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martedì 31 maggio 2022

Ventisei ore dopo, con una traversata tremenda, raggiungevamo il porto di Livorno


Sanremo (IM): il porto vecchio

Sanremo (IM): Capo Verde, il Porto Vecchio, uno scorcio del centro urbano

Nella notte tra il 27 ed il 28 agosto 1944, la motovela San Marco, adibita dai Tedeschi al trasporto di rifornimenti, lascia il porto di Sanremo e, dopo una fuga di ventisei ore in mare aperto, raggiunge il porto di Livorno portando in salvo tre garibaldini scesi dalla montagna. Il colpo è riuscito grazie alla perizia del capitano Stefano Zolezzi e del motorista Armando Odemondo (2).
(2) Cfr. M. Mascia, op. cit., pag. 59 e segg.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992
 

Nello Cella racconta
:
Dopo lo sbarco degli anglo-americani in Provenza e l'intensificarsi dei bombardamenti alleati sul nostro litorale, le comunicazioni ferroviarie nella Riviera vennero a cessare completamente e quelle stradali si fecero estremamente difficili. Il nemico aveva perciò organizzato un servizio notturno di piccoli convogli composti di chiatte, motobarche e motovele - alcune delle quali sequestrate alla mia ditta - che, scortate da una o due moto vedette, eseguivano i rifornimenti fra Genova e Savona e le linee del fronte.
Avevamo, in quell'epoca, installato sopra Capo Nero un posto di segnalazioni che era in collegamento coi centri della Riviera francese e più di una volta i galleggianti tedeschi dovettero incassare duri colpi da parte dell'azione dei caccia notturni alleati.
Ma noi avevamo progettato qualcosa di più grosso: addirittura la fuga d'una nave con tutto il suo carico. E ci ponemmo all'opera per attuarla.
Dopo aver passato in rivista le imbarcazioni adibite ai rifornimenti, decidemmo di tentare l'attuazione del progetto col San Marco, una mia piccola motovela, di cui conoscevo molto bene l'ottimo stato dei motori e le possibilità di  tenere a lungo il mare, qualità essenziali perché la fuga riuscisse. Inoltre, e quest'era senza dubbio il punto più importante, potevo contare ciecamente sull'equipaggio della nave, il capitano Zolezzi Stefano ed il motorista Odemondo Armando, ambedue antifasciti accaniti ed uomini di mare nel senso completo della parola.
Preparammo i piani accuratamente: negli ultimi giorni il SIM ci informò che tre patrioti, scesi dalla montagna, avrebbero tentato l'avventura col San Marco. Ci ponemmo in contatto con essi ed attendemmo.
Nel pomeriggio del giorno stabilito giunge al nostro ufficio il «Feldgendarme» ad avvertirci che per le 21 tutto l'equipaggio dev'essere a bordo.
Consumammo la cena discutendo ancora il nostro piano in attesa dei tre patrioti. Alle 20 essi giungono e tutti insieme, dopo aver definito gli ultimi dettagli ci avviammo al porto.
La notte era fredda e scura: piovigginava e un vento diaccio spazzava le strade e il molo. Contavamo appunto sull'oscurità e sull'inclemenza del tempo per far passare inosservati i tre fuggitivi. E vi riuscimmo. Pochi minuti prima delle nove eravamo all'entrata del porto; poi, di corsa, tutti noi provvisti del permesso di entrata, ci affolliamo innanzi alla garitta ove stava la guaordia per ripararsi dal vento, mentre i nostri patrioti, approfittando della confusione, scìvolavano attraverso il varco sperdendosi nell'oscurità. Li raggiungemmo qualche minuto più tardi e in breve fummo sul San Marco: essi s'arrampicano a bordo e spariscono nella stiva, attraverso il passaggio lasciato aperto fra il  materiale che ingombra il fondo. La prima parte dell'operazione era riuscita in pieno ed era per noi di buon augurio per il compimento del progetto. Attendemmo una mezz'ora: un sott'ufficiale della Kriegsmarine ci raggiunge con l'ordine «nessuno può più uscire. Preparatevi a partire. Seguite il capo convoglio che vi segnalerà le istruzioni».
Il momento è  giunto. Mi sento commosso: penso ai miei uomini che stanotte si giocheranno la vita, ma conosco a fondo il carattere e la volontà di Zolezzi ed Odemondo e son certo che se la caveranno. Faccio le ultime raccomandazioni e attendo: veggo i razzi segnalatori illuminare il cielo, il porto e le imbarcazioni; sento il rombo dei motori che si mettono in moto: discerno nettamente il caratteristico ritmo delle macchine del San Marco e  mi sforzo di isolarlo dagli altri per poterlo seguire.
Passano cinque, dieci minuti, un quarto d'ora: il convoglio si snoda lentissimo nel mare agitato. Poi non sento più il rombo del motore del San Marco: il piano funziona. Passano ancora dieci minuti; ed il ritmo inconfondibile delle  macchine della mia nave riprende. Vi è qualcosa di diverso, però, è più cupo e distante: capisco che il San Marco ha cambiato rotta e che si è messo controvento, come d'accordo. La fuga si è iniziata, ma potrà svolgersi indisturbata? Mi domando e, malgrado il freddo, sento che la fronte e il palmo delle mani si fanno umide di sudore. Scandisco i minuti. Poi veggo la luce dei riflettori sciabolare il mare: un razzo, due razzi accecanti si alzano verso il cielo: al largo si sgrana il crepitio di una mitragliatrice: poi ancora, uno, due, tre colpi di cannone partono dalla punta del molo.
E' tutto finito? Non so. Resto ancora a lungo e non odo che il brontolio dei motori che si fa sempre più indistinto; poi decido di lasciare il porto per non destar sospetti. Ritorno a casa, affranto, inzuppato e attendo che ritorni il  giorno.
La mattina dopo, in ufficio, un ufficiale della Kriegsmarine mi informò della fuga. Dovetti lottare con le unghie e coi denti per convincerlo della mia innocenza.
E fu solo a liberazione avvenuta che Zolezzi ed Odemondo mi fecero il racconto della loro avventura.
«Lasciammo il porto insieme alla moto-vela Leo - il cui equipaggio doveva assecondare la nostra fuga - e due o tre altri galleggianti. Fuori della diga cominciammo a ballare: il mare era agitato e grossi cavalloni, bianchi di spuma, ribollivano intorno a noi, rompendosi con rumore di tuono sui frangiflutti.
Demmo fondo ed attendemmo che tutto il convoglio fosse fuori: sentivamo, nel frastuono delle onde, il rumore delle motozattere che accostavano. Una rapida imbarcazione si avvicinò a noi, un riflettore, con una rapidissima sciabolata nel  buio, sembrò contarci, poi l'oscurità ricadde, fonda ed ostile.
Il capo convoglio urlò, attraverso il megafono, in cattivo italiano, l'ordine di accodarsi al convoglio. Poi ripartì immediatamente per portarsi in testa. Andammo avanti adagio perché il resto del convoglio potesse allontanarsi sempre più e per accertarci della entità della scorta di retroguardia.
Nel buio intravedevamo il Leo che navigava di conserva con noi e faticava enormemente sotto i colpi di mare.
Non appena fummo in rotta una moto-vedetta sbucò dal buio e impennandosi venne lungo il nostro bordo. Una voce rauca ci ingiunse di far presto poiché il convoglio era già lontano.
Rispondemmo che i motori ci davano delle noie, ma che saremmo presto stati in grado di aumentare la velocità. La moto-vedetta non accennava a lasciarci: pareva avesse intenzione di attenderci: se così fosse stato tutto il nostro progetto sarebbe andato in fumo.
Allora il Leo, per ingannare il nemico, si staccò da noi e riprese la rotta del convoglio.
Gridammo alla moto-vedetta che anche il San Marco era pronto e, con nostro sollievo, la vedemmo accostare sulla sua dritta e partire.
Immediatamente invertimmo la rotta puntando verso l'alto mare, verso la libertà!
Non appena accostammo il mare ci investì in pieno, di prua, con furia tremenda. Ondate dopo ondate si frangevano contro il tagliamare, rompendosi con violenza selvaggia spazzando il ponte. Eravamo nell'acqua, inzuppati sino all'osso, schiaffeggiati dal vento freddo su una nave che sembrava impazzita. Ma si andava! Il motore era in pieno: sembrava non avesse mai girato così vorticosamente come in quella notte. I minuti passavano e tutto proseguiva bene: sembrava che il convoglio non si fosse accorto di nulla. Poi, subitamente, alcuni razzi ruppero il buio e noi scorgemmo segnalazioni ottiche partire da terra. Dal convoglio si rispose: sentivamo che la nostra fuga era stata scoperta e ci attendevamo la reazione.
Infatti, subito dopo il fascio di luce di un riflettore ci inquadrò in pieno. Al di sopra del rumore del vento e del mare udimmo le scariche delle grosse mitragliere. Il cielo sembrava essere fantasticamente illuminato da una festa di fuochi artificiali: ma noi sapevamo di essere fuori tiro e si teneva la nave contro il vento diritti verso la meta. Sapevamo che le moto tedesche non avrebbero potuto, col mare grosso, mantenere la nostra velocità e sapevamo di aver ormai vinto la partita.
Stavamo accostando per rettificare la rotta, quando dal porto tuonò il cannone. I primi colpi passarono su di noi, fischiando; l'ultimo scoppiò al di sopra del ponte crivellandolo di scheggie. Poi la lotta ebbe termine.
Ventisei ore dopo, con una traversata tremenda, raggiungevamo il porto di Livorno: portavamo in salvo i tre patrioti e il nostro carico e ci ponevamo al servizio degli alleati».
Naturalmente i miei due valorosi collaboratori dimenticarono di aggiungere che entrambi furono feriti dallo scoppio dell'ultimo proiettile, e che, malgrado le sofferenze, essi restarono al loro posto ventisei terribili ore, finché la  nave non fu in acque amiche.
La loro impresa fu una delle più audaci di tutta la nostra guerra e merita di essere ricordata ad onorare gli uomini del mare d'Italia i quali non furono secondi ad alcuno nella lotta per il riscatto nazionale.
Mario Mascia, L'Epopea dell'Esercito Scalzo, Edizioni ALIS, Sanremo, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia 
 
