarebbe venuta con un canestro colmo di cose buone, dolci compresi, di cui mi sapeva ghiotto, sarebbe senz'altro stata una bella merenda nei prati come nei giorni del sereno; un ultimo sorriso, e il semplice saluto d'una stretta di mano, la vidi allontanarsi, figura di giovane donna dai chiari e lunghi capelli annodati da un vivace nastro. Come per incanto, il festante rumore della piazza ritornò ad essere presente. Un appetitoso e gradito pasto concluse la bella giornata, e prima che il sole scomparisse al di là dei monti che chiudevano l'orizzonte, si partì per raggiungere la nuova base assegnataci.
Il nuovo giorno per me significava attesa, attesa di un incontro che sicuramente avrebbe portato ore di un diverso interesse e forse attimi di poesia; scorrevo con lo sguardo il crinale della montagna che dal Faudo scendeva in un fitto verde verso il sud, fino a raggiungere ordinate coltivazioni di ulivi, immagini di un profondo silenzio avvolto in una cornice d'azzurro.
Un piccolo spiazzo, una fontana e una chiesetta semidiroccata, momentaneo luogo di sosta al nostro reparto  in attesa d'uno sviluppo ulteriore degli avvenimenti, unica mansione da compiere, il controllo del sentiero proveniente dalla costa sul dorso della montagna, che terminava sullo spiazzo del piccolo santuario dedicato a Santa Brigida. A questo, in tempo di pace, affluivano i pellegrini provenienti da Porto Maurizio e Oneglia nel giorno della ricorrenza; lo stato del fabbricato denunciava l'incuria del campo e degli uomini, i vetri delle poche finestre infranti, la porta divelta e l'intonaco mancante quasi per intero; restava l'indicazione dei giorni sereni, i nomi dell'abbandono. Quella notte, per ripararsi dal freddo, si era stati costretti a rifugiarsi all'interno della chiesetta, mentre il giorno, con il caldo sole di quell'inizio di settembre, ci vide tutti pigramente seduti o distesi sul piazzale antistante il fabbricato; unico rumore che si univa al nostro dialogo il continuo gorgoglio della piccola fonte, piacevoli momenti di pausa che facilitavano l'osservazione. Uomini abbronzati dai volti asciutti e malrasati, volti giovanili che richiamavano alla mente la fanciullezza, in una strana fantasia di abbigliamenti dalle origini più disparate, divise militari frammischiate a vestiti valligiani e borghesi, evidenti differenze di età, fogge e provenienza, che però non incidevano, poiché si poteva cogliere nello sguardo del gruppo l'espressione di una vita scelta, indicante una coesione che una qualsiasi disciplina non avrebbe saputo rendere maggiore. Alla quiete d'una monotonia piacevole, una sola necessità si faceva sentire con una certa insistenza, un gagliardo appetito che non accennava mai a diminuire e il primo giorno di permanenza, quando la prospettiva di mangiare si era notevolmente allontanata, causando un mormorio di protesta e volti accigliati, l'arrivo di Lecchiore, il più giovane mulattiere del distaccamento, risolse il problema. Lo si sentì arrivare, allegro come sempre, alla guida di un grosso mulo sul cui dorso faceva mostra un contenitore colmo di pastasciutta, preparata nel paese di Lecchiore. I piatti mancavano, ma la difficoltà venne agevolmente superata versando l'intero contenuto del recipiente sopra la porta della chiesa, e malgrado la precarietà del servizio, un tenace assedio liquidò in breve il tanto atteso rifornimento. Un altro giorno volgeva alla fine e nessuna novità era intervenuta; la mancanza di nuovi ordini mi portò ad assaporare il riposo della notte, breve transito all'arrivo del nuovo giorno, che per me si preannunciava piacevole.
E giunse l'alba del 4 settembre 1944, un'alba luminosa come tante di quella splendida estate.
Riposato e ben disposto, nella notte infatti non avevo prestato alcun servizio di guardia, mi accinsi a partire per l'incarico di pattugliamento assegnatomi, prima di poter usufruire del permesso di recarmi all'appuntamento con N., prospettiva questa che mi rendeva particolarmente sereno e conciliante. Il compagno con cui dividevo l'incarico si chiamava “Turiddo”, magro ed allampanato, meridionale fuggito dalla Pubblica Sicurezza di Imperia.
[...] Si procedeva con una certa tranquillità e, pur conversando a tratti, il silenzio della valle rotto soltanto dal cinquettio degli uccelli favoriva la riflessione; risentivo ancora i commenti indirizzatici dai garibaldini anziani, e la nostra fortuna in essi espressa per il breve periodo trascorso in montagna dalla nostra fuga; era convinzione comune ormai che fra qualche giorno le nostre formazioni avrebbero occupato l'intero litorale. Con l'aumentare della distanza dalla base si proseguiva più guardinghi e a breve distanza l'uno dall'altro, il fucile con il proiettile in canna ed il pollice sulla sicura; gli occhi attenti seguivano il rapido volo degli uccelli che si allontanavano al nostro passaggio, e in questa ricerca prudente ed attenta su un possibile pericolo un lontano luccichio attirò la mia attenzione, provocando un istintivo arresto al mio procedere. Turiddo cominciò a ridere sul mio sospetto e nel suo linguaggio a metà incomprensibile mi stimolò ripetutamente ad andare avanti, ritenendo del tutto fantasiose le mie supposizioni su una minaccia incombente; certo ero ancora un ragazzo la cui esperienza di guerra doveva maturare, ma l'ottima vista e un carattere che, salvo costrizioni, mi faceva accettare una situazione solo se convinto, dissero no, dovevo appurare e convincermi.
