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lunedì 18 novembre 2024

Solo il partigiano Giacomo Ghersi, benché ferito, riuscì a mettersi in salvo

Santo Stefano al Mare (IM): uno scorcio, con vista sino ad Arma di Taggia e a Bussana di Sanremo

Il 23 gennaio 1945 nella parte occidentale della “I^ Zona Operativa Liguria” avveniva l’uccisione di alcuni partigiani appartenenti al Distaccamento “Folgore” del Battaglione “Secondo” della IV^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Elsio Guarrini” della II^ Divisione “Felice Cascione”. Circa cento SS con due mortai circondavano casa Ghersi a Taggia (IM). I quattro garibaldini che si trovavano nell’abitazione vennero immediatamente immobilizzati e torturati. Venne bruciato il fienile di Raffaele Polito. Dopo di che, seguendo una lista fornita da qualche delatore, continuarono gli arresti. Sulla strada si trovarono i cadaveri di tre garibaldini, Vincenzo Morto Pistone, Ermanno Biondo Gazzolo e Mario Nico Cichero, che erano stati fucilati. Dei partigiani che si trovavano all’interno del casone riuscì a salvarsi solo Luigi Franco Ghersi, pur ferito.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999 
 
La sera del 23 gennaio u.s. in Taggia e in regione "Castelletti" 30 militari della S.D. germanica e otto militi dell'U.P.I. effettuavano un rastrellamento per la cattura dei componenti la banda "Folgore".
Sono stati arrestati sette banditi, di cui cinque fucilati sul posto dai germanici, uno trattenuto in arresto e tale Luigi Ghersi evaso.
Venivano recuperati sei moschetti mod. 91, una pistola e sedici bombe a mano, nonché il ruolino completo della banda "Folgore".
Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del 20 febbraio 1945, pp. 27,28. Fonte: Fondazione Luigi Micheletti  
 
"... Alle ore 20 circa del 23 gennaio 1945 reparti delle SS tedesche e italiane provenienti da Imperia e guidati da una spia procedevano all'arresto in Arma di Taggia ed in regione Castelletti dei garibaldini Giacomo Ghersi, Mario Cichero, Vincenzo Pistone, Vincenzo De Maria, Raffaele Politi, Guglielmo Bosco, Luigi Ghersi ed Ermanno Gazzolo. Tutti i fermati appartenevano al Distaccamento 'Folgore'. Alcuni giorni prima garibaldini del Distaccamento 'Peletta' avevano, su indicazione di Pino Faustini, perquisito la casa dei Ghersi e, dopo un chiarimento, avevano capito che essi erano garibaldini sinceri, mentre Faustini era un individuo 'torbido' che aveva in odio i Ghersi stessi. La sera del 23, quindi, mentre il comandante del Distaccamento si trovava assente... reparti delle SS tedesche e italiane (circa 100 uomini) con due mortai, circondavano casa Ghersi facendovi irruzione. Erano guidati da un borghese con faccia mascherata in parte, cappello calato sugli occhi e bavero del cappotto rialzato. In quel momento si trovavano in casa Ghersi Giacomo e Luigi ed anche Guglielmo Bosco e Vincenzo De Maria. Furono bestialmente percossi, senza alcuna pietà, perché non vollero rivelare la località dove erano nascoste le loro armi con le munizioni e i nomi degli altri partigiani componenti il Distaccamento. Essi sopportarono con coraggio e fermezza la tortura senza pronunciare una sola parola che potesse essere di nocumento ai compagni. Anche i genitori dei Ghersi furono minacciati e malmenati affinché parlassero. Il nipote del Ghersi di anni 11 alle domande rivoltegli dal borghese rispondeva fieramente di nulla sapere, invitando la spia a togliersi la maschera. Altri elementi delle SS appiccavano il fuoco alla baracca di Raffaele Politi il quale, costretto dal fumo e dalle fiamme, dovette uscire all'aperto e arrendersi, fu percosso e seviziato a lungo... un gruppo di SS partì per andare ad arrestare altri i cui nomi erano in una lista in loro possesso. Dopo aver completamento depredato la casa... legati insieme i fratelli Ghersi... i nazifascisti si portarono in Arma di Taggia, sulla Via Aurelia di fronte alla Chiesa. Lungo la strada giacevano già i cadaveri dei garibaldini Vincenzo Pistone, Ermanno Gazzolo e Mario Cichero. Al garibaldino Gazzolo, perché parlasse, furono cavati i denti con le pinze da fabbro, ma nonostante la sofferenza non pronunciò una parola di delazione e si lasciò massacrare. Il Pistone subì la stessa sorte. Alla vista dei compagni morti, accortisi di essere portati nei pressi, Giacomo Ghersi, che era stato slegato dal fratello Luigi, incitava quest'ultimo a fuggire perché un tedesco stava per sparargli al capo con una pistola. Infatti fuggì e, nonostante le raffiche di MG 42 e inseguito come una bestia selvaggia, benché ferito, riuscì a mettersi in salvo. Gli altri prigionieri, ormai agli estremi per i tormenti subiti, non potevano tentare la fuga e vennero barbaramente trucidati. Dei loro cadaveri fu fatto scempio". 
Da un rapporto (documento Isrecim) del 17 maggio 1945 del comando del IX° Distaccamento "Bianchi" del III° Battaglione della IV^ Brigata della II^ Divisione, inviato al comando del III° Battaglione in Rocco Fava, Op. cit. - Tomo II
    
