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giovedì 20 luglio 2023

La squadra dei mortaisti partigiani era composta da quattro soldati della divisione San Marco, che avevano disertato

Dintorni di Rezzo (IM). Fonte: Parco Naturale Alpi Liguri

Insomma, nella cameretta di Oliveto si dormiva - si fa per dire - meglio. Dopo aver trascorso una notte quasi insonne, all'alba del giorno 5 settembre 1944 tutto l'accampamento era in movimento: avevamo udito lunghe raffiche di mayerling (la terribile arma automatica tedesca) provenienti da lontano. Prestato un poco di attenzione, ne individuammo la direzione: giungevano dal passo della Fenaira, dove era dislocato il distaccamento di "Germano" che controllava la strada proveniente da Molini di Triora e Andagna. Purtroppo, oltre che da quella parte, stavano giungendo i primi drappelli tedeschi anche da Rezzo e da Montegrosso - Men­datica, mentre il grosso delle truppe aveva già occupato tutte le montagne che si ergono intorno alla conca di Rezzo. Un grande rastrellamento nemico era in atto.
"Germano" resistette fino al limite delle forze, ma poi, preso tra due fuochi (dalla parte di Andagna e da quella del Passo della Mezzaluna), dovette desistere, lasciando purtroppo sul terreno Ettore Bacigalupo ("Genovese"), Felice Spalla, Pietro Glorio ("Gambin"), Aldo Gagliolo ("Terribile") e Italo Ghirardi ("Gherardo"). Anche Montegrande era stato occupato dai tedeschi.
Fu ad un certo momento della mattinata che il comandante Silvio Bonfante ("Cion"), rivolgendosi a Massimo Gismondi ("Mancen"), disse: «Bisogna che tu vada a sloggiare i tedeschi da Montegrande, perché ci tengono sotto tiro».
Al che "Mancen" rispose: «Ti sembra una cosa facile?». La risposta di "Cion" fu drastica: «Se non ci vai tu, ci vado io». A questo punto "Mancen" si decise, chiedendo una quindicina di volontari. Io ero già stato aggregato al reparto mortaisti, ma, se così non fosse stato, non sarei stato di certo un volontario. L'avventura del molino dei Giusi e il miracolo di Oliveto avevano destato in me un poco di paura.
"Mancen" con i suoi uomini partì per Montegrande e noi mortaisti ci preparammo ad agevolargli la salita. L'azione si doveva svolgere in modo che, quando la squadra dei volontari fosse giunta ad una cinquantina di metri dalla vetta, fuori dalla vegetazione, dopo un segnale convenuto avremmo incominciato a sparare con i mortai. Dovevamo essere precisi per non colpire i nostri compagni. La squadra dei mortaisti era composta da quattro soldati della divisione San Marco, che avevano disertato e raggiunto le nostre file in montagna, abbandonando il presidio di Chiappa in val Steria. Essi maneggiavano i mortai, mentre un'altra trentina di disertori della stessa divisione faceva da supporto. Istruiti in Germania, erano gente molto preparata, e presto lo dimostrarono. Dopo circa mezz'ora che era partito "Mancen", lui ci segnalò di aprire il fuoco. Noi che nel frattempo avevamo puntato il mortaio nel modo giusto, sotto la guida del sergente mortaista, al segnale iniziammo a sparare, in verità con un poco di preoccupazione perché, durante il trasporto dell'arma da Chiappa a San Bernardo di Conio, il sistema meccanico di puntamento si era rotto. Il sergente dimostrò in quel frangente la sua abilità. Mise in opera un sistema di puntamento manuale che si dimostrò efficacissimo. Salito sul tetto della vecchia chiesetta di San Bernardo, guardò Montegrande e quindi il mortaio, si piazzò nelle direzione retta dei due punti di riferimento e lasciò cadere a terra un'assicina di legno che si piantò nel terreno. Fatto questo, saltò a terra dal tetto della chiesetta che era abbastanza basso e, estratto dalla tasca un taccuino, fece alcuni calcoli. lo non capivo niente di quello che stava facendo. Terminati i calcoli e raggiunto il mortaio, maneggiò i vari sistemi di alzo e di brandeggio. Infine disse: «Credo che così vada bene, possiamo iniziare il fuoco». Tra me pensavo che, se "Mancen" e gli altri avessero saputo in che modo era stato eseguito il puntamento, indubbiamente sarebbero velocemente fuggiti dal luogo dove si erano appostati.
Uno degli inservienti infilò nel mortaio una bomba da 81 che, con un colpo secco, partì immediatamente. Attendemmo con ansia l'arrivo della bomba su Montegrande. Quando vedemmo lo scoppio proprio in cima al monte dove i tedeschi erano piazzati, esultammo per l'abilità del sergente e per lo scampato pericolo della nostra squadra di volontari.
Era giunto il momento decisivo. I nostri iniziarono l'assalto sparando all'impazzata, mentre i tedeschi, raggiunti da altri colpi di mortaio, si ritirarono verso il passo della Fenaira.
Conquistata la cima del monte, "Mancen" iniziò l'inseguimento del nemico, accompagnato dai tiri del mortaio che il sergente spostava gradatamente a destra man mano che i colpi partivano, per non colpire gli inseguitori.
Dopo aver sparato ancora una decina di colpi, però, purtroppo dovemmo smettere perché le bombe incominciarono a scarseggiare. Non potevamo più sciuparne.
Dimenticavo di dire che il mio compito, durante gli spari, era molto importante: portavo le cassette delle bombe dal luogo dove erano state sistemate, lontano dal mortaio una cinquantina di metri per sicurezza, all'arma che era al riparo della chiesetta. Con altri tre compagni dovevo percorrere quel tratto allo scoperto, per cui ogni tanto sentivamo fischiare vicino pallottole nemiche. Al fianco del mortaio era stata piazzata una mitragliatrice pesante che, azionata da Giuseppe Gennari ("Gino"), impediva ai tedeschi di avanzare dalla strada di Rezzo verso San Bernardo di Conio. Quando le sparatorie si placarono, mentre stava scendendo con la sera anche la nebbia, la squadra di "Mancen" fu costretta a ritirarsi da Montegrande portando con sé prigioniero un sergente tedesco. Nell'azione solo un partigiano era stato leggermente ferito ad un braccio.
Giunta la notte, mentre i tedeschi, impressionati dall'azione partigiana, avevano sospeso momentaneamente il rastrellamento, i distaccamenti di Franco Bianchi ("Stalin"), di "Germano" e di altri comandanti adottarono la tattica di disperdersi nei boschi. Noi, invece, caricammo su una decina di muli i mortai, le armi pesanti, le marmitte, i viveri e le munizioni, e con "Mancen", i fratelli Gennari, "Mancinotto", "Sardena", "Cigré'" (eravamo circa una trentina) ci calammo verso Rezzo per tentare di passare da qualche parte nella valle di Pieve di Teco, per avviarci poi verso Montegrosso - Mendatica. Ma, giunti vicino a Rezzo, venimmo a sapere che il paese era occupato dai tedeschi. Fummo costretti ad incamminarci verso il passo delle Bisciaire e, quando stavamo per giungere sul crinale, fummo accolti da lunghe raffiche nemiche. Era evidente che, prima che facesse buio, i tedeschi avevano piazzato le mitragliatrici sulla mulattiera, e, quando avevano sentito il rumore prodotto da una decina di muli, avevano dato inizio alla sparatoria. Fortuna volle che non fossimo sulla giusta traiettoria, così fummo in grado di scaricare i muli cbe abbandonammo al loro destino. Nascondemmo in modo precario il materiale scaricato, quindi ci buttammo di corsa dentro il bosco di Rezzo, fuori tiro perché protetti da una costiera.
Durante la notte incominciò a piovere e ci inzuppammo all'inverosimile. Credo che nessuno sia riuscito a dormire. All'alba, a mille metri di altezza, faceva un freddo intenso, mentre noi non avevamo vestiti di ricambio per poterci togliere quelli bagnati di dosso. Ricordo che Mario Gennari ("Fernandel") batteva i denti dal freddo fino a dare fastidio: forse era meno coperto degli altri. Dovemmo stare due giorni fermi in quel bruttissimo posto, mentre i tedeschi con pattuglioni di quindici/venti uomini venivano giù dai passi sparando raffiche a casaccio nei boschi inaccessibili, come era il nostro, e perquisivano tutte le baite sui pianori.
Racconterò quanto mi dissero alcuni partigiani che erano nascosti con il comandante Nino Siccardi ("Curto") in una di queste baite, aggiungendo che, prima di perquisirle, con grande prudenza, i tedeschi piazzavano contro le porte e le finestre delle stesse le armi automatiche.
Quando una pattuglia nemica giunse davanti alla baita dove si erano rifugiati "Curto" e alcuni suoi compagni, essa fu attratta da un albero carico di magnifiche mele. I componenti la pattuglia si misero a raccoglierle e a mangiarle, mentre i partigiani, all'interno della baita, col cuore in gola, attendevano in silenzio il momento decisivo. Se i tedeschi si fossero avvicinati alla baita, loro sarebbero usciti sparando all'impazzata, e cercando di disperdersi. E' incredibile dire che il "Curto", con la sua nota flemma, mentre osservava attraverso una fessura della porta i tedeschi che mangiavano le mele, si rammaricava pensando che se le stavano mangiando tutte, senza lasciarne alcuna ai partigiani. Il "Curto" aveva un eccezionale sangue freddo. Non sapeva cosa fosse la paura. Lo dimostrò in numerosissimi episodi. E ciò infondeva coraggio a tutti i partigiani. La spasmodica attesa durò due giorni, poi il nemico andò via e noi ci portammo verso la Casa Rossa (una baita dispersa nel bosco), per vedere se fosse già stata raggiunta da altri partigiani. Infatti colà ne trovammo alcuni. La baita era stata la sede del Comando e qualcuno nei pressi aveva nascosto della pasta. Fu recuperata e cotta senza sale in una marmitta. Da due giorni eravamo digiuni, una fame nera ci tormentava. Non avendo un piatto o una gavetta, per non perdere il giro, feci servire la mia razione in un pezzo di carta che avevo trovato lì per terra.
Andammo poi singolarmente a scavare in un terreno dove avevano già tolto le patate, riuscendo a trovarne parecchie, che bollimmo e mangiammo.
Dunque, il rastrellamento nemico finì due giorni dopo che era iniziato. Perdemmo una decina di partigiani. I tedeschi uccisero alcuni civili. Giorni dopo recuperammo le salme di due carbonai del luogo. Se non avessimo sentito il loro cattivo odore, chissà per quanto tempo sarebbero rimaste insepolte! Le perdite nemiche furono indubbiamente superiori alle nostre, ma non saprei quantificarle.
Di notevole c'è da dire che, se fossimo stati bene informati, potevamo ritirarci tranquillamente lungo la strada San Bernardo di Conio - Colle San Bartolomeo (una decina di chilometri), poiché la strada non era stata percorsa dal nemico, quindi era rimasta sempre libera.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998, pp. 52-57