Mi chinai a lato d'un cespuglio concentrando tutta la mia attenzione sul sentiero che dolcemente calava verso la costa e, frazioni di attimi, ebbi la conferma: un uomo carponi passò rapido da un cespuglio all'altro con un'arma in pugno. "Bisogna far presto", dissi, "è necessario tornare immediatamente e avvertire il distaccamento". Un sorriso ironico e una frase di scherno furono la risposta di Turiddo, per un attimo i nostri occhi si incontrarono ed ebbi la sensazione che il suo sguardo volesse evitare il mio. "Non importa", replicai, "regolati come credi, io ritorno", e m'incamminai veloce; lo sentii borbottare, e proiettata dal sole scorsi la sua ombra seguire la mia. Il nostro frettoloso arrivo e le discordanti versioni fornite crearono un certo scompiglio; l'arrivo immediato dei tedeschi, da me indicato, faticava ad essere accettato da buona parte dei nostri compagni per due precise motivazioni: la versione più comoda, seppure pericolosa, fornita da Turiddo che dissentiva totalmente dalla mia, e quella supposta, che presumeva prossima la fine della guerra nell'intera Liguria. Fortunatamente il buon senso di Danko [Giovanni Gatti] e di altri componenti prevalse. "E' opportuno essere prudenti", disse "appostiamoci, se nulla dovesse verificarsi, nulla perderemo". E nella provvisorietà di una situazione pericolosa afferrai pienamente l'importanza della partecipazione volontaria: un gruppo di una cinquantina di uomini, apparentamente indisciplinati, in pochi minuti prese posizione. Nel breve tratto pianeggiante su cui sorgeva il Santuario, disposto in linea lungo il dorso della montagna, il terreno, in lieve salita verso nord, era sufficientemente strutturato per dominare completamente il sentiero proveniente dal mare, oltre alla chiesetta ed il tratto antistante, mentre lo spazio retrostante al fabbricato era controllabile solo parzialmente; l'intera formazione si era disposta a semicerchio sul disuguale terreno che permetteva una buona mimetizzazione, il Majerlyng al centro del dispositivo, opportunamente coperto con ramoscelli per evitare la rifrazione sull'arma dei raggi solari, aveva il compito di centrare il grosso della formazione nemica, mentre i due S. Etienne disposti sui lati del dispositivo dovevano colpire l'avanguardia e la retroguardia; ai fucili la caccia era lasciata libera.
Bruciava il sole e il tempo scorreva con una lentezza esasperante, e quando i primi dubbi sulla attendibilità dell'informazione raffiorarono, alla fine della piazzuola, dove iniziava il sentiero, due uomini, due nemici, tranquillizzati dall'apparente abbandono del tratto loro visibile, lanciarono il razzo di via libera.
E giunse l'ordinata teutonica colonna, circa duecento uomini per ucciderci; appiattiti sul terreno, quasi incorporati alle rocce nei respiri che accompagnavano i battiti d'un tempo sconosciuto, contavamo metro per metro la distanza che il tedesco doveva percorrere prima di sparare: i cacciatori che si avvicinavano non sapevano d'essere diventanti preda, e improvviso come inferno, l'assordante crepitio delle armi esplose, armi vibranti che davano la morte, urla improvvise, ordini, incitazioni, e uno sbando di corpi alla ricerca di un rifugio per sfuggire alla pena di una spietata sorpresa, e pur nel disordinato frastuono dei colpi, si avvertì subito l'arrestarsi del fuoco del nostro Majerlyng: l'arma si erta inceppata e Oddo, ottimo fuciliere ma mitragliere improvvisato, anche se coadiuvato da Danko, non riusciva a restituire funzionalità all'arma.
Istanti in cui la mente supera la più grande delle velocità e con spietata lucidità evidenzia il maturarsi di nuove realtà; la decisione che mi ero imposto di non sparare col Majerlyng, fintanto che la P.38 sequestratami all'atto della fuga non fosse rientrata in mio possesso, sparì, la presunta offesa avallata da un inutile orgoglio si cancellò; i nemici erano di fronte, afferrai con violenza l'arma, pochi e precisi movimenti, e il vibrare del mostro riesplose nelle mie mani; solo brevi istanti avevano fugato le ultime ombre, mi sentivo sicuro, in una certezza che mi teneva inchiodato sulla posizione, e l'arma vibrava, vibrava inpietosa nella valle che ingigantiva la sua terribile eco; il battesimo del fuoco, un diverso battesimo, era avvenuto.
Le munizioni purtroppo cominciarono a scarseggiare, il nostro fuoco era ormai soverchiato da quello del nemico, il quale, superata la prima mezzora di sbandamento, si era organizzato attestandosi dietro la chiesa e sui rocciosi fianchi del crinale, e soltanto la naturale posizione da noi occupata permetteva una difesa anche se operata con mezzi notevolmente inferiori; ma quando i primi colpi dei mortai, inprendibili alle nostre armi, perchè piazzati in totale copertura dietro la chiesa, caddero a poca distanza dalle nostre postazioni, venne spontaneo l'esame delle nostre possibilità e, fatto rapidamente il punto, si decise lo sgombero della posizione.
Considerata la sicurezza di poterci allontanare senza incappare in pericolose sorprese, il distaccamento iniziò il ripiegamento con molta calma e gradualità.
Danko, avvicinatosi carponi, ci invitò ad allontanarci e fungendo da battistrada con Oddo ci indicò il percorso; io seguivo con Sparafucile [Domenico Garibaldi], laureando in medicina, che operava in qualità di medico nel distaccamento, cosa che non gli aveva impedito di partecipare al battesimo con un S. Etienne. Sorrisi mentalmente osservando l'etereogeneo gruppetto che chiudeva l'evacuazione. Danko l'interprete, Oddo l'autista, Sparafucile medico ed io bancario.
La parte esaltante dell'avventura era terminata [...]
[..] Della classe di mare, venne chiamato alle armi dalla Repubblica Sociale nei primi mesi del 1944. Ritornato in Italia dalla Germania alla fine di luglio, dopo conseguito l'addestramento di guerra tedesco nella divisione italiana San Marco, fuggì con l'intero reparto di appartenenza nelle montagne imperiesi il 29 agosto dello stesso anno, scegliendo la strada della libertà. Ivi combatté fino al termine del conflitto nelle file della 2^ Divisione d'assalto Garibaldi Felice Cascione [ndr: come capo di una squadra della IV" Brigata Elsio Guarrini].
Renato Faggian (Gaston) nato a Pordenone (Udine) il 29 agosto 1924. [...] Periodo riconosciuto: dal 29 agosto 1944 al 30 aprile 1945. Dichiarazione integrativa n. 2547.
da ultima di copertina
Renato Faggian (Gaston), I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza Imperiese. Diario partigiano 1944-45, Ed. Cav. A. Dominici, Imperia, 1984, pp. 46-52

