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martedì 17 settembre 2024

Due capi banda si suicidarono per non cadere nelle nostre mani

Villatalla, frazione di Prelà (IM). Fonte: ErmaAnna/Flickr

Il 25 gennaio, il partigiano Ferrero (Tom o Staffetta Gambadilegno), del X° Distaccamento "Walter Berio", catturato dal nemico il giorno 17 (come abbiamo già ricordato) e rimasto ferito, viene medicato, sottoposto a  duri interrogatori, tradisce i compagni poiché conduce i fascisti nella tana che nascondeva il Distaccamento e che lui stesso aveva aiutato a costruire. Così cadono in mano al nemico ben undici garibaldini, tra cui il comandante Vittorio Aliprandi (Dimitri) e il commissario Nello Bruno (Merlo), i quali preferiscono togliersi la vita piuttosto di arrendersi. Sette di loro saranno fucilati ad Oneglia e due a Torretta di Vasia.
[...] Ma vediamo nei dettagli il triste episodio dalla relazione del vice commissario della IV° Brigata Gino Gerini.
“La Brigata è in stato di sfacello, in un solo mese ha avuto quasi un centinaio di caduti, più di un terzo dei suoi effettivi, già ridotti dalle gravi perdite precedenti e da alcuni defezioni. Tutto intorno ai superstiti, il nemico aveva posto un cordone di sicurezza; li aveva tagliati in tronconi, senza possibilità di ricongiungersi o mantenere i collegamenti. Si era infiltrato dappertutto presidiando i centri vitali. Fu il momento più terribile della lotta. I partigiani prevedevano l'annientamento definitivo poiché non avevano quasi più munizioni, nè viveri, nè indumenti. Non erano più una formazione, ma una massa di poveri esseri laceri e sfiniti in cui soltanto lo spirito continuava a vivere indomabile. Si erano divisi in gruppi per sfuggire alla continua sorveglianza nemica. Gruppi di cinque o sei uomini, dieci o dodici al massimo, che si aggiravano senza meta fra i boschi, rupi e burroni, come fantasmi. Il X Distaccamento “Walter Berio” era stato decimato come tutti gli altri. Un piccolo gruppo del Distaccamento stesso, undici uomini in tutto, con a capo “Dimitri” e “Merlo” (quest'ultimo uno dei più vecchi garibaldini), si era portato in una località tra Pantasina e Villatalla [frazione del comune di Prelà (IM)], in un fondovalle presso un ruscello incassato tra pendii scoscesi, rivestiti di boschi, dove era stata adattata una caverna a rifugio. Il luogo sembrava sicuro, un muro a secco era stato eretto all'entrata della tana, ove la vita trascorreva orribile per il fango e l'umidità. Ma gli uomini resistevano nella speranza di poter ricongiungersi ai compagni e riprendere la lotta interrotta. Il famigerato capitano Giovanni Ferraris, con i suoi uomini della compagnia “Senza Patria”, rastrellatori di Imperia, battevano la campagna. Era un feroce masnadiero ed i suoi sgherri formavano la più spietata banda di aguzzini. Derubavano i contadini, terrorizzavano, seviziavano ed uccidevano con un sadismo inumano.Naturalmente le spie e i traditori non mancavano. Erano in ogni luogo: gente che si vendeva per denaro sempre, tavolta per odio. Il giorno 25 gennaio 1945, Ferraris va su a Villatalla con le squadre. Le notizie che egli ha sono sicure, perché circonda il vallone dove stavano i partigiani ed incomincia a batterlo. Il Distaccamento si rifugia nella caverna: pensare di resistere è impossibile, non vi sono armi automatiche, i fucili sono scarichi, le sole rivoltelle, alcune delle quali inservibili, hanno qualche pallottola. I giovani si uniscono e attendono nella speranza di non venire scoperti. Sentono i passi dei fascisti che vanno avanti e indietro e ne seguono con ansia tutti i movimenti. Poi odono il rumore delle pietre smosse e vedono filtrare nella tana la luce del giorno: è la fine! Impugnano le armi e tirano, dal di fuori si risponde con il lancio di bombe a mano che feriscono quasi tutti i partigiani. Le munizioni sono esaurite. “Dimitri” e “Merlo” sono per una sortita in massa, ma gli altri non si reggono in piedi, alcuni non possono più muoversi. Il nemico, che fuori schiamazza e insulta, ma non osa entrare, esulta perché sa di aver vinto. I due capi compiono il gesto eroico: salutano i compagni uno ad uno, poi, addossatisi alla parete della caverna, si sopprimono con i due ultimi colpi rimastigli. Il nemico sente i colpi. Intuisce quello che sta avvenendo. Dopo aver esitato ancora e quindi scaricate le armi all'interno della caverna senza avere ottenuto risposta, irrompe fulmineamente nel rifugio. Vi trova due partigiani morti e altri nove feriti. Ma né  l'eroismo né la maestà della morte valgono a mitigare la loro ferocia. I garibaldini, vivi o morti, sono spogliati, insultati e percossi. I superstiti vengono legati e, tra gli scherni della soldataglia, avviati verso il paese. Due giorni dopo un gruppo di partigiani, informati dell'accaduto, si recano a recuperare le salme dei due compagni caduti. “Dimitri” e “Merlo” giacevano ove si erano uccisi, quasi nudi e senza scarpe. Sul corpo di “Dimitri” c'era un pezzo di carta con scritte poche e turpi parole che dicevano: “Questa è la sorte che toccherà a tutti i banditi”. E più sotto il nome di un partigiano con la postilla: “Anche tu farai la stessa fine”. Le salme furono poste sopra due barelle fabbricate con rami intrecciati e portati nel cimitero di Villatalla dove vennero seppellite. Gli accompagnatori andavano su per un sentiero alpestre, muti e commossi. A metà strada un vecchio andò loro incontro, fu riconosciuto, era il padre di “Dimitri”. Si fermò,i suoi occhi erano fissi, sbarrati, sulle rozze portantine. Intuì che suo figlio era lì, esanime. Senza un grido, senza una lacrima, come se il dolore lo avesse impietrito, con un balzo si gettò sul corpo del figlio e lo abbracciò. Poi cadde svenuto. I nove prigionieri furono trasportati ad Imperia, torturati e in seguito fucilati...".
Tra questi ricordiamo: Carletti Doriano (Misar), Giuseppe De Lauro (Venezia), Luigi Guareschi (Camillo), Vincenzo Faralli (Camogli), il russo Nicolay Gabrielovic Poronof (Tenente Nicolay). Di essi daremo altri ragguagli in seguito.
Il 27 il tempo si guasta, piovaschi e nebbia. Si sente una sparatoria, il nemnico rastrella Pietrabruna e dintorni. Partigiani del primo Battaglione, che si trovano nella zona, si portano in cresta dove preparano una postazione per la mitragliatrice che hanno in dotazione.
Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV: Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 89-92

Annibale Agostini, nato a Genova il 13 maggio 1911, agente in servizio presso la Squadra Antiribelli della Questura di Imperia
Interrogatorio del 10.10.1945:
"[...] Ammetto di aver preso parte al rastrellamento avvenuto a gennaio u.s. in Villatalla ove furono catturati 9 partigiani e due capi banda si suicidarono per non cadere nelle nostre mani. Tale rastrellamento venne effettuato su indicazioni fornite da un partigiano a nome Ferrero, il quale ci accompagnò sul posto. I 9 partigiani catturati nella predetta azione erano 7 italiani e due russi. Gli italiani furono consegnati alla Questura e nei verbali vennero indicati come prigionieri dei partigiani da noi liberati, in quanto appartenenti all’esercito repubblicano. Seppi in seguito che cinque dei fermati vennero uccisi dai tedeschi per rappresaglia come da manifesti affissi sui muri della città [Imperia]. Non sapevo che anche i due russi vennero fucilati dai tedeschi. Dall’esame degli atti della questura sarà possibile accertare che cercai di salvare i predetti facendoli figurare come elementi prelevati e tenuti prigionieri dai partigiani.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia,  StreetLib, Milano, 2019

... un reparto della Brigata Nera con elementi della polizia dipendenti dalla Questura eseguiva azione di rastrellamento in territorio di Vasia, Pantasina, Arborei, riuscendo a catturare nove partigiani, fra cui due di nazionalità russa. Un capo banda ed un commissario politico per evitare l'arresto si suicidavano, sparandosi un colpo di pistola alla tempia.
Sergiacomi, Questore di Imperia, Al capo della Polizia - Sede di campagna (visto di arrivo del Ministero dell'Interno della RSI in data 7 marzo 1945), Relazione mensile sulla situazione politica, militare ed economica della Provincia di Imperia, 1 febbraio 1945  - XXIII°

venerdì 19 luglio 2024

Quel giorno dovevano salire i Tedeschi in paese

Viozene, Frazione del Comune di Ormea (CN). Foto: Arbenganese. Fonte: Wikimedia

Nella notte dal 5/6 dicembre 1944 alcune donne, giunte da Ponte di Nava, recano la notizia che il giorno dopo i Tedeschi sarebbero saliti a Viozene [Frazione del Comune di Ormea (CN)] ed io fui informato di ciò.
Il mattino seguente, dopo aver celebrato la Santa Messa, uscito fuori della chiesa fui colpito da uno strano ed insolito silenzio che regnava in paese. Domandato il motivo mi fu risposto che quel giorno dovevano salire i Tedeschi in paese e che a quella notizia, portata a Viozene nella notte, quasi tutti i partigiani e la popolazione erano fuggiti prima che facesse giorno.
Avevo dormito nella vecchia canonica attigua alla chiesa, ma alla notizia mi recai nella nuova per dare l'allarme in caso vi si trovassero ancora delle persone. Trovai l'edificio aperto e vuoto mentre i pochi partigiani ammalati si erano già allontanati, lasciando tuttavia chiari segni della loro presenza in passato. Allora cercai di far sparire ogni traccia sospetta, specialmente nel salone del primo piano adibito ad infermeria, quindi ritornai in chiesa in attesa di eventi.
Nel primo mattino, mentre le persone rimaste stavano chiuse in casa, un gruppo di partigiani di stanza in Pian Rosso, tra cui un certo Gian Luigi Martini di Diano Marina ed un certo Ramoino di Cesio, forse ignari dell'allarme della notte precedente, scesero in paese in cerca di viveri. La popolazione diede loro tutto il necessario purchè si allontanassero subito, dato il pericolo incombente; così non tardarono a riprendere la via di Pian Rosso, quantunque considerassero con scetticismo la paura dei Viozenesi. Appena giunsero in località Baraccone, ove ha inizio il sentiero che sale a Pian Rosso, dalla Costa del Pagano, di fianco a Viozene, dalle fasce allora coltivate, all’altezza della Borgata Toria, incominciò un infernale fuoco di mitragliatrici e di altre armi da fuoco tedesche.
I Tedeschi (come dopo si seppe) dalle prime ore del mattino si erano appostati in quel posto da cui si poteva avere sott’occhio tutta Viozene e la zona circostante. Ai primi colpi sparati, il Martino sopraddetto incominciò a zoppicare: era stato colpito da una pallottola ai piedi e si diresse, camminando come poteva, verso la Borgata Mussi, preceduto da un suo compagno di Genova.
Il Ramorino, con altri compagni, si precipitò a valle verso il Negrone e con quanti erano con lui riuscì a mettersi in salvo nella zona di Pian Cavallo. Il Martino ed il suo compagno, mentre stavano fuggendo verso la Borgata Mussi, si imbatterono in una formazione di Tedeschi appostati nei pressi di detta Borgata.
La zona di Viozene, con un piano ben premeditato, era stata chiusa, fin dalle prime ore, in una ferrea morsa da Tedeschi provenienti da Ponti di Nava e da Upega. I due furono immediatamente fucilati sul posto: il compagno del Martino (di cui lo scrivente non ha potuto conoscere il nome) sul sentiero che da Viozene porta ai Mussi, proprio nel punto in cui il ruscello attraversa detto sentiero; il Martino che seguiva a distanza, essendo ferito ai piedi, un po’ più avanti verso Viozene, al di sopra dello stesso sentiero. Una croce di legno fu posta per entrambi sul luogo ove furono fucilati.
Per tutta la giornata continuarono gli spari e le raffiche tedesche in tutte le direzioni, tra il terrore della popolazione rimasta in paese, chiusa nelle loro case, in attesa di qualche tragico destino. Verso sera i Tedeschi, muovendo dai Mussi e da Toria, si riunirono in Viozene.
Il Parroco sottoscritto, subito ricercato, fu appoggiato al muro della Chiesa per essere fucilato. Gli scarponi militari ed altri indumenti, avuti in cambio da soldati italiani di passaggio, che gli trovarono addosso, dopo avergli aperto la talare, furono sufficienti cause della sua condanna. Mentre già il gruppo di soldati Tedeschi stava estraendo le pistole, uno scoppio fortissimo, a brevissima distanza, li mise nello scompiglio e li fece momentaneamente fuggire in cerca di un rifugio. Il sottoscritto approfittò di questo momento di confusione per fuggire anche lui e andò a nascondersi in un oscuro angolo in fondo alla Chiesa. Ricercato poco dopo, non fu ritrovato dai Tedeschi, i quali dalla Chiesa entrarono nella Sacrestia e di qui nella vicina Canonica mettendo a soqquadro e distruggendo ogni cosa.
Tutti gli uomini trovati in paese furono, a forza, fatti uscire dalle loro case e condotti, tutti insieme, in un prato nel centro dell’abitato (nel luogo ove fu costruita la casa del Sig. Dulbecco) davanti ad un nido di mitragliatrici; intanto la soldataglia, entrata nelle case, faceva man bassa di quanto trovava e rubava il poco bestiame della popolazione. Fatto bottino di quanto ancora trovarono in Paese, i Tedeschi presero la via di Ponti di Nava.
Si seppe poi anche che essi al mattino, salendo a Viozene, avevano ucciso un innocente individuo, residente in una Borgata di Ormea, il quale stava scendendo verso Ponti di Nava e di cui il sottoscritto non sa il nome. Fu ucciso dai Tedeschi a Rio Bianco ed ivi rimase seppellito (nella nuda terra) fino al termine della guerra.
La giornata si chiuse tra il terrore della popolazione, privata di tutto il bestiame che ancora le era rimasto e nella pesante incertezza sulla sorte di quanti erano fuggiti.
Per fortuna in quella triste giornata Viozene non ebbe a subire perdite tra la popolazione.
I fuggiti di casa, specialmente i giovani, rimasero tutto il giorno nascosti nei cespugli, nelle caverne e negli anfratti di Pian Cavallo e del Mongioie, donde potevano seguire le mosse dei Tedeschi. Questi, però, due giorni dopo, l’8 dicembre, fecero ritorno a Viozene e vi rimasero fino alla fine del mese. Imposero il coprifuoco nelle ore notturne ed entravano sovente nelle case private ordinando da mangiare ed imponendo che fosse loro preparato ciò che da essi veniva stabilito.
In quei giorni venne devastata la Canonica di Viozene (Villa Bottaro), quella che era stata adibita ad ospedale. I Tedeschi la resero inabitabile, rompendo finestre, porte, mobili, portando via coperte, biancheria ed altri oggetti.
Non soltanto in quel periodo i Tedeschi rimasero in Viozene, ma giorno e notte mantennero, fino a quando se ne andarono, un rigoroso controllo dei valichi delle Saline e del Bocchin dell’Aseo. In quel tempo essi avevano lanciato un forte attacco contro i Partigiani delle Valli Ellero e Corsaglia. Molti cercavano di porsi in salvo verso Viozene attraverso i valichi sopraddetti ed inconsciamente venivano a cadere nelle mani dei Tedeschi che, legati con delle corde, a piccoli gruppi, li conducevano a Viozene e di lì ai forti di Nava, ove venivano fucilati. Questa fu la sorte di tanti giovani di cui le famiglie ignorarono per sempre il luogo ed il genere di morte che ebbero a subire.
Verso la fine di dicembre tutti i Tedeschi ritornarono a Ponti di Nava. La popolazione derubata dai Tedeschi del bestiame e degli scarsi prodotti agricoli (avena, grano, patate) si dibatteva nella penuria, sempre più carente di viveri; unico sostentamento erano le patate.
Don Paolo Regis, Diari, A Vaštéra, Anno XXII - Primavera - Estate 2012