Sanremo (IM): molo lungo del porto vecchio

Carlo Unger di Löwenberg, trentottenne lucchese di nascita a dispetto del patronimico tutto teutonico, e il suo vice Silvio Fellner, triestino cinquantatreenne, erano stati giustiziati alle una del mattino di sabato 19 agosto 1944 con una scarica di machinen pistole nel cortile della stamperia del forte San Giorgio, sede genovese del Comando germanico della Kriegsmarine. Quivi era stata allestita in tutta fretta una corte marziale presieduta dal comandante Berlinghaus e composta da soli ufficiali tedeschi compreso il difensore d’ufficio. Prima dell’esecuzione ai due condannati era stata negata l’assistenza religiosa e, a Löwenberg, un ultimo incontro con i familiari, col pretesto che “non c’era tempo”. La motivazione della sentenza giunta sino a noi recita testualmente: “per alto tradimento in tempo di guerra e di fronte al nemico”. Formalmente venne imputato ai due alti ufficiali di aver ordinato, senza averne facoltà, il ripiegamento delle forze di mare distaccate nella Liguria di ponente traducibile, in pratica, nell’imputazione appunto di “alto tradimento”. Ma la realtà consacrata da una documentazione inoppugnabile non sembra poter accreditare tale impostazione accusatoria né riconoscere alla sentenza una corretta e convincente proporzionalità tra l’esiguità della presunta colpa e l’abnormità della pena comminata e subito eseguita. Infatti la prima si fonda esclusivamente sui telegrammi inviati dal comandante Löwenberg il 14 agosto 1944 alla stazione segnali di Bordighera, al posto radio di Arma di Taggia e agli uffici di porto di Sanremo e Imperia per disporre il ripiegamento su Genova del personale (peraltro non necessario alla difesa in quanto prevalentemente civile e difatti ritirato più tardi dalle stesse autorità germaniche), mentre la seconda è in aperto evidente contrasto con quanto disposto dall’articolo 5 del regolamento, sulla posizione del personale della Marina italiana che collabora con la Marina germanica, che imponeva dover essere i due ufficiali eventualmente giudicati da un tribunale italiano.
Vittorio Civitella *, Zolesio e l’opera di intelligence di Fellner e Unger di Löwenberg in Storia e Memoria, Ilsrec, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, anno XXV, n. 2/2016 - * Testo dell'intervento tenuto al convegno "Momenti e figure della Resistenza nel Tigullio. Una storia che non può essere travisata", organizzato dall’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (Chiavari, Civico auditorium San Francesco, 23 aprile 2016)

sabato 2 gennaio 2021

Uccidetemi, i miei compagni mi vendicheranno

Trovasta - Fonte: Mariojk66/Wikiloc

Il 28 marzo del 1945 muore fucilato a Pieve di Teco (Imperia) dopo essere stato lungamente torturato dai tedeschi ROBERTO DI FERRO (15 anni, nome di battaglia Baletta) apprendista meccanico e Partigiano.
Di Ferro nacque a Malvicino ( Alessandria) ed aveva quattro fratelli. I genitori si trasferirono per lavoro ad Albenga (Savona) e Roberto cominciò giovanissimo a lavorare come apprendista meccanico per aiutare la famiglia. Già dall’8 settembre 1943 a soli 13 anni decise d’interessarsi della Resistenza insieme al fratello più grande Guido e fu tra i primi a darsi alla macchia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Anche se i genitori erano contrari vista la giovane età il 2 settembre 1944 Di Ferro inizia a collaborare fattivamente con i partigiani con il nome di battaglia Piccinen o Baletta che nel dialetto ligure è traducibile come pallina ed indica il comportamento tipico dell’età adolescenziale. Raggiunta una formazione partigiana sull’Appennino Ligure “Baletta” fu inizialmente impiegato come staffetta. Col passare dei mesi fu difficile impedirgli di partecipare anche alle più rischiose operazioni della sua formazione.
La Liberazione sembrava essere ormai imminente quando il 27 marzo 1945 una colonna motorizzata tedesca forte di duecento uomini irruppe nella zona di Tovrasta sopra Pieve di Teco (Imperia). Guidava gli uomini della Wermacht un delatore. Un gruppo di partigiani del distaccamento “Marco Agnese” appartenente alla Brigata “Silvano Belgrano” (VI Divisione Garibaldi d’assalto “Bonfante”) fu colto di sorpresa. Nell’impossibilità di rompere l’accerchiamento i partigiani si difesero sino all’ultimo. Il loro comandante GIOVANNI TRUCCO fu ucciso con altri suoi compagni nel conflitto. “Baletta“ con nove superstiti fu catturato dai tedeschi.
Gruppo Laico di Ricerca

Nelle prime ore del 27 marzo 1945, accompagnati dalla spia Angela Bertone di Pieve di Teco, già fidanzata con uno dei partigiani destinato a morire in seguito all'agguato qui descritto, una colonna tedesca di duecento uomini si inoltrava nella zona di Trovasta, Frazione di Pieve di Teco (IM), per catturare un piccolo presidio partigiano. Il casone era la sede provvisoria del Distaccamento “Marco Agnese” della VI° Divisione “Silvio Bonfante”. Pochi giorni prima una squadra del Distaccamento era stata inviata in missione, mentre dodici uomini rimasero nel casone. Mentre gli uomini in servizio di sentinella davano l'allarme ai compagni, la colonna nemica si era già divisa in tre gruppi per giungere al casone da diverse direzioni. Vista l’impossibilità di sganciarsi, il comandante Giovanni Trucco "Franco" [n.d.r.: vice commissario della II^ Brigata "Nino Berio"], ordinava di difendersi con ogni mezzo possibile, ma cadeva per primo, seguito dal garibaldino Angelo Volpari "Sceriffo" e da Antonio De Negri (un civile, padre di Nino e Lino: era salito nella notte per avvisare del pericolo incombente). Tutti gli altri nove, finivano presto le munizioni e si dovevano arrendere. Condotti a Pieve di Teco dove la mattina del 28, otto di loro, Lino De Negri Nino De Negri (Nino) fratelli Elio Galvani (Elio) Antonio Lancella (Caramba) Luciano Saldo (Bab) Giovanni Saldo (Naia) fratelli Giuseppe Moraca (Zai) Giovanni Saldo (Faen), vengono fucilati a Prato Sertorio e Prato San Giovanni sulla sponda destra del torrente Arroscia. Il giovane partigiano Roberto Di Ferro (Baletta) non fu subito fucilato con i suoi compagni, ma interrogato tutto il pomeriggio dal Maresciallo tedesco Kroth. In serata venne messo sopra un carretto, portato in Prato San Giovanni, e passato per le armi.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020  

[ n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016;  Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]


Il 26 marzo 1945 il Distaccamento "Marco Agnese" della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante", Distaccamento comandato da "Franco" [Giovanni Trucco], il quale era impossibilitato a muoversi a causa di una slogatura ad un piede, catturò 2 tedeschi. I tedeschi per rappresaglia catturarono 3 persone tra cui il fratello di "Franco".
Nelle prime ore del 27 marzo 1945, accompagnata da una spia, "una colonna tedesca di 200 uomini si inoltrava nella zona di Trovasta [Frazione di Pieve di Teco (IM)] per catturare il piccolo presidio (momentaneamente composto da 12 garibaldini, in quanto altri 10 erano in missione) partigiano. La pattuglia preposta per il servizio di vigilanza avvistava una colonna, in quanto il nemico qualche centinaio di metri prima del paese si era suddiviso in tre parti, per entrare da diverse direzioni. Il comandante Trucco Giovanni, vista l'impossibilità di sganciarsi, iniziò con tutte le armi un furioso combattimento... caddero sul campo dell'onore il comandante Trucco Giovanni ed il partigiano Volpari Angelo. Gli altri 10 partigiani, fra i quali il quattordicenne Di Ferro Roberto, esaurite le munizioni, vennero catturati dal nemico e condotti a Pieve di Teco" (da una relazione senza data del comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria). Il casone nel quale si erano asserragliati i 12 uomini del Distaccamento "Marco Agnese" era lo stesso nel quale tre mesi prima era stato arrestato il comandante "Menini": un rifugio inadatto ad accogliere i garibaldini perché visibile da tutte le parti. Secondo quanto sosteneva l'informatore dei partigiani "Giglio", Antonio e Lino De Negri (padre e figlio) avevano cercato di avvisare "Franco" dell'imminente attacco tedesco, ma era stati prima intercettati. E "Giglio" avanzò l'ipotesi che i tedeschi fossero stati indirizzati per vendetta dalla concubina di Lino De Negri. Il 28 aprile "Basco" ["Blasco", Giacomo Ardissone], "Ramon" e "Biscio" tentarono di intavolare una trattativa con i tedeschi cercando di scambiare i garibaldini prigionieri con due sergenti tedeschi trattenuti da "Basco". Tutti i tentativi si dimostrarono inutili ed i partigiani arrestati vennero fucilati il 28 aprile alle ore 20 a Pieve di Teco: De Negri Antonio, De Negri Lino, De Negri Nino, Trucco Giovanni, Saldo Giovanni, Saldo Luciano, Galvani Elio, Langella Antonio, Monaco Giuseppe, Volpari Angelo e Di Ferro Roberto (Baletta, medaglia d'oro alla memoria al valor militare).
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Roberto di Ferro, "Baletta"