lunedì 22 marzo 2021

Scorgemmo due fascisti in divisa...

Sanremo (IM)

«Be'» - dice Riccardo [n.d.r.: Adriano Riccardo Siffredi, Commissario del Distaccamento "G.B. Zunino" del Gruppo G.A.P. "Giacomo Matteotti" di Sanremo (IM)] e mi sorride al disopra del bicchiere colmo di un liquido dal colore del sangue - «che vuoi che ti racconti ancora, o insaziabile raccoglitore di fatti sensazionali?  Un'altra impresa pazzesca, la scena di un combattimento o di ua fuga disperata sotto la luna, fra il lampeggiare delle scariche ed il sibilo dei proiettili? La nostra vita di montagna, i mille episodi talvolta eroici, talvolta selvaggi [...]».
«Si era, se ben ricordo, verso la fine di settembre o ai primi di ottobre 1944. La nostra banda s'aggirava, come al solito, fra San Romolo, Borello e San Giacomo [Frazioni di Sanremo (IM)]. Erano, per noi, tempi durissimi. Il Comitato sembrava essersi dimenticato di noi, il cibo scarseggiava, i signori della città s'industriavano a far denaro, maledicendo i tedeschi e fascisti, ma nello stesso tempo, si rifiutavano di muovere un dito per aiutare i “banditi”.
Il tempo era bello, faceva ancora caldo, ma noi si pensava all'inverno sopravveniente ed a tutte le difficoltà che avremmo incontrate, braccati, come eravamo, da ogni parte. Si parlava già di un rastrellamento in grande stile contro di noi e le spie nemiche, in città ed in collina, erano attivissime.
Fra l'altro ci era stata segnalata l'opera specialmente pericolosa del Poggi Giuseppe detto il “Peccia”, fascista di Sanremo fanatico al servizio dei tedeschi e delle brigate nere.
Una sera - eravamo allora in un bosco sopra San Giacomo e aspettavamo, Baggioli [n.d.r.: Aldo, Cichito, comandante del Distaccamento "G.B. Zunino" del Gruppo G.A.P. "Giacomo Matteotti", che venne ucciso dal nemico a San Romolo il 15 novembre 1944] ed io, il ritorno dei nostri uomini che erano stati inviati a prelevare del materiale combustibile - si discorreva appunto del nostro famigerato delatore. Baggioli era furioso perché una miserabile sigaretta, che fumavamo a turno, non tirava e le zanzare pizzicavano più del solito. 
Tutto ad un tratto egli si dà un formidabile pugno sul ginocchio - eravamo accosciati tra gli alberi - ed urla: "Bisogna far la pelle a quel mascalzone".
D'accordo, rispondo, ma come? Sai bene che l'amico si tiene lontano dai luoghi battuti da noi. Non si allontana dalla città, di notte si rifugia in luogo sicuro e di giorno è ben difficile poterlo pizzicare.
E pure - incalza Cichito - non possiamo lasciare una belva simile in libertà... è un pericolo mortale per noi.
Mi venne un'idea. Sapevo che il Peccia frequentava il bocciodromo del Borgo, nella strada che ora porta il nome di Giacomo Matteotti. Un posto fuori mano, facilmente accessibile scendendo dalla collina, ma molto frequentato, unico punto nero, questo, per un eventuale piano d'attacco.
Esposi l'idea a Cichito.
"Sai che sei più intelligente di quello che credevo?" mi disse egli raggiante.
"Me ne frego, io, della folla. Tutto sta a non essere presi stupidamente in trappola e non poter più uscirne. Per il resto anche cinquanta armati non mi fanno paura". Ed era vero.
Così ci mettemmo d'accordo sui preliminari, comunicammo la notizia ai nostri compagni al loro ritorno, e la mattina appresso facemmo i nostri preparativi.
Avevamo stabilito di scendere in quattro: Aldo Baggioli, io, Umberto Cozzolini e Bonfante.
Alle tre del pomeriggio - era una domenica radiosa, piena di sole, tiepida come un giorno di primavera - ci avviammo verso la città.
Eravamo mal vestiti, con le scarpe slabbrate e informi cappellacci in testa.
Ma sotto la giacca io custodivo la mia Beretta ed i miei compagni le loro pistole automatiche.
Si andava chiacchierando e fumando, quella mattina avevamo ricevuto un piccolo rifornimento di sigarette, come di ritorno da una passeggiata in collina.
Di tanto in tanto incontravamo famiglie con panierini o coppie di innamorati, ma nessuno ci riconobbe.
Verso le cinque, scendendo da corso Galileo Galilei, raggiungemmo il muretto della strada che domina il bocciodromo.
Ci fermammo, come spettatori sfaccendati, ad osservare il gioco ed intanto si occhieggiava fra la folla nella speranza di scoprire il nostro nemico.
Nel recinto c'erano almeno cinquanta persone: altra gente si sentiva schiamazzare nell'interno del bar. Indubbiamente la nostra impresa rasentava la follia; ma noi eravamo ormai lanciati e nulla più avrebbe potuto trattenerci.
Scorgemmo due fascisti in divisa che, deposto il mitra contro il muro del bar, giocavano con gli altri. Detti un'occhiata di traverso ad Aldo e m'accorsi che il suo braccio corre alla pistola. Lo trattengo con una mano perché attenda e con l'altra armeggio sotto la giacca preparando la pistola. Faccio cenno agli altri compagni di prendere posizione presso l'entrata del bar: li vedo avviarsi con studiata indolenza e collocarsi di fronte alla porta.
In quel momento ho la percezione di essere stato riconosciuto. Alzo gli occhi ed incontro lo sguardo ostile di un agente dell'ufficio politico che avevo avuto occasione di incontrare altre volte. L'uomo impallidisce. Vedo il sangue defluire dal suo volto che sbianca: egli sa chi sono. Siamo appena a cinque metri l'uno dall'altro. Resto un momento indeciso ed in quell'attimo l'agente si volta, passa accanto ai miei due compagni senza notarli, entra nel bar e ne esce un istante dopo seguito dal Peccia, facendo, nello stesso tempo, segno agli altri due militi che, presentendo qualcosa di strano, avevano interrotto il gioco, di avvicinarsi. Nessun rumore veniva più dall'interno del locale. Fuori tutti i giocatori s'erano arrestati e rimanevano immobili ad osservare la scena. Non comprendevano che cosa stava per accadere da un momento all'altro.
Brevi momenti, attimi, forse, di spasmodica tensione nervosa, nei quali pare sia contenuta tutta una vita. Momenti in cui si sente, quasi, il rombo del cuore nell'interno del petto ed il pulsare del sangue alle tempie. Momenti di gioia selvaggia, durante i quali tutti i sensi si acuiscono fino a far male.
Peccia è davanti a noi: è armato? non so, poiché è soltanto il suo laido volto ch'io sgorgo in una rossa nebbia. 
Sento ch'egli urla "Non sparare Baggioli!" e lo scatto a vuoto della pistola di Aldo che si impunta. Senza averne coscienza estraggo la pistola. Intorno a noi s'alzano urla di terrore. E vedo tutti i presenti, ed i militi con loro, buttarsi a terra come un sol uomo. Nello stesso tempo la pistola di Cichito fa udire la sua voce. Otto colpi, in rapida successione, ed il Peccia s'abbatte sulla faccia e morde la polvere.
Dall'interno ci giungono le scariche dei nostri compagni che sono entrati, e tirano sul fratello del Peccia che s'era rifugiato dietro un tavolo: la lamiera che ricopre il legno è bucata, ma il marmo non lascia passare la pallottola e l'uomo si salva.
Giustizia è stata ormai compiuta. Occorre ritornare prima che i tedeschi di guarnigione alla Madonna della Costa giungano sul luogo.
Attendiamo che i nostri compagni escano e, con le pistole puntate indietreggiamo sulla strada. Sono le 5,15. Nel recinto gli uomini restano proni nella loro faccia; come pietrificati dal terrore. Ci fermiamo un attimo. Aldo, ritornato allegro, accende una sigaretta. 
Il bar del bocciodromo venne preso d'assalto dalle Brigate Nere inferocite che ebbero la loro rivincita distruggendo e bevendo tutte le riserve di liquori. Vi furono arresti e perquisizioni. Il terrore regnò fra le spie fasciste per lungo tempo. E così ebbe fine la nostra avventura semi-cittadina.
«Già - finisce Riccardo - era l'unica cosa ch'essi intendevano e noi ne demmo a loro ad usura... Per esempio... ma ti dirò un'altra volta... è tardi». Beve, accende una sigaretta, saluta col gesto uno dei suoi antichi compagni d'avventura «imborghesitosi» anch'esso che si ferma ad arrotolare una sigaretta tratta fuori da un assortimento di «cicche» di tutte le dimensioni e mi sorride.
Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. A.L.I.S., 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp. 271-274
 
19 ottobre
Qualche giorno fa un gruppo di patrioti uccisero un milite che si trovava a giocare alle bocce al "Borgo". Per questo fatto presero la signorina B. sorella di un "fuori legge" appartenente a una distinta famiglia di commercianti della città e, tradottala non si sa dove, i militi della G.N.R. gliene fecero passare d'ogni qualità.
[n.d.r.: dal diario di una ragazza rimasta ignota, figlia di albergatori di Sanremo]
Renato Tavanti, Sanremo. "Nido di vipere". Piccola cronaca di guerra. Volume terzo, Atene Edizioni, 2006
 
Il giorno 8 corrente veniva ferito a colpi di rivoltella in San Remo (Imperia) il milite Poggi Giovanni del locale nucleo U.P.I., che decedeva il giorno successivo.
Gli agenti dell'U.P.I., recatisi a casa del fratello di certo Baggioli Aldo fu Ernesto da San Remo, autore dell'omicidio e noto bandito, provvedevano al fermo della sorella Ada, di 18 anni [...]
Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del 28 ottobreo 1944, p. 31.  Fonte: Fondazione Luigi Micheletti  

venerdì 26 febbraio 2021

Nome di battaglia "Santiago"

Italo Calvino, Autoritratto, 1942 - Fonte: Internet Culturale

[...] L’Italia é divisa in due. Mentre il sud é sotto il controllo degli angloamericani, il nord é sotto il dominio dei tedeschi e dei fascisti della repubblica di Salò. Sempre nel nord, nascono i primi gruppi di partigiani, che condurranno una dura lotta contro i nazifascisti, fino alla liberazione, il 25 aprile del 1945.
 