mercoledì 24 agosto 2022

Casimiro Briozzo, partigiano, e Carlo Ferrari, ex San Marco, furono fucilati il 21 agosto 1944

Andora (SV). Fonte: mapio.net

Nella terza decade di giugno, in un punto della Via Aurelia presso il borgo di Rollo, ad una squadra di dieci uomini (tra cui i partigiani Fiume, Leo, Ceno, Federico ed altri), comandata da Nino Agnese (Marco), si presenta l’occasione di catturare un camion di derrate alimentari destinate al Comando della marina militare tedesca di Loano.
I due ufficiali tedeschi che accompagnavano il carico vengono abbattuti da raffiche di mitra e le derrate comprendenti zucchero, farina, riso e sigarette, sono trasferite alla base partigiana di Cian di Bellotto.
Il 12 luglio 1944, con una magnifica azione, il Distaccamento “Volante” asporta quintali di derrate alimentari da un treno merci tedesco.
[...]
Altra perdita partigiana: Casimiro Briozzo, nato in Francia nel 1912, staffetta della 1a Brigata, catturato a Laigueglia il 20 agosto 1944, mentre per conto del Comitato di Liberazione Nazionale locale tratta con un soldato della Divisione fascista San Marco, Carlo Ferrari, al fine di organizzare la diserzione di un contingente della divisione stessa, di stanza ad Andora Marina, viene fucilato il giorno successivo sulla spiaggia della frazione Pigna, unitamente al milite contattato.
Redazione, La Resistenza, Andora nel tempo