lunedì 25 settembre 2023

Hanno detto che i tedeschi hanno i cani da guerra

La Val Lerrone. Fonte: mapio.net

Verso sera [6 marzo 1945] al comando [della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] di Poggiobottaro si venne a sapere che a Cesio c'erano quattrocento tedeschi. La notizia meritava di essere considerata attentamente. Cesio era un piccolo paese sulla «28». Difficilmente si sarebbe prestato ad alloggiare tante persone oltre al normale presidio di Brigate Nere. Perché i tedeschi non avevano proseguito per Pieve? Una puntata nemica da Cesio sarebbe stata facile: dal paese partiva una carrozzabile per la Val Lerrone ed un'altra portava a Testico e di là, in cresta, fino ad Alassio. Più difficile era che il nemico conoscesse con esattezza la sede del comando, ma dopo tanto tempo di permanenza nello stesso posto, non si poteva escluderlo. Varie proposte consigliate dal buon senso vengono esaminate. Si potrebbe montare la guardia poiché tra noi e Cesio non c'è nessuna banda. Si potrebbe partire per una, meno minacciata, subito, o verso le tre di notte, dopo sorta la luna. Le varie soluzioni non vengono accettate, soffocate da una sorta di fatalismo, poi alla cosa viene dato un tono scherzoso, la minaccia viene volutamente accentuata per impressionare chi riteniamo più degli altri impressionabile.
«Hanno detto che hanno i cani da guerra, lo ha riferito un contadino che è arrivato ora da Cesio, è una cosa seccante». Guardo Vittorio, il padrone di casa che, in cambio dell'ospitalità, vuole essere considerato partigiano anche lui. Noi avevamo acconsentito volentieri perché in verità condivideva molti dei nostri rischi, però pensavamo, forse a torto, che in lui non vi fosse la stoffa del partigiano. Ho l'impressione che la notizia sia diretta a lui, vedo che si controlla bene, ma ha gli occhi lucenti, attenti. «E come li impiegano i cani da guerra? Non sentiranno mica i partigiani dall'odore?». Chiede con voce che sembra indifferente. «No, il cane non distingue il partigiano dal contadino» - spiega Livio - «i tedeschi quando giungono in paese di notte lanciano i cani lupo per le strade e chiunque esca di casa viene azzannato. I soldati intanto perquisiscono sicuri che nessuno possa scappare». «Anche ad Alba li hanno impiegati» - aggiungo io - «a Degolla li hanno lanciati contro i partigiani che sparavano distesi per terra: è un brutto affare, se stai in piedi i tedeschi ti vedono, se ti stendi i cani ti addentano alla gola». «Sapete la storia del Monco?». Racconta Giorgio. «In quel di Triora, prima dell'ultimo rastrellamento avevano detto che era un tedesco delle SS che aveva ammaestrato i cani da guerra. I cani sentivano l'odore dei partigiani e scoprivano i rifugi. Il Monco li seguiva e con un uncino, perché era mutilato di una mano, tirava fuori i partigiani dalle tane. Quando il rastrellamento comincia due partigiani, che sapevano la storia del Monco, si nascondono in un rifugio. Dopo qualche tempo sentono un cane ansare fuori dell'apertura. Che sia la bestia del Monco? Due mani escono dal rifugio, il cane è afferrato per la gola, strozzato, tirato dentro. Tre giorni sono vissuti i due nella tana con la bestia morta: era un povero cane da pastore perché il Monco non era mai esistito».
Era abitudine dei partigiani essere spietati con coloro cbe dimostravano qualche timore. Venivano spaventati al punto che non distinguevano più il vero dal falso. Ricordavo uno della Matteotti: Lupo; dopo averlo preparato a dovere con vari racconti di torture e fucilazioni avevamo finto un imminente attacco tedesco e lo avevamo mandato solo in esplorazione. Non era più tornato.
Pure quella sera i tedeschi di Cesio non erano una fantasia. Pensavo al rapporto che ci era pervenuto dopo Upega: «E' possibile dopo un anno di vita partigiana essere ancora sorpresi?». Era ancora possibile.
La notte passò tranquilla per quanto il mio sonno leggero venisse più volte interrotto dal canto di un gallo.
Il giorno 7 torno a Segua [Frazione di Casanova Lerrone (SV)] e l'8 vado al recapito staffette di Ginestro per vedere se hanno preparato i conti. Al recapito trovo un francese che giorni prima era passato da Segua. «Sei ancora qui?» gli chiedo. «Si è accorto che può mangiare e non far niente ed è ormai impossibile mandarlo via» mi dice una staffetta. Il francese era un giovane biondo, robusto, pareva più un tedesco che un latino, era un tipo singolare. Era passato da Segua con un telo da tenda sulle spalle. «Ho visto un contadino che batteva l'ulivo raccogliendo i frutti nel telo. Militare, gli ho detto io, ed ho preso il telo» - così aveva raccontato - «quello mi è corso dietro dicendo che lo aveva pagato, ma io sono stato buono e non gli ho dato niente».
«Poteva averlo pagato davvero» aveva detto Bertumelin indignato.
«E poi col mangiare e con l'alloggio che vi diamo mi sembra che possiamo averceli guadagnati dei teli e delle coperte militari che a voi non servono». «Potevo anch'io pagarlo con questa» aveva replicato il francese mostrando la rivoltella; «ma non l'ho fatto perché ero di buon umore».
«Come è che sei in Italia?», gli chiesi.« Affondato nel '40 con la mia nave presso Piombino. Fino al '43 prigioniero, adesso libero».
«Sarai contento di tornare a casa fra qualche mese a guerra finita?».
«Fra qualche mese? Troppo presto... Dovrò lavorare di nuovo, è più bello fare la guerra». «E gli altri cinque che vi ho mandato giorni fa?» chiesi alla staffetta.
«Li ho portati alla Cascione, avevano fretta di tornare in Francia. Appena fusa la neve cercheranno di passare».
Anche quelli li avevo visti a Segua: erano aviatori abbattuti: «Se i tedeschi ci prendono dico che sono canadese», aveva detto uno di loro. «Un mio compagno è stato tagliato con la sega circolare perché era francese».
La pattuglia dei ciclisti tedeschi continuò a percorrere la Val Lerrone sempre più spesso. Passò il 6, l'8, il 13. Il giorno 8 giunsero anche cani con tedeschi che requisivano fieno. La ricostruzione del ponte di Garlenda proseguiva lentamente, l'inattività partigiana cominciava a pesare, i borghesi, che all'inizio erano atterriti, temendo che tendessimo qualche imboscata alla pattuglia, cominciavano ora a parlare di accordi segreti, di compromessi fra noi ed i tedeschi. Una squadra della banda di Rostida, decisa a por fine a questo stato di inferiorità, si appostò a Case Soprane in attesa della pattuglia. I borghesi ripiombarono nel terrore e prima avvertirono i nostri dell'arrivo dei tedeschi, poi, visto che i partigiani non scappavano, andarono ad avvertire i tedeschi facendo fallire l'imboscata. Il Comando divisionale fece rientrare alla base la squadra che per rappresaglia stava requisendo galline e conigli.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980,  pp. 163-167, pp. 196-199

7 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 183, alla banda locale di Ginestro - Disponeva la presenza di una pattuglia sul Passo di Cesio per il giorno successivo dalle ore 23 alle ore 9 e la segnalazione di allarme al Distaccamento garibaldino più vicino una volta avvistati i nemici che lungo la strada di Testico, non transitabile da automezzi, sarebbero necessariamente saliti a piedi.
8 marzo 1945 - Dal comando del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che il 1 marzo il Distaccamento con l'ausilio di civili aveva effettuato il diroccamento del ponte di Degna e che il giorno 5 aveva fatto brillare con 3 mine il ponte di Garlenda "rendendolo inutilizzabile".
13 marzo 1945 - Dallo Stato Maggiore della Divisione "Silvio Bonfante" avviso n° 1 alla popolazione costiera - "Si invita la popolazione ad allontanarsi dagli obiettivi militari. Si consiglia di annotare i luoghi abitati da tedeschi e fascisti e di tenere sotto sorveglianza la Feldgendarmerie".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

martedì 22 agosto 2023

Quella mattina anche noi nel rifugio avevamo sentito alle 8.40 le prime raffiche di mitraglia forti e vicinissime