Il 24 gennaio 1945 i fascisti rastrellano la vallata di Montegrazie ed anche la zona di Terzorio dove purtroppo viene catturato il partigiano Renato Giusti (Baffino); sorpreso in un fienile (per causa di spie) dove solevano dormire dei partigiani è portato al comando tedesco di Santo Stefano al Mare (Villa Dea). Strada facendo è percosso duramente con il calcio del fucile. Gli viene intimato di rivelare il luogo dove si nascondono i suoi compagni altrimenti non avrebbe più visto la moglie e il figlio. Accompagnato per diversi giorni nelle località notoriamente consciute come frequantate dai partigiani non ottengono da lui nessuna informazione. Successivamente è trasferito a Sanremo (Villa Fiorentina) dove subisce ulteriori torture. Da quel momento non si è saputo più niente. Quando furono recuperate cinque salme irriconoscibili probabilmente tra queste c'era anche quella di "Baffino".
Francesco Biga (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. IV. Da Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Grafiche Amadeo, 2005, p. 149
 
Le nostre azioni purtroppo al momento erano in forte ribasso. Sorprese fatali accadevano di continuo, triste bilancio che l'inverno esigeva. Anche Baffino [Renato Giusti], in transito per Terzorio, all'alba del famoso mattino [24 gennaio 1945] era stato catturato nell'operazione congiunta effettuata nei due paesi della valle; quasi irriconoscibile per le percosse e sevizie subite, era stato portato da militi repubblicani, seduto sopra una sedia, come un trofeo per le vie di Pompeiana, triste sfilata di un uomo giunto alla fine del suo percorso.
Renato Faggian (Gaston), I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza Imperiese. Diario partigiano 1944-45, Ed. Cav. A. Dominici, Imperia, 1984
 
Il 27 gennaio 1945 venne fucilato anche Renato Giusti (Baffino), della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione d'Assalto Garibaldi "Felice Cascione", partigiano che era stato catturato durante il rastrellamento di Terzorio (IM) avvenuto tre giorni prima. “Baffino” lavorava nell’organizzazione “Todt” di Porto Maurizio, da cui era riuscito a far fuggire diversi patrioti che si erano subito diretti in montagna; già scoperto ed incarcerato una volta, ma in seguito liberato dai garibaldini, era stato incorporato nelle formazioni della II^ Divisione “Felice Cascione”.  
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I