[...] osservavo il gioco della luna sulle onde del mare, quando un indistinto rumore di motori si tramutò in breve in una flottiglia di motobarche che passavano a poca distanza dalla costa, piccoli trasporti adibiti al rifornimento delle truppe dislocate nella Francia meridionale, servizi condotti alternativamente per via mare, a causa dei continui bombardamenti cui era sottoposta la ferrovia e il suo conseguente irregolare funzionamento; l'oscurità della notte, inoltre, favoriva tali operazioni. Osservavo le figure incerte dei marinai in servizio in coperta, quando l'inaspettato scoppio di un bengala illuminò a giorno l'intero tratto di mare a noi visibile; immediato e assordante il rumore delle armi riempì l'aria, come fontane iridescenti si alzavano grosse colonne d'acqua, bersagli mancati dalle bombe sganciate dagli aerei, mentre i traccianti dei trasporti riempivano il cielo di colorate scie luminose simili a fuochi d'artificio. Pochi minuti soltanto di un carosello di fiamme e di colpi, e il piccolo convoglio, completamente indenne, scomparve oltre la costa; gli aerei avversari erano già lontani, il nostro tiepido battimani concluse il breve ed inatteso spettacolo.
Era stato un giorno piuttosto tranquillo, nessuna incursione di caccia-bombardieri inglesi e nessuna ispezione da parte del comando della San Marco, una giornata insomma da considerarsi rilassante, ma evidentemente il sole non era ancora tramontato, e verso le ore 17 un paio di ufficiali del comando di battaglione si presentarono alla postazione convocando l'immediata assemblea di tutti i componenti il gruppo, con la sola esclusione delle sentinelle. L'interesse e la curiosità da noi avvertiti furono ben presto sostituiti dall'amarezza che si manifestò nell'ascoltare la richiesta formulata dai due messaggeri, che consisteva nel contribuire a formare, per l'indomani mattina, un plotone d'esecuzione. Il motivo, giustiziare un ribelle ed un traditore: un civile era stato sorpreso a trattare con un nostro commilitone la diserzione di un nostro contingente che sarebbe entrato a far parte delle formazioni ribelli. L'immediata  fucilazione sentenziata per i due implicati dalla corte marziale doveva servire da ammonimento agli scontenti ed agli indecisi sulle inflessibili punizioni che attendevano coloro che fossero sorpresi in un tentativo di fuga. Un silenzio totale accolse la richiesta; la partecipazione volontaria, nelle parole degli ufficiali, era da considerarsi un onore, ma tale opinione evidentemente non era condivisa, nessuno infatti vi aderì.
La cerimonia doveva effettuarsi nel nostro settore particolarmente defilato e controllabile da minacce esterne, e qualora fosse stato impossibile raccogliere il numero necessario alla costituzione del plotone di esecuzione, i nominativi  mancanti sarebbero stati scelti di forza. Un malinconico tramonto concluse una giornata che terminava con la preoccupazione di essere scelti per il triste incarico, e a questa seguì una notte molto lunga per la parte di noi che non riuscì a dormire. L'alba non era ancora spuntata che l'intero contingente attendeva pienamente sveglio il nuovo giorno, e fu un'alba grigia in un incerto orizzonte di foschia che illuminò velatamente un mare quasi immobile e silenzioso. Precedeva un plotone con elmetto e fucile, seguito da un carro trainato da un cavallo, condotto per la briglia da un soldato; i condannati legati su due sedie, il viso del colore dell'alba, uno indossava una camicia bianca, l'altro una camicia grigioverde; chiudeva il corteo una squadra con ufficiali in testa. Guardavo la scena con un'intensità mai avvertita, sentivo e vedevo in essa la presenza di qualcosa che non conoscevo; per una frazione di secondo ebbi l'impressione di vedere una sequenza cinematografica, condannati che venivano condotti alla ghigliottina, un attimo soltanto però: l'alba che sorgeva, l'aria che respiravo, gli uomini che osservavo erano veri, e una parte di essi si apprestavano ad uccidere altri uomini, un dilungarsi di preparativi quasi teatrali, di una giustizia cinica di effetto. Il plotone d'esecuzione era già stato completato con elementi di altri contingenti, il nostro gruppo doveva soltanto  formare un cintura di sicurezza sull'intero perimetro. Con due compagni ricevetti l'incarico di sorvegliare la strada e allontanare i troppi curiosi; ci si dispose a breve distanza l'uno dall'altro, le armi in pugno, pronti a far fuoco; e subito, in un atteggiamento per nulla gentile, convinsi due uomini che ironizzavano sul fatto ad allontanarsi rapidamente; poi, fu più forte dell'ordine e di eventuali pericoli, mi volsi a guardare il dramma che si viveva sulla riva. Nitide, le due figure si stagliavano immobili contro il mare, la schiena rivolta contro il plotone che stava allineandosi, il sole ancora nascosto nella cortina di foschia; i fucili si alzarono, un silenzio profondo si avvertì all'intorno e nel secco rumore che lacerò l'aria, due uomini, come due burattini a cui viene allentato il filo, caddero sulla sabbia; ancora attimi di silenzio e i due colpi di grazia, che mi apparvero enormemente lontani, chiusero la tragica cerimonia*. Il carro ripartì con due corpi ammucchiati sul fondo che, ad ogni buca della strada, sobbalzavano goffamente; gli accompagnatori marciavano sempre silenziosi, ma più scomposti e nessun richiamo, nessun ordine intervenne a riprenderli. Il sole, liberatosi alla fine della grigia coltre, splendeva in una cornice di bellezza, quasi a voler far dimenticare la crudeltà appena consumata.
Qualche giorno di vuoto senza avvenimenti di rilievo e improvvisamente, come di norma, l'ordine di partire. L'apatia che cominciava a contagiarci scomparve soppiantata dall'interesse per la nuova destinazione.
*Casimiro Briozzo, partigiano, e Carlo Ferrari, ex San Marco, furono fucilati il 21 agosto 1944
Renato Faggian (Gaston), I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza Imperiese. Diario partigiano 1944-45, Ed. Cav. A. Dominici, Imperia, 1984, pp. 32-35

martedì 31 maggio 2022

Ventisei ore dopo, con una traversata tremenda, raggiungevamo il porto di Livorno


Sanremo (IM): il porto vecchio

Sanremo (IM): Capo Verde, il Porto Vecchio, uno scorcio del centro urbano

Nella notte tra il 27 ed il 28 agosto 1944, la motovela San Marco, adibita dai Tedeschi al trasporto di rifornimenti, lascia il porto di Sanremo e, dopo una fuga di ventisei ore in mare aperto, raggiunge il porto di Livorno portando in salvo tre garibaldini scesi dalla montagna. Il colpo è riuscito grazie alla perizia del capitano Stefano Zolezzi e del motorista Armando Odemondo (2).
(2) Cfr. M. Mascia, op. cit., pag. 59 e segg.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992
 