La zona di Testico (SV). Foto: Eleonora Maini

"Che sarebbe stato se il nemico fosse riuscito a colpire [n.d.r.: a Testico (SV), il 15 aprile 1945] Giorgio [n.d.r.: Giorgio Olivero, comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] o Pantera [n.d.r.: Luigi Massabò, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"], a scoprire la sede del Comando catturando documenti e materiale? Come si sarebbe ripresa la Bonfante in pochi giorni, ora che l'azione decisiva sembra imminente?" Erano le domande che pose Mario [n.d.r.: Carlo De Lucis, commissario della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] nel pomeriggio di quel giorno. "Non ci ha insegnato nulla il disastro di Upega? Ricordate la circolare del Comando regionale di allora? E' mai possibile dopo un anno di lotta partigiana essere sorpresi? Così ad Upega, solo il caso e la fortuna vi hanno salvato oggi. Quando ieri sera ho chiesto chi voleva venire con me in rifugio non mi avete seguito. Vi pareva che fosse paura o eccesso di prudenza il non voler abbandonare ancora la tattica cospirativa. Avete visto. Non si tratta di paura o di coraggio, non siete padroni di esporvi senza ragione, le vostre vite sono troppo preziose per il movimento per sacrificarle per dormire in un letto".
Giorgio taceva, infatti non c'era nulla da opporre a quella requisitoria chiara ed inesorabile: il rifugio era stato costruito con ogni cura, era uno scavo di quattro metri per quattro, profondo due metri, rivestito di pietra, coperto di lamiera e di terra. Vi si accedeva per uno stretto corridoio la cui entrata era chiudibile con un cespuglio. La terra sopra il rifugio era coltivata. Nell'interno su telai in legno vi erano materassi per molte persone. Nelle pareti vi erano nicchie per le future radio trasmittenti. Come si vede si era ben lontani dalle umide tane in cui avevano vissuto per settimane i partigiani dei periodi più duri dell'inverno. Il rifugio era stato costruito da contadini cui il Comando aveva spiegato la delicatezza dell'incarico, l'alta prova di fiducia, le benemerenze che acquistavano nonché la possibilità di rappresaglie. Alcuni dei costruttori erano muti per sempre: erano tra gli ostaggi massacrati il giorno 15.
Se un appunto si può fare al rifugio era che era stato costruito troppo tardi. Il pericolo che gravava su Poggiobottaro era lo stesso che lo aveva minacciato da dicembre, da quando la circolare 23 aveva raccomandato la costruzione dei rifugi. Era ovvio che, dopo averne fatto a meno per tanti mesi, nel clima di euforia della primavera se ne sentisse meno la necessità. Io però l'avevo pensata diversamente. Tutte le volte che avevo dovuto dormire a Poggiobottaro mi ero trovato a disagio e mi era parso saggio, dato che dopo tanto un rifugio c'era, servirmene quella sera assieme a Mario.
Forse la situazione era migliorata, un attacco nemico poco probabile, ma non mi sarebbe piaciuto perdere alla vigilia della fine una vita che avevo salvato attraverso tante peripezie.
Quella mattina anche noi nel rifugio avevamo sentito alle 8.40 le prime raffiche di mitraglia forti e vicinissime. Eravamo rimasti stesi sui nostri materassi senza parlare, senza poter fare nulla. Fino alle 9.15 a brevi intervalli avevamo udito colpi, spari isolati ed altre raffiche. Chi soffriva di più era Sergio Sibelli del C.L.N. di Alassio che non pareva abituato ai rumori della guerra. "Come fate voi a restare calmi. Io vorrei non essermi mosso da casa", mi sussurrava a bassa voce. "E' questione di abitudine. Io è la prima volta che sento sparare sentendomi quasi al sicuro", gli risposi e aggiunsi "Non riuscirei invece a dormire come fate voi, in città con armi e manifestini nascosti in casa, sapendo che una spia potrebbe farmi prendere a letto".
Uscimmo alle 13.30 quando gli spari erano cessati e qualcuno da fuori si ricordò di noi e venne ad avvertirci.
L'incursione di Testico aveva rivelato che la potenza della Wehrmacht era al tramonto. Lo spionaggio del disertore tedesco e la conseguente condanna delle persone che ci avevano aiutato, se erano state condotte con abilità e prontezza, non raggiunsero, però, lo scopo che forse il nemico si riprometteva. La rapidità dello sgombero, l'essersi coperti con i civili, la mancanza di un bando, di un annuncio qualunque che dessero alla strage il carattere di una condanna, la brutalità stessa dell'esecuzione che dilaniò i cadaveri con proiettili esplosivi, diede all'azione un carattere di rabbiosa vendetta più che di giustizia, fu un gesto da banditi che rivelava una grave debolezza. I tedeschi per esercitare la loro legge dovevano adottare ormai anche loro i metodi che noi impiegavamo da tempo in Riviera, segno che la supremazia della loro forza si avvicinava al tramonto. In più noi portavamo, quando possibile, i colpevoli nelle nostre vallate per sottoporli a giudizio, mentre essi se ne erano coperti per sfuggire ai nostri colpi.
Non essendoci state né imboscate, né attacchi partigiani nei dintorni dagli abitanti la strage fu considerata un terrorismo selvaggio ed impotente. Ci si ricordava che il disertore tedesco aveva ordinato direttamente alle vittime di aiutare i malati partigiani quando era stato con noi, ciò aumentava ancora il risentimento e porterà in seguito la popolazione a tentativi di linciaggio di prigionieri da noi catturati.
I civili in preda al terrore abbandonarono i paesi della Val Lerrone passando le notti all'aperto, gli uomini chiedevano armi per unirsi a noi e difendere la loro vita, tornava così ad un anno di distanza il morale che aveva creato le bande locali. Il terrorismo nemico rendeva di nuovo i civili solidali con noi spingendoci alla lotta.
L'evolversi della situazione sui grandi fronti e la possibilità che incursioni nemiche contro la popolazione abbiano a ripetersi impongono ai partigiani un atteggiamento più deciso. L'opinione pubblica, orientata nettamente in nostro favore, l'afflusso continuo di nuove reclute e l'alto morale degli uomini decidono il Comando ad estendere il controllo finora limitato alla zona a sud della Val d'Andora a tutto lo spazio tra la «28» ed il mare. Dapprima si eliminerà il diaframma della Val Lerrone, poi collegheremo tra loro le bande creando uno schieramento quasi continuo sui due fronti della «28» e dell'Aurelia. I compiti verranno suddivisi tra le Brigate i cui effettivi sono in continuo aumento e dovrebbero già ora essere sufficienti.
Il timore delle rappresaglie nemiche non ci trattiene più: le popolazioni esasperate dal terrore e dalla vita nei boschi ci chiedono quando finirà quella situazione perché le notti passate all'aperto sono ancora fredde: "Per voi è appena cominciata, noi è più di un anno che facciamo questa vita", rispondiamo. "Ormai il tempo è buono, non abbiate paura, si può tirare avanti anche per dei mesi".
Una nostra occupazione sarebbe accolta con favore perché ormai ci ritengono in grado di respingere eventuali attacchi nemici.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 239-241
 
[...] Poco prima della Liberazione, il 15 aprile 1945, l’eccidio in assoluto più cruento, a Testico, nel quale perdono la vita 27 persone. All’alba di domenica due colonne tedesche giungono a Ginestro, frazione di Testico, per dare inizio a un rastrellamento: i militari catturano una ventina di civili, uomini e donne sorpresi nelle loro case, e li legano con corde. Poi, proseguendo la marcia, uccidono senza apparente ragione un contadino al lavoro. Alle 8.00, arrivati nei pressi della chiesa, irrompono nell’edificio, catturano altre persone e pongono tutti gli ostaggi lungo un muro sotto la sorveglianza di un soldato. Il resto della truppa, in parte, prosegue con il rastrellamento che porterà alla cattura di altri ostaggi; in parte si dirige verso Poggio Bottaro. Intorno alle 9.00 un gruppo di partigiani, dalla vicina frazione di Santa Maria di Stellanello, spara sui tedeschi permettendo a 3 degli ostaggi di fuggire. In risposta, i tedeschi tornano verso la chiesa, si appostano presso l’osteria del paese e catturano altri 3 contadini di Torria. Infine, la colonna riparte con i prigionieri al seguito. Durante la marcia, si arresta presso la frazione Zerbini per catturare altri ostaggi. L’ultima tappa è Costa Binella ove avviene la selezione dei progionieri. Vengono rilasciati 3 giovani di Ginestro, 4 donne e 4 ragazze. Queste ultime verranno poi condotte al carcere di Imperia, sottoposte a interrogatori e paestaggi e rilasciate almeno una dozzina di giorni dopo. Restano in mano ai tedeschi 27 persone: 25 uomini e 2 donne che vengono separate dagli altri prigionieri, seviziate e uccise a colpi di baionetta. I 25 uomini, legati 2 a 2 col fil di ferro, sono falciati a colpi di mitragliatrice. Dopo il massacro, i corpi risultano irriconoscibili [...]
Andrea Chiovelli, Quando i tedeschi massacravano i savonesi: ecco le 49 stragi che insanguinarono la provincia, IVG, 11 aprile 2016
 

giovedì 13 luglio 2023

Spostamenti del Comando Partigiano Imperiese

La prima pagina di un documento firmato da Simon (cit. infra) in data 3 agosto 1944. Fonte: Fondazione Gramsci

Per presentare un quadro complessivo delle ubicazioni e degli spostamenti del Comando della Resistenza imperiese, che si identificano in tanti momenti della lotta, che viene sviluppata a sua volta nei quattro volumi dell'opera, abbiamo ritenuto interessante tracciarne a grandi linee la cronologia fino alla Liberazione, iniziando, però, dalla metà dell'anno 1944, dato che il periodo precedente è stato approfondito con somma perizia nel primo volume dall'autore G. Strato.
Del suddetto periodo precedente vogliamo ricordare soltanto due episodi, rimasti inediti, che dimostrano con quanta serietà il comandante Nino Siccardi (Curto) desiderava organizzare la Resistenza imperiese, dal punto di vista della competenza, dell'efficienza e, al tempo stesso, come era precaria e difficile l'esistenza dei primi embrioni dell'organizzazione.
Primo episodio: nei primi giorni di dicembre del 1943, «Curto» aveva pensato di incorporare nella Resistenza imperiese degli ufficiali superiori dell'ex esercito, pratici del mestiere dal punto di vista tecnico, tattico e strategico. Per questo motivo, dopo vari suggerimenti avuti da alcuni compagni, aveva pensato di interpellare un bravo ufficiale e, in modo particolare antifascista, cosa abbastanza rara negli ambienti dell'ufficialità. Partito in bicicletta da Imperia, si recava presso Castel Gavone nel Finalese, dove incontrava il capitano Wuillermin Renato di 47 anni, vecchio e bravo combattente della prima guerra mondiale. Ma le trattative non erano ancora terminate quando il capitano, incappato in un rastrellamento, venne fucilato a Savona insieme ad altri per rappresaglia il 27 dicembre 1943.
Secondo episodio: nella prima decade di maggio del 1944, «Curto» e Libero Briganti (Giulio), rispettivamente comandante e commissario di tutte le bande partigiane imperiesi, da Arzéne si erano postati nel bosco di Rezzo, ospitati nella casa di Giobatta Bonello (Bacì Fundeghé). Si dovevano ulteriormente organizzare dei gruppi armati nella valle dell'Impero e per questo motivo venivano consegnate lire diecimila a un compagno di Ville San Pietro per l'acquisto di alimentari e il recupero di armi. Purtroppo il compagno organizzatore, ritornato presso il Comando per comunicare il risultato del suo operato, camminando guardingo e con la rivoltella in mano, era scambiato per un fascista e prima che si  potesse chiarire l'equivoco, dopo una breve sparatoria cadeva ucciso (1).
Con l'unificazione di tutte le bande della provincia nella IX brigata Garibaldi in giugno, il Comando, con a capo «Curto», si sposta ancora nel bosco di Rezzo e ivi rimane fino al 24 giugno 1944 (uccisione di L. Nuvoloni), quindi raggiunge la zona di Tavole. Nei primi giorni di luglio, con l'elevazione della IX brigata a II divisione d'assalto Garibaldi «F. Cascione», ritorna nel bosco e s'insedia nuovamente nella casa di «Bacì Fundeghé».
Alla metà del mese, per necessità militari si trasferisce a Garessio in val Tanaro e, dopo la battaglia di Pievetta (25 luglio 1944), si porta sotto il passo della Follia (Case Almirante), a monte di Pietrabruna, ove rimane fino al giorno della fucilazione degli ostaggi sul monte Faudo (vedi II volume). Seguono brevi spostamenti a San Bernardo di Mendatica, a Pieve di Teco, a Villa Talla ma, in definitiva, rimane nel bosco di Rezzo fino al 19 di settembre, quando l'ispettore «Simon» parte per il Piemonte scortato dal distaccamento di Muccia Pasquale (Turbine) per incontrare una Missione alleata (2). Ritenuto ormai troppo infido, dopo il 19 di settembre il Comando lascia il bosco per rifugiarsi a Piaggia da dove dirige la lotta fino al 13 di ottobre quando, iniziato il grande rastrellamento con l'occupazione tedesca di Pigna in Val Nervia e a causa dell'offensiva nemica in direzione di Triora-Piaggia, viene sospinto verso nord raggiungendo Upega [Frazione di Briga Alta (CN)] il 16; valicato il Mongioie con le brigate I e V, si porta a Fontane (provincia di Cuneo) dove, impegnato nella riorganizzazione delle formazioni, rimane fino ai primi giorni di novembre.
Rientrato in Liguria prima delle formazioni garibaldine, il comandante «Curto» va ad ispezionare la IV brigata (nelle zone di Villa Talla-Pietrabruna) e quindi prende nuovamente contatto con l'ispettore «Simon» [Carlo Farini] a Prelà, giuntovi in  precedenza ammalato (vedi capitoli XXV e XXVI).
Il Comando Operativo della I Zona Liguria, costituitosi il 19 dicembre 1944 e composto da «Simon», da «Curto» e «Sumi» [Lorenzo Musso, commissario politico] s'insedia in casa di Mario De Carolis in Prelà, dove rimane fino all'uccisione di quest'ultimo durante il rastrellamento del 28 dicembre. Allora i componenti e gli addetti sono obbligati a spostarsi a Pianavia presso la tipografia del C.L.N. provinciale che, da Villa Talla ivi trasferita, era stata montata qualche giorno prima dal tipografo Giovanni Acquarone (Barba), in un sottofondo della casa di Giovanni Calzamiglia (Bacì).
Ennesimo rastrellamento il 4 gennaio 1945 e la casa del Calzamiglia viene data alle fiamme. Nuovo rapido spostamento del Comando, fortunatamente sfuggito alla cattura, verso Badalucco in una casa diroccata, dove ha sede anche il centro staffette dirette da Federico Panizzi (Fedé) (ex miliziano del P.O.U.M. in Spagna nel 1937), e da qui a Vignai.
Invece «Simon», annaspando nella neve verso monte Acquarone, con don Nino Martini riesce a raggiungere Lucinasco in valle Impero nella notte.
Il 6 gennaio 1945 sbarca a Vallecrosia la Missione alleata composta dal capitano inglese Robert Bentley e dal radiotelegrafista John Mac Dougall (Mac), che si aggrega al Comando I Zona Liguria dopo due giorni a Vignai. Completato il Comando, il gruppo si porta a San Salvatore, sotto il passo della Follia da dove dirige la lotta.
A metà mese un pesante rastrellamento sul luogo, causato dalla trasmittente individuata dai goniometristi tedeschi, obbliga il gruppo a spostarsi a «Ciazza Becco», tra Badalucco e Pietrabruna, dove sosta una dozzina di giorni.
Durante questo periodo «Curto» si reca ad ispezionare la divisione «S. Bonfante» ad est della strada statale n. 28. Il 25 di gennaio è quasi spettatore della cattura del 10° distaccamento «W. Berio» (IV brigata) da parte del nemico. Triste episodio accaduto nel vallone tra Villa Talla e Pantasina. Ritornato a «Ciazza Becco», il 27 la località è investita da un rastrellamento ancora causato dalla radio trasmittente; ma accade un episodio singolare: alcuni garibaldini del comandante Ermanno Martini (Veloce) incrociano una squadra di soldati tedeschi; i due gruppi nemici si scorgono ma non si accende lo scontro, ognuno prosegue per la propria strada.
Nella notte successiva il Comando si sposta a Beusi, nel bosco del Pistorino, dove i figli del contadino Lanteri Francesco (Chiccò) avevano costruito un'apposita baracca. Dopo qualche gioroo giungono nel detto luogo anche «Simon» e la sua segretaria Bianca Novaro (Rossana).
Intanto avviene l'episodio relativo al sommergibile alleato * che doveva sbarcare rifornimenti sulla spiaggia presso il giro del «Don» (Arma di Taggia) e che, invece, non giunse, mentre i garibaldini caddero in una imboscata (vedi il precedente capitolo LIV).
Il 2 di febbraio il Comando I Zona Liguria è nuovamente riunito. Al Pistorino si discutono i piani per rifornire di armi i garibaldini tramite gli alleati con aviolanci. Il 9 avviene il convegno di Beusi per definire questi piani anche con i rappresentanti di alcuni C.L.N. delle città costiere (vedi il IV volume).
I rastrellamenti si susseguono incessanti [...]
[NOTE]
1 Da una testimonianza orale di «Curto»
2 Gli avvenimenti collegati al Comando della Resistenza imperiese sono descritti in modo particolareggiato nei volumi e nei capitoli precedenti.
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. La Resistenza nella provincia di Imperia da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio dell'Istituto Storico della Resistenza di Imperia, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977, pp. 524,527