venerdì 4 ottobre 2024

La morte del comandante partigiano Menini fece scuola solo a pochi

Armo (IM). Foto: Davide Papalini. Fonte: Wikipedia

Intanto l'ufficio SIM della Divisione "Silvio Bonfante" viene informato che il rastrellamento nazifascista preannunciato è rinviato di qualche giorno, perché la Divisione fascista "Cacciatori degli Appennini", che avrebbe dovuto effettuarlo, si trova impegnata contro la II Divisione d'assalto Garibaldi "F. Cascione". La notizia è trasmessa ai Comandi delle Brigate dipendenti, che hanno il tempo, così, di mettere in esecuzione con rapidità le direttive contenute nelle circolari n. 22 e n. 23. I garibaldini meno atti sono inviati a rafforzare le squadre di riserva, passate alle dipendenze dirette del vicecomandante di Divisione Luigi Massabò (Pantera). Anche le altre disposizioni contenute nelle ricordate circolari sono messe in esecuzione.
In attesa del grande rastrellamento, i Distaccamenti della nuova [n.d.r.: la "Bonfante venne formata il 19 dicembre 1944] Divisione cercano di infliggere in qualche modo nuovi colpi al nemico: il 2 di gennaio [1945] una squadra del Distaccamento "A. Viani" smina un campo in Valle Andora: l'esplosivo è inviato a Ubaga, al Distaccamento di Giuseppe Garibaldi; il 3 un'altra squadra del "G. Catter", con il comandante Mario Gennari (Fernandel), al rientro da una missione, si scontra con una pattuglia tedesca sulla strada Albenga-Garessio: il nemico lascia sul teneno un morto e un ferito. Lo stesso nemico, che pare sia in attesa di eventi, compie micidiali puntate provocando vittime tra i civili.
Nel piccolo centro di Armo, in alta Valle Arroscia, era dislocato un nucleo partigiano dell'Intendenza Divisionale, per immagazzinare rifornimenti provenienti dal Piemonte. A fine dicembre vi si trovava ammalato pure Lionello Menini, comandante del Distaccamento Mortaisti "E. Bacigalupo". Su indicazione di una spia, il mattino presto del 31 dicembre 1944, un centinaio di Tedeschi, provenienti da Pieve di Teco, investono la zona di Armo, Trovasta e Moano. Alcuni garibaldini sfuggono al rastrellamento, altri cadono prigionieri, tra cui tre Austriaci disertori, e i civili Giuseppe Cacciò e Giovanni Ferrari.
Il Menini riesce a far fuggire altri due partigiani prima di essere catturato. Portato al Comando tedesco di Pieve di Teco, è riconosciuto come capo partigiano. Chiuso in carcere confessa di essere partigiano ma, malgrado sia sottoposto a feroci torture, non parla, mantiene il silenzio. Il 3 di gennaio è condannato a morte. Prima di morire riesce ad inviare un biglietto al suo commissario Giuseppe Cognein per informarlo che gli Austriaci avevano parlato, e che non gli dispiaceva morire per una causa giusta.
Mentre il Comando divisionale attua lo spostamento dei Distaccamenti, l'Intendenza della II Brigata si trasferisce in Val Pennavaira e quella divisionale in Valle Arroscia. Lionello Menini ed i compagni della triste sorte Lorenzo Gracco, Ezio Badano e Giovanni Valdora sono condotti in località Carrega e fucilati.
[...] Il Distaccamento "E. Bacigalupo" viene sciolto, i superstiti sono aggregati ad altri Distaccamenti. La cattura di Menini dimostrò che la nuova tattica nemica delle puntate dirette poteva essere più pericolosa dei rastrellamenti. Il nemico piombava ora in silenzio e in modo sicuro sulle basi garibaldine senza che raffiche di mitragliatrici e colpi di mortaio dessero l'allarme come era avvenuto nell'estate e nell'autunno del 1944.
Solo un perfetto servizio di guardia e di pattuglie poteva garantire i garibaldini dalle sorprese. Si era visto come esso fosse sempre stato inadeguato anche quando una catena di Distaccamenti, appoggiandosi a vicenda, limitava la possibilità di attacco da una o due direzioni al massimo.
In gennaio poi, con gli effettivi ridotti e la minaccia da ogni lato, era impossibile essere avvertiti in tempo. Solo dei buoni rifugi, come abbiamo già ricordato, usati ogni notte, potevano garantire in un certo qual modo l'incolumità. Ma la sorte di Menini fece scuola solo a pochi: la mente era sempre fissa al prossimo grande rastrellamento che si prevedeva imminente.
Infatti il Comando della "Bonfante" lascia la sede di Marmoreo per rendersi conto della situazione nelle tre Brigate, nei Distaccamenti ed informare i volontari della drammatica situazione dagli sbocchi imprevisti. Si cerca di fare funzionare bene il centro staffette di Degna ed il SIM dislocato a Poggio, sotto Casanova, ristabilendo i vccchi contatti e creandone di nuovi. Più tardi, un gruppo del Comando, formato da Osvaldo Contestabile (Osvaldo), da Luigi Massabò (Pantera) e da Lorenzo Semeria (Nenno) responsabile del SIM, partono per la valle di Diano onde ispezionare il Comando di Massimo Gismondi (Mancen), il quale è ricercato dai brigatisti neri e dalle SS tedesche con fotografia alla mano e per ristabilire i contatti con gli informatori di Pontedassio. Invece Giorgio Olivero [comandante della Divisione "Bonfante"] e Gustavo Berio partono verso altra direzione. 

Francesco  Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV: Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 19-22

 

2 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante", ai comandi delle Brigate dipendenti I^, "Silvano Belgrano", II^, "Nino Berio”, e III^, "Ettore Bacigalupo" - Comunicava che "...l'Intendenza della I^ Brigata si appoggerà al C.L.N. di Albenga... Il servizio S.I.M. divisionale sarà ridotto a tre soli elementi e ad una staffetta...".
3 gennaio 1945 - Tribunale Militare tedesco - Copia della sentenza di condanna a morte per i garibaldini Lionello Menini (Menini), comandante del Distaccamento "Bacigalupo" della I^ Zona Operativa Liguria ed Ezio Badano (Zio), G.B. Valdora (Ferroviere) e Lorenzo Gracco della II^ Brigata "Sambolino" della Divisione d'Assalto Garibaldi " Gin Bevilacqua" operante nella II^ Zona Operativa Liguria.
3 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione sul rastrellamento effettuato ad Armo e a Pieve di Teco il 30 dicembre 1944, durante il quale era avvenuto l'arresto di Lionello Menini.
3 gennaio 1945 - Dal comando [comandante "Giorgio", Giorgio Olivero] della Divisione "Silvio Bonfante" a tutti i reparti dipendenti - Comunicava che "la zona in cui si opera è di immediato retrofronte, per cui serve gente convinta, mettendo al bando ogni forma di disfattismo. Occorre reagire agli atti di vandalismo del nemico".
3 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della III^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Ettore Bacigalupo” - Direttiva: "Occorre provvedere, nei paesi in cui non vi sono garibaldini, ad inquadrare i giovani nelle squadre di riserva locali. Queste dovranno sorvegliare i passi durante la notte. Si ricorda che l'adesione ha carattere volontario. Il comando di tali squadre spetta al vice comandante di Brigata".
3 gennaio 1945 - Da Curto [Nino Siccardi, comandante della I^ Zona Operativa Liguria] a Simon [Carlo Farini, ispettore della I^ Zona Operativa Liguria] - Relazione sulla visita fatta alla Divisione Bonfante.
3 gennaio 1945 - Dal Comando Operativo della I^ Zona Liguria a Simon - Comunicava che "qualche elemento della Divisione Bonfante si è presentato ai tedeschi, guidandoli in qualche azione di rastrellamento".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