Nello Cella racconta
:
Dopo lo sbarco degli anglo-americani in Provenza e l'intensificarsi dei bombardamenti alleati sul nostro litorale, le comunicazioni ferroviarie nella Riviera vennero a cessare completamente e quelle stradali si fecero estremamente difficili. Il nemico aveva perciò organizzato un servizio notturno di piccoli convogli composti di chiatte, motobarche e motovele - alcune delle quali sequestrate alla mia ditta - che, scortate da una o due moto vedette, eseguivano i rifornimenti fra Genova e Savona e le linee del fronte.
Avevamo, in quell'epoca, installato sopra Capo Nero un posto di segnalazioni che era in collegamento coi centri della Riviera francese e più di una volta i galleggianti tedeschi dovettero incassare duri colpi da parte dell'azione dei caccia notturni alleati.
Ma noi avevamo progettato qualcosa di più grosso: addirittura la fuga d'una nave con tutto il suo carico. E ci ponemmo all'opera per attuarla.
Dopo aver passato in rivista le imbarcazioni adibite ai rifornimenti, decidemmo di tentare l'attuazione del progetto col San Marco, una mia piccola motovela, di cui conoscevo molto bene l'ottimo stato dei motori e le possibilità di  tenere a lungo il mare, qualità essenziali perché la fuga riuscisse. Inoltre, e quest'era senza dubbio il punto più importante, potevo contare ciecamente sull'equipaggio della nave, il capitano Zolezzi Stefano ed il motorista Odemondo Armando, ambedue antifasciti accaniti ed uomini di mare nel senso completo della parola.
Preparammo i piani accuratamente: negli ultimi giorni il SIM ci informò che tre patrioti, scesi dalla montagna, avrebbero tentato l'avventura col San Marco. Ci ponemmo in contatto con essi ed attendemmo.
Nel pomeriggio del giorno stabilito giunge al nostro ufficio il «Feldgendarme» ad avvertirci che per le 21 tutto l'equipaggio dev'essere a bordo.
Consumammo la cena discutendo ancora il nostro piano in attesa dei tre patrioti. Alle 20 essi giungono e tutti insieme, dopo aver definito gli ultimi dettagli ci avviammo al porto.
La notte era fredda e scura: piovigginava e un vento diaccio spazzava le strade e il molo. Contavamo appunto sull'oscurità e sull'inclemenza del tempo per far passare inosservati i tre fuggitivi. E vi riuscimmo. Pochi minuti prima delle nove eravamo all'entrata del porto; poi, di corsa, tutti noi provvisti del permesso di entrata, ci affolliamo innanzi alla garitta ove stava la guaordia per ripararsi dal vento, mentre i nostri patrioti, approfittando della confusione, scìvolavano attraverso il varco sperdendosi nell'oscurità. Li raggiungemmo qualche minuto più tardi e in breve fummo sul San Marco: essi s'arrampicano a bordo e spariscono nella stiva, attraverso il passaggio lasciato aperto fra il  materiale che ingombra il fondo. La prima parte dell'operazione era riuscita in pieno ed era per noi di buon augurio per il compimento del progetto. Attendemmo una mezz'ora: un sott'ufficiale della Kriegsmarine ci raggiunge con l'ordine «nessuno può più uscire. Preparatevi a partire. Seguite il capo convoglio che vi segnalerà le istruzioni».
Il momento è  giunto. Mi sento commosso: penso ai miei uomini che stanotte si giocheranno la vita, ma conosco a fondo il carattere e la volontà di Zolezzi ed Odemondo e son certo che se la caveranno. Faccio le ultime raccomandazioni e attendo: veggo i razzi segnalatori illuminare il cielo, il porto e le imbarcazioni; sento il rombo dei motori che si mettono in moto: discerno nettamente il caratteristico ritmo delle macchine del San Marco e  mi sforzo di isolarlo dagli altri per poterlo seguire.
Passano cinque, dieci minuti, un quarto d'ora: il convoglio si snoda lentissimo nel mare agitato. Poi non sento più il rombo del motore del San Marco: il piano funziona. Passano ancora dieci minuti; ed il ritmo inconfondibile delle  macchine della mia nave riprende. Vi è qualcosa di diverso, però, è più cupo e distante: capisco che il San Marco ha cambiato rotta e che si è messo controvento, come d'accordo. La fuga si è iniziata, ma potrà svolgersi indisturbata? Mi domando e, malgrado il freddo, sento che la fronte e il palmo delle mani si fanno umide di sudore. Scandisco i minuti. Poi veggo la luce dei riflettori sciabolare il mare: un razzo, due razzi accecanti si alzano verso il cielo: al largo si sgrana il crepitio di una mitragliatrice: poi ancora, uno, due, tre colpi di cannone partono dalla punta del molo.
E' tutto finito? Non so. Resto ancora a lungo e non odo che il brontolio dei motori che si fa sempre più indistinto; poi decido di lasciare il porto per non destar sospetti. Ritorno a casa, affranto, inzuppato e attendo che ritorni il  giorno.
La mattina dopo, in ufficio, un ufficiale della Kriegsmarine mi informò della fuga. Dovetti lottare con le unghie e coi denti per convincerlo della mia innocenza.
E fu solo a liberazione avvenuta che Zolezzi ed Odemondo mi fecero il racconto della loro avventura.
«Lasciammo il porto insieme alla moto-vela Leo - il cui equipaggio doveva assecondare la nostra fuga - e due o tre altri galleggianti. Fuori della diga cominciammo a ballare: il mare era agitato e grossi cavalloni, bianchi di spuma, ribollivano intorno a noi, rompendosi con rumore di tuono sui frangiflutti.
Demmo fondo ed attendemmo che tutto il convoglio fosse fuori: sentivamo, nel frastuono delle onde, il rumore delle motozattere che accostavano. Una rapida imbarcazione si avvicinò a noi, un riflettore, con una rapidissima sciabolata nel  buio, sembrò contarci, poi l'oscurità ricadde, fonda ed ostile.
Il capo convoglio urlò, attraverso il megafono, in cattivo italiano, l'ordine di accodarsi al convoglio. Poi ripartì immediatamente per portarsi in testa. Andammo avanti adagio perché il resto del convoglio potesse allontanarsi sempre più e per accertarci della entità della scorta di retroguardia.
Nel buio intravedevamo il Leo che navigava di conserva con noi e faticava enormemente sotto i colpi di mare.
Non appena fummo in rotta una moto-vedetta sbucò dal buio e impennandosi venne lungo il nostro bordo. Una voce rauca ci ingiunse di far presto poiché il convoglio era già lontano.
Rispondemmo che i motori ci davano delle noie, ma che saremmo presto stati in grado di aumentare la velocità. La moto-vedetta non accennava a lasciarci: pareva avesse intenzione di attenderci: se così fosse stato tutto il nostro progetto sarebbe andato in fumo.
Allora il Leo, per ingannare il nemico, si staccò da noi e riprese la rotta del convoglio.
Gridammo alla moto-vedetta che anche il San Marco era pronto e, con nostro sollievo, la vedemmo accostare sulla sua dritta e partire.
Immediatamente invertimmo la rotta puntando verso l'alto mare, verso la libertà!
Non appena accostammo il mare ci investì in pieno, di prua, con furia tremenda. Ondate dopo ondate si frangevano contro il tagliamare, rompendosi con violenza selvaggia spazzando il ponte. Eravamo nell'acqua, inzuppati sino all'osso, schiaffeggiati dal vento freddo su una nave che sembrava impazzita. Ma si andava! Il motore era in pieno: sembrava non avesse mai girato così vorticosamente come in quella notte. I minuti passavano e tutto proseguiva bene: sembrava che il convoglio non si fosse accorto di nulla. Poi, subitamente, alcuni razzi ruppero il buio e noi scorgemmo segnalazioni ottiche partire da terra. Dal convoglio si rispose: sentivamo che la nostra fuga era stata scoperta e ci attendevamo la reazione.
Infatti, subito dopo il fascio di luce di un riflettore ci inquadrò in pieno. Al di sopra del rumore del vento e del mare udimmo le scariche delle grosse mitragliere. Il cielo sembrava essere fantasticamente illuminato da una festa di fuochi artificiali: ma noi sapevamo di essere fuori tiro e si teneva la nave contro il vento diritti verso la meta. Sapevamo che le moto tedesche non avrebbero potuto, col mare grosso, mantenere la nostra velocità e sapevamo di aver ormai vinto la partita.
Stavamo accostando per rettificare la rotta, quando dal porto tuonò il cannone. I primi colpi passarono su di noi, fischiando; l'ultimo scoppiò al di sopra del ponte crivellandolo di scheggie. Poi la lotta ebbe termine.
Ventisei ore dopo, con una traversata tremenda, raggiungevamo il porto di Livorno: portavamo in salvo i tre patrioti e il nostro carico e ci ponevamo al servizio degli alleati».
Naturalmente i miei due valorosi collaboratori dimenticarono di aggiungere che entrambi furono feriti dallo scoppio dell'ultimo proiettile, e che, malgrado le sofferenze, essi restarono al loro posto ventisei terribili ore, finché la  nave non fu in acque amiche.
La loro impresa fu una delle più audaci di tutta la nostra guerra e merita di essere ricordata ad onorare gli uomini del mare d'Italia i quali non furono secondi ad alcuno nella lotta per il riscatto nazionale.
Mario Mascia, L'Epopea dell'Esercito Scalzo, Edizioni ALIS, Sanremo, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia 
 
Sanremo (IM): molo lungo del porto vecchio

Carlo Unger di Löwenberg, trentottenne lucchese di nascita a dispetto del patronimico tutto teutonico, e il suo vice Silvio Fellner, triestino cinquantatreenne, erano stati giustiziati alle una del mattino di sabato 19 agosto 1944 con una scarica di machinen pistole nel cortile della stamperia del forte San Giorgio, sede genovese del Comando germanico della Kriegsmarine. Quivi era stata allestita in tutta fretta una corte marziale presieduta dal comandante Berlinghaus e composta da soli ufficiali tedeschi compreso il difensore d’ufficio. Prima dell’esecuzione ai due condannati era stata negata l’assistenza religiosa e, a Löwenberg, un ultimo incontro con i familiari, col pretesto che “non c’era tempo”. La motivazione della sentenza giunta sino a noi recita testualmente: “per alto tradimento in tempo di guerra e di fronte al nemico”. Formalmente venne imputato ai due alti ufficiali di aver ordinato, senza averne facoltà, il ripiegamento delle forze di mare distaccate nella Liguria di ponente traducibile, in pratica, nell’imputazione appunto di “alto tradimento”. Ma la realtà consacrata da una documentazione inoppugnabile non sembra poter accreditare tale impostazione accusatoria né riconoscere alla sentenza una corretta e convincente proporzionalità tra l’esiguità della presunta colpa e l’abnormità della pena comminata e subito eseguita. Infatti la prima si fonda esclusivamente sui telegrammi inviati dal comandante Löwenberg il 14 agosto 1944 alla stazione segnali di Bordighera, al posto radio di Arma di Taggia e agli uffici di porto di Sanremo e Imperia per disporre il ripiegamento su Genova del personale (peraltro non necessario alla difesa in quanto prevalentemente civile e difatti ritirato più tardi dalle stesse autorità germaniche), mentre la seconda è in aperto evidente contrasto con quanto disposto dall’articolo 5 del regolamento, sulla posizione del personale della Marina italiana che collabora con la Marina germanica, che imponeva dover essere i due ufficiali eventualmente giudicati da un tribunale italiano.
Vittorio Civitella *, Zolesio e l’opera di intelligence di Fellner e Unger di Löwenberg in Storia e Memoria, Ilsrec, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, anno XXV, n. 2/2016 - * Testo dell'intervento tenuto al convegno "Momenti e figure della Resistenza nel Tigullio. Una storia che non può essere travisata", organizzato dall’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (Chiavari, Civico auditorium San Francesco, 23 aprile 2016)

martedì 9 novembre 2021

Il distaccamento partigiano scende verso la località Molino Nuovo di Andora...