Calvino, Un contadino ligure con il tipico pesante piccone a tre becchi (magaiu). "Richiede braccia e schiena fortissime, piedi ben piantati a terra, ostinazione feroce...": Italo Calvino - Fonte: Internet Culturale

Mussolini a cavallo, disegno di Calvino. "I primi venti anni della mia vita li ho passati con l’immagine di Mussolini sempre davanti agli occhi, perché il suo ritratto era appeso in tutte le aule scolastiche come in tutti gli uffici e nei locali pubblici" - Fonte: Internet Culturale

Gli eventi del giugno 1943 suscitano nel giovane Calvino ventenne, antifascista in virtù delle posizioni politiche della famiglia d’origine, la speranza che l’Italia si risollevi. Tuttavia, dopo gli avvenimenti del mesi di settembre, la situazione si fa drammatica anche a San Remo, occupata dai tedeschi: i giovani vengono chiamati alle armi, obbligati a militare nelle fila dell’esercito della Repubblica di Salò. Italo non si presenta alla leva ma si nasconde, aderendo al Partito Comunista italiano. Nel 1944, insieme al fratello Floriano, si unisce ad un gruppo di partigiani. Combatte su quelle stesse montagne dell’interno della Liguria che, durante gli anni dell’adolescenza, aveva tante volte percorso in compagnia del padre, appassionato cacciatore. Quarant’anni più tardi, in uno dei suoi ultimi articoli, Calvino ricorderà questa esperienza come estremamente importante nella sua gioventù.
[...] Calvino partecipa alla Resistenza in una formazione di ispirazione comunista. "Mi è stato difficile raccontare in prima persona i miei ricordi di guerra partigiana. Potrei farlo secondo varie chiavi narrative tutte egualmente veritiere: dal rievocare la commozione degli affetti in gioco, dei rischi, delle ansie, delle decisioni, delle morti, al puntare in cambio sulla narrazione eroicomica delle incertezze, degli errori, dei disguidi, delle disavventure in cui incappava un giovane borghese, impreparato politicamente, privo d’ogni esperienza di vita, vissuto in famiglia fino allora" [...]
Redazione, Incontro con Italo Calvino. La guerra a vent'anni, Internet Culturale

Fonte: Internet Culturale

Egli [Italo Calvino], in una risposta al questionario di un periodico milanese, "Il Paradosso", si definisce un anarchico. "La mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una "tabula rasa" e perciò mi ero definito anarchico (...). Ma soprattutto sentivo che in quel momento quello che contava era l'azione; e i comunisti erano la forza più attiva e organizzata". Ma proprio grazie all'esperienza di quegli anni di clandestinità imparerà ad ammirare l'organizzazione partigiana comunista oltre alla particolare forza di spirito che animava i suoi uomini. In una lettera all'amico Scalfari dirà: "La mia vita in quest'ultimo anno è stato un susseguirsi di peripezie (...) sono passato attraverso una inenarrabile serie di pericoli e di disagi; ho conosciuto la galera e la fuga, sono stato più volte sull'orlo della morte. Ma sono contento di tutto quello che ho fatto, del capitale di esperienze che ho accumulato, anzi avrei voluto fare di più".
Il 17 marzo 1945, quando ormai gli alleati sono in Italia, Calvino è protagonista attivo nella battaglia di Baiardo, una delle ultime battaglie partigiane. Ricorderà l'evento nel racconto Ricordo di una battaglia, scritto nel 1974. (Il suo nome da partigiano era "Santiago", dal nome del paesino cubano - Santiago de Las Vegas, vicino all'Avana - dove egli era nato 20 anni prima).
L'esperienza partigiana sarà alla base del suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno e della raccolta di racconti Ultimo viene il corvo. Dopo la Liberazione, mentre la sua inclinazione anarchica e libertaria non affievolisce, in lui va costruendosi un'ampia e complessa visione del mondo che non cede a semplificazioni politiche e sociali [...]
Partigiano Michele Mario Miscioscia, 9 Marzo 2015

Nel 1941 [Italo Calvino] si iscrisse senza convinzione alla Facoltà di Agraria <26 dell’Università di Torino, dove sostenne solo quattro esami, poi nel gennaio del ‘43 si trasferí a Firenze, dove ne sostenne altri tre, ma già nell’agosto di quell’anno a seguito degli avvenimenti bellici fece ritorno a Sanremo dove fu costretto a nascondersi, avendo rifiutato di arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana.
Nel febbraio del ’44 dopo la morte del medico comunista Felice Cascione, Calvino chiese di entrare nel PCI. Nel giugno dello stesso anno, insieme al fratello sedicenne Floriano, si unì ai partigiani del XVI distaccamento della V Brigata Garibaldi, che combatteva sulle Alpi Marittime. <27 L’esperienza della guerra partigiana si rivelò fondamentale per la maturazione dell’autore ed egli stesso la considerò sempre tale. In una lettera all’amico Scalfari scrive: "La mia vita in quest’anno è stata un susseguirsi di peripezie [...] sono passato attraverso una inenarrabile serie di pericoli e di disagi; ho conosciuto la galera e la fuga, sono stato piú volte sull’orlo della morte. Ma sono contento di tutto quello che ho fatto, del capitale di esperienze che ho accumulato, anzi avrei voluto fare di piú". (CALVINO, 1991: LXVII)
Una delle esperienze piú dolorose, una ferita che Calvino considerò non rimarginabile, fu l’arresto dei genitori, che subirono pressioni e torture psicologiche perché rivelassero dove erano nascosti i figli. <28 Tutti questi eventi che si concentrano nell’ultimo anno di guerra forniranno all’autore materiale per alcuni racconti e per il suo primo romanzo, "Il sentiero dei nidi di ragno".
[NOTE]
26 La scelta di Agraria fu dettata dal desiderio di compiacere i genitori, ma non corrispondeva agli interessi letterari già manifesti nello scrittore:«Sono figlio di scienziati...Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano in onore...io sono la pecora nera della famiglia, l’unico letterato della famiglia».( CALVINO, 1995: 2709)
27 Come si vedrà più avanti, i movimenti dello scrittore durante la guerra partigiana sono stati indagati soprattutto da P. Ferrua in 'Italo Calvino a San Remo', San Remo, Famija Sanremasca, 1991, e sono in parte ancora da acclarare. D’altra parte Calvino fu sempre estremamente parco di informazioni sul suo passato di partigiano. Scrive Milanini: «Sembra quasi che l’autore, spinto dal desiderio di torcere il collo ad ogni tentazione narcisistica, si sia rifugiato programmaticamente nell’antiretorica della modestia (come quando dichiara di essere «l’ultimo dei partigiani»), se non proprio nella reticenza oltranzistica». (MILANINI, C., 1997: 173)
28 Calvino parla di questa vicenda in una lettera del 6 luglio 1945 a Scalfari: «Saluta i tuoi genitori e abbiti i saluti dei miei. Ne hanno passate parecchie anche loro: furono arrestati per un mese ciascuno come ostaggi; mio padre fu lì lì per essere fucilato sotto gli occhi di mia madre». (CALVINO, 2000: 149-50)

Annalisa Piubello, Calvino racconta Calvino: l'autobiografismo nella narrativa realistica del primo periodo, Tesi di dottorato, Universidad Complutense de Madrid, 2016