[Roberto Di Ferro] nato a Malvicino (Alessandria) il 7 giugno 1930, trucidato a Pieve di Teco (Imperia) il 28 marzo 1945, operaio, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. È, con Filippo Illuminato, uno dei più giovani partigiani decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare. La motivazione della ricompensa alla memoria di “Baletta”, questo il nome di battaglia di Roberto Di Ferro, suona: “Primo fra i primi nelle più audaci e rischiose imprese, ardente di fede ed animato dal più puro entusiasmo, appena quattordicenne partecipava alla dura lotta partigiana, emergendo in numerosi fatti d’arme per slancio leonino e per supremo sprezzo del pericolo. Dopo strenuo combattimento contro preponderanti forze nazifasciste, in cui ancora una volta rifulse il suo indomito valore, esaurite le munizioni, veniva catturato e condotto dinanzi ad un giudice tedesco. Benché schiaffeggiato e minacciato di terribili torture, si manteneva fiero e sereno non paventando le barbare atrocità dell’oppressore. Le sue labbra serrate in un tenace e sprezzante silenzio, nulla rivelarono che potesse nuocere ai compagni di fede ed alla causa tanto amata. Condannato a morte rispondeva: «Uccidetemi, i miei compagni mi vendicheranno». La brutale rabbia nemica stroncava la sua giovane esistenza interamente dedicata alla liberazione della Patria. Magnifico esempio di valore e di giovanile virtù”. Il ragazzo lavorava già nonostante la giovanissima età, per aiutare la famiglia che si era trasferita dall’Alessandrino ad Albenga e fu tra i primi a darsi alla macchia dopo l’armistizio. Raggiunta una formazione partigiana sull’Appennino Ligure, “Baletta” fu, inizialmente impiegato come staffetta. Col passare dei mesi, fu difficile impedirgli di partecipare anche alle più rischiose operazioni della sua formazione. La Liberazione sembrava essere ormai imminente quando, il 27 marzo 1945, una colonna motorizzata tedesca, forte di duecento uomini, irruppe nella zona di Tovrasta, sopra Pieve di Teco. Guidava gli uomini della Wermacht un delatore. Un gruppo di partigiani del distaccamento “Marco Agnese”, appartenente alla Brigata “Silvano Belgrano” - VI^ Divisione d’Assalto Garibaldi “Silvio Bonfante“ - fu colto di sorpresa. Nell’impossibilità di rompere l’accerchiamento, i partigiani si difesero sino all’ultima cartuccia. Il loro comandante, Giovanni Trucco, fu ucciso nel conflitto, con altri suoi compagni. “Baletta”, con nove superstiti, fu catturato dai tedeschi. Inutile il tentativo del vicecomandante della VI^ Divisione Garibaldi, Luigi Massabò, di salvarli: la proposta di uno scambio con due ufficiali nazisti fu respinta dai tedeschi, che trucidarono i dieci prigionieri. La memoria della giovane Medaglia d’oro della Resistenza è ancora molto viva nell’Alessandrino, nell’Imperiese e nel Savonese. Un importante contributo a non dimenticare il ragazzo partigiano di Albenga è stato dato da Daniele La Corte col suo libro Diventare uomo - La Resistenza di Baletta (prefazione di Alessandro Natta), che nel 2006 è giunto, per i tipi della Totalprint di Genova, alla terza ristampa.
Redazione, Roberto di Ferro "Baletta", I RESISTENTI, Anno VIII, n° 1/2015, ANPI Savona
 
A Malvicino nacque Roberto Di Ferro “Baletta”, giovanissimo partigiano, crudelmente ucciso dai tedeschi, a soli 14 anni, il 28 marzo 1945, a Pieve di Teco, nell’Imperiese. Di Ferro, trasferitosi ad Albenga con la famiglia, dopo l’Armistizio aderì subito ai gruppi partigiani, dapprima come staffetta, per la sua giovane età. Col passare dei mesi, però fu difficile impedirgli di partecipare anche alle più rischiose operazioni della sua formazione, nel corso delle quali si distinse per entusiasmo, determinazione e coraggio.
Il 27 marzo 1945, una munita colonna nazifascista, irruppe nella zona Pieve di Teco e “Baletta”, in forza al Distaccamento “Agnese” della VI^ Divisione Garibaldi “Bonfante”, combattè sino all’esaurimento delle munizioni. Catturato, con altri 9 compagni, sebbene percosso e torturato, nulla rivelò al nemico. La proposta di uno scambio con due ufficiali nazisti, prigionieri dei ribelli, fu respinta dai tedeschi, che trucidarono tutti i partigiani, riservando al ragazzino acquese il supplizio della crocifissione sulla pubblica piazza. 


Roberto di Ferro è una delle più giovani Medaglie d’Oro al Valor Militare della lotta di Liberazione. Nato a Malvicino in Provincia di Alessandria il 7 giugno del 1930, è stato fucilato dai nazi-fascisti a Pieve di Teco (Imperia) il 28 marzo 1945: a Roberto mancavano tre mesi per compiere quindici anni.
Nel 1943 la famiglia si era trasferita ad Albenga dove Roberto aveva completato l’obbligo scolastico ed aveva iniziato a cercare lavoro. Ad Albenga, dopo l’8 settembre 1943, aveva conosciuto il movimento di resistenza e vi aveva aderito con l’incarico di staffetta. Poi, nell’estate del 1944, era entrato a far parte di una formazione partigiana dell’entroterra savonese, come combattente ed aveva assunto lo pseudonimo di “Balletta” che in dialetto locale vuoi dire “pallina”, in considerazione della sua giovane età e della vivacità atletica del suo comportamento.
Malgrado i ripetuti richiami dei genitori, che lo avrebbero voluto con loro e da loro protetto, restò con i suoi amici, manifestando la ferma volontà di opporsi all’invasore e la speranza di un avvenire di giustizia e libertà. Con questo animo partecipò a diversi scontri a fuoco.
Nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1945, Roberto e altri dieci partigiani vennero attaccati da preponderanti forze nazi-fasciste e, dopo forte resistenza, finite le munizioni, furono catturati.
Dieci di loro furono immediatamente trucidati. Roberto fu risparmiato nella speranza che rivelasse posizioni ed entità della sua formazione e condotto nel Municipio di Pieve di Teco. Qui, per tre giorni, fu sottoposto ad interrogatori e torture ma non parlò. Vista inutile ogni violenza, fu trascinato sulla riva di un torrente e nelle prime ore del 28 marzo 1945 (a meno di un mese dalla fine del secondo conflitto mondiale) fu fucilato.
IL NASTRO AZZURRO, n° 3-2007

Sul luogo del martirio di Baletta - Fonte: ANPI Milano

Mancava meno di un mese alla Liberazione, Roberto Di Ferro venne fucilato e poi crocefisso dai nazisti, non aveva ancora 15 anni. Nel numero di ANPI news 157 del 31 marzo-7 aprile è stata pubblicata la nota del Presidente Smuraglia, che qui sotto riportiamo e vogliamo tenere in evidenza, per tenere a mente il sacrificio suo e quello dei tanti partigiani che ci hanno donato Libertà. Repubblica e Costituzione, soprattutto ora che si avvicina il 70° della Liberazione.
Smuraglia già una volta concluse una commemorazione ufficiale a Pieve di Teco con queste parole “ Io a vent’anni ho dovuto compiere una scelta: o fare parte della repubblica di Salò o scegliere la via delle montagne. Ho fatto una scelta che non fu difficile e io spero che non sia mai difficile per un giovane una scelta del genere perché a mio parere un giovane a vent’anni dovrebbe essere istintivamente rivolto verso la libertà e non verso la dittatura e mi auguro che i nostri giovani, in futuro, se si troveranno a dovere fare scelte diverse, sappiano sempre scegliere la strada giusta, che è quella della libertà e quella della democrazia. Da ANPI news: 'Si trattava di un ragazzo che già era impegnato nel lavoro e che si unì subito ai partigiani, “pretendendo” fermamente di essere impiegato come combattente. E così avvenne: il ragazzo dimostrò coraggio e ardimento; quando fu sorpreso, a seguito di una delazione, con altri, e fu arrestato e sottoposto a violenze e torture perché, parlasse, sopportò tutto con la fermezza di un adulto, e fu barbaramente fucilato dai componenti di una colonna motorizzata di tedeschi. Il ricordo di “Baletta” è vivissimo ancora oggi, tant’è che gli sono stati dedicati libri, c’è un cippo che lo ricorda, assieme ad un monumento, che riguarda anche altre vittime della ferocia nazista. Ogni anno la memoria viene attivata con una serie di manifestazioni, che poi culminano in una pubblica celebrazione ed un corteo nelle vie di Pieve di Teco. Anche domenica scorsa, c’è stata la celebrazione, particolarmente partecipata da gente venuta anche dal savonese e dall’imperiese, ancora una volta commossa nel ricordo di quel ragazzo a cui fu attribuita una medaglia d’oro al valor militare, con una bellissima motivazione, che esalta il coraggio, l’ardimento e la fermezza di quel “magnifico esempio di valore e di giovanile virtù' [...] Roberto Di Ferro: il più giovane fucilato d’Italia è una delle più giovani Medaglie d’Oro al Valor Militare della lotta di Liberazione. Nato a Malvicino in Provincia di Alessandria il 7 giugno del 1930, è stato fucilato dai nazi-fascisti a Pieve di Teco (Imperia) il 28 marzo 1945: a Roberto mancavano tre mesi per compiere quindici anni. Nel 1943 la famiglia si era trasferita ad Albenga dove Roberto aveva completato l’obbligo scolastico ed aveva iniziato a cercare lavoro. Ad Albenga, dopo l’8 settembre 1943, aveva conosciuto il movimento di resistenza e vi aveva aderito con l’incarico di staffetta. Poi, nell’estate del 1944, era entrato a far parte di una formazione partigiana dell’entroterra savonese, come combattente ed aveva assunto lo pseudonimo di “Baletta” che in dialetto locale vuoi dire “pallina”, in considerazione della sua giovane età e della vivacità del suo comportamento. Nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1945, Roberto e altri dieci partigiani vennero attaccati da preponderanti forze nazi-fasciste e, dopo forte resistenza, finite le munizioni, furono catturati. Dieci di loro furono immediatamente trucidati. Roberto fu risparmiato nella speranza che rivelasse posizioni ed entità della sua formazione e condotto nel Municipio di Pieve di Teco. Qui, per tre giorni, fu sottoposto ad interrogatori e torture ma non parlò. Vista inutile ogni violenza, fu trascinato sulla riva di un torrente e nelle prime ore del 28 marzo 1945 (a meno di un mese dalla fine del secondo conflitto mondiale) fu fucilato e crocefisso.
ANPI Milano, 4 aprile 2015