Fonte: Ferruccio Iebole, art. cit. infra

Leopoldo Leo Fassio è nato ad Andora (SV) il 4 giugno 1925. Alla fine del 1943 saliva al Casone du Beu, nel comune di Testico (SV), dove sostavano nascosti i primi partigiani comunisti comandati da Felice Cascione
Leo aveva raccolto poche cose di vestiario e qualche provvista alimentare in uno zaino tedesco, che lo zio Quinto reduce dalla Russia aveva portato a casa, e si era incamminato verso i monti, fiducioso di trovare i ribelli. Giunto con fatica all’accampamento era interrogato in modo stringente, sulla sua identità e sulla parentela, specie dal partigiano Felice Spalla (Felì) futuro caduto in battaglia e da un altro ribelle. Leo non capiva la brusca inquisizione, non aveva riflettuto sul messaggio comunicato dal suo sospettoso zaino. Chiarita la provenienza e la famiglia, conosciuta proprio da Felì, anch’esso reduce con lo zio di Leo dalla guerra russa, dopo due giorni di permanenza nel Casone du Beu era comunque invitato a tornare a casa.
La breve esperienza a contatto con il gruppo Cascione aveva infiammato Leo che tornerà per vivere con Silvio Bonfante (Cion), l’erede di Felice Cascione, l’epopea di Cian de Bellottu, le prime battaglie contro i nazifascisti e dopo la presenza nella Volante; infine l’adesione al Distaccamento Agnese fino alla Liberazione.
[...] l’episodio di Molino del Fico del 10 giugno 1944. Leo ormai faceva parte della Volante di Cion, con altri cinque compagni erano reduci da una giornata di pattugliamento in Valle Steria e nei pressi di Conna si dividevano. Quattro ribelli all’imbrunire si fermavano in un fienile di proprietà di Angelo Limarelli per ristorarsi e riposare, Leo e Vincenzo Marchiano (Ceno) proseguivano ancora nonostante la stanchezza, per raggiungere le rispettive famiglie ad Andora per una visita fugace. Il capo pattuglia Marco Agnese (Marco), Alessandro Carminati (Sandro), Carlo Lombardi (Giuseppe) e Celestino Rossignoli (Celestino) nella notte, (sembra su spiata) erano catturati dai militi del capitano Giovanni Ferraris, comandante una feroce banda di fuoriusciti italo-francesi ed esaltati fascisti, con il concorso determinante del capitano Paella, Attilio Calvo. L’indomani mattina, dopo una notte protrattasi con orribili torture, venivano orrendamente fucilati * in località Molino del Fico.Il senso di repulsione provato dai partigiani in questo episodio segnerà uno spartiacque nella lotta resistenziale: se prima si potevano ammonire e perdonare gli avversari, ora le sentenze diventavano inappellabili. Un incerto equilibrio si era rotto a favore della ritorsione più spietata. Un altro episodio in quel rovente giugno 1944 era la battaglia di Pizzo d’Evigno [Diano Arentino (IM)] dove Leo trovava il cadavere di Silvano Belgrano, ucciso da una spia, presente nell’accampamento ribelle, poi scoperta e giustiziata.
In questo periodo si rafforzavano certe amicizie. Padoan [Bruno Brilla, in seguito commissario del Distaccamento "Marco Agnese" della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"], Cigrè [Paolo Ferreri. Nato ad Alassio 17 giugno 1926. Del Distaccamento “Volantina”. Il 31 luglio 1944, assieme ad un compagno, ebbe l'incarico di scortare il commissario politico di un altro Distaccamento del Basso Piemonte. In seguito ad una delazione i tre furono intercettati dai soldati tedeschi sulla Colla (Colle San Bartolomeo), tra Cesio e Pieve di Teco. Catturato, venne fucilato sul posto, a Cesio, lo stesso giorno.], Badellino ** erano amici cari oltre a essere partigiani coraggiosi, sempre disponibili a dare una mano a tutti nelle difficoltà. Lo spirito di gruppo si rafforzava con diverse azioni come lo svuotamento di un vagone tedesco, fermo nella stazione di Andora (SV) e colmo di viveri destinati alle truppe germaniche, tra cui farina, zucchero, sigarette e liquori. Con una occupazione rocambolesca ad armi spianate, veniva invasa la stazione ferroviaria e venivano fermati tutti gli addetti, poi iniziava il trasporto delle merci requisite sopra un carro e avviato al comando.
Un’altra requisizione avveniva a Passo Rollo. Sopraggiungeva ed era fermato un camion che trasportava derrate alimentari. Uno dei tre tedeschi presenti sull’autocarro aveva una reazione scomposta e minacciosa per l’incolumità dei ribelli; i militi teutonici soccombevano sotto i colpi dei partigiani, che non erano sorpresi dal tentativo di replica. Poi il camion veniva condotto a Stellanello (SV) per lo svuotamento. Un buon rifornimento per le scarse provviste ribelli.
A metà settembre 1944 Leo partecipava alla grande beffa ai danni dei San Marco dislocati a Molino Nuovo di Andora (SV)  con una spericolata condotta. In breve: Giovanna Frau una ragazza spigliata, attrice dilettante nella locale compagnia teatrale, riusciva a circuire un tenente per una passeggiata.
Al ritorno nei pressi dell’accesso all’insediamento militare, entravano in azione dieci partigiani tra cui Nino Agnese (Marco) che sbucato dal buio, puntava una pistola alla schiena del sottufficiale.
Il graduato, facendosi riconoscere dalle sentinelle, permetteva l’irruzione partigiana nell’accampamento per una cospicua razzia di armi, munizioni, muli ecc. In più, un notevole gruppo di sanmarchini erano presi prigionieri, altri invece aderivano felicemente e si accodavano con i partigiani. Gli otto ribelli partecipanti oltre a Marco e Leo erano: Bruno Carrara (Spantegau), un certo Eros, Giuseppe Frau (Giuseppe), Paolo Lanteri (Carabinè o Biondo), Giulio Marchiano (Lucio), Vincenzo Marchiano (Ceno), Umberto Palermo (Palermo o Matto) e Domenico Pastorino (Rascel). 
Ferruccio Iebole, Leopoldo Fassio “Leo”, un partigiano, I Resistenti, ANPI Savona, n° 1 - Aprile 2019 

* I garibaldini Marco Agnese, Alessandro [Gino] Carminati, Celestino Rossignoli e Carlo Lombardi, che il giorno precedente erano stati inviati in missione, pernottano in un casone-fienile in Valle Steria, nei pressi di Riva Faraldi. Una delatrice segnala la loro presenza, ed all'alba del giorno 10 sono sorpresi nel sonno da una squadra della G.N.R., comandata da A.C., detto «Capitan Paella». Legati e torturati, sono trascinati presso la carrozzabile della borgata «Molino del Fico» e dopo un sommario interrogatorio vengono barbaramente massacrati a colpi di pugnale e con il calcio del fucile. Viene pure fucilato il civile Angelo Limarelli. Due partigiani di origine siciliana riescono a fuggire.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) Vol. II: Da giugno ad agosto 1944, volume edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992
 