Sanremo (IM): ex Forte di Santa Tecla

Il 15 novembre [1944] i nazifascisti danno il via al rastrellamento di San Romolo, che parte dalle valli sottostanti e dura una decina di giorni. Alcuni partigiani (tra cui Floriano Calvino) riescono a fuggire, altri (tra cui Aldo Baggioli) vengono uccisi sul posto, parecchi vengono catturati. Italo [Calvino], risvegliato all'alba del 15 novembre dal rumore delle porte sfondate nei casolari dei dintorni, viene catturato mentre si allontana da San Giovanni [Frazione di Sanremo situata molto più in basso di San Romolo] in compagnia di Juarès Sughi: si salva dalla fucilazione immediata grazie a un foglio di licenza che porta con sé, un foglio che proveniva insieme con altri da un regolare reparto di stanza presso Ancona (questi fogli erano stati distribuiti ai partigiani grazie alla lungimiranza di un compagno che se ne era impadronito mentre era militare nelle Marche, Guido Pancotti, il futuro «ingegner Travaglia» della Speculazione edilizia). Stando alla domanda all'ANPI (che per mancanza di righe costringeva a risposte ultra-sintetiche), Italo trascorse tre giorni nella fortezza-carcere di Santa Tecla (sul Porto Vecchio di Sanremo); secondo altre testimonianze venne recluso a Santa Tecla per un giorno e poi per altri due a Villa Giulia o a Villa Auberg (ovvero Villa Ober; Grignolio [Ghepeu], con cui ho avuto l'onore di parlare di recente, propende per Villa Giulia). Fulvio Goya, in un'intervista rilasciata dopo più di quarant'anni, ha offerto un ricordo assai vivido della notte insonne trascorsa insieme con Italo e Mario Calvino a Santa Tecla tra il 15 e il 16 novembre, e dell'appello tenuto all'alba del 16: «Eravamo nell'anti-cella del carcere di Santa Tecla, c'era una finestra con le grate da dove si vedeva il cortile. Siamo stati lì senza bere e senza mangiare e ci lasciavano uscire da una porticina laterale per andare ai gabinetti pubblici. Vi fu un bombardamento. Sul tetto della prigione avevano installato una batteria contraerea. Noi eravamo lì ma non potevamo scappare, c'erano sentinelle armate. Chiesi a Italo - non appena vidi, ad altezza dei nostri occhi, gli stivali dei componenti del plotone di esecuzione - se i tedeschi ci avrebbero fatto agonizzare a lungo. Mi rispose di no: "I tedeschi ti stecchiscono e ti lasciano lì". Letto l'elenco dei nominativi ci fecero uscire e ci portarono oltre il portone di Santa Tecla dove c'era un camion che ci aspettava ... avevano invece fucilato gli altri, quelli che non avevano chiamato, poi li han buttati in mare». Attesa della morte in un albergo include la rievocazione retrospettiva di «un giorno e una notte» passati nella fortezza sul porto, entro una stretta cella che era servita in precedenza «da prigione di rigore per i soldati tedeschi» e nella quale ora erano state rinchiuse una ventina di persone, costrette a dormire per terra l'una al fianco dell'altra. Ma la scena principale del racconto coincide appunto con l'ultimo piano di «un grande albergo da poco degradato a  caserma e a prigione», dove alcuni rastrellati sono appena stati trasferiti da Santa Tecla per essere passati in rivista da un partigiano rinnegato, un ragazzo esaltato e bizzoso [...] Ecco la presenza a Santa Tecla di un vecchio padre con la barba bianca «vestito da cacciatore» (Mario Calvino aveva l'abitudine di indossare anche in città una cacciatora di fustagno); ecco il tema dei falsi documenti [...] Insomma Italo, non riconosciuto o per lo meno non denunciato come partigiano, fu considerato uno dei tanti renitenti alla leva. E mentre Juarès Sughi e Fulvio Goya e altri suoi compagni di prigionia a Santa Tecla vennero condotti nel carcere genovese di Marassi, egli fu arruolato d'ufficio nella Repubblica Sociale e relegato per qualche tempo nel Deposito Provinciale di Imperia. Nessun documento attesta per quanti giorni sia rimasto a Imperia, né quando sia riuscito a scappare. Su tutte le vicende calviniane comprese fra il 19 novembre 1944 e il 1° febbraio 1945 anche le testimonianze offerte da quanti vissero quel difficile periodo sono manchevoli o troppo vaghe o contraddittorie.
Claudio Milanini, Appunti sulla vita di Italo Calvino, 1943-1945, «Belfagor», LXI, 1, 2006

In quel frattempo, il capitano della G.N.R. mi pregò di accompagnarlo a S. TECLA, dove desiderava conferire col comandante FORSTER circa la sorte del prof. CALVINO e suo figlio arrestati e colà detenuti. In seguito al colloquio, il prof. CALVINO ed il figlio passarono a disposizione del capitano SAINA [Sainas] della G.N.R.
Ernest Schifferegger, * già SS ed interprete, in un verbale di reinterrogatorio confluito in un documento del 2 giugno 1947 redatto dall’OSS statunitense, antenata della CIA *[Ernest Schifferegger era un italiano altoatesino che in occasione del referendum del 1939 aveva optato, come tutti i membri della sua numerosa famiglia, per la nazionalità tedesca. Entrato nelle SS, operò - a suo dire - solo nella logistica, su diversi punti del fronte occidentale. Era, tuttavia, a Roma come interprete, quando partecipò al prelievo di un gruppo 25 prigionieri politici italiani condotti a morte nella strage delle Fosse Ardeatine. Fece in seguito l’interprete per i nazisti anche a Sanremo. Il rapporto dell’OSS riporta che alla data del 2 giugno 1947 Schifferegger era ancora in custodia alla Corte d’Assise Straordinaria di Sanremo]

Durante la Repubblica di Salò Italo Calvino si nascose per renitenza alla leva, intensificando in questo periodo di reclusione le sue letture, che contribuirono in modo determinante alla sua sempre attiva formazione di letterato autodidatta.
Nel 1944, presentato al Pci, si unì alle forze partigiane in opposizione al nazifascismo: la sua decisione di affiancare i comunisti non fu però determinata da motivazioni ideologiche, quanto piuttosto dalla volontà di unirsi ad una forza dinamica ed operosa. L’attiva partecipazione alla guerra partigiana divenne un’esperienza di formazione umana, oltre che politica, offrendo un contributo decisivo alla sua formazione interiore e alla sua carriera di scrittore: egli raccolse lo spirito che animava gli uomini della Resistenza, cioè «una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla stessa propria fierezza guerriera, di senso di incarnare la vera autorità legale e di autoironia sulla situazione in cui si trovava a incarnarla, un piglio talora un po’ gradasso e truculento ma sempre animato da generosità, ansioso di far propria ogni causa generosa». <13
In risposta a questo intenso periodo Calvino partecipò alla battaglia di Baiardo (17 marzo 1945) rievocata dallo scrittore in "Ricordo di una battaglia" nel 1974.
Il pensiero politico di Calvino cominciò a definirsi in questo periodo, non come una presa di posizione univoca, ma come l’unione di tutti i percorsi possibili per costruire una realtà migliore, libera da pregiudizi, dal potere di pochi, e da istituzioni vecchie ed esauste <14.
[NOTE]
13 Italo Calvino, in La generazione degli anni difficili, a cura di Ettore A. Albertoni, Ezio Antonini, Renato Palmieri, Bari, Laterza, 1962, pp. 75-87.
14 Mario Barenghi, Cronologia, cit., pp. LVI-LVII.

Chiara Mazzullo, C’era una volta… Italo Calvino e le Fiabe italiane. Un'analisi di scopi, metodi e fonti, Tesi di Laurea Magistrale, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2013-2014