martedì 17 settembre 2024

Due capi banda si suicidarono per non cadere nelle nostre mani

Villatalla, frazione di Prelà (IM). Fonte: ErmaAnna/Flickr

Il 25 gennaio, il partigiano Ferrero (Tom o Staffetta Gambadilegno), del X° Distaccamento "Walter Berio", catturato dal nemico il giorno 17 (come abbiamo già ricordato) e rimasto ferito, viene medicato, sottoposto a  duri interrogatori, tradisce i compagni poiché conduce i fascisti nella tana che nascondeva il Distaccamento e che lui stesso aveva aiutato a costruire. Così cadono in mano al nemico ben undici garibaldini, tra cui il comandante Vittorio Aliprandi (Dimitri) e il commissario Nello Bruno (Merlo), i quali preferiscono togliersi la vita piuttosto di arrendersi. Sette di loro saranno fucilati ad Oneglia e due a Torretta di Vasia.
[...] Ma vediamo nei dettagli il triste episodio dalla relazione del vice commissario della IV° Brigata Gino Gerini.
“La Brigata è in stato di sfacello, in un solo mese ha avuto quasi un centinaio di caduti, più di un terzo dei suoi effettivi, già ridotti dalle gravi perdite precedenti e da alcuni defezioni. Tutto intorno ai superstiti, il nemico aveva posto un cordone di sicurezza; li aveva tagliati in tronconi, senza possibilità di ricongiungersi o mantenere i collegamenti. Si era infiltrato dappertutto presidiando i centri vitali. Fu il momento più terribile della lotta. I partigiani prevedevano l'annientamento definitivo poiché non avevano quasi più munizioni, nè viveri, nè indumenti. Non erano più una formazione, ma una massa di poveri esseri laceri e sfiniti in cui soltanto lo spirito continuava a vivere indomabile. Si erano divisi in gruppi per sfuggire alla continua sorveglianza nemica. Gruppi di cinque o sei uomini, dieci o dodici al massimo, che si aggiravano senza meta fra i boschi, rupi e burroni, come fantasmi. Il X Distaccamento “Walter Berio” era stato decimato come tutti gli altri. Un piccolo gruppo del Distaccamento stesso, undici uomini in tutto, con a capo “Dimitri” e “Merlo” (quest'ultimo uno dei più vecchi garibaldini), si era portato in una località tra Pantasina e Villatalla [frazione del comune di Prelà (IM)], in un fondovalle presso un ruscello incassato tra pendii scoscesi, rivestiti di boschi, dove era stata adattata una caverna a rifugio. Il luogo sembrava sicuro, un muro a secco era stato eretto all'entrata della tana, ove la vita trascorreva orribile per il fango e l'umidità. Ma gli uomini resistevano nella speranza di poter ricongiungersi ai compagni e riprendere la lotta interrotta. Il famigerato capitano Giovanni Ferraris, con i suoi uomini della compagnia “Senza Patria”, rastrellatori di Imperia, battevano la campagna. Era un feroce masnadiero ed i suoi sgherri formavano la più spietata banda di aguzzini. Derubavano i contadini, terrorizzavano, seviziavano ed uccidevano con un sadismo inumano.Naturalmente le spie e i traditori non mancavano. Erano in ogni luogo: gente che si vendeva per denaro sempre, tavolta per odio. Il giorno 25 gennaio 1945, Ferraris va su a Villatalla con le squadre. Le notizie che egli ha sono sicure, perché circonda il vallone dove stavano i partigiani ed incomincia a batterlo. Il Distaccamento si rifugia nella caverna: pensare di resistere è impossibile, non vi sono armi automatiche, i fucili sono scarichi, le sole rivoltelle, alcune delle quali inservibili, hanno qualche pallottola. I giovani si uniscono e attendono nella speranza di non venire scoperti. Sentono i passi dei fascisti che vanno avanti e indietro e ne seguono con ansia tutti i movimenti. Poi odono il rumore delle pietre smosse e vedono filtrare nella tana la luce del giorno: è la fine! Impugnano le armi e tirano, dal di fuori si risponde con il lancio di bombe a mano che feriscono quasi tutti i partigiani. Le munizioni sono esaurite. “Dimitri” e “Merlo” sono per una sortita in massa, ma gli altri non si reggono in piedi, alcuni non possono più muoversi. Il nemico, che fuori schiamazza e insulta, ma non osa entrare, esulta perché sa di aver vinto. I due capi compiono il gesto eroico: salutano i compagni uno ad uno, poi, addossatisi alla parete della caverna, si sopprimono con i due ultimi colpi rimastigli. Il nemico sente i colpi. Intuisce quello che sta avvenendo. Dopo aver esitato ancora e quindi scaricate le armi all'interno della caverna senza avere ottenuto risposta, irrompe fulmineamente nel rifugio. Vi trova due partigiani morti e altri nove feriti. Ma né  l'eroismo né la maestà della morte valgono a mitigare la loro ferocia. I garibaldini, vivi o morti, sono spogliati, insultati e percossi. I superstiti vengono legati e, tra gli scherni della soldataglia, avviati verso il paese. Due giorni dopo un gruppo di partigiani, informati dell'accaduto, si recano a recuperare le salme dei due compagni caduti. “Dimitri” e “Merlo” giacevano ove si erano uccisi, quasi nudi e senza scarpe. Sul corpo di “Dimitri” c'era un pezzo di carta con scritte poche e turpi parole che dicevano: “Questa è la sorte che toccherà a tutti i banditi”. E più sotto il nome di un partigiano con la postilla: “Anche tu farai la stessa fine”. Le salme furono poste sopra due barelle fabbricate con rami intrecciati e portati nel cimitero di Villatalla dove vennero seppellite. Gli accompagnatori andavano su per un sentiero alpestre, muti e commossi. A metà strada un vecchio andò loro incontro, fu riconosciuto, era il padre di “Dimitri”. Si fermò,i suoi occhi erano fissi, sbarrati, sulle rozze portantine. Intuì che suo figlio era lì, esanime. Senza un grido, senza una lacrima, come se il dolore lo avesse impietrito, con un balzo si gettò sul corpo del figlio e lo abbracciò. Poi cadde svenuto. I nove prigionieri furono trasportati ad Imperia, torturati e in seguito fucilati...".
Tra questi ricordiamo: Carletti Doriano (Misar), Giuseppe De Lauro (Venezia), Luigi Guareschi (Camillo), Vincenzo Faralli (Camogli), il russo Nicolay Gabrielovic Poronof (Tenente Nicolay). Di essi daremo altri ragguagli in seguito.
Il 27 il tempo si guasta, piovaschi e nebbia. Si sente una sparatoria, il nemnico rastrella Pietrabruna e dintorni. Partigiani del primo Battaglione, che si trovano nella zona, si portano in cresta dove preparano una postazione per la mitragliatrice che hanno in dotazione.
Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV: Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 89-92