Giovanni Molineri - Fonte: Giorgio Caudano, Op. cit. infra

Elio Castellaro - Fonte: Giorgio Caudano, Op. cit. infra

Antonio Terragno - Fonte: Giorgio Caudano, Op. cit. infra

Nella notte tra il 14 e il 15 settembre 1944 il distaccamento “Marco Agnese”, accampato presso il Santuario della Madonna di Degna, scende verso la località Molino Nuovo di Andora (SV) per fare prigionieri una guarnigione di militari della San Marco e procurarsi delle armi. L’azione riesce senza troppi problemi. Procurate le armi e incolonnati i prigionieri, i dieci garibaldini protagonisti dell’azione, Nino Agnese "Marco", Leopoldo Fassio "Leo", Bruno Carrara "Spantegau", un certo Eros, Giuseppe Frau "Giuseppe", Paolo Lanteri "Carabinè" o "Biondo", Giulio Marchiano "Lucio", Vincenzo Marchiano "Ceno", Umberto Palermo "Palermo" o "Matto" e Domenico Pastorino "Rascel", si allontanano per portare i prigionieri al comando di divisione. Alcuni marò della San Marco sono però sfuggiti alla catture riescono ad informare il proprio comando di quanto accadduto. Il maggiore Luigi Uccelli, il tenente Franco Martinola, il tenente Giulio Seth, il tenente Rodolfo Talamo, il sergente Bruno Carradori, il sergente Arturo Gazzarata organizzano in tutta fretta l’inseguimento dei disertori e fuggitivi, che avevano come meta le montagne sopra Degna (Casanova Lerrone), precisamente il Santuario Madonna di Degna. Verso le 9 del 15 settembre alcuni partigiani vengono intercettati nella zona di Degna, dove viene gravemente ferito Elio Castellaro, commissario del distaccamento "Domatore". Successivamente a Casanova Lerrone due compagnie della San Marco quasi al completo piombano su una pattuglia partigiana in avanscoperta. Lo scontro armato è breve, vista la netta superiorità numerica del nemico: cadono Antonio Terragno e Giovanni Molineri; Elio Castellaro, precedentemente ferito, viene fatto prigioniero e morirà tre giorni dopo all’ospedale di Albenga. Vengono catturati anche Franco Vaccani, Giacomo Bianchi, Giovanni Barale: i tre saranno fucilati il 19 settembre lungo le sponde del torrente Merula ad Andora. Viene catturato anche Angelo Rolando "Fanfulla" che riuscirà a evadere dalla prigione. Due giorni dopo viene catturato anche Carlo Fagnani, che, sbandatosi, si era rifugiato in zona: sarà passato per le armi in località Marmoreo lo stesso giorno della cattura.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020
 
[ n.d.r.: altri lavori di Giorgio Caudano: Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021;  La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944) (a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone), Comune di Pigna,  IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016 ]
 
L’allarme dato dai Sanmarchini una volta terminato l’attacco partigiano vedeva il comando di Stampino sparare con mortai sui fuggitivi per cercare di fermarli. Il maggiore Luigi Uccelli, il tenente Franco Martinola, il tenente Giulio Seth, il tenente Rodolfo Talamo, il sergente Bruno Carradori, il sergente Arturo Gazzarata organizzavano in tutta fretta l’inseguimento dei disertori e fuggitivi, che avevano come meta le montagne sopra Degna, in Casanova Lerrone (SV), precisamente  il Santuario Madonna di Degna. 
In mattinata, dopo aver camminato tutta la notte, alcuni ribelli in coda alla colonna si fermavano per riposarsi e ristorarsi tra gli olivi, quando vedevano arrivare i Sanmarchini inseguitori. Pensando a dei ritardatari, si avvicinavano per dare loro indicazioni per proseguire il cammino. Invece erano degli agguerriti e spietati predatori, che uccidevano in sequenza Giovanni Molineri (Barbisio) ed Antonio Terragno (Primula Rossa). Si salvava Giacomo Giaccone (Semeria). Lo scontro proseguiva per tutto il giorno e sfortunatamente erano presi prigionieri il savonese Franco Vaccani (Baldo), Giacomo Bianchi (Marinaio), Giovanni Barale (Giovanni), fucilati ad Andora (SV), e Angelo Rolando (Fanfulla), riuscito a scappare dalla prigione. 

Fonte: Ferruccio Iebole, art. cit.

Nel rastrellamento di quei giorni era ferito e moriva anche Elio Castellari (Janez),  grande comandante ribelle.
Leo ha serbato per oltre settant’anni la borsa medica in cuoio in cui Felice Cascione (U Megu)  conservava i ferri per la sua professione e portata anche ad Alto (CN), durante la precoce organizzazione e il comando delle prime bande resistenziali nell’Imperiese e nell’Albenganese.
Dopo la morte di Cascione il 27 gennaio 1944 a Case Fontane, la borsa veniva recapitata alla madre Maria Baiardo, che la conservava anche durante il suo segreto occultamento, in quanto ricercata dal regime fascista, a Villa Faraldi (IM), ospitata sotto falso nome in casa della famiglia antifascista Elena. Quando il rifugio, per ovvi motivi era divenuto pericoloso, la mamma di Felice aveva traslocato in luoghi più sicuri; la borsa era stata consegnata a Leo che la nascondeva presso uno zio Pietro Fassio [...].
Ferruccio Ieboleart. cit.
 
** Sandro Badellino, nato a Imperia il 20 settembre 1924, entra a far parte della Resistenza il 10 Maggio 1944, nella squadra comandata da Angelo Setti "Mirko", che opera nella zona del Monte Acquarone, tra la Valle Impero e la Val Caramagna. Dopo soli 20 giorni partecipa ad una prima fortunata azione alla Caserma "Siffredi" di Oneglia, che frutterà un buon bottino di armi. In seguito passerà nella formazione "Volante" di Silvio Bonfante "Cion" che opera nella Val Steria (Testico, Rossi, Stellanello), e nella "Volantina" del Comandante "Mancen" Massimo Gismondi <in seguito comandante della I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante">, Brigata nella quale Sandro sarà in seguito prima intendente e poi, verso la data della Liberazione, commissario. Ai primi di agosto 1944, durante uno scontro, subisce varie ferite che lo costringono convalescente per un mese dopo essere sfuggito alla cattura. Costretto nuovamente alla fuga dal suo rifugio in seguito ad una spiata, raggiunge il Bosco di Rezzo nella circostanza del famoso rastrellamento che si concluderà con la Battaglia di Monte Grande. Sebbene ferito, vi partecipa affiancando la squadra di mortaisti che, colpendo le postazioni tedesche da San Bernardo di Conio [Borgomaro (IM)], ebbe un ruolo determinante nella riuscita dell’operazione. Vittorio Detassis 

lunedì 4 gennaio 2021

Chiappa: eliminazione delle postazioni "San Marco"