[...] Quando viene costituita la Repubblica Sociale Italiana, con a capo Mussolini, il suo Governo richiama alcune classi per organizzare l’esercito repubblicano. Vengono, come è noto, affissi i manifesti con la chiamata alle armi della classe 1923, Calvino non si presenta e rimane nascosto.
Poi vaga per qualche tempo sulle colline a monte della città, in terre di proprietà del padre, fino a che non è obbligato a prendere definitivamente la via dei monti per non venire arrestato dalla polizia fascista come disertore.
Entra a far parte di una formazione partigiana denominata Brigata Alpina, che è stanziata in località Beulla o si muove nei territori dei Comuni di Baiardo e di Ceriana.
La formazione è comandata da Candido Bertassi detto “Capitano Umberto”.
Calvino vi rimane finché non inizia il suo graduale sfaldamento.
Dopo lo scontro vittorioso con il nemico in località Carpenosa, avvenuto il 15 giugno 1944, con alcuni studenti suoi amici (Aldo Baggioli, Massimo Porre, Renzo Barbieri ed altri), Calvino entra a far parte del 16° Distaccamento della IX Brigata Garibaldi, comandato da Bruno Luppi (Erven), dislocato in Cian Colombo, nei pressi del borgo di Vignai (Comune di Badalucco). Dopo alcuni scontri col nemico e la furiosa battaglia di Sella Carpe, svoltasi il 27 di giugno,
durante la quale rimane gravemente ferito il Luppi ed alcuni garibaldini cadono eroicamente, il 16° Distaccamento si scioglie e gli uomini sono incorporati in altre formazioni.
[...] Il 5 di settembre Calvino partecipa alla difesa di Baiardo attaccata dal nemico (il quale viene sconfitto) e poi, per tutta una serie di motivi, il primo ottobre 1944, entra a far parte del Distaccamento partigiano comandato da Jaures Sughi (Leone), formazione della Brigata Cittadina GAP “Giacomo Matteotti”, che opera sulle colline intorno a Sanremo, a sua volta comandata da Aldo Baggioli (Cichito).
Il 15 di novembre i tedeschi rastrellano la zona di San Romolo, a monte di Sanremo, cade il Baggioli, alcuni partigiani sono catturati.
Calvino viene arrestato ma, per un fortuito caso, è risparmiato e, dopo tre giorni di carcere trascorsi nella fortezza Santa Tecla, è arruolato nell’esercito repubblichino ed entra a far parte del Deposito Provinciale come scritturale, al servizio del Tribunale Militare.
Quando riesce a fuggire, raggiunge la V Brigata Garibaldi “Luigi Nuvoloni” comandata da Armando Izzo (Doria-Fragola), la quale, con la IV “Elsio Guarrini” formano la II Divisione “F. Cascione”.
È incorporato nel 3° Distaccamento comandato da Giobatta Moraldo (Olmo), che fa parte del I Battaglione della V Brigata stessa.
Durante l’inverno 1944-’45 Calvino riesce a sopravvivere nonostante il freddo, la fame e il terrore instaurato dal nemico in alcuni paesi di montagna. Dal 2 febbraio, e nelle settimane successive, in compagnia del fratello Floriano (giovanissimo della classe 1927), anche lui garibaldino, Italo si trova a contatto con il nemico a Ciabaudo in Valle Oxentina, a Gerbonte, a Creppo, a Bregalla, località a nord-ovest di Triora, in Valle Argentina.
Il 10 di marzo 1945 partecipa alla battaglia di Baiardo come porta munizioni, combattuta dal I Battaglione “M. Bini” della V Brigata, comandato da Vincenzo Orengo (Figaro), con lo scopo di distruggere il presidio nemico composto dalla IX Compagnia bersaglieri, che è agli ordini del capitano Buratti.
Quei bersaglieri avevano causato molte sofferenze alla popolazione locale.
Dirige l’operazione Gino Napolitano (Gino), vicecomandante la V Brigata stessa. Calvino ricorda questa battaglia in un importante articolo pubblicato in prima pagina sul giornale Il Corriere della Sera (di Milano), del 25 aprile 1974.
Nei primi giorni di aprile, si trasferisce con la Brigata al campo di lancio rifornimenti alleati, in Pian Rosso, a monte di Viozene (Comune di Ormea, basso Cuneese).
Il 25 aprile scende a Sanremo con la sua formazione. [...]
Francesco Biga, A 20 anni dalla morte del grande scrittore. Italo Calvino, il partigiano chiamato "Santiago", Patria Indipendente, 29 gennaio 2006

In seguito alla caduta del fascismo il 25 luglio 1943, Calvino fonda il Movimento universitario liberale (MUL), e dopo l'8 settembre si orienta verso i comunisti. Nel giugno del ’44 si arruola nel XVI distaccamento della IX brigata garibaldina (comunista) Felice Cascione. Il distaccamento di Calvino si scioglie a fine giugno dopo una sconfitta a Sella Carpe. Tra l’ottobre e il novembre 1944 Calvino partecipa con il fratello Floriano alla brigata garibaldina sanremese Giacomo Matteotti, viene catturato durante un rastrellamento, poi arruolato d’ufficio nella Repubblica Sociale e relegato nel Deposito Provinciale di Imperia, da cui riesce a fuggire. Inoltre nell’autunno dello stesso anno la madre viene presa in ostaggio dai tedeschi per un mese, e il padre per altri due.
Tra il febbraio e l’aprile 1945 Calvino milita con suo fratello nella II divisione d’assalto garibaldina Felice Cascione; partecipa a più battaglie, tra cui quella vittoriosa di Bregalla e quella infruttuosa di Baiardo, che nel 1974 rievocherà nel racconto Ricordo di una battaglia. Tra i suoi compagni, alcuni futuri personaggi del Sentiero dei nidi di ragno: Giuseppe Vittorio Guglielmo e Ivar Oddone (rispettivamente, nel romanzo, il comandante Ferriera e Kim).
Rossana Labernarda, Calvino nella scuola: "Il sentiero dei nidi di ragno" e altro tra Calabria e Toscana, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013 

Insomma Italo, non riconosciuto o per lo meno non denunciato come partigiano, fu considerato uno dei tanti renitenti alla leva. E mentre Jaurès Sughi e Fulvio Goya e altri suoi compagni di prigionia a Santa Tecla vennero condotti nel carcere genovese di Marassi, egli fu arruolato d'ufficio nella Repubblica Sociale e relegato per qualche tempo nel Deposito Provinciale di Imperia <31.
Nessun documento attesta per quanti giorni sia rimasto a Imperia, né quando sia riuscito a scappare. Su tutte le vicende calviniane comprese fra il 19 novembre 1944 e il 1° febbraio 1945 anche le testimonianze offerte da quanti vissero quel difficile periodo sono manchevoli o troppo vaghe o contradditorie.
Dei lunghi giorni (forse due o tre settimane) trascorsi nel Deposito di Imperia, e della successiva fuga, ci parla però diffusamente Angoscia in caserma.
31 Cfr. anche Biga, Italo Calvino partigiano imperiese cit., p. 97.
Claudio Milanini, Appunti sulla vita di Italo Calvino, 1943-1945, «Belfagor», LXI, 1, 2006

[...] Il secondo, peraltro brevissimo, colloquio con Italo avvenne nell’autunno del 1943. Svolgeva alcune mansioni presso il Tribunale di Piazza Colombo (edificio che non esiste piú) e ogni tanto usciva per scambiare qualche parola col figlio del Prof. Zauli (mi pare si chiamasse Floriano anche lui, come il padre, insegnante nella Scuola di Avviamento Professionale, sita nello stesso edificio, al di sopra del Mercato dei Fiori). Un certo giorno Italo si rivolse al figlio di Zauli, il quale additò Cagnin (mi pare), che a sua volta lo diresse verso qualcun altro (forse Agostino de Gregorio, anche lui, come me, precoce antifascista) e poi si presentò da me. "Dovresti portare d’urgenza questo bigliettino nel negozio di fiori di Bottini, accanto a Barillaro, in Via Vittorio. Sai dov’è? Non farti notare e torna subito". Il messaggio era diretto a Kahneman e gli suggeriva di nascondersi perché "sarebbero venuti a cercarlo". La mia irruzione frettolosa in negozio sollevò qualche perplessità, forse perché c’era un’avventrice che avrebbe potuto sospettare qualcosa. Comunque il messaggio era giunto a destinazione (seppi poi che il Kahneman era nascosto addirittura nel palazzo in cui abitavo io, al n. 9 di Via Gioberti, in un deposito appartenente al fiorista Bottini). Non è chiaro se Italo agisse a titolo personale o facesse già parte di un’organizzazione clandestina, né se in Kahneman proteggesse l’ebreo, l’antifascista o il fratello del suo compagno di scuola Francesco. Me lo vidi davanti, improvvisamente, assieme ad altri partigiani che portavano il fazzoletto blu delle bande del Cap. Umberto, a me note perché ne faceva parte mia cugina Ada Galletti, la quale ogni tanto veniva a rifornirsi di viveri presso i parenti, accompagnata da un certo Ormea. Ero orgoglioso di lei non solo perché combatteva contro il nazifascismo, ma anche perché le donne armate scarseggiavano, anche fra i "garibaldini". Assieme ad Italo c’era qualcun altro che mi conosceva, forse Franco Giordano (ma non lo giurerei perché l’ho visto, a quei tempi, in tante circostanze), forse Ravotti (fratello di un croupier del Casino di Venezia che conoscevo sin da piccolo). Calvino sembrò riconoscermi e mi sorrise, ma disse solo: "Ah! Sei lí?" (scoprii poi che era un suo modo caratteristico e laconico di esprimersi che adoperava addirittura anche col fratello). Avevano premura di giungere verso Ceppo prima del tramonto (seppi solo piú tardi che venivano tutti da una battaglia, forse quella di Coldirodi, e temevano forse di essere inseguiti). Mio cugino Franco Moriano si incaricò di dar loro indicazioni precise sui sentieri da seguire. Non mi pare di aver piú rivisto Calvino (tranne forse accanto a Gino, nei pressi del cimitero di Bajardo la domenica che scappai dalla mamma per raggiungere i partigiani) [...]  Pietro Ferrua, Incontri e scontri con Italo Calvino, 25 aprile 2012 in Ra.forum