Il suo soprannome era Baletta, pallina, perchè si muoveva velocemente. Ma il suo nome era Roberto di Ferro, che a soli 14 anni fu fucilato dai tedeschi a Pieve di Teco, il 28 marzo 1945, perchè partigiano.
Riviera Time ha incontrato sua sorella Wanda, che ci ha raccontato la storia di Roberto.
Nel 2016 è stato pubblicato un fumetto della storia di Baletta, il partigiano Di Ferro.
Daisy Parodi, Riviera Time, 30 Ottobre 2017

Fonte: Patria Indipendente art. cit. infra

La genesi della graphic novel dedicata alla breve vita e alla fulminea morte di Roberto Di Ferro, uno dei più giovani resistenti, decorato con Medaglia d’Oro al Valor Militare, è un esempio di collaborazione che ha coinvolto l’intera comunità di Albenga per non far cadere nell’oblio e relegare a un nome su una targa l’inaudita vicenda. Tutto nasce da un libro del giornalista e scrittore Daniele La Corte che nel 1999 la riporta alla luce indagando le fonti locali della Resistenza nel Ponente ligure.
[...] Invece la storia del partigiano “Baletta” (‘pallina’, come si chiamano i ragazzini da quelle parti) è presto detta, purtroppo. Nato nel 1930, Roberto termina la scuola dell’obbligo e inizia l’apprendistato da meccanico. Nel ’43, dopo l’8 settembre, il fratello maggiore Guido prende contatto con i resistenti e l’anno dopo, quattordicenne, malgrado la contrarietà dei genitori, lui stesso inizia ad operare come staffetta, partecipando poi anche alle azioni più rischiose di sabotaggio ai nazifascisti. Nella notte tra il 24 e il 25 marzo ’45, tre colonne motorizzate della Wermacht, guidate da una spia fascista, accerchiano un casolare sopra Pieve di Teco: dopo una strenua difesa, esaurite le munizioni, i partigiani sopravvissuti sono fatti prigionieri, alcuni fucilati sul posto, Roberto portato via, interrogato e torturato. Non parla e tre giorni dopo è condotto sul greto di un fiume e fucilato. Doveva ancora compiere i suoi primi 15 anni e mancava meno di un mese al 25 aprile.
[...] Settant’anni dopo, anniversario della Liberazione, il Presidente dell’ANPI Carlo Smuraglia ha ricordato la sua “scelta non isolata, che lo unisce, assieme a tanti altri che hanno partecipato alla Resistenza, benché giovanissimi, agli ‘scugnizzi’ delle Quattro Giornate di Napoli”.
 

Fonte: Patria Indipendente art. cit. infra

E guardando il visetto biondo e bellissimo di Roberto Di Ferro, come lo ha ricreato la matita di Frank Gallo, la mente va veloce a un altro volto angelico del neorealismo, quello del bambino di Germania anno zero che nella città distrutta decide di volar giù dal palazzo sventrato che è diventato la sua casa.
[...] Hanno scritto gli alunni di Albenga, pensando a Roberto: “Sì, io voglio fare del mio meglio per fare in modo che i diritti siano universali” (Marco, II C), “La Resistenza per me significa: aria pulita-libertà-fine dei soprusi e della corruzione” (Gaetano Calabrese, III B).
Daniele De Paolis, 15 anni, fucilato: il resistente di Albenga, Patria Indipendente, 31 ottobre 2016

25 aprile, la storia del partigiano Baletta: torturato a 14 anni, morì per i suoi compagni a un mese dalla Liberazione.
Alberto Marzocchi, Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2018

Caduti in seguito ai fatti di Trovasta
TRUCCO GIOVANNI Franco Acquetico 3/12/22 + Pieve di T./Trovasta combattimento 27/3/45
VOLPARI ANGELO Sceriffo Ticengo CR 17/12/24 + Pieve di T./Trovasta combattimento 27/3/45
DE NEGRI LINO Pieve di Teco 24/3/28 + Pieve di Teco fucilato 28/3/45
DE NEGRI NINO Acquetico 23/7/24 + Pieve di Teco fucilato 28/3/45
DI FERRO ROBERTO Baletta Malvicino AL 7/6/30 + Pieve di Teco fucilato 28/3/45
GALVANI ELIO Bondeno FE 18/2/06 + Pieve di Teco fucilato 28/3/45
LANGELLA ANTONIO Caramba Torre del Graco NA 8/11/19 + Pieve di Teco fucilato 28/3/45
MORACA GIUSEPPE Zaj S.Mango d’Aquino CZ 10/1/06 + Pieve di Teco fucilato 28/3/45
SALDO GIOVANNI Faen Pieve di Teco 26/9/18 + Pieve di Teco fucilato 28/3/45
SALDO GIOVANNI Naia Pieve di Teco 2/9/19 + Pieve di Teco fucilato 28/3/45
SALDO LUCIANO Bab Pieve di Teco 15/9/20 + Pieve di Teco fucilato 28/3/45
DE NEGRI ANTONIO (Civile) + Pieve di T./Trovasta combattimento 27/3/45
Giorgio Caudano, Op. cit.

27 marzo 1945 - Da "Pantera" [Luigi Massabò, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava ... che in Val Tanaro era forte la presenza garibaldina; che proponeva di sciogliere il Distaccamento "Giuseppe Maccanò" "facendo defluire gli uomini parte a 'Fra Diavolo' [Giuseppe Garibaldi] parte a 'Franco' [Giovanni Trucco]"...

27 marzo 1945 - Dal comando [comandante "Giorgio" Giorgio Olivero] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 252, al comando della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" - Ordinava di rintracciare e fare rientrare il Distaccamento di "Franco" [Giovanni Trucco], che si trovava nella zona di Moano. Stabiliva di fare aggregare quel Distaccamento al Distaccamento di "Libero"...

27 marzo 1945 - Da "Violetta" alla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava le sue scuse per la precedente sospensione del servizio informativo, dovuta alla delazione della spia "Boll"; che il giorno prima a Trovasta era stata catturata da tedeschi provenienti da Acquetico, Pieve di Teco e Nava l'intera banda di "Franco" [Giovanni Trucco], in un agguato che aveva visto cadere sul campo due garibaldini; che si poteva tentare di salvare i 10 prigionieri minacciando rappresaglie contro il presidio di Pieve di Teco; che ad Acquetico il nemico aveva prelevato 3 ostaggi tra i quali il fratello di "Franco"; che quell'azione nemica forse era stata condotta in conseguenza della "sparizione di 2 tedeschi" per opera della banda di "Franco".
               
senza data - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione sul combattimento di Trovasta del 27 marzo 1945

senza data - Testimonianza di "Blasco" [anche Basco, Giacomo Ardissone, vice comandante della II^ Brigata "Nino Berio"] sui fatti di Trovasta - Relazionava di avere catturato il 26 marzo 1945 due tedeschi che aveva poi tentato di scambiare con i 13 prigionieri partigiani in mano al nemico; che al diniego ricevuto aveva tentato uno scambio di 1 a 1; che gli venne rifiutata anche questa proposta; che venne fucilato uno dei due tedeschi fatti prigionieri, perché si era annotato di nascosto tutti i nomi dei garibaldini incontrati; che l'altro tedesco venne giustiziato dopo i fatti di Ginestro del 15 aprile 1945 quando il comando della VI^ Divisione diede l'ordine di liberarsi dei prigionieri tedeschi.

28 marzo 1945 - Da "Pantera" [Luigi Massabò, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che forse la spia "Carletto" era stata misteriosamente uccisa ad Albenga; che i tedeschi con un attacco [nella zona di Trovasta, Frazione di Pieve di Teco (IM)] al Distaccamento "Marco Agnese" avevano ucciso dei garibaldini, forse 3, e ne avevano catturati 10; che, dato che il comandante "Basco" [Giacomo Ardissone, vice comandante della II^ Brigata "Nino Berio"] teneva prigionieri 2 sergenti tedeschi, aveva chiesto a "Ramon" [Raymond Rosso, capo di Stato Maggiore della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] di tentare uno scambio di questi prigionieri con quelli in mano ai nazisti.