Annibale Agostini, nato a Genova il 13 maggio 1911, agente in servizio presso la Squadra Antiribelli della Questura di Imperia
Interrogatorio del 10.10.1945:
"[...] Ammetto di aver preso parte al rastrellamento avvenuto a gennaio u.s. in Villatalla ove furono catturati 9 partigiani e due capi banda si suicidarono per non cadere nelle nostre mani. Tale rastrellamento venne effettuato su indicazioni fornite da un partigiano a nome Ferrero, il quale ci accompagnò sul posto. I 9 partigiani catturati nella predetta azione erano 7 italiani e due russi. Gli italiani furono consegnati alla Questura e nei verbali vennero indicati come prigionieri dei partigiani da noi liberati, in quanto appartenenti all’esercito repubblicano. Seppi in seguito che cinque dei fermati vennero uccisi dai tedeschi per rappresaglia come da manifesti affissi sui muri della città [Imperia]. Non sapevo che anche i due russi vennero fucilati dai tedeschi. Dall’esame degli atti della questura sarà possibile accertare che cercai di salvare i predetti facendoli figurare come elementi prelevati e tenuti prigionieri dai partigiani.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia,  StreetLib, Milano, 2019

... un reparto della Brigata Nera con elementi della polizia dipendenti dalla Questura eseguiva azione di rastrellamento in territorio di Vasia, Pantasina, Arborei, riuscendo a catturare nove partigiani, fra cui due di nazionalità russa. Un capo banda ed un commissario politico per evitare l'arresto si suicidavano, sparandosi un colpo di pistola alla tempia.
Sergiacomi, Questore di Imperia, Al capo della Polizia - Sede di campagna (visto di arrivo del Ministero dell'Interno della RSI in data 7 marzo 1945), Relazione mensile sulla situazione politica, militare ed economica della Provincia di Imperia, 1 febbraio 1945  - XXIII°

lunedì 26 agosto 2024

Con l'arrivo del capitano Bentley tra i partigiani imperiesi...