Nel Sentiero c’è un altro giovane eroe, un’altra figura positiva, che nasce dall’esperienza autobiografica dell’autore e di cui vorremmo parlare. Si tratta di Lupo Rosso. Nella realtà Lupo Rosso è Sergio Grignolio, nome di battaglia Ghepeú <1, che Calvino conosce durante i giorni di prigionia nella Villa Auberg, dopo che entrambi ed anche il padre di Calvino erano stati arrestati durante il rastrellamento avvenuto nella vallata di San Giovanni il 15 novembre 1944.
[...] Nel romanzo viene raccontata la fuga dal carcere di Grignolio esattamente come è avvenuta nella realtà, se si esclude l’intervento di Pin. Come già sappiamo, Calvino riuscirà ad evadere in un secondo momento, mentre il padre resterà in prigione.
Grignolio racconta a Ferrua: "Ero a Villa Auberg [...] Io sono riuscito a fuggire di lì, perché ho chiuso una sentinella in un cesto della spazzatura. Erano quei cesti alti che portavano i salumi e c’era stato il giorno prima un bombardamento navale, erano scese giù tutte le soffittature di cemento, di legno. Mentre io lo portavo fuori da un terrazzo al posto di buttarlo fuori io l’ho messo sulla testa della sentinella, mi son buttato giú e son riuscito a scappare. (FERRUA, cit.: 177)
Nel Sentiero Calvino introduce Pin come aiutante di Lupo Rosso nell’impresa della fuga: "Vieni, - dice Lupo Rosso, - Mi hai da dare una mano per portare giú il barile d’immondizie. [...] Lupo Rosso si avvicina a passi lunghi e silenziosi. Pin comincia a far scorrere una mano sull’altra, piano piano. Lupo Rosso è ormai alle spalle della sentinella [...] A un tratto una frana di spazzatura gli si abbatte sul capo; non è solo un frana, è un qualcosa che lo schiaccia sopra e tutto intorno [...] Intanto Lupo Rosso e Pin hanno già scavalcato la balaustra". (Ibid.: 42-45)
Lupo Rosso, dicevamo, è un personaggio positivo, anche se Grignolio <2 dichiara a Ferrua: «È una storia romanzata, molto romanzata» e Calvino nel romanzo, rovesciando le posizioni, lo rimprovera di spararle un po’ grosse:«Alle volte Lupo Rosso esagera un po’ le cose che racconta, ma racconta molto bene». (Ibid., 73)
Il fatto è che Sergio Grignolio è stato davvero un combattente audace; sua è un’altra fuga da Villa Giulia buttandosi a capofitto da un finestrella di cui era riuscito ad allargare le sbarre - a quanto racconta Ferrua - e sua è certa attività dinamitarda che fece saltare tre ponti per rallentare l’avanzata tedesca. Ferrua conclude: «Lo si voglia o no, il personaggio di Lupo Rosso è altrettanto «eccessivo» nel romanzo quanto il partigiano Ghepeú lo è stato nella storia». (FERRUA, cit.: 178)
[NOTE]
1 Ghepeú deriva dal nome che assume la polizia segreta russa dal 1922 al 1934: GPU.
2 Sergio Grignolio era nato nel 1926 a San Remo. «Era un uomo dai forti ideali - lo ricorda la presidente dell'Anpi di Imperia, Amelia Narciso - E' stato un partigiano dinamitardo, protagonista di alcune azioni importanti, di esplosioni, anche di ponti, per rallentare l'avanzata dei tedeschi». Quando scelse la via dei monti Sergio Grignolio aveva solamente sedici anni [...] Era l'ultimo componente del terzetto di eroi presenti nel romanzo di Italo Calvino, e anche se anziano e minato nel fisico, non aveva mai perso lo sguardo da combattente».(«La Repubblica», 11 settembre 2014)

Annalisa Piubello
, Calvino racconta Calvino: l'autobiografismo nella narrativa realistica del primo periodo, Tesi di dottorato, Universidad Complutense de Madrid, 2016


Numero del 1° Maggio 1945 del periodico sanremese "La voce della democrazia". I due articoli in prima pagina sono di Calvino - Fonte: Internet Culturale

E un bel giorno Italo posò la penna e prese il fucile. Per andare in montagna con i partigiani e fare la cosa che riteneva giusta.
Lui, Calvino, ha sempre parlato poco di questa durissima esperienza perché odiava la retorica e soprattutto la retorica della Resistenza, in un periodo in cui tutti raccontavano di averla fatta e spiegavano, centellinavano dettagli e storie, spesso messe insieme subito dopo la Liberazione.
Il grande scrittore era orgoglioso di quei giorni e dei suoi compagni di lotta. Con molti era rimasto in contatto fino alla fine della vita. Con uno in particolare: Giovanni Nicosia, "Sam" originario di Caltanissetta, un severo caposquadra sui monti, che diventerà poi correttore di bozze per la Einaudi e dunque vicinissimo ad Italo nel lavoro quotidiano. Sì, appunto, Italo Calvino in qualche articolo e in qualcuno dei suoi libri, farà affiorare il periodo resistenziale, ma senza dettagli e particolari, in modo schivo e quasi sottovoce e il perché lo abbiamo detto.
Ero all’ospedale della Scala, di Siena, il giorno della morte dello scrittore. Per il giornale, ovviamente. La bara era stata sistemata in uno stanzone enorme e non c’era nessuno. Era uno stanzone carico di affreschi, stemmi e orpelli quasi gioiosi, che rendevano ancora più desolata e solitaria quella bara e quella morte. Stavo ascoltando, in una stanzetta, alcuni colleghi che chiedevano notizie alla moglie di Calvino sul periodo della montagna, ma anche lei sapeva pochissimo. Qualche passo più in là, forse un avvocato o uno dei dirigenti della Einaudi, già parlava dei diritti d’autore per i tanti libri dello scrittore di fama mondiale, ma io sentivo quelle parole come una specie d’insulto a Calvino, abbandonato, solo, nello stanzone rinascimentale senza un fiore, una corona, una rosa. Ovviamente, sciocchi sentimentalismi i miei, in quel momento. Ma non riuscivo, comunque, a metter via i pensieri, angosciosi, che mi si affollavano in testa.
Del periodo della montagna e della Resistenza, invece, volli sapere tutto e non seppi niente. Ho dovuto aspettare qualche anno e leggere e rileggere i racconti di alcuni dei compagni di Calvino pubblicati da "Patria indipendente", la rivista dei partigiani, per sapere dettagli e particolari.
Italo Calvino era nato a Santiago de Las Vegas (Cuba) il 15 ottobre 1923 da Mario Calvino e da Eva Mameli. La famiglia, ad un certo momento, era tornata in Italia e si era stabilita a Sanremo. Con la guerra, la tragedia incombeva.
Ed eccola la storia di lui. Calvino è un giovane sveglio, già entrato in contatto con alcuni antifascisti.
[...] Nasce la repubblichina di Salò e subito vengono affissi i manifesti per il richiamo alle armi della classe 1923: proprio quella di Calvino. Per i disertori, come si sa, è prevista la fucilazione.
Il giovane, per non essere arrestato, prende la via delle colline e si rifugia in boschi e boschetti, nelle terre di proprietà del padre. Poi, con un gruppo di amici, Aldo Baggioli, Massimo Porre, Renzo Barbieri e altri, decide di salire in montagna. Viene accolto nella formazione partigiana «Brigata Alpina» presso Beulla. È una brigata, la sua, che si muove tra Baiardo e Ceriana ed è comandata da Candido Bertassi, conosciuto come Capitano Umberto. È una prima esperienza molto, molto difficile. Calvino è ormai conosciuto da tutti con il nome di battaglia di «Santiago». Il primo grande scontro con i nazisti avviene in località Carpenosa il 15 giugno 1944 ed è una vittoria. Poi la formazione si scioglie. Lo scrittore entra allora a far parte della «IX Brigata Garibaldi», comandata da Bruno Luppi, «Erven» e partecipa alla battaglia di Sella Carpe. «Erven» rimane ferito gravemente e molti partigiani ci lasciano la pelle. A luglio, i nazisti incendiano i paesi di Molini di Triora e Triora e lo scontro, in tutta la zona, si fa ancora più duro. Calvino, intanto, è passato alla Divisione d’assalto Garibaldi «Felice Cascione» e partecipa alla difesa di Baiardo. Durante un rastrellamento «Santiago» viene arrestato, ma si salva.
Deve però arruolarsi, per un breve periodo, tra i repubblichini come scritturale. Poco dopo riesce a fuggire e torna in montagna con tanto di armamento individuale. A lui si unisce il fratello Floriano che ha appena sedici anni. Ora, i fratelli, sono in una formazione diversa. L’inverno del 1944-’45 è terribile: freddo, gelo, fame, rastrellamenti, arresti e torture. Italo Calvino partecipa a tantissimi scontri: a Ciabaudo, a Gerbonte, a Bregalla e ancora a Baiardo e a Triora nella Valle Argentina. Il 25 aprile arriva la Liberazione e anche lui sfila per le strade di Sanremo con la sua formazione. Durante la lotta in montagna non ha mai smesso di scrivere per Il Garibaldino, La nostra lotta e l’Unità, stampata localmente. Il 25 maggio 1945 torna a casa e si laurea. 