28 marzo 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione relativa alla proposta di assegnazione della medaglia d'oro al valor militare al caduto Roberto di Ferro, nato a Malvicino (AL) il 7 giugno 1930. Motivazione: "la sera del 26 u.s. il Dst. "M. Agnese" partiva in missione per minare un tratto della strada n° 28 compresa tra Pieve di Teco e Ponti di Nava. Un piccolo gruppo di 12 uomini rimaneva nel casone di Trovasta [Frazione di Pieve di Teco (IM)]. All'alba del giorno successivo, accompagnata da una spia, una colonna tedesca si dirigeva verso il casone. Avvistati i nemici che provenivano da tre direzioni diverse, scattava l'allarme, ma, impossibilitati a sganciarsi, il comandante "Trucco" ordinava di resistere. Caddero sul campo il comandante "Trucco" ed il partigiano "Sicilia". Gli altri 10 uomini venivano portati, esaurite le munizioni, a Pieve di Teco. Tra questi si trovava Roberto di Ferro che, interrogato senza rispondere nulla, alla notizia della propria condanna a morte rispondeva 'uccidetemi, i miei compagni mi vendicheranno'. Il giorno 28 a Pieve di Teco venivano fucilati i 10 partigiani".

29 marzo 1945 - Da "Biscio" alla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che dopo la cattura degli uomini di "Franco" aveva chiamato un interprete "cercando di intercedere presso i tedeschi, ma non c'è stato nulla da fare: il 28 u.s. ne furono fucilati 9 alle ore 20"...

30 marzo 1945 - Da "G. 20" al SIM della VI^ Divisione - Informativa sull'arresto della banda di "Franco" [Giovanni Trucco], avvenuto il 27 marzo: "il casone nel quale sono stati sorpresi i garibaldini [della costituenda IV^ Brigata "Domenico Arnera" della VI^ Divisione] è lo stesso in cui fu arrestato 'Menini'. Il casone è da tutti i punti di vista inadatto per il soggiorno delle bande perché visibile da tutti e quattro i punti cardinali. Lino De Negri ed il padre Antonio, avendo saputo da un tedesco dell'imminente rastrellamento, partirono per avvertire i compagni, ma furono anche loro sorpresi. 'Franco' e Antonio De Negri furono uccisi sul posto, mentre gli altri furono fucilati a Pieve di Teco. Pare che i tedeschi siano stati indirizzati dalla concubina di Lino De Negri, che voleva vendicarsi di quest'ultimo".

30 marzo 1945 - Da "G. 20" al SIM della VI^ Divisione - Riferiva ancora sugli avvenimenti del 27 marzo: "la famiglia De Negri ha subito la perdita del padre e di due figli; la consorte di 'Elio' [Elio Galvani] e la famiglia di Trucco versano in condizioni economiche disastrose. Si prega il comando divisionale di elargire almeno 10.000 lire per ogni famiglia".

30 marzo 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 259, al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Segnalava che "il Distaccamento 'M. Agnese' è stato travolto a Trovasta. Esiste la possibilità che sotto tortura qualche garibaldino possa far trapelare notizie relative al lancio" e con questa motivazione e con quella del maltempo chiedeva di far fare nella sua zona un unico lancio, seguito da eventuali lanci più piccoli.

2 aprile 1945 - Da "Violetta" alla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Chiedeva di provvedere finanziariamente alle tre famiglie dei partigiani [catturati a Trovasta ed uccisi a Pieve di Teco] già segnalate da "Giglio" ["G. 20"] perché versavano in condizioni economiche disastrose.

2 aprile 1945 - Da "Violetta" alla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava... che sussistevano gravi indizi a carico della concubina del commissario "Franco" [Giovanni Trucco], signora Angiolina, che era con i tedeschi a San Luigi.

6 aprile 1945 - Da "Giglio" [G.B. Vento] alla Sezione S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava... che la squadra di "Franco" [Giovanni Trucco] era stata avvisata del pericolo incombente [riferimento all'eccidio di Trovasta del 28 marzo]; che la sottovalutazione del monito ricevuto era costata la vita a quei partigiani; che la signorina Angiolina [Angela Bertone, ex fidanzata di "Franco", Giovanni Trucco] si trovava a Pornassio, trattata bene dai tedeschi.

7 aprile 1945 - Da "Biscio" alla sezione S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che dopo la cattura degli uomini del Distaccamento di "Franco", Angiolina [Angela Bertone], ex fidanzata di "Franco", aveva accompagnato i tedeschi in una puntata su Vergana con la quale i nemici avevano bruciato 25 case, tra cui quella di "Ilda" [Gilda Piana], la quale aveva già subito un arresto sempre per opera della ricordata Angiolina...

8 aprile 1945 - Da "Dario" [Ottavio Cepollini] alla sezione S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che ... era stato realizzato il soccorso alle famiglie dei patrioti caduti a Trovasta.

da documenti IsrecIm  in Rocco Fava, Op. cit. - Tomo II

domenica 24 maggio 2020

La morte di Felice Cascione


Alto (CN) - Fonte: Wikipedia
 
Il 30 dicembre 1943 Felice Cascione, insieme a due compagni, Giacomo Ivan Sibilla e Emiliano Taganò Mercati, si recava ad Alto (CN) per incontrare i rappresentanti della resistenza albenganese, Libero Emidio Viveri e Franco Salimbeni: venne deciso che le due bande dovevano riunirsi ad Alto (CN) per dare vita ad una manifestazione al fine di sensibilizzare la popolazione locale alla causa della Resistenza.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998 - 1999

Il ruscello Pennavaira nasce poco lontano da Caprauna (CN), confluendo nel Centa il quale sfocia  nei pressi di Albenga (SV). 
A Nord-Ovest di Alto CN), sul pendio che da Nord scende verso il rio Pennavaira, vi è la località  denominata Madonna del Lago, distante da Alto un chilometro e  mezzo.
Nella zona si trova una cappella nei cui pressi transita una strada mulattiera in cui sorgono i due  casoni in cui erano accantonati i componenti della banda Cascione: "nella baita più grande erano  alloggiate tre squadre, più la squadra del Comando; nella baita più in alto era alloggiata una squadra  quasi  interamente  formata  con partigiani di Albenga" così ha scritto Giovanni Strato, Storia della Resistenza Imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Sabatelli Editore, Savona, 1976.
Il 26 gennaio 1944 alla banda Cascione giunse la notizia di un imminente rastrellamento nella zona di Alto da parte dei fascisti; "un gruppo si sposta e va in cresta al passo di Ormea, mentre ad un secondo gruppo di uomini si da carico di restare in prossimità della strada che viene da Case di Nava" (Strato, Op. cit.).
Il rastrellamento venne organizzato sulla base della delazione del fascista Michele Dogliotti, che, come già accennato  nel capitolo  precedente, era stato catturato e curato dal medico partigiano Felice Cascione, riuscendo poi a  fuggire.
I tedeschi giunsero nella zona di Alto il 27 gennaio 1944 intorno alle 7 del  mattino ed occuparono  uno dei casoni.
Rocco Fava, Op. cit.

Antonio Fedor Simonti, Tonino, come lo conoscevano tutti, fu il primo ad avvistare le truppe nazifasciste mentre cercavano di attaccare la Banda di Cascione nei pressi di Alto (CN) e a dare l’allarme ai propri compagni. Molti di essi si salvarono dall’agguato proprio grazie alla sua prontezza e al suo coraggio.
ANPI Imperia

Le bande, malgrado le defezioni, si erano andate rafforzando: dalla città e dai paesi vicini, la reazione nemica costringeva i giovani a fuggire e molti di essi si univano ai nostri.
Il tedesco tentò allora un colpo grosso: il  27 gennaio  500 o  600  uomini salgono parte dalla costa e parte scendono dal Piemonte per circondare e  schiacciare  i  nostri gruppi.
I garibaldini si apprestano alla difesa: pattuglie rinforzate vengono scaglionate intorno ad Ormea; si occupano e si presidiano le creste principali e gli incroci stradali con le scarse armi automatiche disponibili. Il nemico attaccò frontalmente le nostre formazioni a difesa della zona e il combattimento infuriò dalle 8 del mattino alle 2 del pomeriggio. Il numero e l'armamento dei nazi-fascisti era enormemente superiore a quello delle bande e la lotta impari fu ostinatamente condotta per oltre sei ore dai nostri, sorretti soltanto dalla volontà di resistere ad ogni costo.
Alle 8,30 Felice Cascione cade ferito mentre attacca furiosamente insieme a Tito e Gianni di Bestagno. Il suo stato è gravissimo ed occorre portarlo fuori della mischia e curarlo senza indugio. Si tenta di trasportarlo, ma il fuoco nemico batte da tutte le parti e le condizioni del ferito non consentono un'azione disperata. I nostri si lanciano in tutte le  direzioni cercando di aggirare il nemico e respingerlo: ma la massa di fuoco che li investe è impossibile a  sostenere.
Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia
 
Cascione, insieme a Rinaldo Risso e Gianni Mamberti, tentò di riappropriarsi della baita. Aprirono il fuoco al quale immediatamente risposero i tedeschi. I tre partigiani, dislocati nel prato attiguo al casone, "cercano di saltare al di là del muro che divide lo stesso prato, ma Felice Cascione rimane ferito ad una gamba" (Strato, Op. cit.).
Nel frattempo, i tedeschi catturarono l'ex carabiniere Giuseppe Cortellucci e "afferrarono Cascione,  lo trascinarono  al  margine del  prato e qui con una raffica di fucile mitragliatore lo uccisero".
Lo scontro del 27 gennaio 1944 rappresenta, per la lotta di resistenza nell'imperiese, una data   importante "poichè dal sangue di Cascione sembrò germogliare, come una pianta meravigliosa,   l'esercito garibaldino che, nel suo nome, corse le nostre montagne" (Mario Mascia, Op. cit.).
Rocco Fava, Op. cit.
 