 
Si pubblicano qui le copie di due comunicazioni inviate a gennaio 1945 da ufficiali statunitensi all'antenna OSS di Nizza. Questi documenti furono a suo tempo rinvenuti a cura di Giuseppe Mac Fiorucci in preparazione del suo Gruppo Sbarchi Vallecrosia (IsrecIm, 2007).
Adriano Maini 
 
 
S E G R E T O
Ref : OB/I/19
13 gennaio 1945

Al Capitano: G.M.T. Jones,
Collegamento delle Forze di Informazione
NIZZA

Da: Distaccamento 20
N°1 Forze Speciali

Come richiesto, per le informazioni del 6° Gruppo d'Armata dell'Esercito [statunitense], segue un resoconto delle nostre attività fino a ora.

La prima fase del nostro lavoro, ora quasi completata, fu di stabilire un contatto con le bande partigiane nell'area, e di approntare un piccolo invio di rifornimenti per soddisfare le richieste immediate.

Nella seconda fase abbiamo inaugurato il contatto radio e per corriere coi partigiani più prossimi e abbiamo inviato rifornimenti via terra su piccola scala. Un Ufficiale di Collegamento Britannico [n.d.r.: Robert Bentley] con operatore W/T è stato infiltrato via mare con il compito di organizzare il ricevimento e il successivo trasporto via terra dei rifornimenti inviati via mare.

Ci si aspetta che questi mezzi siano i più fruttiferi, sebbene la loro messa in opera sia stata ritardata dalla necessaria preparazione e dalle avverse condizioni meteorologiche.

Terremo informato il vostro ufficio circa ogni importante progresso che otterremo nella realizzazione di questi piani o di ogni altro nuovo progetto iniziato da noi.

(firmato) Betts

S/Ldr.
20° Dist. N° 1 SF




S E G R E T O
Rif: OP/I/19
30 Gennaio 1945

Capt. G.M.T. Jones,
Distaccamento OSS,
NIZZA


In riferimento al nostro OB/I/19 del 13 gennaio scorso, facciamo seguire un
ulteriore resoconto:

Due pattuglie di corrieri e una pattuglia per rifornimenti sono state inviate via terra oltre frontiera sin dal 13 gennaio; uno dei corrieri ha preso contatto con organizzazioni partigiane più remote di quelle contattate in precedenza, e ha riportato informazioni riguardo le centrali idro-elettriche e i centri di distribuzione in VAL MAIRA e in VAL VARAITA.

È nostra intenzione organizzare una squadra anti-sabotaggio con riferimento speciale per queste strutture. Il contatto radio con la nostra missione nell'area settentrionale è eccellente.

Il nostro Ufficiale di Collegamento Britannico nella Liguria Occidentale è stato disturbato dalla pressione Tedesca sulla Divisione a cui è stato inviato.

Il contatto radio è stato interrotto a causa dei suoi spostamenti, comunque un certo ammontare di informazioni tattiche ci è stato trasmesso da lui e successivamente passato a voi.

Il clima ha impedito l'arrivo clandestino a lui di rifornimenti in questo mese, ma in quello di febbraio è previsto un certo numero di operazioni al riguardo.

Firmato: M.P. Lam Capitano

per S/Ldr,
Distaccamento OC 20
N° 1 Forze Speciali
 
 
Negi, Frazione di Perinaldo (IM): uno scorcio

Bentley nella sua lunga intervista rilasciata a Mario Mascia per L’epopea dell’esercito scalzo (A.L.I.S., 1946, ristampa del 1975 a cura di IsrecIm) parlò anche della preparazione della sua missione tra i partigiani: nel fare questo si riferì, inoltre, alla Missione Kahnemann; aggiunse che per la sua aveva preso preventivo contatto con il comandante Stefano Leo Carabalona, il quale a metà dicembre 1944 era già in Costa Azzurra; dettagliò, poi, il suo arrivo via mare del 6 gennaio 1945 a Vallecrosia, dove era atteso da uomini del Gruppo Sbarchi (S.A.P.) di questa città: di questi fa solo i nomi, anche perché erano stati di ausilio nella fase preparatoria, di Nino, Mimmo, Tonino, aggiungendo, di quest'ultimo, che lo aspettò a Negi, Frazione di Perinaldo, dove dovevano poi arrivare, per scortarlo sino al Comando Operativo della I^ Zona Liguria, i garibaldini del battaglione di Gino Napolitano Gino. In effetti, in base alle disposizioni operative del comandante Holdsworth del 6 dicembre 1944, Bentley aveva già tentato con il radiotelegrafista caporale Millington di passare le linee ed entrare in Liguria attraverso i passi alpini: recavano con loro 500.000 lire per il compimento della missione e per aiutare i patrioti. Il maltempo e l’accresciuta sorveglianza tedesca avevano impedito il successo di questa manovra. Riprovando via mare, in una missione rinominata “Chimpanzee”, veniva accompagnato invece dal radiotelegrafista caporale MacDougall.
Adriano Maini

sabato 10 agosto 2024

Cade Romano, che si diceva avesse preso parte a Roma all'attentato di Via Rasella

Degna, Frazione del comune di Casanova Lerrone (SV). Fonte: F.A.I.