* Michael Ross, uno degli ufficiali alleati che sarebbero dovuti rientrare nelle linee con il citato sommergibile, lasciò scritto nel suo "From Liguria with love. Capture, imprisonment and escape in wartime Italy" (Minerva Press, London, 1997) che nel richiamato torno di tempo furono tre i tentativi compiuti da un mezzo navale amico. I primi due vennero frustrati perchè scattarono trappole, da cui i partigiani si salvarono a stento, predisposte dai tedeschi, informati da una donna infiltrata nelle fila della Resistenza locale. La terza volta gli uomini del sommergibile, arrivando, non trovarono nessuno, perché, nel frattempo, i garibaldini avevano individuato la spia, che venne addirittura eliminata con l'uso di una pistola in dotazione ad un altro degli ufficiali alleati: e le comunicazioni radio in quel frangente non poterono funzionare, il che spiegava quel viaggio a vuoto.
Adriano Maini

Il 20 ottobre 1944 “Curto”, Nino Siccardi, con la scorta di 5 partigiani tornò momentaneamente ad Upega per procedere alla messa in salvo anche dei patrioti feriti che là erano rimasti.
La missione ebbe esito positivo.
[…] Le forze sbandate della I^ e della V^ Brigata, circa 150 uomini, furono incorporate nell’VIII° Distaccamento di Domenico Simi (Gori), che si costituì in Battaglione.
Venne tentato a più riprese un contatto con il comando divisionale, conseguito, infine, il 22 ottobre.
Nei primi giorni di permanenza a Fontane avvenne l’incontro tra il comandante [della II^ Divisione Garibaldi “Felice Cascione” della I^ Zona Operativa Liguria] Nino Siccardi (Curto) ed il maggiore inglese Temple (Wareski): “Curto” chiese un consistente aiuto militare per le sue formazioni: la riunione si concluse, tuttavia, con un nulla di fatto.
Più concreto fu il contributo in denaro giunto da più parti e con il quale “Curto” rimborsò la popolazione di Fontane per i viveri ed il vestiario forniti ai suoi uomini.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio-30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

martedì 9 maggio 2023

Sono ore che cammino in zona ribelle e non un partigiano, non un volto conosciuto

Dintorni di Ubaga, Frazione di Borghetto d'Arroscia (IM): Foto: gabrycaparezza su Gulliver

Nel pomeriggio del 4 marzo [1945] il Comando divisione [Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] da Poggiobottaro invia a Gazzo una lettera a Ramon [Raymond Rosso], il Capo di Stato Maggiore. La via normale delle staffette di Ginestro non è seguita: il messaggio è urgente e segreto. La lettera la porto io che, venendo dalla valle di Cervo, mi ero fermato a pranzare a Poggiobottaro.
Lasciato il Comando mi inerpico fino alla cresta dove so di trovare un sentiero di boscaioli che, attraverso rovi e castani, scende in Val Lerrone. Tra le bande della I Brigata in Val d'Andora e quelle delle altre brigate in Val d'Arroscia c'è da tempo la terra di nessuno: i tedeschi battono in Val Lerrone e da Cesio o Garlenda possono per Casanova e Degna spingersi fino a Poggiobottaro senza che un colpo di fucile dia l'allarme. Questo mi è noto e, per quanto posso, evito carrozzabili e mulattiere seguendo dei sentieri che spero siano ignorati dal nemico. Raggiunta la cresta vedo durante la discesa davanti a me la carrozzabile Casanova-Vellego che spicca sull'altro versante tra gli ulivi. E' deserta perché anche i contadini evitano di servirsene da quando è battuta dalla pattuglia tedesca in bicicletta. Era passata la prima volta il 22 febbraio rapida ed improvvisa e da allora la minaccia si è mantenuta costante.
Raggiunto il fondovalle perdo il controllo della carrozzabile, prendo una mulattiera che sale ripida tra gli ulivi e mi conduce fino a Degna. In paese raggiungo la carrozzabile, la seguo per un tratto tenendomi al margine, pronto a gettarmi tra gli alberi, poi trovo un ripido sentiero e salgo verso la cresta. Ora devo procedere per istinto perché di solito i partigiani, ed anch'io, seguivamo la mulattiera ad oriente di Degna. Oggi invece debbo cambiare strada se voglio arrivare a Gazzo prima di notte. Il sentiero sfiora il Santuario della Madonna di Degna. E' domenica ed una campana chiama i fedeli a raccolta. Tra gli alberi sento le voci dei giovani sulla piazzetta davanti alla chiesa. E' qui che in settembre avvenne lo scontro con i San Marco che costò la vita di sette dei nostri. Do un'occhiata al famoso santuario? E' il pensiero di un istante, poi ricordo che non devo né indugiare, né farmi notare. Ancora su, più lento, col fiato più corto. Il sentiero si perde, ma gli alberi sono radi ed il resto è a prato, posso camminare egualmente. Raggiungo la nuova cresta: di là è la Val d'Arroscia, provo un senso di calore, di conforto: è zona partigiana. Decido di passare tra Ubaga ed Ubaghetta; non so se vi sia sentiero, ma è la via più breve. Devo raggiungere la strada Ubaga-Borghetto. Scendo a caso tra i castani per dieci, venti minuti, poi cominciano i rovi. Ecco un pastore, gli chiedo se vi sia il sentiero che mi aveva promesso la carta topografica: «No, il sentiero non c'è più. Una volta c'era ma è tanto che non ci passa più nessuno, ora è invaso dai rovi. Bisogna scendere fino ad Ubaghetta». L'uomo mi indica la direzione col bastone, dà ancora qualche consiglio, lo ringrazio e poi giù verso il paese.
Il sentiero invaso dai rovi... quanti sono in Liguria i sentieri, le mulattiere segnati sulle carte che abbiamo trovato ormai impraticabili? Quanti i ruderi di cascine, di frantoi, di case nei paesi crollati ormai per l'abbandono e lo spopolamento? «La strada da Ubaghetta a Degna l'avete resa praticabile voi passandoci con i muli». Ci dicevano i contadini ed infatti molti sentieri e mulattiere erano battuti solo dai partigiani.
Con qualche fatica raggiungo Ubaghetta, e avessi saputo prima che dovevo passarvi avrei fatto più presto a tenere la strada consueta. Ci dovrebbero essere tre dell'intendenza, ma rinuncio a cercarli: so che in tutto il paese nessuno li avrà visti, nessuno ne saprà niente perché i contadini non si fidano più né di partigiani né di borghesi temendo in ogni volto non conosciuto un nemico.
Ecco dov'era l'intendenza: tre muri anneriti ed un cumulo di cenere. Fortuna che i sacchi di riso e di pasta erano al sicuro presso famiglie amiche. Ecco la casa dove si erano appostati i Cacciatori degli Appennini per tendere l'agguato a Pantera che scendeva verso il paese coi fuggiaschi del Garbagnati dopo lo scontro di Ginestro. Ecco il cimitero dove è seppellito Miscioscia, caduto a poca distanza nell'ultimo rastrellamento.
«Quando la guerra sarà finita metterò su una sartoria». Mi aveva detto una sera ad Ubaga quando venivamo dal Piemonte. «Conosco il mestiere discretamente, potrò prendere dei lavoranti. Se uno ci sa fare può guadagnar bene e far conoscenze nei migliori ambienti».
Aveva avuto i piedi congelati nella guerra di Grecia, ciò nonostante era venuto con noi. Era di carattere buono e disciplinato e tutti gli volevamo bene. Di lui mi rimangono un paio di copriguanti per neve ed un passamontagna che mi aveva fatto a Fontane.
Pensai a lui, a Redeval [Germano Cardoletti, Redaval], ferito e fucilato a Borghetto, a Tom ed a Boriello trascinati chissà dove. Saranno ancora vivi?
Da Ubaghetta scendo in fondo ad un vallone, risalgo oltre un torrente e l'opposto versante. Per orti ed ulivi raggiungo Ubaga. Un sentiero da Ubaghetta mi avrebbe potuto condurre direttamente a Merlo sulla carrozzabile tra Ranzo e Borghetto, ma ho preferito allungare il percorso piuttosto che camminare per quel tratto di stradone che, con rocce a picco sui due lati, è particolarmente pericoloso.
Ubaga: qui in agosto era la banda di Pantera [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione Bonfante] quando noi con la Matteotti eravamo a Montecalvo. Quanto siamo cambiati da allora.
Ubaga è libera: un gruppo di giovani sulla piazza del paese guarda il partigiano che passa. Cosa penseranno? Li guardo negli occhi ma non intuisco niente.
Ecco la carrozzabile che abbiamo fatto in novembre col Comando: fino a Borghetto è sempre discesa. Uno snello ponte di pietra mi porta al di là dell'Arroscia sullo stradone presso Borghetto. In pochi minuti sono sulla carrozzabile che mi porterà a Gazzo, la mia mèta. Ma come troverò Ramon? Sono ore che cammino in zona ribelle e non un partigiano, non un volto conosciuto. Ecco finalmente due dell'intendenza: Germano e Terribile. Una sosta di qualche minuto e poi li convinco a salire con me: la strada sarà più lieve in compagnia. I due intendenti hanno enormi pistole a tamburo: la Glisenti dei carabinieri. «Per questa è morto Tito in dicembre», mi dice Germano. Infatti, un partigiano di nome Tito era stato arrestato da noi sotto accusa di tradimento e, prima del processo, era stato ucciso da Germano mentre cercava di fuggire.
«Peccato che invece Carletto e Bol!».
«Già... di Bol non ne sappiamo più niente... Carletto invece è ad Albenga... Abbiamo incaricato quei del S.I.M. e le S.A.P. di fargli la pelle, ma sarà difficile».
Carletto verrà ucciso più tardi dal comandante della Brigata Nera di Albenga al quale aveva insidiato la fidanzata, tale almeno sarà la versione sulla sua fine che si diffonderà fra noi». (*)
«Ed ora dove dormite?». Era la domanda tradizionale che rivolgevamo ai compagni al tramonto del sole sperando di avere ospitalità od indicazione di un rifugio sicuro.
«Così... Ci si arrangia... In un fienile fin verso le tre, poi svegli. Di giorno poi pisoliano qua e là dove ci capita, in due od in tre mentre uno monta la guardia... Siculo invece sta per conto suo e dorme in un albero vuoto. Vi rimase quasi tutto il tempo del rastrellamento. Si cala da un buco tra i rami, dice che ha imparato a dormire in piedi». Poi racconti di rastrellamenti e puntate narrati così, alla buona, cercando in tutto il lato allegro.
«Sì, in dicembre eravamo rimasti a Fontane con l'Intendenza... Il rastrellamento? Ho assistito solo alla prima parte e ne ho avuto abbastanza... Come ne siamo usciti? Fortuna... Camminando e dormendo nella neve senza mangiare. E' il colmo per un intendente che maneggia quintali di viveri aver fame! Eppur mi è capitato! E che letto soffice la neve fresca! Quando hai camminato e sei caldo non senti il freddo e puoi dormire perfino mezz'ora. Poi salti per tre quarti d'ora e quando sei di nuovo ben caldo fai un altro riposino... Ramon? E' a Gazzo, ma nessuno sa di preciso dove. Quando i tedeschi hanno preso il russo dell'intendenza si sono fatti condurre in paese ed hanno rovistato tutto senza trovarlo. Pareva un buon ragazzo il russo ed invece ci ha tradito. Credo che lo abbiano costretto. Assieme a lui hanno preso Alpino, dicono che lo abbiano fucilato... Sì, è successo l'altro giorno ad Alto... Quanti erano? Nessuno è stato a contarli. Certo erano parecchie centinaia e venivano da tutte le parti».
Arriviamo a Gazzo. E' ormai buio, gli intendenti mi portano dalla maestra: « E' in contatto con Ramon... E' l'unico mezzo di avvisarlo che sei qui».
Alttendono un po' con me, poi se ne vanno. La maestra era già uscita, appena aveva saputo chi cercavo. Rimango solo nella piccola cucina accanto alla stufa a guardar la fiamma, unico punto luminoso nella penombra.
La porta si apre, mi volto di scatto: è Ramon. «Tieni, c'è una lettera del Comando».
Ramon apre la busta, legge rapidamente. Lo guardo attentamente: il suo volto non rivela nessuna emozione. Chissà cosa c'è scritto in questa lettera così importante! Non è da lui che lo saprò. Avevo sempre ammirato il Capo di Stato Maggiore della Bonfante, Rossi Raymond, alias Ramon, cittadino svizzero. Il partigiano inafferrabile, la cui vita era misteriosa, il cui rifugio era ignoto ad amici e nemici. Cercato dai tedeschi, sfuggito al tradimento di Carletto e del russo, unico capobanda apolitico della Bonfante, riusciva a vivere autonomo e libero da ogni legge, avvertito di ogni mossa del nemico da informatori personali. Troppo forte ed abile per essere umiliato, pur privato della banda che aveva creato e potenziato, come Capo di Stato Maggiore faceva sentire l'influenza delle sue idee e dei suoi metodi sulle bande della II e della III Brigata.
ln ogni paese, in ogni vallata i simboli del passato regime e le lapidi a ricordo delle sanzioni erano scomparsi sotto la furia antifascista di Ramon. I ponti in tutta la Val d'Arroscia erano stati del pari distrutti per opera sua che poi, con tenacia costante, aveva frustrato ogni tentativo nemico di riattare la strada. Ecco Ramon: un completo grigio con giacca e calzoni, un panciotto di lana bianca grezza, un cappello da città. E' difficile ricordare in lui il capo della banda dell'Alluminio che, in giacca di telo da tenda e pantaloni tedeschi, interrogava a Piaggia i prigionieri tedeschi dopo aver fatto saltare il ponte di Borghetto alle spalle del nemico impegnato a Vessalico.
Pure questo distinto signore è ancora il terrore della Val d'Arroscia e di Albenga; alla sua scuola si sono formati Cimitero, Meazza e molti dei migliori uomini della Bonfante. Dalla primavera scorsa molti partigiani di Martinengo che, dopo l'incorporazione tra i partigiani di parte del presidio fascista dei Forti di Nava, non vollero vivere a fianco di simili compagni, erano passati con Ramon che, senza avere i rossi ideali del Cion [Silvio Bonfante], attaccava i tedeschi con fortuna ed audacia.
Ramon ha letto: «Hai cenato?» mi chiede. «No». «Allora vieni». Se spero di conoscere qualcosa della vita di Ramon sono presto deluso. Vengo condotto alla trattoria, quella stessa dove sostai col Comando al ritorno dal Piemonte.
«Segnate sul mio conto il pranzo di questo partigiano». Subito dopo mi conduce in una strada, scosta lo strame di fondo, apre una botola: «Qui potrai dormire questa notte... La famiglia di fronte ti darà una coperta». Ramon mi saluta e scompare, io torno in trattoria a cenare: uova e patate fritte.
La lettera che avevo portato quella sera conteneva a grandi linee i piani dell'operazione L. 1 che veniva affidata in gran parte a Ramon. Il primo lancio alleato di rifornimenti per la Divisione Bonfante veniva denominato L. 1. Sarebbe avvenuto in Val Pennavaira, nella zona di Caprauna prescelta per la scarsità dei paesi che avrebbe aiutato la segretezza, per i roccioni e la mancanza di carrozzabile che avrebbe agevolato la difesa.
(*) Seppi poi da Ramon che Carletto si sposò nella chiesa del Sacro Cuore in Albenga. Qualche tempo dopo andò col capo delle Brigate Nere di Albenga (Luciano Luberti) a casa del suocero per ucciderlo. Sulla via del ritorno tra Coasco ed Albenga, Luberti uccise Carletto e lo gettò giù dalla strada.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 182-186