Pairola, Frazione del Comune di San Bartolomeo al Mare (IM). Fonte: Mapio.net

Prima di descrivere la brillante operazione dei partigiani che, attraverso varie e fulminee fasi, ha inferto un grave colpo al nemico, è utile fare una premessa che permetterà una più precisa comprensione del fatto e delle sue cause.
Il mese di agosto [1944] rappresenta il culmine della forza partigiana.
Già in precedenza sono state ricordate le modifiche in atto nelle fila della Resistenza, il progressivo potenziamento che, timidamente iniziato nel mese di marzo con l'afflusso di giovani alle formazioni partigiane, si è molto accentuato negli ultimi mesi primaverili e nell'estate.
L'esercito nazista è incalzato in ogni luogo, pressato ed in ritirata da tutti i fronti di guerra, è quotidianamente attaccato e colpito all'interno dei territori occupati dalla crescente forza ed aggressività dei partigiani e dalla resistenza delle popolazioni oppresse. Gli ordini impartiti in forme sempre più decise e minacciose dai Comandi militari e delle SS non ottengono ormai più che scarsi effetti (1).
Vero è che, giornalmente, patrioti o semplici cittadini subiscono infamie e torture a non finire; è pure vero che s'intensifica l'attività delle organizzazioni spionistiche tedesche e fasciste che sarà fatale per tanta gente e che le carceri ed i concentramenti sono pieni zeppi di prigionieri destinati alla morte. Ma la situazione è quella che è: un crollo può avvenire da un momento all'altro e molti militanti nelle fila della Repubblica di Salò, inquadrati in vari reparti ben distinti da quelli famigerati delle Brigate Nere, sono ormai stanchi di restare passivi di fronte agli avvenimenti, d'attendere la fine della guerra con una divisa che sanno indegna e che hanno indossato a seguito di situazioni in cui non avevano chiari i concetti di onore e di patria. Pian piano schiudono gli occhi alla realtà. Una parte di questi giovani vorrebbe disertare, nascondersi e raggiungere la propria casa; un'altra parte, invece, intenderebbe disertare e passare nelle fila della Resistenza. Conseguentemente gli esodi diventano sempre più frequenti, onde fughe e segreti accordi con i partigiani per organizzare prelevamenti di reparti ed il loro trasferimento ai distaccamenti.
Naturalmente, queste azioni non sono facili e comportano dei rischi. C'è sempre, nel numero dei militari, chi la pensa diversamente; ci sono degli ufficiali e, insieme a loro, quasi sempre dei Tedeschi. È possibile incontrare una reazione, subire delle perdite, fallire lo scopo.
Ma l'azione del 28 agosto riesce a perfezione. È condotta da garibaldini coraggiosi, esperti e collaudati ai rischi.
Il 24 agosto dalla base di Valcona partono il Comandante «Cion» [Silvio Bonfante] con il vice commissario Ivar Oddone (Kimi), i garibaldini «Fiume», Ettore Bacigalupo, Agostino Calvo (Il Rosso), «Vittorio il Biondo» ed un nucleo d'assalto con «Mancen» [Massimo Gismondi].
La meta è Chiappa [Frazione del Comune di San Bartolomeo al Mare], in Val Steria, dove vi sono forti e munitissime postazioni della divisione «San Marco» (2), che rappresentano un notevole intralcio alle azioni volanti delle squadre partigiane operanti nella zona. Il fine consiste nell'eliminazione delle postazioni stesse.
I partigiani giungono sul luogo stabilito. Sono poco più di una decina e sanno, da informazioni, che la loro impresa si presenta di non facile attuazione. Ma «Cion» non è un comandante da intimorirsi, coraggioso com'è fino alla temerarietà, ed insiste verso gli altri affinché non deflettano dallo scopo. Infine, decisi, s'avviano verso il caposaldo dopo essersi uniti ad un'altra decina di garibaldini in missione nella zona.
La formazione si scinde e dà origine a due gruppi: il primo, guidao da «Cion» e da «Mancen», scende verso il paese percorrendo la via centrale; il secondo, al comando di «Kimi», prende la strada che fiancheggia l'abitato dalla parte destra. I due nuclei giungono alla prima posta quasi contemporaneamente al tramonto del sole verso le 19.
L'assalto è rapido ed i ventidue della «San Marco», sorpresi, neppure osano opporre resistenza.
L'altra postazione è ad un chilometro di distanza e consta di ventiquattro uomini.
«Kimi», «Mancen», «Ettore», «Grillo», «Totò», «Il Rosso» s'avviano veloci e, in breve tempo, saltando di fascia in fascia raggiungono il luogo.
Due sentinelle, atterrite dall'improvvisa comparsa dei Partigiani, si arrendono.
Nel frattempo, ignaro della presenza dei garibaldini, giunge un militare che è subito accerchiato e disarmato. Trattasi di Silvio Paloni il quale fornisce tutte le informazioni necessarie: precisa che la batteria è alla Rocca, che gli uomini sono ventiquattro e che alcuni Tedeschi alloggiano in due case, in posizione ben difendibile.
I partigiani si dividono in due gruppi di tre uomini ciascuno ed avanzano fino al luogo indicato. Si appostano e vedono i nemici intenti al rancio serale.
Paloni, poiché considera impossibile un attacco diretto, consiglia di parlamentare e si offre di fare da intermediario. Parte e ritorna con alcuni militi e con il sergente Facta, il quale chiede di quanta forza dispongano i garibaldini. Gli è risposto che all'esterno, ben appostati, stazionano molti partigiani!
Il sergente si avvia verso i suoi che si riuniscono in fretta nelle stanze inferiori, mentre alcuni aprono il fuoco nella direzione del gruppo di «Mancen».
I patrioti rispondono con raffiche di mitragliatore ed i sanmarchini cominciano a raccogliere le loro cose ed a fuggire. Alcuni abbandonano anche il fucile.
I garibaldini li inseguono e li catturano quasi al completo, senza subire alcuna perdita. Poi si dirigono verso la batteria e rendono inservibili i due cannoncini, privandoli dei pezzi necessari al funzionamento.
I tedeschi ed il tenente riescono a dileguarsi.
Sei partigiani hanno catturato una ventina di militari! Quindi si dirigono verso il gruppo comandato da «Cion » e tutti manifestano entusiasmo.
Ma non basta. A Pairola [Frazione del comune di San Bartolomeo al Mare], con lo stesso sbrigativo metodo, fanno venti prigionieri, si impadroniscono di due mortai e requisiscono alcun muli per il trasporto.
Il giorno dopo partono tutti per San Bernardo di Conio. La colonna è imponente: i garibaldini procedono con oltre sessanta prigionieri e con i muli carichi di armi, viveri, munizioni nonché di due mortai (4).
Quei due mortai, azionati dagli stessi uomini della «San Marco» con abilità eccezionale, alcuni giorni dopo, ed esattamente il 5 di settembre, contribuiranno in modo determinante alla vittoria garibaldina nella battaglia di Montegrande.
(1) Nel mese di agosto, da parte del Comando Tedesco viene affisso nella Provincia di Imperia il seguente manifesto:
«Italiani,
è volontà delle forze armate germaniche di portare la pace nel paese: tranquillità e ordine devono tornare ovunque. A questo scopo è stabilito che tutte le persone tornino entro il 1° settembre alle loro residenze abituali. In caso di disobbedienza a questa ordinanza le forze armate germaniche prenderanno le misure adatte contro le case e gli averi dei non ottemperanti.
Attraverso Badoglio che ha sospinto gli Italiani al fratricidio, un piccolo gruppo di senza onore, si è fatto spingere ad uccidere alle spalle portando nel popolo italiano la vergogna del banditismo di pretta marca slavo-comunista. Contro questi ribelli e contro tutti i sovversivi le forze armate germaniche attueranno i mezzi più repressivi e più duri. Chiunque sia in possesso di armi senza permesso sarà  fucilato sul posto. Consegnate le armi nascoste, segnalate i possessori di armi e i nascondigli nei quali esse sono occultate. Chiunque aiuti i banditi, chiunque lavori per i ribelli, li provveda di viveri, vestiti e alloggio, sarà fucilato sul posto.
Tutti gli italiani devono riprendere immediatamente il lavoro.
L'armata germanica ha dimostrato di aver mantenuto la promessa data agli italiani alleati di combattere a fianco di essi, per assicurare con questa lotta l'amicizia del popolo italiano e germanico.
Collaborate con essa per il bene della vostra Italia.
Agosto 1944                                                                                Il Comandante Germanico
(2) La Divisione fascista «San Marco», addestrata in Germania, prima al comando del generale Princivalle e poi del generale Amilcare Farina, collegata alla 341 Divisione germanica del generale Won Lieb che operava nell'imperiese, era stata dislocata fra Genova e Ventimiglia ai primi di agosto 1944. Alcuni suoi reparti erano giunti nel dianese il giorno 7 (vedasi F. Biga, Diano e Cervo nella Resistenza, pag. 118).
(3) Silvio Paloni entrerà nelle fila della Resistenza con lo pseudonimo di «Romano» e morirà a Ginestro il 27 gennaio 1945.
(4) Dalla relazione stilata dal comandante «Cion» alcuni giorni dopo l'azione risulta il seguente bottino: due mortai da 81 mm con un centinaio di granate, ottanta fucili ta-pum, moschetti e trenta pistole di calibro vario. Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992, pp. 366-369