Il 26 gennaio 1945 riprese il grande rastrellamento ai danni delle formazioni della Divisione "Silvio Bonfante", iniziato sei giorni prima. Verso la sera del 26, infatti, il Distaccamento “Giuseppe Catter” della III^ Brigata “Ettore Bacigalupo” con una marcia di quasi cento chilometri si portò dalla Val Pennavaira alle pendici del monte Torre. Giunti nei pressi della Cappella Soprana di Stellanello (SV), quattro garibaldini si accantonarono in un sito da cui avvistarono una colonna di “Monte Rosa”. “Il commissario Gapon (Renzo Scotto), il capo squadra Bruno (Bruno Amoretti), i garibaldini Marat e Franco (Dante Del Polito) combatterono eroicamente, uccidendo il tenente comandante del pattuglione, un sottoufficiale e quattro soldati. Il nemico rimane disorientato e facilita lo sganciamento dei garibaldini”: così annotò Luigi Massabò “Pantera”, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", nella sua Cronistoria militare della VI^ Divisione “Silvio Bonfante” [n.d.r.: documento inedito perlomeno nel 1999, al momento della stesura della qui citata tesi di laurea, documento conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia]. Tra quei partigiani vi era anche “Marat” (Renzo Urbotti, nato nel 1920 a Reggio Emilia), che dopo pochi metri morirà per le ferite riportate nello scontro. Anche il giorno 27 gennaio 1945 fu segnato da vasti rastrellamenti nemici, in particolare da formazioni della “Muti” e della “Monte Rosa”, che batterono la zona di Ginestro [Frazione di Testico in provincia di Savona]. Alle 7 del mattino “la pattuglia a fondo valle comunica che il nemico si avvicina alla nostra zona… le squadre vengono disposte in ordine di combattimento. Il garibaldino Brescia (Longhi Mario) allo scoperto, con il suo inseparabile M.G., apriva il fuoco contro il nemico avanzante. Una raffica avversaria gli asportava l’arma dalle mani… veniva colpito mortalmente alla testa”: ancora una memoria di Luigi Massabò “Pantera”, Op. cit. Durante lo stesso combattimento periva, altresì, il garibaldino “Romano” (Paloni Silvio). Le due squadre del Distaccamento “Giovanni Garbagnati” della I^ Brigata “Silvano Belgrano” della Divisione "Silvio Bonfante" riuscirono ad aprirsi la strada per la fuga perdendo un fucile tapum ed una macchina da scrivere. Il 28 gennaio le truppe addette ai rastrellamenti abbandonarono le valli presidiate nei giorni precedenti (Pennavaira, Arroscia e Lerrone), ad eccezione della valle di Andora che sarà abbandonata il giorno successivo. Unico grande presidio della zona rimarrà quello di Borgo di Ranzo, sede comunale di Ranzo (IM), che ospiterà circa centoventi soldati delle “Brigate Nere”. Cessato il pericolo costituito dai rastrellamenti dei giorni precedenti, il Comando Divisionale della “Bonfante” dispose lo spostamento nella valle d’Arroscia (parte nord) del Comando della III^ Brigata e della sua Intendenza, mentre il Distaccamento "Giuseppe Maccanò" della III^ Brigata “Ettore Bacigalupo” si spostava nella zona di Aurigo ed il Distaccamento “Gian Francesco De Marchi”, sempre dell’appena citata Brigata, in Val Pennavaira.  Rocco Fava di Sanremo (IM), "La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)" - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Il riposo di Gapon [n.d.r.: Felice Scotto, commissario della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della Divisione Garibaldi "Silvio Bonfante] è breve, il freddo è intenso e fermarsi all'aperto sarebbe fatale per tutti. I quattro scendono a un casone a Cappella Soprana, il pensiero dei compagni che fra poco saranno in salvo li tranquillizza in parte, ma dà anche un'acuta malinconia. Nel casone sono soli, intorno freddo, neve, squallore. Che fare? Accendono un fuoco per scaldarsi, per ravvivare l'ambiente, per asciugare gli abiti bagnati, per sentirsi meno soli.
Non saranno più soli fra poco: un gruppo di Cacciatori degli Appennini ha visto il fumo levarsi dal casone; di solito a quell'altezza i casolari sono vuoti d'inverno: quel fumo puzza di ribelli, gli alpini decidono di andare a vedere.
Gli alpini salgono lungo il pendio cauti, silenziosi: è necessario cogliere i partigiani di sorpresa e intorno il terreno è bianco di neve e scoperto; se i ribelli avessero una mitraglia pesante e sparassero sarebbero guai.