 

4 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 161, al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Comunicava che il comando di Divisione era in attesa di conoscere la data dell'aviolancio alleato nella zona di cui aveva già inviato una cartina topografica.
4 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 162, al capo di Stato Maggiore ["Ramon", Raymond Rosso] della Divisione - Comunicava che dal giorno 10 Radio Londra avrebbe in ogni momento potuto trasmettere il messaggio "la pioggia bagna", segnale di effettuazione del [primo] lancio di materiale da parte degli alleati; che si prescriveva l'ascolto dei messaggi di Radio Londra in italiano; che i fuochi di riconoscimento per l'effettuazione degli aviolanci dovevano "essere disposti a forma di 'T' rivolta contro vento"; che non si dovevano fare segnalazioni se il vento avesse superato le 20 miglia orarie; che occorreva disporre i fuochi in buche profonde 2 metri per impedirne l'avvistamento da parte del nemico; che i paracadute per la prevista operazione sarebbero stati 5, fatti cadere alla distanza di 60 metri uno dall'altro; che bisognava comunicare se nella zona si trovavano ostacoli naturali.
4 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 170, al capo di Stato Maggiore della Divisione - Comunicava che la I^ e la III^ Brigata passavano sotto il controllo del comando di Divisione e la II^ alle dipendenze del capo di Stato Maggiore; che "Fra Diavolo" doveva continuare, anche se in disaccordo con "Martinengo", la sua opera in Val Tanaro; che la zona in cui operava la II^ Divisione era in quel periodo soggetta a molti rastrellamenti.
4 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 171, al comando del Distaccamento "Mario Longhi" - Il comandante "Fra Diavolo" veniva invitato a continuare nelle sue azioni in Val Tanaro, ad appoggiarsi alla II^ Brigata "Nino Berio" e a "Ramon", ad inviare relazioni sul lavoro svolto e sulle difficoltà incontrate.
5 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 174, al commissario "Osvaldo" [Osvaldo Contestabile] - Gli si comunicava che non era ancora giunto il momento del suo rientro dalla malattia e lo si informava dell'attesa di un aviolancio alleato "che si spera cambi la sorte dei garibaldini".
5 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 175, al comando della II^ Brigata "Nino Berio" - Ordinava di compiere azioni di disturbo lungo la strada Albenga-Garessio; di recuperare ogni possibile esplosivo; di controllare se c'erano riserve di munizioni per St. Etienne, nascoste dal partigiano "Falco"; di stimolare i Distaccamenti ad inviare regolarmente relazioni.
5 marzo 1945 - Dal capo di Stato Maggiore [Raymond Rosso] della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della Divisione - Informava che i tedeschi, guidati da "Carletto", avevano eseguito una puntata su Nasino per sorprendere il Distaccamento "Giannino Bortolotti" della II^ Brigata "Nino Berio" ma senza causare perdite tra i partigiani; che tedeschi provenienti da Nava avevano fatto prigionieri due uomini dell'intendenza garibaldina; che "Turbine", fuggito nell'occasione citata, abbandonando uomini e materiale, era stato arrestato, poiché non aveva fornito plausibili giustificazioni.

da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

venerdì 24 marzo 2023

Sull'atlantino dei partigiani la mia matita annerisce giorno per giorno le regioni della Germania che sfuggono al Terzo Reich

Andora (SV): dintorni. Foto: Eleonora Maini

Il problema degli effettivi venne risolto in pratica da ogni capobanda a suo piacimento. Le disposizioni del Comando lasciarono largo margine d'interpretazione e furono solo abbastanza precise nello sconsigliare l'arruolamento di repubblicani. Quasi tutti i comandanti ingrossarono la propria banda, poiché comandare molti uomini era ambizione diffusa.
Solo pochi come Stalin [Franco Bianchi, comandante di un Distaccamento] e qualche altro preferirono un pugno d'uomini decisi anteponendo la qualità alla quantità. Quando i distaccamenti si ingrossarono eccessivamente intervennero i comandi brigata e li scissero in due.
In Val Tanaro Fra' Diavolo operava del tutto autonomo inviando notizie saltuarie della sua attività. L'attrazione del suo nome era tale che la IV Brigata «D. Arnera», che dipendeva da lui, e che era agli inizi composta del solo distaccamento «M. Longhi», ai primi di aprile 1945 conterà ben cinque bande.
La I Brigata portò anch'essa il numero dei propri distaccamenti da tre a cinque assumendo uno schieramento a parziale difesa della valle d'Andora.
A nord la II e la III  Brigata si riprendevano più lentamente, date la crisi dei comandi e la mancanza di servizi efficienti.
Il 24 marzo 1945 l'attenzione si porta nuovamente su Alto perché pare imminente un lancio di maggiore importanza. Lo schieramento di difesa è meno imponente. Pensiamo che ciò sia dovuto alla rapidità con cui si è svolta la raccolta del primo lancio e alla lentezza della reazione nemica. Un rapido abbassarsi della temperatura e una ripresa delle piogge sui monti impone un nuovo duro sacrificio alle bande di presidio sulle cime. Il morale degli uomini, già duramente colpito dalla morte di Rostida [Costante Rustida Brando], subisce una nuova prova: l'aspetto della valle è tornato ad essere invernale, l'incubo del rastrellamento si alterna alla speranza del lancio imminente.
Torno ad Alto dal 24 al 28. Vi trovo Libero [Paolo Aicardi] con i resti del «G. Maccanò» salvatisi un mese prima dal rastrellamento di Aurigo. Gli uomini sono profondamente demoralizzati, il commissario li ha piantati. «Mi ha mandato lo Sten ed i soldi e non si è fatto più vedere», diceva Libero ai compagni. «E' stato galantuomo che ti ha mandato i soldi», lo consolava Turbine. C'era poi la faccenda del manifesto di mobilitazione di Aurigo. «Mi hanno dato gli arresti per la quarta volta», diceva Turbine. «Adesso però sono innocente. Non mi sono mai mosso da Alto da un mese ed un tipo strano che passa per Aurigo fa un manifesto e lo firma Turbine. Il Comando mi manda una lettera: Turbine agli arresti. Per fortuna che sono parole» Il tipo strano che aveva avuta la geniale idea del manifesto era Libero.
Il G. Maccanò venne sciolto, gli uomini aggregati alla brigata di Fra' Diavolo ed una nuova banda G. Maccanò, formata da nuove reclute, farà parte della IV Brigata.
La banda di Trucco o distaccamento M. Agnese che, dai tempi di Upega, ridotto a dodici uomini, vivacchiava nella Val di Mendatica, invitato più volte ad unirsi al grosso della Divisione, passò la «28» il giorno 25 fermandosi presso Moano [Frazione di Pieve di Teco (IM)].
I giorni passavano lenti tra la pioggia ed il fango nell'inutile attesa. Spesso il cavo a bassa tensione che collegava Alto con la dinamo in fondo al torrente aveva dispersioni e le trasmissioni radio subivano forti abbassamenti di volume. Cambiando rapidamente la spina del trasformatore riuscivamo a riprendere l'ascolto, ma ogni volta sfuggivano intere frasi ed ogni parola poteva essere quella del lancio da noi atteso. Al pomeriggio, alle 20.30, dopo cena ad ogni trasmissione gli incaricati dal comando, circondati dai compagni ascoltano parole e parole. Coi messaggi speciali giungono le notizie delle armate del Reno: l'offensiva finale è in corso, città e città, chilometri e chilometri di Germania vengono occupati dagli alleati: sull'atlantino dei partigiani la mia matita annerisce giorno per giorno le regioni della Germania che sfuggono al Terzo Reich. La fine del nazismo non è ormai più lontana, è però sempre più per noi un'incognita l'atteggiamento che terrà l'esercito tedesco in Italia. La disfatta in Germania rende sempre meno sicura la ritirata dall'Italia. Se gli alleati non sfonderanno sull'Appennino non diverrà l'Italia del nord una grande sacca come Creta, il fronte di Curlandia, i porti francesi sull'Atlantico? Assieme alla Norvegia ed alla Boemia non sarà la nostra terra l'ultimo rifugio del nazismo morente? Comunque il momento decisivo è vicino e noi siamo ancora terribilmente impreparati.
Ricordavo lo scorso autunno... I piani per l'occupazione di Imperia... Quanto siamo mutati da allora. Il passato tornava sempre alla nostra mente, parlando con i compagni si ricordavano episodi noti, si apprendevano particolari sconosciuti.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980


22 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 234, al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" [comandante "Mancen" Massimo Gismondi] - Disponeva il passaggio di 10 Kg. di plastico con miccia e detonatore da "Ciccio" a "Marco" e di altri 10 Kg. da consegnare a "Mario".

23 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 238, al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" [comandante "Mancen" Massimo Gismondi] - Chiedeva di completare i preparativi per andare a ritirare il materiale in arrivo con un aviolancio alleato; di sospendere il colpo progettato contro il posto di blocco di Cervo ed ogni altra azione; di sottrarsi al nemico in caso di attacco, ma, se obbligati, di reagire.

24 marzo 1945 - Dal comando della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava l'assegnazione degli encomi solenni alla memoria a "Rustida" ed a "Remo", sottolineando che "Rustida", Costante Brando, era nato a Milano il 25 ottobre 1925, mentre di "Remo" non si conoscevano i dati biografici.