Il 15 settembre arriva a Imperia Gian Carlo Pajetta ‘Nullo’, per organizzare in zona le future brigate garibaldine, insieme alla moglie Letizia. Anni dopo ricorderà quell’incontro: "Anch’io e Letizia salimmo a trovare i partigiani. Era una formazione tipo quella di Barge. La comandava il dottore Cascione, un giovane intelligente che parlava in maniera pacata, aveva una faccia chiara con la barba un po’ risorgimentale e ispirava subito fiducia a chi lo conosceva, come la ispirava ai suoi uomini".
Oltre a guidare i suoi partigiani, a far loro leggere il Manifesto del partito comunista, ad addestrarli alle armi e a tenere puliti i mitra, Felice cura chiunque in zona abbia bisogno di un medico, e tiene gli uomini pronti a intervenire appena si presenti l’occasione. A metà dicembre avviene il battesimo del fuoco della banda. La legione fascista di Oneglia decide di punire il paese di Montegrazie perché un milite sorpreso a rubare è stato picchiato. All’arrivo delle cinque corriere che costituiscono la spedizione punitiva, parte una raffica di fucilate: un fascista viene ucciso, gli altri rientrano in caserma in cerca di aiuto. Il giorno dopo inizia un rastrellamento, e i partigiani accettano la battaglia; sebbene assai più numerosi, i miliziani sono disorganizzati e vengono colpiti a ripetizione da un mitragliatore ben piazzato in cima a una collina. Una ventina di fascisti rimangono sul terreno, gli altri vanno a chiedere aiuto al comando tedesco. Due di loro sono presi prigionieri e Cascione si ripromette di educarli e conquistarli alla causa della libertà, non a processarli e giustiziarli come capita di frequente in occasioni simili.
Nelle settimane di preparazione alla lotta la banda, riunita di sera attorno al fuoco attendendo che giunga l’ora dell’azione nel casone della Valle di Andora dove è rifugiata, canta e cerca sulle note e arie più celebri di trovare le parole per una ‘sua’ canzone. La scelta cade sulla musica di Katjuša, una melodia russa diventata famosa proprio durante la guerra, che Felice Cascione adatta con parole italiane aiutato dallo studente Silvano Alterisio, nome di battaglia ‘Vassili’. Il brano - che inizia con il verso ‘Soffia il vento, urla la bufera’ - viene cantato la prima volta la vigilia di Natale, nella chiesa di Curenna. C’è ancora tempo per qualche aggiustamento, e infine per accogliere le piccole correzioni fatte dalla maestra Maria, la madre di Felice che cambia la prima parola “soffia” con “fischia”. Il giorno dell’Epifania, sulla piazza della chiesa di Alto, la ballata viene cantata solennemente da tutta la banda. Il testo finale suona così:
Fischia il vento, urla la bufera
Scarpe rotte eppur bisogna ardir
A conquistar la rossa primavera
In cui sorge il sol dell’avvenir
Ogni contrada è patria dei ribelli
Ogni donna a noi dona un sospir
Nella notte ci guidano le stelle
Forte il cuore e il braccio nel colpir
Se ci coglie la crudele morte
Dura vendetta sarà del partigian
Ormai sicura è la bella sorte
Contro il vile che ognun cerchiam
Cessa il vento calma la bufera
Torna a casa il fiero partigian
Sventolando la rossa sua bandiera
Vittoriosi alfin liberi siam

I tedeschi sono da settimane alla ricerca della banda, ma non riescono a districarsi tra i viottoli, le stradine, i villaggi che si succedono e si intersecano in un paesaggio a loro sconosciuto. Intanto i partigiani, a piccoli gruppi, compiono sortite e azioni veloci che raggiungono le caserme dove sono acquartierati i tedeschi e i fascisti, ferendone e uccidendone diversi. Verso la fine di gennaio alla caserma di Albenga capita un evento carico di conseguenze: uno dei due prigionieri dei partigiani fugge e raggiunge i suoi ex commilitoni, descrivendo luoghi, armi, uomini che compongono la banda. Viene subito allestito un rastrellamento e il 27 circa 200 tedeschi accompagnati da fascisti individuano i partigiani. Inizia la battaglia e ‘u Megu’ vuole raggiungere il comando dove ha lo zaino con le attrezzature mediche ma una pallottola lo colpisce alla tibia, spezzandola. I suoi compagni corrono per aiutarlo sotto il fuoco, ma Felice li invita a spostarsi più in alto per combattere meglio e a fuggire.
I partigiani sono tutti oltre le rocce, dove c’è più neve ma si può scappare, i tedeschi non sparano più: hanno preso Cascione, la preda che volevano. E che è solo. È mezzogiorno. I tedeschi hanno iniziato a scendere di nuovo lungo il sentiero. Un gruppetto di camicie nere si avvicina a Felice. Lo trascinano a bordo del prato, sempre lungo il muretto. Uno lo schernisce, gli toglie l’orologio. E un altro gli punta la pistola alla fronte. Un solo colpo. Addio.
Marcello Flores - Mimmo Franzinelli, Storia della Resistenza, Editori Laterza, 2020
 
Fonte: Partigiani d'Italia

Leo ha serbato per oltre settant’anni la borsa medica in cuoio di Felice Cascione (U Megu), dove il comandante partigiano conservava i ferri per la sua professione e che aveva portato con sé anche ad Alto (CN), durante la precoce organizzazione e il comando delle prime bande resistenziali nell’Imperiese e nell’Albenganese.
Dopo la morte dell’eroe Felice Cascione il 27 gennaio 1944 a Case Fontane, la borsa veniva recapitata alla madre Maria Baiardo, che la conservava anche durante il suo segreto occultamento a Villa Faraldi, ospitata, in quanto ricercata dal regime fascista, sotto falso nome in casa della famiglia antifascista Elena. Quando il rifugio, per ovvii motivi era diventato pericoloso, la mamma di Felice aveva traslocato in luoghi più sicuri; la borsa era stata consegnata a Leo che la nascondeva presso uno zio, Pietro Fassio.
Ora la preziosa borsa sarà messa in mostra nel prossimo Museo, dove cercheremo di recuperare per esporla anche una giacca del valoroso comandante, medaglia d’oro della Resistenza.
Ferruccio Iebole, Leopoldo Fassio “Leo” un partigiano, I resistenti, anno XII n° 1 - aprile 2019, ANPI Savona, 31 ottobre 2017
 
[...] il giovane Felice Cascione, uno studente di medicina nato a Imperia nel 1918 e venuto a Bologna per coltivare la sua passione per l’arte medica, per lo sport e per quella politica che poi l’assorbì fino alla morte.
Attivo antifascista sin dal 1940, Cascione, l’anno dopo la laurea conseguita nel 1943, si affianca alla madre nella guida delle manifestazioni popolari a Imperia per la caduta del fascismo. Una marcia per le strade che presto diventa lotta armata: dopo l’8 settembre, Cascione raccoglie infatti un piccolo numero di giovani e nella località di Magaietto Diano Castello anima la prima banda partigiana dell’Imperiese. Guida i suoi ad azioni vittoriose, ma lui, definito da Alessandro Natta "bello e vigoroso come un greco antico", non tralascia mai di prestare soccorso ai montanari delle valli da Albenga ad Ormea.
Una fedeltà alla professione così assoluta da condurlo all’errore. Durante la battaglia di Monterenzio i partigiani catturano un tenente e un milite della Brigate nere (M. Dogliotti). Un impaccio di cui la squadra si vorrebbe eliminare, ma che "U megu" - il dottore - vuole salvare, vedendo l’uomo sotto la divisa: "Ho studiato venti anni per salvare la vita di un uomo - dice Cascione - e ora voi volete che io permetta di uccidere? Teniamoli con noi e cerchiamo di fargli capire". Così i due fascisti seguono la banda in tutti i suoi spostamenti e Cascione divide con Dogliotti, il più malandato, le coperte, il rancio, le sigarette. C’è chi diffida, ma il medico replica a tutti che "non è colpa di Dogliotti, se non ha avuto una madre che l’abbia saputo educare alla libertà".
Passa circa un mese e il brigatista nero fugge. Pochi giorni dopo, Dogliotti guida alcune centinaia di nazifascisti verso le alture intorno ad Ormea, che sa occupate da unità garibaldine. All’alba la battaglia divampa dal versante di Nasino di Albenga. "U megu", con i suoi, tenta un colpo di mano per rifornirsi di munizioni. Il tentativo fallisce. Cascione, gravemente ferito, rifiuta ogni soccorso e tenta di coprire il ripiegamento dei suoi uomini. Ma due di loro non se la sentono di abbandonarlo e tornano indietro: Emiliano Mercati e Giuseppe Castellucci incappano nei fascisti. Mercati sfugge alla cattura, ma Castellucci, ferito, è selvaggiamente torturato perché dica dov’è il comandante. Cascione, quasi agonizzante, sente i lamenti del suo uomo seviziato, si solleva da terra e urla: "Il capo sono io!". Viene crivellato di colpi.
Per il coraggio dimostrato, a Felice Cascione fu conferita la medaglia d’oro alla memoria.
Redazione, Cascione, il partigiano che fece fischiare il vento, UniBo Magazine, 21 aprile 2005
 

martedì 5 maggio 2020

I partigiani alla battaglia di Sella Carpe ed il ferimento del comandante Erven

Sella Carpe
Sul finire del giugno 1944, protagonista il 16° distaccamento della neo costituita IX^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Felice Cascione", ebbe luogo una battaglia combattuta all'altezza del bivio di Sella Carpe, da cui partono le ramificazioni che conducono l'una a Monte Ceppo, l'altra a Vignai e Badalucco.
I garibaldini che si accingevano ad attaccare alcuni camion tedeschi diretti a Carmo Langan [località di Castelvittorio (IM)], erano divisi in due squadre nascoste nel fitto bosco a pochi metri dal bivio.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

La battaglia di Sella Carpe segna l'inizio d'una serie di dieci giorni tempestosi per tutta la Resistenza della nostra provincia.
In modo particolare, l'uragano di ferro e di fuoco nazifascista s'abbatte sulle formazioni partigiane della IX Brigata e sugli abitanti del territorio occidentale della provincia, dalla valle dell'Impero fino al confine francese. 
 