Altura vicina a Chiappa, Frazione del Comune di San Bartolomeo al Mare (IM). Fonte: Mapio.net

Kimi
(Ivar Oddone) racconta:
Nella zona di Chiappa sopra Pairola stazionava un fortissimo gruppo del battaglione San Marco che vi aveva preso posizione ed aveva creato un munitissimo caposaldo.
Io e Cion ci trovavamo nella zona con una decina di uomini: era stato sempre nostro desiderio eliminare la postazione nemica che costituiva per le nostre squadre volanti una minaccia permanente, ma sapevamo, anche attraverso il rapporto  di due sanmarchini che avevano disertato unendosi a noi, che l'impresa non era di facile attuazione.
Ma Cion, sempre fiducioso nella sua buona stella e coraggioso fino alla temerarietà, insisteva nel tentare il colpo. Ci convinse alla fine: incorporammo nella nostra formazione altri dieci garibaldini che si trovavano in missione nella zona e si partì decisi a raggiungere il nostro scopo.
A poca distanza dal paese ci dividemmo. Cion, Mancen e alcuni altri scesero verso il paese per la strada di mezzo ed io col resto ci portammo alla destra dell'abitato. Giungemmo quasi contemporaneamente sulla prima postazione nemica. Erano le 7,30 pomeridiane ed il sole tramontava. Nella luce dorata balzammo sugli uomini, 22 in tutto, e li costringemmo alla resa senza che osassero opporre resistenza.
A un Km. circa di distanza vi era una seconda postazione con 24 uomini. Io, Mancen, Ettore Bacigalupo, Grillo, Totò e Rosso si partì di corsa. In pochi minuti, balzando di fascia in fascia, giungemmo sul posto. Due sentinelle ci videro sbucare come demoni dagli alberi al di sopra della postazione, che non avevamo ancora individuato, e, annichiliti, si arresero.
Nello stesso istanie scorgemmo un uomo venir verso di noi ignaro di ciò che stava accadendo. Lo circondammo e lo disarmammo. Era Romano un milite della Sanmarco che passò nelle nostre file e cadde da eroe l'inverno successivo.
Romano si unì a noi e ci informò che la batteria era a Roccà e gli uomini, 24 militi e alcuni tedeschi, alloggiavano in due case in posizione molto forte. Ci dividemmo in due piccoli gruppi di tre uomini ciascuno ed avanzammo.
Giunti sul posto ci appostammo fra le fasce: vedevamo le teste dei nemici affaccendati intorno al loro rancio serale. Romano ci consigliò di parlamentare: tentare un attacco gli pareva impossibile. Acconsentimmo. Egli discese e ritornò poco dopo col sergente Facta e due uomini. Cominciarono le trattative. Il sergente ci chiese qual'era la nostra forza: risposi, con una faccia tosta invidiabile, che si era 250, ben armati ed in ottima posizione. Il sergente ritornò alla postazione e subito dopo scorgemmo gli uomini raccogliersi in fretta sulle fasce basse mentre alcuni tiravano nella nostra direzione. Rispondemmo: poche scariche e poi i Sanmarchini cominciarono a far fagotto ed a fuggire, taluni abbandonando anche il fucile. Noi uscimmo dai nostri rifugi e li inseguimmo per poco lungo le fasce e li catturammo quasi tutti senza subire alcuna perdita. Solo i pochi tedeschi ed il tenente riuscirono a dileguarsi.
Coi nostri prigionieri ritornammo alla postazione e catturammo i due cannoncini della batteria che smontammo e rendemmo inservibili.
In sei avevamo catturato quasi venti uomini che uniti agli altri presi in precedenza costituivano un gruppo di oltre 40 prigionieri, il doppio della nostra forza complessiva.
Ci riunimmo a Cion e, entusiasmati dal successo, decidemmo di portarci a Pairola dove con lo stesso metodo sbrigativo catturammo quella postazione impadronendoci di un mortaio e di altri 20 prigionieri.
Requisimmo alcuni muli, li caricammo delle armi, munizioni e viveri catturati, inquadrammo i prigionieri e ci avviammo verso Stellanello.
Intanto Cion con un gruppo di pochi uomini decise di tentare un altro colpo per completare la vittoria.
Era una notte soffocante di agosto, senza luna: si marciava a fatica sui sentieri tortuosi e bui: impiegammo un tempo interminabile per raggiungere Stellanello: qui ci raggiunse Cion con due mortai e altri 18 decimini catturati.
L'indomani raccogliemmo sul posto numerose squadre di garibaldini e partimmo verso la base.
Formavamo una colonna imponente: 130 garibaldini, 80 prigionieri, 2 mortai e numerosi muli carichi.
Sfilavamo lungo le creste montane cantando: era in noi il presagio della vittoria e su di noi vegliava lo spirito glorioso dei nostri morti.
Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, pp. 167,168 
 
Il 24 agosto 1944 dalla base di Valcona partirono il Comandante “Cion” con il vice commissario, alcuni garibaldini, tra cui Ettore Bacigalupo, ed un nucleo d’assalto di “Mancen” alla volta di Chiappa in Val Steria con l’intento di eliminare le postazioni della San Marco che erano di notevole intralcio alle azioni delle squadre partigiane operanti in zona. I partigiani, dopo essersi uniti ad un’altra decina di garibaldini in missione in zona, si avviarono verso il caposaldo. La formazione si divise in due gruppi e, percorrendo strade diverse, raggiunsero la postazione quasi contemporaneamente intorno alle 19. L’assalto fu talmente rapido che i ventidue sanmarco non riuscirono ad opporre resistenza.
Capitanati da “Mancen” cinque partigiani si avviarono verso l’altra postazione distante circa un chilometro; anche in questo frangente le sentinelle, colte di sorpresa, si arresero. Nel frattempo, ignaro della presenza dei partigiani, giunse il militare Silvio Paloni: venne disarmato e fornì le informazioni necessarie. Poiché ritenne impossibile un attacco diretto, consigliò di parlamentare e si offrì di fare da intermediario. Partì e ritornò con due militi e un sergente il quale si informò sulla forza numerica dei garibaldini. Gli venne risposto che, bene appostati, stazionavano 250 partigiani. Il sergente si avviò verso i suoi che si riunirono nelle fasce e aprirono il fuoco in direzione del gruppo di “Mancen” il quale rispose con raffiche di mitragliatore. I sanmarchini si dettero alla fuga; i garibaldini li inseguirono, li catturarono quasi al completo, senza subire alcuna perdita; inoltre resero inservibili due cannoncini sottraendone alcuni pezzi. (Sei partigiani catturarono una ventina di militari). A Pairola, applicando lo stesso metodo, i partigiani fecero venti prigionieri e si impadronirono di due mortai. Il giorno dopo partirono tutti per San Bernardo di Conio con sessanta prigionieri, armi, viveri, munizioni e due mortai che, azionati dagli stessi uomini della San Marco, alcuni giorni dopo contribuirono in maniera determinante alla vittoria garibaldina nella battaglia di Montegrande.
Redazione, Arrivano i Partigiani. Inserto 2. "Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I Resistenti, ANPI Savona, numero speciale, 2011