25 marzo 1945 - Da "Pantera" [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che il 20 marzo 1945 alle ore 7 forze nemiche, provenienti da Pornassio, San Bernardo di Garessio, Cerisola, Acquetico e Castel Bianco, avevano effettuato un rastrellamento in Val Pennavaira; che i garibaldini di Caprauna, avvisati da una sentinella appostata sul Passo dei Pali, si erano spostati sulle rocche sovrastanti Alto; che il Distaccamento "Gian Francesco De Marchi" era stato sorpreso e nella fuga aveva lasciato nel casone il mitragliatore Breda 1930 e diverso materiale di casermaggio; che i garibaldini "Rustida" [Costante Brando] e "Remo" [Francesco Pescatore] avevano aperto il fuoco, ma erano stati feriti da un colpo di mortaio; che "Rustida" dopo qualche minuto decedeva e "Remo" si suicidava per non cadere vivo in mano ai tedeschi; che i nemici avevano abbandonato la Val Pennavaira alle ore 22; che il servizio di sentinella di Alto-Caprauna aveva funzionato bene mentre quello di Nasino "pur avendo funzionato non ha preso sul serio l'allarme facendo giungere i nemici vicino ai casoni"; che stava per dare disposizione al comandante ["Gino", Giovanni Fossati] della II^ Brigata "Nino Berio" "di infliggere 12 ore di palo ai responsabili del cattivo funzionamento del servizio di guardia". Comunicava, poi, le situazioni di alcune formazioni: il Distaccamento "Giuseppe Maccanò" era privo di comandante perché "Riva" [Stefano Polini] si era rifugiato nelle Langhe ed aveva bisogno anche di un commissario; la stessa situazione si presentava al Distaccamento "Gian Francesco De Marchi" che aveva perso un mitragliatore; il comandante "Basco" [Giacomo Ardissone] aveva formato un altro Distaccamento che avrebbe preso probabilmente il nome di "Rustida" [Costante Brando]; una squadra del Distaccamento "Igino Rainis" aveva recuperato in Piemonte 1 mitragliatore pesante americano, 1 fucile inglese ed 1 Sten; il 22 marzo 1945 "Fra Diavolo" aveva compiuto un attentato sulla strada statale 28 in cui avevano trovato la morte la morte un maggiore tedesco ed altri soldati. Informava che era stato il comandante "Libero" [Paolo Aicardi] a firmare in modo arbitario a nome di "Turbine" [Alfredo Coppola] il manifesto del reclutamento non volontario di Aurigo e che i garibaldini della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni", condannati a morte dai tedeschi a Pieve di Teco, erano riusciti a fuggire e, avendolo richiesto, erano stati inquadrati nel Distaccamento "Igino Rainis" della II^ Brigata "Nino Berio".

25 marzo 1945 - Da "Boris" [Gustavo Berio, vice commissario della Divisione "Silvio Bonfante"] a "Mario" [Carlo De Lucis, commissario della Divisione "Silvio Bonfante"] ed a "Giorgio" [Giorgio Olivero, comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] - Comunicava che rispetto a quando "Giorgio" era stato in visita in Val Pennavaira il morale della popolazione era mutato perché il rastrellamento del 3 marzo, nonostante la buona notizia del riuscito primo aviolancio alleato, l'aveva gettata nello sconforto; che dal citato lancio i partigiani si aspettavano almeno uno Sten; che il recente rastrellamento del 20 marzo avevano addirittura terrorizzato la popolazione per la minaccia tedesca di bruciare tutte le case. Segnalava "la non esemplare combattività" dei Distaccamenti "Igino Rainis" della II^ Brigata "Nino Berio" e "Giuseppe Maccanò" e l'efficienza delle altre formazioni della II^ Brigata "Nino Berio"; la formazione del Distaccamento "Costante Brando", dedicato alla memoria di "Rustida", per il quale proponeva "Meazza" [Pietro Maggio] come comandante; che "Fra Diavolo" nonostante le difficoltà che incontrava in Val Tanaro teneva "alto l'onore dei garibaldini".

26 marzo 1945 -Dal Comando Operativo [comandante "Curto", Nino Siccardi] della I^ Zona Liguria al comando [comandante "Giorgio", Giorgio Olivero] della Divisione "Silvio  Bonfante" - Comunicava che per ordine del Comando Militare Unificato Regionale [CMURL] la Divisione veniva rinominata "VI^ Divisione d'assalto Garibaldi Silvio Bonfante" e chiedeva notizie sull'imminente riunione tra CLN e garibaldini.

27 marzo 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" all'Intendenza della I^ Brigata - Comunicava la forza effettiva dei Distaccamenti della Brigata "per regolare la distribuzione dei viveri": Distaccamento "Francesco Agnese" 36 uomini, Distaccamento "Marco Agnese" 21 uomini, Distaccamento "Giovanni Garbagnati" 37 uomini, Distaccamento "Franco Piacentini" 15 uomini, Distaccamento "Angiolino Viani" 29 uomini, Comando Brigata 8 uomini.

28 marzo 1945 - Dal comando della I^ Zona Operativa Liguria al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - In considerazione del fatto che il campo di lancio scelto offriva maggiori possibilità di ricezione per un grande lancio diurno, si reputava positivamente il fatto di traferire per il momento parte della VI^ Divisione nella zona di lancio di Pian Rosso [Località di Viozene, Frazione di Ormea (CN)], mentre l'altra componente avrebbe dovuto attendere il lancio notturno già programmato [a Pian dell'Armetta nella zona di Caprauna (CN)]. Direttiva di effettuare sollecitamente il richiamato trasferimento, attesa l'imminenza del lancio.
28 marzo 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 254, al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" [comandante "Mancen", Massimo Gismondi] - Comunicava che il Distaccamento "Giovanni Garbagnati" [comandato da "Stalin", Franco Bianchi] doveva trasferirsi a Testico con le sue 3 squadre; che "Zuvenotto" [Giovanni Tabbò] aveva riconsegnato lo Sten; che a partire da quel giorno le posizioni assegnate ai Distaccamenti dovevano avere postazioni coperte con feritoie per le armi ed essere anche adibite a dormitori.

28 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al capo di Stato Maggiore della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" ed ai comandi della I^ Brigata "Silvano Belgrano", della II^ Brigata "Nino Berio", della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo", tutte della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che i comandanti delle formazioni in indirizzo dovevano far sapere alla popolazione "tramite la voce dei parroci" che chiunque avesse fatto trapelare informazioni sui garibaldini sarebbe stato processato, correndo anche il rischio di essere fucilato; che chi si fosse autoproclamato capo o rappresentante di una formazione garibaldina sarebbe stato punito con un numero di ore di palo, ancora da determinare e da scontare presso un Distaccamento; che quelle dispizioni entravano in vigore il 1° aprile 1945.

28 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al vice comandante ed al vice commissario della VI^ Divisione - Comunicava che il comandante della VI^ Divisione "Giorgio" [Giorgio Olivero] aveva trovato con la sua visita molto efficiente la I^ Brigata "Silvano Belgrano" [comandante "Mancen", Massimo Gismondi]. Sottolineava che occorreva riunire al più presto "il Tribunale Militare per analizzare e sanzionare i fatti di Nasino". Chiedeva di sollecitare il rientro di "Trucco" [vice commissario della II^ Brigata "Nino Berio"]. Informava che "Fra Diavolo" [in Val Tanaro] chiedeva rinforzi. Proponeva di formare un nuovo Distaccamento intitolato al caduto partigiano "Rustida" [Costante Brando] con "Libero" quale comandante. Segnalava che la III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" "non funziona come dovrebbe".

28 marzo 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava che... il 22 marzo il Distaccamento divisionale "Mario Longhi", comandato da "Fra Diavolo" aveva ucciso sulla strada statale 28 in Val Tanaro un maggiore tedesco e 3 soldati.

28 marzo 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione relativa alla proposta di assegnazione della medaglia d'oro al valor militare al caduto Roberto di Ferro.

da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

domenica 15 gennaio 2023

Torre Paponi brucia

La vallata del torrente San Lorenzo con al centro Torre Paponi ed in alto a sinistra Pietrabruna

E’ stato uno dei peggiori eccidi di cui si macchiarono le truppe d'occupazione naziste durante la Guerra di Liberazione che divise l'Italia nel tragico triennio 1943-1945. E' l'eccidio di Torre Paponi il cui orrore, senza nulla togliere alle stragi di Marzabotto o Sant'Anna di Stazzema, ha colpito nei decenni dell'Italia repubblicana l'immaginario collettivo dei tanti studiosi che si sono applicati allo studio della Resistenza in Italia.
I fatti accaddero esattamente settant'anni fa, il sedici dicembre del 1944. Inverno duro e tragico quello che precedette la Primavera di Liberazione, soprattutto nell'estremo Ponente ligure. Già era caduto in quel di Alto, combattendo, il "mitico" capo partigiano Felice Cascione ma nell'Imperiese, la cui Provincia non a caso si fregia della Medaglia d'oro al valore militare, le bande partigiane davano parecchio filo da torcere ai nazi-fascisti per i quali l'entroterra rappresentava una vera e propria incognita. Fu così che i comandi tedeschi escogitarono la rappresaglia contro i molti contadini che nei paesi abbarbicati alle pendici delle Alpi liguri solidarizzavano con i combattenti per la libertà, di qualsiasi credo politico fossero.
La mattina del sedici, credendo di trovare a Torre Paponi, oggi frazione del Comune di Pietrabruna, gruppi partigiani, i tedeschi risalirono armati sino ai denti la stretta valle alle spalle di San Lorenzo al Mare. Molti civili, vedendoli salire determinati, si diedero alla macchia nei boschi quasi presagendo quella che sarebbe stata la tragica fine di molti loro compaesani. I nazisti occuparono in una manciata di minuti il borgo, poi radunarono gli abitanti rimasti (molti erano donne e bambini) nella barocca chiesa parrocchiale. Qui condussero anche, orribilmente torturato, il curato Don Vittorio De Andreis che ritenevano un fiancheggiatore delle bande partigiane.
A questi affiancarono il parroco, Don Pietro De Carli, reggiano di Guastalla. Incendiarono poi gran parte di Torre Paponi distruggendola. Non paghi di tanto orrore diedero fuoco pure ai due sacerdoti che morirono tra sofferenze atroci. Parimenti furono uccise altre ventisei persone del paese. Le uccisioni proseguirono, pure, il dì appresso [...]
Sergio Bagnoli, Settant’anni fa Torre Paponi, una delle peggiori stragi naziste del secondo conflitto mondiale, Agora Vox Italia, 15 dicembre 2014