Ventisette giugno [1944]: nella zona i Tedeschi si trovano in difficoltà. La loro sola guarnigione stabile è localizzata sul monte Ceppo, che domina Carmo Langan; ma ogni via d'accesso è chiusa o minacciata dalle forze garibaldine, ed i nazisti non intendono rimanere in quella precaria situazione.
Il 16° distaccamento, costituito fresco fresco, si trova a Pian Colombo, vicino a Vignai [Frazione di Baiardo (IM)]; ma, in quel mattino, è ridotto rispetto al numero dei suoi effettivi perché, sul far dell'alba, un gruppo, composto dal capo squadra tenente Giulio Ferrari (Burdelusu) e dai garibaldini «Milano» e «Lingera», aveva accompagnato Candido Bertassi (Capitano Umberto) [di una formazione autonoma] dal comandante «Vittò» [Ivano/Vitò, Giuseppe Vittorio Guglielmo]. 
Un'altra squadra è in missione, alla volta della Maddalena. 
Una terza, infine, è partita il giorno precedente per far saltare il ponte di Isolabona. 

Il lavoro non manca, dunque, per questa nuova formazione tanto che nell'accampamento sono presenti in tutto circa venti­cinque uomini.

Ore undici: una staffetta giunge da Baiardo ed annuncia l'arrivo di quattro camion tedeschi. 
Gli uomini rimasti a Pian Colombo vengono divisi in due squadre dal comandante Bruno Luppi (Erven), che considera quell'arrivo come dei rinforzi nazisti destinati probabilmente alla guarnigione di monte Ceppo.
La prima squadra è agli ordini di Aldorino Iazzone (Argo) e la seconda sotto la guida di Carlo Peverello (Assalto).
Gli uomini partono dall'accampamento, a circa un quarto d'ora di cammino dal luogo stabilito, per attaccare gli automezzi tedeschi.
Il Comandante dispone gli uomini in luogo immediatamente soprastante il bivio della strada proveniente da Baiardo, da cui partono due ramificazioni che conducono l'una al monte Ceppo, l'altra a Vignai e Badalucco.

Il bivio è quello di Sella Carpe.

I partigiani fanno la strada in salita per raggiungere il punto stabilito prima dell'arrivo dei Tedeschi, i cui camion, ormai, sono vicini.
«Erven» ordina ad una squadra di appostarsi sopra la strada, a circa 150 metri dal bivio, sulla diramazione che porta al monte Ceppo. 
La squadra di «Argo» è allineata prima del bivio per proteggere quella appostata per l'agguato. In mezzo allo schieramento è piazzato il mitragliatore. Sono circa le dodici; spuntano i primi due camion, pieni zeppi di Tede­
schi, con le mitragliatrici pesanti sulla torretta.
Segnale d'attacco nel campo garibaldino. Una pioggia di bombe a mano e raffiche nutrite di armi automatiche. Un quarto d'ora di fuoco infernale.
Le perdite naziste sono ingenti, l'autista del primo automezzo è colpito a morte ed i Tedeschi, stipati nei camion, in parte sono uccisi o feriti, in parte sono colpiti mentre stanno a cavalcioni lungo le fiancate degli automezzi.
Qualcuno tenta l'ultima difesa, altri l'ultima fuga, ma ancora sono colpiti. I camion sono crivellati di colpi.
La battaglia prosegue accanita. Infine, anche gli ultimi Tedeschi soccombono scoraggiati.
Il garibaldino austriaco «Marx» intima la resa ai nazisti: una trentina di essi alza le mani.
I partigiani galvanizzati si precipitano sulla strada per impadronirsi dell'ingente armamento che è sui camion, tanto necessario alla formazione.
Con le armi conquistate, sette machinen-pistole, tre sputafuoco, un thompson, numerosi ta-pum, il distaccamento avrà risolto il problema dell'armamento, con l'orgoglio di esserselo procurato da solo.

Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) Vol. II: Da giugno ad agosto 1944, volume edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992

Verso le undici antimeridiane del 27 giugno, una vedetta arriva trafelata all’accampamento con l’annuncio che quattro grossi camions tedeschi stanno risalendo la strada proveniente da Baiardo. Erven raduna tutti i presenti; sono ventisette, li divide in due squadre: una al comando di Argo *, l’altra al comando di Assalto e con essa si dirige al bivio di Sella Carpe a circa un quarto d’ora dall’accampamento. Al bivio di Sella Carpe la strada proveniente da Baiardo si biforca in due direzioni: un ramo sale verso monte Ceppo, l’altro verso Vignai e Badalucco. È nell’intenzione di Erven appostarsi prima del bivio; ma quando egli, con i suoi uomini, giunge, è già troppo tardi: gli autocarri si stanno avvicinando. Erven sale allora per la strada di monte Ceppo e fa appostare i suoi garibaldini in un punto adatto, a circa centocinquanta metri dal bivio. Prima del bivio lascia la squadra di Argo per proteggere le spalle della postazione dell’arrivo di altri camions. Gli uomini si sono appena appostati, quando sulla strada appaiono i primi due autocarri stracarichi di tedeschi. Sono le undici e mezzo. Il momento è emozionante: non c’è tempo di attendere: un copioso getto di bombe a mano, un fitto rafficare di mitragliatrici investe i malcapitati invasori che, stipati nei camions, parte soccombono massacrati o feriti, parte tentano un’estrema resistenza e parte saltano giù e si danno alla fuga. Allora i garibaldini si arrampicano sui camions grondanti sangue per fare bottino. La conquista delle armi era il principale obbiettivo dei combattimenti, e i garibaldini della zona possono vantarsi di non avere atteso l’armamento come manna che piove dal cielo, ma d’esserselo saputo guadagnare in combattimento. Sette machine-pistole, tre sputafuoco, un Tompson e un numero imprecisato di Ta-Pum formano il bottino di quella azione. Ma, mentre i partigiani sono sui camions, intenti al rastrellamento delle armi, odono crepitare raffiche di mitraglia provenienti dal bivio. Gli altri autocarri tedeschi, che anziché due erano cinque, vinta la resistenza di Argo, battono con le loro mitragliatrici la strada di monte Ceppo, tagliando ai garibaldini le vie di ritirata. Argo, al secolo Arduino Jassone, è caduto da eroe alla testa dei suoi uomini. La situazione è grave: non resta che appostarsi nel fossatello che segue la strada dalla parte a monte e puntare i mitragliatori in modo da battere il bivio. I garibaldini che già avevano dato prova, durante l’attacco agli autocarri, di un coraggio e di un entusiasmo senza limiti, continuano a combattere con un valore difficilmente riscontrabile in un esercito regolare e militarmente addestrato. L’ardimento di Assalto, di Aldo Baggioli, di Marx, di Gigi, di Max, di Loré, di Sanremo, di Fiorista, di Maliacoff, di tutti insomma gli uomini di Erven, è quello degli uomini che sanno perchè combattono. […] Bisogna ad ogni costo eliminare le mitragliatrici che bloccano ogni via di scampo ai partigiani. […] Le sorti della battaglia sono ormai decise. Non resta ad Erven che dare ordine ai suoi uomini di ritirarsi individualmente.
La carrozzabile, in basso, con la fila dei tedeschi che sale guardinga, e il battito del cuore contro il calcio del mitragliatore, attendendo, e ogni cespuglio che fiorisce d’occhi in agguato. Poi un crepitare fitto che dà il via, un polverone dorato che s’alza sulla carrozzabile, sui tedeschi che s’abbattono, che si gettano fuori strada, comandi urlati dalle voci rauche dei capibanda che s’incrociano con quelli bestemmiati in tedesco, con le voci venete e lombarde dei bersaglieri, raffiche, ta-pum, bombe a mano, partigiani stracciati che dilagano sulla strada a far bottino verso gli autocarri grondanti di sangue.
Italo Calvino in Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia

Ma la rovina è in agguato, presso il bivio. Sopravvengono di sorpresa altri cinque automezzi carichi di truppa, protetti da un'autoblinda.
La squadra di «Argo» tenta di fermarli: infine, deve ritirarsi. «Argo», che finora ha sparato col mitra, tenta di riparare il mitragliatore che si è inceppato, ma è colpito alla gola da una raffica di Majerling.
Un altro garibaldino, Giacomo Raineri (Rolando), è freddato da una pallottola di ta-pum.
La situazione è rovesciata e notevolmente aggravata.
Avviene una scena indescrivibile: ferro e fuoco tempestosi si rovesciano sui partigiani che si appostano, così come possono, in un fossatello e puntano i mitragliatori sul bivio stradale.
La lotta è furibonda: il piccolo gruppo di patrioti combatte furiosamente contro preponderanti forze tedesche, armate fino ai denti, appoggiate dal fuoco dell'autoblinda.
L'impegno di Massimo Porre (Max) e di Lodovico Millo (Sanremo), come di «Assalto» [Carlo Peverello, nato a Castelvittorio il 28 febbraio 1923], «Cichito», «Gigi», «Loré», «Fiorista», «Maliacoff», è al massimo.
«Marx» striscia lungo il fossato per insegnare ai compagni il funzionamento delle armi automatiche prese ai Tedeschi.
Questi, ora, giungono al bivio. Piazzano i mortai. Un fuoco infernale s'aggiunge a quello già fittissimo.
Altri Tedeschi s'arrampicano verso la strada: Renzo Barbieri (Bigi), studente in farmacia ed infermiere del distaccamento, segnala la loro presenza e spara col ta-pum.
«Erven» s'affaccia sul ciglio e, subito, una raffica di Majerling lo colpisce alla coscia, mentre alcune schegge gli si conficcano nel corpo. 
«Bigi» applica una fascia alla ferita.
Siamo all'epilogo dello scontro, ma non dell'odissea. Il Comandante ed otto partigiani sono feriti. Ordine di ritirarsi sparsi, strisciando alla ricerca dei cespugli per nascondersi ai nazisti.
«Erven» raggiunge, con l'ausilio di Renzo Barbieri [Bigi] e di Massimo Porre, un ginepraio e tenta di frenare l'emorragia stringendosi la coscia con una cinghia.
Vicino a lui è il fedelissimo «Max», studente di Sanremo, che segue il suo Comandante anche a rischio della morte, ed insieme, strisciano verso la vegetazione.
Ma a nord è una parete rocciosa, a sud il percorso è battuto dalle mitragliatrici naziste.
Ogni via di scampo sembra preclusa. All'improvviso, come per un miracolo, un banco di nebbia s'interpone fra i Tedeschi ed i partigiani.
Questi, lesti, attraversano il tratto e si pongono momentaneamente in salvo tra i cespugli.

È l'inizio di una lunga, travagliata odissea.

Intanto «Argo» * tenta di guadagnare, armato, l'accampamento. Ma la ferita alla gola è grave e ne esaurisce le energie. S'abbatte, esausto, presso un pino. Lo trova un Tedesco che lo finisce sparandogli un colpo alla tempia con la P 38.

L'autoblinda, dal bivio di Sella Carpe, vomita un fuoco di sbarramento col cannoncino da 47/32, accompagnato dallo schianto degli ordigni di mortai tedeschi da 82 mm.
Precedentemente all'azione, il garibaldino Pietro Schiappacasse (Pedro), partito dall'accampamento di Pian Colombo [località di Molini di Triora (IM)], era andato con due muli a reperire il tritolo destinato a fare saltare il ponte di Vignai allo scopo di impedire il passaggio di automezzi nemici. Quando ritorna, trova l'ac­campamento abbandonato. 
Giunge un altro garibaldino e gli riferisce dello scontro. 
Allora «Pedro» porta i due muli in un casone appartato dove deposita il tritolo.
Intanto, alcuni superstiti della battaglia giungono a Langan e chiedono rinforzi a «Ivano» [Vitò/Vittò. Giuseppe Vittorio Guglielmo].
Nella notte sono pronti circa trenta uomini: i resti del 16° distaccamento, integrati da elementi del 5°, denominato «La Valanga», calano da San Bernardino alla ricerca dei compagni rimasti feriti il giorno precedente.
Sono scoperti e li accoglie un uragano di fuoco: mitragliatrici, cannoncini, mortai, armi automatiche, tutto crepita e romba contro di loro.
Occorre ritirarsi per risparmiare altre vittime. S'odono ordini rabbiosi in lingua tedesca. Si scorge un bagliore seguito da un boato: l'osteria di Vignai è in preda alle fiamme.
Termina, così, la prima fase di un'odissea allucinante.
Per tutto il pomeriggio e la notte del 28, «Erven» è nel ginepraio con i due fedeli compagni «Max» e «Bigi», senza cibo, con la ferita sporca e sanguinante.
Sono lunghissime, interminabili ore diurne e notturne dominate da ansie, paure, angoscia.
Braccato come una lepre, il ferito vede sfilare davanti ai suoi occhi i calci dei fucili nemici.
Trattiene le urla laceranti che gli salgono dal petto per il terribile dolore.
Esausto, striscia sul terreno scosceso, si nasconde, digiuna, imbratta zolle e foglie del suo sangue, osserva il chiaro cielo della nostra Liguria.
I pensieri tortuosi s'accavallano, le idee si confondono, le prospettive sono nere, intorno tutto è buio.
Ma «Erven» è nella sua terra e sa che mille cuori battono per lui ed è certo che i suoi partigiani lo cercano notte e giorno e lo ritroveranno e lo porteranno al sicuro in un luogo ospitale presso la nostra gente, presso i nostri meravigliosi contadini [...] 

[...] ancora il campo di battaglia è tenuto dai Tedeschi. 
Non si possono, però, abbandonare i feriti al loro destino.
Ogni sacrificio dev'essere sopportato, ogni rischio affrontato. 
«Marussia» [anche Maruska, Mario Lantero] e «Burdelusu», capisquadra, con dodici volontari, alcuni del 16° distaccamento, partono ancora alla ricerca.
Verso le otto sono a San Bernardino e scrutano la strada e la montagna. 
Silenzio. La ricerca è lunga.
Giungono all'accampamento e trovano cinque partigiani che forniscono notizie: Erven, stremato e dissanguato, è stato portato nella zona «X» e si trova in pericolo di vita

Intanto altre squadre sono alla ricerca dei feriti: quella di «Vittò», scesa da Langan, e quella di «Assalto». 
Chiamano «Erven»; ma né lui, né altri osano rispondere per la presenza del nemico.
«Max» e «Pino» cercano di raggiungere Baiardo per chiedere rinforzi sebbene in quel paese ci siano i Tedeschi.
Finalmente, dopo tre notti e tre giorni trascorsi nei cespugli, lacero e sfinito, coperto di foglie da «Lorè» [forse Lorenzo Acquarone] durante il giorno per proteggerlo dai brucianti raggi del sole, quasi dissanguato, «Erven» è trovato da cinque uomini venuti da Baiardo.
Li capeggia Mario De Miglié (Piccun) e con loro è Pasquale Ormea (Lino) che ha combattuto la tragica battaglia di Sella Carpe.
«Erven» è a metà strada tra Baiardo e Carmo Langan.
«Burdelusu» e Mario Lantero (Marussia) scendono a trovarlo ed il ferito chiede notizie di tutti i suoi uomini, i suoi fratelli. 
Poi, ringrazia i garibaldini e si dichiara fiero di loro.
Quindi, è trasportato e medicato a Fontana Vecchia; poi a Castelvittorio, presso Caterina e Giovanni Orengo, è visitato dal prof. Moro che stima urgente un'operazione.
Con un viaggio di nove ore in barella, il ferito raggiunge l'ospedaletto di Triora, dove gli è praticata finalmente l'antitetanica.
[...] Dopo il ricovero e l'antitetanica, il dott. Giuseppe Bottari e il dott. Ferrero praticano al ferito l'ipodermoclisi.
Ma siamo al 2 di luglio, l'inizio di uno dei più vasti e feroci rastrellamenti nazifascisti nella nostra provincia.
Epicentro: Valle Nervia e Valle Argentina.
I pochi feriti gravi dell'ospedaletto di Triora, fra cui «Erven», sono portati in barella nel bosco del monte Trono... «Erven» [anni dopo scriverà] ... Nel primo mattino del 2 luglio 1944 i tedeschi in rastrellamento cominciarono a bombardare "con cannoni l'ospedale di Triora. Fu un fuggi, fuggi: in breve rimanemmo nell'ospedale solo cinque feriti gravi, il dottor Ferrero, il dottor Bottari, la Suora superiora dell'Ospedale e l'infermiere partigiano Battista. Il frastuono sempre più vicino delle armi tedesche, e le voci dei rastrellatori che già si udivano dal fondo valle dove Molini di Triora già era data alle fiamme...".

Carlo Rubaudo, Op. cit.

* Encomio alla memoria al garibaldino Aldorino Iazzone (Argo) [ma Altorino Iezzoni per Ilsrec, Altorino Iezzoni, nato ad Atri (TE), il 26/04/1914, già caporale del Regio Esercito, commissario di Distaccamento della neoformata (il 20 giugno) IX^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Felice Cascione”, o Arduino Jassone per Giovanni Strato]
Comandante di squadra, incaricato dal Comandante di distaccamento di proteggere a tergo gli uomini che attaccavano autocarri tedeschi su Sella Carpe, investito da un numero soverchiante di nemici, organizzava una accanita resistenza con pochi uomini a disposizione ed impugnava egli stesso il mitragliatore, infliggendo perdite sensibili al nemico e tenendolo a bada fino a che una raffica di mitraglia non lo colpiva mortalmente alla gola. Rimaneva impavido al suo posto ed invitava il suo portamunizioni a mettersi in salvo, ed indicava ancora il nemico che in numero soverchiante avanzava. (Combattimento del 27.6.1944 - Monte Ceppo).

… Quando giungemmo sopra Castelvittorio, ci venne incontro un partigiano, un militare unitosi alla resistenza dopo l’8 settembre, tale Iezzoni “Argo”, che ci accompagnò fino a Langan, dove c’era il “quartier generale” e dove si concentravano tutti i neo-partigiani. Salutandoci, il partigiano Iezzoni ci disse che l’indomani probabilmente sarebbero sbarcati gli alleati... Otto giorni dopo “Argo” moriva in un’operazione a Baiardo. Fu il primo schiaffo che ricevetti dalla realtà della mia guerra da partigiano…           
Renato Dorgia “Plancia” in Giuseppe Mac Fiorucci, Gruppo Sbarchi Vallecrosia <ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia - Comune di Vallecrosia (IM) - Provincia di Imperia - Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM)>