Un comizio di Calvino a Sanremo - Fonte: Internet Culturale

Poi, si iscrive al Pci che rimarrà il suo partito per una decina di anni. Riceve anche il diploma Alexander numero 165545 ed è riconosciuto partigiano combattente. Poco dopo, dal Distretto militare di Savona, riceverà lire 6.687: è la paga da soldato per tutto il tempo della montagna.
Wladimiro Settimelli, Nome di battaglia «Santiago». Il giovane Calvino partigiano nei racconti di alcuni compagni. Dall’archivio dell’Anpi spuntano documenti che ricostruiscono il periodo della montagna e della Resistenza, l’Unità, 11 dicembre 2013, articolo riprodotto come Nome di battaglia "Santiago" in Nord Milano Notizie, 12 dicembre 2013
 

Fonte: Marco Bresciani, Op. cit. infra

1 Sanremo, settembre 1943 - giugno 1944. In casa dei genitori; in maggio-giugno 1944, scritturale per il tribunale militare di Sanremo; ai primi di giugno 1944 si arruola nel XVI distaccamento della IX brigata garibaldina Felice Cascione.
2 Valle Oxentina. Alla macchia, nella seconda metà di giugno 1944.
3 Sella Carpe, 27 giugno 1944. Sconfitta contro i nazifascisti e scioglimento del XVI distaccamento.
4 Sanremo, luglio - prima metà agosto 1944. Probabilmente nascosto nei poderi di famiglia a San Giovanni.
5 Valle Oxentina - Valle Armea, 15 agosto - 20 settembre 1944. Arruolamento, col fratello diciassettenne Floriano, nella banda del capitano Umberto (al secolo Candido Bertassi); è una banda «azzurra», cioè badogliana.
6 Coldirodi, 3 settembre. Battaglia contro i nazifascisti.
7 Baiardo, 5 settembre. Sconfitta contro i nazifascisti; la banda «azzurra» di Umberto si scioglie il 20 settembre.
8 San Romolo, 1º ottobre - 15 novembre 1944. Si arruola, di nuovo con Floriano, nel distaccamento di Leone (al secolo Jaurès Sughi) della brigata sanremese Giacomo Matteotti, garibaldina; in ottobre i loro genitori, Mario Calvino ed Eva Mameli, sono presi in ostaggio dai tedeschi, che simulano per tre volte la fucilazione di suo padre sotto gli occhi della moglie; Eva Mameli sarà prigioniera per un mese, Mario Calvino per due. Il 15 novembre, Italo è catturato in un rastrellamento: evita la fucilazione immediata perché, grazie a un foglio di licenza militare falsificato, non viene riconosciuto come partigiano.
9 Sanremo, 15-18 novembre 1944. Preso in un rastrellamento, è rinchiuso per un giorno nel carcere di Santa Tecla e per due a Villa Giulia.
10 Imperia, 19 novembre - primi di dicembre 1944. Considerato renitente alla leva, è arruolato d’ufficio nella Repubblica Sociale ma relegato nella caserma-deposito provinciale; riesce a fuggire dopo circa tre settimane.
11 Sanremo, circa 9 dicembre 1944 - 1º febbraio 1945. Nascosto nei poderi di famiglia a San Giovanni.
12 Sanremo, 1º febbraio - 25 aprile 1945. Si arruola con Floriano nella II divisione d’assalto garibaldina "Felice Cascione", comandata da Giuseppe Vittorio Guglielmo; «Vittò» sarà il comandante Ferriera ne Il sentiero dei nidi di ragno; il commissario politico è invece Ivar Oddone «Kimi», Kim nel Sentiero. Calvino fa parte della V brigata Luigi Nuvoloni, I battaglione, II distaccamento, III squadra.
13 Ciabaudo, valle Oxentina, febbraio-marzo 1945. Con la divisione garibaldina Felice Cascione.
14 Creppo e Gerbonte, febbraio-marzo 1945. Con la divisione garibaldina Felice Cascione.
15 Bregalla, 12-13 febbraio. Battaglia vittoriosa, con la divisione garibaldina Felice Cascione, contro una compagnia di Cacciatori degli Appennini.
16 Baiardo, 10 marzo 1945. Combattimento infruttuoso per liberare Baiardo dai bersaglieri della IX Compagnia della morte.
17 Ceriana, 5 aprile 1945. Circondato dai nemici dopo un combattimento, si salva grazie a una macchia di noccioli.
18 Viozene, aprile 1945. Con la divisione garibaldina Felice Cascione
Marco Bresciani (con Domenico Scarpa), Italo Calvino combattente partigiano da Gli intellettuali nella guerra civile (1943-1945), in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, vol. III. Dal romanticismo a oggi, Einaudi, 2012 

C'era stato un incendio in un bosco: ricordo la lunga fila dei partigiani che scende tra i pini bruciati, la cenere calda sotto la suola delle scarpe, i ceppi ancora incandescenti nella notte. Era una marcia diversa dalle altre nella nostra vita di continui spostamenti notturni in quei boschi. Avevamo finalmente avuto l'ordine di scendere sulla nostra città, Sanremo; sapevamo che i tedeschi stavano ritirandosi dalla riviera; ma non sapevamo quali caposaldi erano ancora in mano loro [...] Ancora negli ultimi giorni i tedeschi erano venuti di sorpresa e avevamo avuto dei morti. Proprio pochi giorni prima andando di pattuglia era mancato poco che cascassi nelle loro mani. L'ultimo accampamento del nostro reparto, se ricordo bene, era tra Montalto e Badalucco: già il fatto che fossimo scesi nella zona degli uliveti era il segnale di una nuova stagione, dopo l'inverno nella zona dei castagni che voleva dire la fame.
[...] Dalle parti di Poggio cominciammo a incontrare sul margine della strada la popolazione che veniva a vedere passare i partigiani e a farci festa. Ricordo che per primi vidi due uomini anziani col cappello in testa che venivano avanti chiacchierando di fatti loro come in un giorno di festa qualsiasi; ma c'era un particolare che fino al giorno prima sarebbe stato inconcepibile: avevano dei garofani rossi all'occhiello. Nei giorni seguenti dovevo vedere migliaia di persone col garofano rosso all'occhiello ma quelli erano i primi.
Italo Calvino, Il mio 25 aprile in Italo Calvino, Saggi, 2, Mondadori, Milano, 1995