Torre Paponi

Torre Paponi [Frazione di Pietrabruna (IM)] è un piccolo paese nell'immediato retroterra imperiese, sulla strada che da San Lorenzo al Mare conduce a Pietrabruna, nella vallata del torrente San Lorenzo, a 210 metri di altitudine. La popolazione (n. 150 abitanti) è composta, in stragrande maggioranza, di contadini olivicoltori piccoli proprietari e di qualche artigiano.
Durante l'occupazione nazifascista, senza essere un centro di reclutamento o base partigiana, è stato tuttavia un paese benemerito nella lotta di liberazione per i molti aiuti in denaro e viveri concessi ai partigiani di “Curto” [Nino Siccardi, comandante della I^ Zona Liguria], al distaccamento di “Mancen” [Massimo Gismondi], “Peletta” [Giovanni Alessio], “Artù” [Arturo Secondo], “Danko” [Giovanni Gatti], al distaccamento “Fenice” e ad altri più piccoli. Anche muli e bestiame vario furono imprestati o venduti o donati ai partigiani nel periodo novembre 1943 a dicembre 1944 (1).
Proprio nel dicembre del 1944 Torre Paponi viene a trovarsi al centro di una vasta zona partigiana.
Il nemico è a conoscenza di grossi concentramenti di garibaldini della IV brigata [d'Assalto Garibaldi "Elsio Guarrini"] sulle alture comprese tre la valle Argentina e la val Prino. Per l'ennesima volta tenta di distruggerli mettendo in esecuzione i piani prestabiliti.
Dal mattino del 13 al pomeriggio del 18 di dicembre i Comandi tedeschi di Taggia, di villa Cepollina e di Sanremo, rimangono quasi completamente privi di truppa inviata in rastrellamento nelle suddette zone.
L'azione dovrebbe iniziare con un fulmineo attacco al paese di Badalucco per mezzo di artiglieria e di reparti di guastatori con l'incarico di distruggere completamente il paese, reo di accogliere e rifornire giornalmente i garibaldini. Ma l'azione, per cause imprecisate, viene alquanto ridotta. (2)
Il primo contatto tra i garibaldini e tedeschi in fase di rastrellamento avviene alle ore 22 del 13, quando il garibaldino “Baffino” del 2° Distaccamento “Italo” (1° Battaglione, IV^ brigata), addetto alle spese viveri, scaglia una lanterna contro due Tedeschi sbucati tra le case inferiori del paese di Pietrabruna. Raggiunto l'accampamento verso l'una dopo mezzanotte e dato l'allarme, gli uomini nascondono tutto il materiale pesante del distaccamento.
Presa la decisione di imboscare il nemico, 25 garibaldini guidati dal comandante “Curto”, che occasionalmente aveva pernottato presso il distaccamento, con passo celere raggiungono la strada ad un chilometro da Pietrabruna e attendono in agguato tutta la notte invano.
Ormai è iniziata la giornata del 14, il sole s'innalza, ma il nemico non transita. Quattro borghesi, incontrati nei pressi del luogo dell'agguato, affermano che in Pietrabruna non vi sono Tedeschi, però, ripresa la via del ritorno, i garibaldini vengono investiti da raffiche di “Mayerling” partite dalle prime case del paese.
La reazione è pronta ed efficace, ma rimane ucciso sul posto Giuseppe Sciandra (Matteo) fu Matteo, nato a Pamparato (Cuneo) il 12-09-1907, garibaldino della IV^ brigata, mentre il garibaldino “Lolli”, colpito in modo grave alla schiena, non può più camminare, però alcuni animosi riescono a porlo in salvo. (3)
Sganciatosi, il gruppo di “Curto” insiste nell'agguato presso il paese di Torre Paponi fino a tarda sera, ma invano, il nemico è transitato altrove. Già nelle prime ore del mattino altri piccoli gruppi di partigiani passano per Torre Paponi, senza tuttavia fermarsi, perché avevano preso la direzione di San Salvatore.
Inspiegabilmente qualche ora dopo giungono i Tedeschi. Un piccolo gruppo di rastrellatori, forse di passaggio per caso o forse anche inviati sul luogo su segnalazione di qualche spia locale.
Intimorite dalla ostentata grinta dei nazisti, alcune donne del paese accennano o confermano (non è stato possibile accertare con precisione quale delle due versioni sia l'esatta) il passaggio dei gruppi partigiani. I tedeschi non fanno commenti e si avviano in direzione del paese di Lingueglietta.
Giunti sulla collina che separa i due paesi, ecco che compiono la prima rappresaglia su alcuni ostaggi che si portavano dietro da chissà dove. Fucilano i civili Francesco Guasco fu Domenico, Carolina Guasco fu Domenico, Agostino Ballestra di Ventimiglia e il pastore Pietro Lanteri nato a Realdo nel 1884, che col suo gregge svernava in Pietrabruna.
Costui portava a tracolla un sacco con del pane nero; gli sgherri ne prendono un pezzo e glielo infilano in bocca, quindi proibiscono di toccare il cadavere e ingiungono di lasciarlo per la strada a tempo indeterminato. Però dopo poco tempo il comandante “Curto”, di passaggio, ordina il recupero della salma ed il parroco la fa seppellire.
Alle ore 14.30 del giorno stesso i nazisti ritornano in forze su una quindicina di autocarri e circondano il paese.
Dopo un'intensa sparatoria eseguita con armi automatiche, restringono la morsa; ad un certo momento entrano nel paese e sparano a zero su un gruppo di giovani colti di sorpresa. Maurizio Papone, Pasquale Malafronte, Andrea Ascheri, Paolo Papone, Antonio Barla e quattro militari di stanza alle vicine polveriere, riescono a stento a mettersi in salvo. Rimane ucciso un giovinetto di quindici anni che stava rientrando in paese portando sulle spalle una fascina, non del paese ma profugo da Ventimiglia, in quei giorni battuta dai bombardamenti navali alleati.
Anche due donne, madre e figlia, colpevoli solo di aver chiamato ad alta voce il rispettivo figlio e fratello, bimbo di pochi anni, sembrando forse ai Tedeschi che esse cercassero di mettere sull'avviso ipotetici partigiani, vengono abbattute a raffiche di mitra.
Successivamente il paese subisce un iniziale incendio, prologo a quello ben più terribile appiccato due giorni dopo; vengono arse due case ed alcuni fienili.
A tarda sera, allorché i rastrellatori ritornano al loro Comando di Arma di Taggia con gli ostaggi Luigi, Stefano, Egidio, tutti di cognome Papone, e due profughi ventimigliesi, la popolazione riesce a circoscrivere l'incendio.
Però non tutti i Tedeschi lasciano la zona; alcuni piccoli gruppi si occultano, si pongono in osservazione e rimangono in contatto con eliografisti che, dalla località Castelletti, trasmettono segnali verso San Salvatore, davano disposizioni relative allo sviluppo che doveva assumere il rastrellamento nei giorni successivi.
All'alba del 15 altri fascisti e tedeschi rastrellano nuovamente le zone Circostanti Torre Paponi, Pietrabruna, Lingueglietta e rinforzano una loro batteria piazzata a Pian del Drago. Per rifarsi dei magri risultati ottenuti nella caccia ai partigiani, razziano tutto il bestiame che trovano.
L'esasperazione è al colmo ed una squadra di garibaldini del primo battaglione, messa al corrente della situazione dai contadini, per liberare il bestiame attacca senza indugio il nemico che, sorpreso, si ritira in direzione San Lorenzo al Mare per chiedere rinforzi al Comando locale. (4)
Il distaccamento “Italo” rientra in stato d'allarme, il nemico è scorto in lontananza.
Nonostante le lievi perdite subite, il comando tedesco ordina immediatamente di condurre una rappresaglia su Torre Papponi il giorno seguente con l'impiego di formazioni S.S. altoatesine e di brigatisti neri.
Gli ostaggi portati ad Arma di Taggia vengono rilasciati con la pura e semplice raccomandazione di non offrire più ospitalità ai partigiani e di rimanere tranquilli nelle loro case.
Ciò risulterà una menzogna ignobile a cui viene prestato credito per la sprovvedutezza del momento dettata dalla paura.
Con questo stratagemma i nazifascisti riescono a dissipare momentaneamente le apprensioni e ad affievolire la diffidenza degli abitanti di Torre Paponi, per poter mettere in esecuzione il loro insidioso piano, in particolare, per poter catturare più uomini possibile al momento opportuno, quando non guarderanno più di stare all'erta, premunirsi o nascondersi nei rifugi che si erano scavati per la campagna.
Anche l'accusa, che si sentirà ripetere poi dai fascisti con insistenza per giustificare la strage, che Torre Paponi ere un centro di banditi, sarà ben lungi da essere provata poiché il paese non è mai stato tale e tanto meno un centro di comando.
Nella notte colonne tedesche di rinforzo partono da Castellaro e salgono in direzione del monte Faudo e del passo Vena, rastrellano passo Follia e San Salvatore, si scontrano con pattuglie del distaccamento di “Italo” sotto il monte Faudo e sparano nell'oscurità, alla cieca, con mitraglie a canne da 20 mm. (5)
All'alba del 16 le S.S., accompagnate da una spia in borghese, investono il distaccamento “Nino Stella”, distruggono i casoni dell'accampamento, qualche arma e vari equipaggiamenti (una cassetta di munizioni per “Mayerling” con circa 200 colpi, cinque moschetti, otto coperte, la macchina da scrivere e un fagotto di Farina). I partigiani si ritirano presso il distaccamento di “Pancio” che non viene investito;però in giornata cade il garibaldino della IV brigata Antonio Novella “Novella” fu Giovanni, nato ad Arma di Taggia il 12-02-1923.
Altre forze nemiche occupano la valle di Dolcedo; sei autocarri carichi di truppa raggiungono il paese, poi il borgo di Bellissimi e Santa Brigida, quindi lanciano razzi bianchi; è il segnale dell'attacco. Rastrellano la valle sotto Santa Brigida, le zone a monte, Lecchiore e San Bernardo; lunghe raffiche di mitragliatrice e colpi di mortaio si ripercuoteranno per la vallate fino alle ore 19.00 (6)
Contemporaneamente a Lingueglietta, dove sostano per poco, le S.S. altoatesine arrestano il parroco del paese don Vittorio De Andreis, ritenuto colpevole di aver avvertito i partigiani con i rintocchi del mattino della presenza nemica. Dopo aver incendiato molte case di campagna e prelevano ventotto ostaggi (che tradurranno alle carceri di Oneglia e quattro saranno inviati in Germania di cui uno non tornerà più), proseguono il cammino e raggiungono Torre Paponi che si sveglia al crepitio delle armi automatiche.
Oltre 800 uomini tra Tedeschi e fascisti stringono in un cerchio di ferro e fuoco il paese impegnandosi in una delle più sanguinose imprese che la storia della Resistenza in Liguria ricordi.
Investono l'abitato con una valanga di proiettili, sparano con artiglierie pesanti e leggere, con razzi e proiettili traccianti, mettono in azione lanciafiamme e mortai che iniziano la loro opera di demolizione.
Sospeso il fuoco dopo circa mezz'ora, con mitra alla mano si lanciano nel paese. La prima vittima dello sterminio è Antonio Fossati di anni 43, ucciso a bruciapelo sulla soglia di casa. Il Fossati non è un partigiano o un particolare amico dei partigiani. Nessuno di quelli che saranno le innocenti vittime dell'infamia nazifascista potrà mai essere incolpata, a parziale discolpa per legge di guerra, di aver direttamente appartenuto al movimento di liberazione nazionale.
Colpito da una raffica di mitra al ventre, il sedicenne Giacomo Papone riesce a trascinarsi per una ventina di metri invocando disperatamente la madre, finché una seconda raffica sparata da un Italiano in divisa tedesca e che gli grida “te la diamo noi ora la mamma”, non lo inchioda definitivamente al suolo.
Matteo Temesio, decoratore di 41 anni, catturato presso la sua casa e condotto un po' fuori del paese, è ucciso con un colpo di rivoltella alla nuca.
Ernesto Pagani, Valentino Gonella, Luigi Papone (uno degli ostaggi rilasciato il giorno precedente), Bartolomeo Papone e Francesco Barla, vengono trucidati in gruppo in mezzo alle vie del paese. Si proibisce alla popolazione di rimuovere i loro corpi abbandonati sul posto, spostarli o pietosamente coprirli con un lenzuolo.
Sorte analoga subisce un altro Bartolomeo Papone, padre di famiglia numerosa, selvaggiamente ucciso ed abbandonato per la scala della propria abitazione.
Stefano Papone quindicenne (secondo ostaggio rilasciato), è ucciso poco distante, nella piazza ove era solito giocare a bocce.
Pure colpito Cosimo Papone, ma con scarso successo perché, con mossa prontamente eseguita, riesce ad offrire un bersaglio soltanto parziale ai mitra delle S.S. Per cui, ferito di striscio, se la caverà con un braccio amputato.
Dalla chiesa, dove erano stati sospinti ed ammassati dopo la cattura avvenuta nelle loro abitazioni, vengono prelevati Egidio Papone (terzo ostaggio rilasciato), don Pietro Carli parroco del paese, don Vittorio De Andreis canonico-vicario di Lingueglietta, Andrea Ascheri, due profughi di Ventimiglia di cui uno dodicenne, ed Antonio Geranio; i civili sono immediatamente Trucidati lungo la rampa che immette alla mulattiera per Boscomare, invece i due religiosi, condotti in un fienile e uccisi, vengono cosparsi di benzina e bruciati.
Solo l'Ascheri, a cui si parla in francese e lo si invita a discolparsi, dopo aver subito una specie di processo farsa e dopo essere stato posto davanti al plotone di esecuzione per un po' di tempo, è rilasciato incolume, con minacce e l'ingiunzione di non muoversi dalla chiesa fino a nuovo ordine.
Compiuta la strage, gli assasini pongono mano al fuoco per cui ben poche case del paese rimangono indenni. Volutamente risparmiano la chiesa, la canonica, l'oratorio dei SS Cosma e Damiano ed alcune case site alla perifferia, invece incendiano tutte le altre case, la scuola e l'asilo, i fienili ele stalle.
Una densa nube di fumo si leva in aria e ben presto ricopre l'intero paese. Le case crollano con grande schianto in una scena apocalittica di desolazione e di morte. I superstiti, ancora ammassati in chiesa, vengono ammoniti a non uscire per le vie, pena la morte. I Tedeschi ed i fascisti, accampati in Torre Paponi, lasceranno l'abitato soltanto il giorno dopo, alle ore 11.30 circa (7)
La suora Giovanna Simondini, rimasta ferita durante il bombardamento di Pietrabruna, morirà ad Imperia nei giorni successivi. Ballestra Francesco, Maccario Domenico e Maccario Mario sono gli altri ventimigliesi della frazione Torri, uccisi nell'incursione di Torre Paponi.
[NOTE]
(1) (Gran parte dei tragici episodi di Torre Paponi narrati in questo capitolo sono stati tratti dalla testimonianza di Andrea Ascheri, nativo del luogo, menzionato nella narrazione come protagonista, miracolosamente scampato alla strage).
(2) (Da una relazione del responsabile S.I.M. del 3° Battaglione “Artù” al comando della IV^ brigata, del 17-12-1944, prot.n. 86/E/5).
(3) (Da una relazione di Maurizio Massabò “Italo” comandante del 2° distaccamento [I° Battaglione "Carlo Montagna"] al Comando della IV brigata, del 16-12-1944. Il garibaldino Luigi Rovatti “Lolli” sarà trasportato nell'ospedale partigiano di Tavole ove rimarrà fino al 28 gennaio 1945 e poi in quello di Arzene (Carpasio) ove guarirà).
(4) ( Da una relazione di “Gianni”, responsabile S.I.M., al comando della V brigata [d'Assalto Garibaldi "Luigi Nuvoloni"], del 18-12-1944).
(5) (Da una relazione di Francesco Bianchi “Brunero”, responsabile S.I.M. al Comando della V brigata, del 19-12.1944 n. 217).
(6) (Da una relazione di Italo Bernardi “Montanara”, responsabile S.I.M., al Comando della IV brigata, del 16-12-1944, prot. n. 360/N/12).
(7) Col titolo “Fremete”, riportiamo dal giornale provinciale “Fronte della Gioventù d'Imperia” anno I n. 5 (1944) la narrazione dei tragici fatti di Torre Paponi: "... Ancora non sono dimenticati (e quando mai potranno obliarsi) gli insani terrorismi effettuati dai Tedeschi a Lingueglietta, Poggio, Stellanello, ed ecco nuovi e sempre più barbari eccidi ai danni delle nostre innocenti e pacifiche popolazioni contadine. A Torre Paponi, paese che conta 150 abitanti, incredibile a dirsi, i nazisti piazzarono la mitraglia antiaerea contro la popolazione e ne fecero strage orrenda: ventiquattro sono per ora le vittime accertate. Ci è stato descritto lo spettacolo: appena entrati nel paese i militi dell'UNPA videro corpi orribilmente maciullati, uomini, donne, giovinetti. E non solo, ma l'ira dei teutoni si riversò pure su due sacerdoti che sono stati buttati in una casa in fiamme e quindi carbonizzati. La popolazione è in preda al panico più atroce. Appena gli uomini dell'UNPA comparvero davanti ad essa, tutta raccolta in chiesa, furono scambiati per Tedeschi, videro tutta la gente terrorizzata alzare le mani; però quando, con buone maniere, fecero loro comprendere che erano amici, gli infelici contadini li abbracciarono invocando soccorso. Contemporaneamente Pietrabruna veniva bombardata dai folli, barbari Tedeschi, che uccisero tre persone, finché una loro concittadina residente nel paese riuscì a farli desistere dal massacro. E Villa-Talla? Pure incendiata dai massacratori di Hitler. Questi gli atti continui, tristi e feroci, degni soltanto di belve, compiuti nei nostri paesi.  Imperiesi, Italiani, meditate! Le ombre delle povere vittime implorano ven detta! Il loro sangue innocente, i Tedeschi lo devono mordere nella polvere. Giustizia sarà!...".
Francesco Biga,
Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977

Elenco delle vittime decedute
Amoretti Giovanni, civile.
Balestra (o Ballestra) Giovanni Battista, civile anni 55, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz. di Pietrabruna.
Ballestra Agostino, civile, anni 17, deceduto il 14.12.1944 a Torre Paponi fraz. di Pietrabruna.
Ballestra Francesco, civile, anni 44, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz. di Pietrabruna.
Barla Francesco, civile, deceduto il 14.12.1944 a Torre Paponi fraz. di Pietrabruna.
De Andreis Don Vittorio, canonico vicario di Lingueglietta fraz. di Cipressa, anni 72, ucciso e bruciato il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz. di Pietrabruna.
De Carli Don Pietro. Parroco di Torre Paponi, anni 68, ucciso e bruciato il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz. di Pietrabruna.
Fossati Antonio, civile, anni 43, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Geranio Antonio, civile, anni 40, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz. di Pietrabruna.
Gonella Valentino, civile, anni 34, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz. di Pietrabruna.
Guasco Carolina, civile, anni 45, deceduto il 14.12.1944 a Torre Paponi fraz. di Pietrabruna.
Guasco Francesco Giocondo, civile, infermo di mente deceduto il 14.12.1944 probabilmente presso il Cimitero di Costarainera.
Lanteri Pietro, civile, deceduto il 14.12.1944 a Pietrabruna.
Maccario Domenico, proveniente da Ventimiglia (fraz. Torri) sfollato a Pietrabruna, civile, anni 29, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Maccario Mario, proveniente da Ventimiglia (fraz. Torri) sfollato a Pietrabruna, civile, anni 17, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Novella Antonio (nome di battaglia “Novella”) di Giovanni, nato a Arma di Taggia il 12.02.1913, anni 21, contadino, partigiano (II Divis. iV Brig.) dal 14.05.1944 al 16.12.1944, n° dichiaraz. Integrativa 10511, deceduto il 16.12.1944 a Pietrabruna.
Pagani Valente (o Ernesto), civile, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Papone Bartolomeo di Giacomo, civile, anni 37, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Papone Bartolomeo di Maurizio, civile, anni 52, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Papone Egidio, civile, anni 40, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Papone Giacomo, civile, anni 16, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Papone Ida (figlia di Guasco Carolina), civile, anni 20, ferita il 14.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna, deceduta ad Imperia il 16.12.1944.
Papone Luigi, civile, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Papone Stefano, civile, anni 17, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Ranise Gio Battista, civile, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Sciandra Giuseppe (nome di battaglia “Matteo”) di Matteo, nato a Pamparato il 12.10.1907, anni 37, partigiano (II Divis. IV Brig.) dal 11.08.1944 al 14.12.1944, n° dichiaraz. Integrativa 3068, fucilato il 14.12.1944 a Pietrabruna (da documento partigiano), deceduto presso cimitero di Costarainera (da opuscolo ”L'eccidio di Torre Paponi”), deceduto il 17.12.1944 a Cipressa (da certificato di morte rilasciato dal Comune di Imperia del 3.08.1945).
Simondini Suor Giovanna, ferita il 16.12.1944 a Pietrabruna, morirà a Imperia il 17.12.1944 per le ferite riportate.
Temesio Matteo, civile , anni 41, deceduto il 16.12.1944 a Torre Paponi fraz Pietrabruna.
Altre
Papone Cosimo, civile, rimane ferito ma si salva, (braccio amputato).
Sabina Giribaldi, Episodio di Torre Paponi, Pietrabruna, 14-16.02.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia
 
Sono stato a Torre Paponi in questi giorni per ricostruire, nella sua dure e tragica realtà: le giornate di terrorismo vissute da quella onesta e laboriosa popolazione, che fu certamente la più martoriata di tutta la provincia; ne faccio ora una breve relazione, mettendo in rilievo soprattutto la figura dei due venerandi vecchi Sacerdoti, che in quella circostanza vennero bruciati vivi dagli sgherri sacrileghi di Hitler e Mussolini. Gli abitanti del paese rievocano le gesta di quei barbari con le lacrime agli occhi e sotto l'impressione di un diabolico terrore, che ancor oggi sembra li riempa di spavento. Pare incredibile che degli uomini abbiano potuto compiere atti selvaggi e crudeli! Quello che hanno fatto a Torre Paponi è una conferma sicura di tutto quello che i sicari di Satana hanno perpetrato nei campi di concentramento e nelle camere della morte in Italia, in Germania e nella Polonia. Qui mi fermo a descrivere le gesta sanguinarie di Torre Paponi, e lo faccio rapidamente, ma con precisione e chiarezza. Le giornate del terrore si aprono per quella gente pacifica e buona il 14 dicembre 1944. Al mattino per tempo passano nel paese nazisti e fascisti, che salgono sui monti in cerca di patrioti. La sera, al ritorno, entrano a Torre Paponi sparando all'impazzata e assassinano due donne e un uomo. Il 16 sabato ritornano fin dal mattino con diversi camion, provenienti da San Lorenzo, mentre altri scendevano dalla montagna, passando da Lingueglietta e da Boscomare. Erano senza dubbio insieme nazisti e fascisti, perché parlavano correntemente l'italiano e anche il nostro dialetto ligure! Iniziano la giornata con una sparatoria indiavolata, mettendo tutte le loro armi in azione: rivoltelle, moschetti, mitra, mortai e cannoni. La valle di San Lorenzo sembrava una bolgia infernale. Le donne, i vecchi e i fanciulli vengono chiusi nella Chiesa Parrocchiale dei Santi Cosma e Damiano. Intanto fuori i predoni e gli assassini compiono brutalmente i loro misfatti, svuotano le case di tutto ciò che potevano avare qualche valore, compreso mucche, capre, muli; e poi appiccarono il fuoco ai fienili, alle stalle, alle legnaie e uccidono tutti gli uomini e giovani che trovano in paese, sottoponendoli a orribili e strazianti torture. La piccola frazione di Torre Paponi viene così trasformata in un teatro di guerra, lasciando tutte le contrade seminate di morti. Di fatti ne uccidono 22 sopra 40 uomini, quanti ne poteva contare allora il piccolo paesetto. Solo uno Papone Marco, è riuscito a salvarsi dalla morte, perché quelle belve lo credevano morto. Gli hanno tagliato un braccio, gli hanno strappato i capelli e lo Hanno lasciato sulla strada! Do qui i nomi delle vittime, che saluto con l'anima commossa e piena di indignazione contro quelle tigri e quelle iene che godevano come demoni nell'orgia sanguinaria. Scriviamo questi nomi nei nostri cuori e custodiamoli come una cosa sacra, in modo indelebile, come i nomi dei caduti sull'altare della Patria e per la conquista di una vita civile e libera. Il loro sangue, è il sangue di tutti i nostri morti, valga a cementare l'unione e la fraternità del popolo italiano, che è riuscito a prezzo di tanto sacrificio, a spezzare le catene, che, per oltre un ventennio, lo tennero legato alla più obbrobriosa schiavitù.
Don Vittorio De Andreis, Parroco e Vicario Foraneo di Lingueglietta;
Don Pietro Carli, Parroco di Torre Paponi
Papone Ida
Guasco Carolina Papone
Amoretti Giovanni
Gonella Martino
Barla Francesco
Papone Bartolomeo fu Maurizio
Papone Bartolomeo di Giovanni
Papone Stefano
Papone Giacomo
Papone Luigi
Fossati Antonio
Papone Egidio
Temesio Matteo
Valencia Gonelli
Geranio Antonio
Pagani Valente
Macario Luigi
Macario Mario
Balestra Agostino
Balestra Francesco
Ma soprattutto è contro i due venerandi Sacerdoti che quei sacrileghi banditi usarono tutta la loro ferocia di barbari, indegni del nome di uomini. Il povero Don Pietro Carli, parroco di Torre Paponi, un bravo sacerdote milanese, sempre buono e affabile con tutti, fu sorpreso all'altare, mentre stava preparando per la celebrazione della Messa. Erano le 6.30. Lo strapparono all'altare, Obbligandolo a sedersi nei banchi della Chiesa con la popolazione, che nel frattempo entrava terrorizzata e piangente. Il bravo e pio sacerdote Incominciò a pregare insieme ai suoi parrocchiani recitando il Santo Rosario. Passò appena mezz'ora ed ecco gli sbirri che vengono a prenderlo. A pugni e calci lo spingono fuori della Chiesa. poi lo prendono per le gambe e per le braccia e lo portano di peso, percuotendolo brutalmente, fino alla porta del fienile di un certo Ascheri Matteo, dove giunti si fermano, lo percuotono ancora con pugni, calci e bastonate, lo gettano in mezzo alle fiamme, che divampano e crepitano come da una bolgia infernale. I resti, consistenti in poche ossa, vennero ritrovati soltanto dopo un mese dalla macabra giornata tra le ceneri dell'immenso braciere. L'altro venerando e santo sacerdote, conosciuto ed apprezzato in tutta la diocesi per le sue preclare virtù di santità e scienza , vecchio di 72 anni, il Rev. Don De Andreis, Parroco e Vicario Foraneo di Lingueglietta, arrivò a Torre Paponi verso le 8. Lo presero i banditi nazi-fascisti nella sua Chiesa Parrocchiale mentre suonava le campane per la Messa. A pugni e calci, apostrofandolo con ogni sorta d'improperii, lo spinsero attraverso aspri sentieri, fino a Torre Paponi, accompagnandolo in chiesa, dove giunse sfinito, senza poter pronunciare una parola. Cadde a terra e poi si riebbe, mettendosi a sedere sui banchi; la corona del Rosario in mano pregava, recitando il S. Rosario. Dopo una mezz'ora, ecco nuovamente gli sgherri che entrarono in Chiesa e prelevano il Santo Sacerdote. Alzatosi, giunge le mani verso l'altare, poi getta uno sguardo sul popolo come per salutare tutti l'ultima volta, e viene spinto fuori, nelle vie del paese, a calci e pugni, giù giù dalla parte di Pietrabruna, sulla strada carrozzabile, dove stava il comando di quei maledetti. Laggiù non si sa come venne trattato; ma possiamo immaginarlo benissimo, perché fu riportato quasi subito in paese, sempre a calci e pugni, fino alle prime case, che ardevano da enorme incendio.
Qui una donna, esterrefatta dalla paura, che stava sulla strada accanto al marito, vecchio e paralitico, certa Maddalena Re mi racconta come ha potuto assistere all'ultima scena dell'orribile esecrando sacrilego delitto. Giunti alla porta della stalla di Papone Domenico, trasformata in fienile e legnaia, si fermarono, intimando alla donna di allontanarsi e andare in Chiesa. Ma la povera donna fece notare che aveva il marito infermo, in condizioni pietose, sulla strada, e non si sentiva di lasciarlo. Allora il pio Sacerdote a supplicare quelle tigri che avessero compassione di questa povera donna, perché in verità il marito si trovava da tempo in quello stato pietoso. Uno di quei sgherri afferra la donna per un braccio e le dice: “vieni con me”. Essa rispose: “ma io ho paura a venire con voi, perché voi mi uccidete”. Nelle strade, dappertutto, c'era già pieno di morti! “”No risponde il manigoldo, non è per uccidervi, ma perché non vediate ciò che faremo al prete”. Proprio in quel momento essa guardava e vedeva il sacerdote, le mani giunte gli occhi verso il cielo, e i sacrileghi assassini che lo prendono a forza e lo gettano nella fornace, spingendolo con lunghi bastoni, mentre cercava istintivamente di uscire da quel fuoco d'inferno. In seguito la popolazione andò ad intingere pannolini e fazzoletti nel sangue del martire per conservare la reliquia di un santo come i primi cristiani. Non posso dimenticare un povero padre, che mi raccontava piangendo come gli trucidarono il figlio Papone Stefano dinanzi ai suoi occhi e presente la mamma e la sorellina di 12 anni. Un altro giovane 15 anni quasi morente, il ventre squarciato (e gli uscivano le budella) invocava piangendo la mamma, e quelle belve vestite da uomini gli spararono un colpo alla testa, dicendogli beffardamente: “Te la diamo noi la mamma. Prendi”. Alle 10 tutto era finito. I camion, carichi della refurtiva, compreso mucche, capre e muli si allontanarono verso San Lorenzo, mentre un gruppo saliva a Pietrabruna a seminare altri lutti ed altre rovine. La popolazione rimase così esterrefatta e sbalordita che non seppe più uscire di Chiesa, dove sostò spaventata dal terrore per diversi giorni. Questa la tragica storia delle terroristiche giornate di Torre Paponi.
Tratto dalla relazione del teologo Mons. G.B. Revelli
Redazione, La strage di Torre Paponi, Pietrabruna me amù