Bruno avvista gli alpini ed avverte: «Gapon, c'è la Monte Rosa!». I partigiani guardano la colonna che sale e comprendono che ormai è tardi per uscire: i fascisti sono troppo vicini e loro troppo stanchi, verrebbero colpiti agevolmente nella fuga allo scoperto. Non rimane che attendere, attendere cosa? Di essere assediati che hanno solo tre moschetti ed un mitra Mas francese, che tira solo a raffica ed a breve distanza?
Gapon ha un piano, disperato, ma il solo possibile: attendere, attendere che il nemico sia a pochi metri, che l'ufficiale in punta di piedi si avvicini ad una porta, allora Gapon si affaccia all'altra che è a fianco della prima e spara sul tenente, gli altri assieme tirano sul grosso. Il nemico è sorpreso, esita, i nostri tirano ancora, gli alpini ripiegano lasciando sul terreno il tenente e cinque morti, allora i partigiani escono e si danno alla fuga. Bruno viene ferito ad una gamba, Marat [Renzo Urbotti] cammina a stento. Allora Gapon decide di fermarsi da solo, tratterrà il nemico facendo fuoco col MAS, attirando su di sé i colpi degli alpini, darà forse agli altri la possibilità di salvarsi. Gapon ha pochi colpi, spara come può raffiche brevi, poi si ritira a balzi, inseguito dalle raffiche del nemico, fin quando un banco di nebbia provvidenziale lo mette al coperto.
Lo scontro di Cappella Soprana costò al nemico sei morti, a noi uno: Marat che non riuscì a superare i disagi della marcia e del clima, che con Bruno perse la strada e nella notte finì assiderato presso il passo di Cesio.
Nei giorni tra il 24 ed il 27 Pantera [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"], che era rimasto nascosto presso Casanova, riesce a raggiungere Osvaldo [Osvaldo Contestabile, commissario della stessa Divisione partigiana] a Segua [borgata del comune di Casanova Lerrone (SV)].
La situazione in Val Lerrone è sempre grave, pattuglioni nemici del presidio di Casanova percorrono la carrozzabile a tutte le ore, tuttavia la frazione di Segua, per la stessa vicinanza allo stradone, è trascurata dagli alpini che non sospettano che un Comando partigiano possa rimanere in una zona tanto esposta. Il Comando vi sosterebbe ancora se non gli fosse giunta una notizia di una gravità incalcolabile: a Casanova è stato catturato Pimpirinella, una staffetta che è al corrente della sede del Comando, anzi conosce la stessa ubicazione dei rifugi di Segua. Poco dopo si sparge la voce che, durante l'interrogatorio, Pimpirinella ha parlato.
Il nemico da Casanova può piombare a Segua in mezz'ora, non vi è quindi da esitare, il comando deve partire. Per dove? Si decide di andare a Ginestro: là c'è un gruppo numeroso del G. Garbagnati, la banda di Stalin; in caso di bisogno si potrà contare su uomini decisi e su armi discrete. Partono così Pantera, Osvaldo ed una staffetta, quello che rimaneva del Comando della Bonfante.
Il nemico invece di attaccare Segua aveva già come obiettivo Ginestro. Perché? Ci fu chi lo mise al corrente dello spostamento? Probabilmente no, forse la verità fu diversa da quanto avevamo supposto. E' probabile che Pimpirinella, interrogato dagli alpini su dove fosse il comando divisionale, abbia compreso che tenersi sulla negativa era rischiare la pelle o la tortura. Non volendo tradire e sapendo che era nella zona di Degna fece il nome di Ginestro. Perché proprio Ginestro? E' difficile dirlo, probabilmente perché il nemico aveva già visitato Vellego, Casanova, Degna, Poggiobottaro e Tèstico. A Poggiobottaro anzi era entrato più volte nella casa dove era il S.I.M. senza trovare traccia dei partigiani nascosti. Il nemico sapeva che il Comando era in Val Lerrone, aveva creduto che fosse ancora presso Marmoreo ed aveva battuto la zona a fondo. Non si poteva far quindi il nome di questi paesi perché il nemico non vi avrebbe creduto e sarebbe passato alle torture. Non rimaneva incontrollata che qualche frazione isolata come Segua e Ginestro; è probabile che il prigioniero abbia fatto questo nome per salvarsi e sviare le ricerche; per questo in seguito verrà da Pantera accusato di tradimento. L'accusa resterà però solo teorica perché Pimpirinella sparì e si disse che fosse deportato in Germania.
A Casanova quindi il 26 si sospettava che il Comando della Bonfante fosse a Ginestro: prevedendo una forte resistenza si decise di tentare il colpo in grande stile, non uno avrebbe dovuto sfuggire.
Ginestro è situato in una valletta laterale scavata da un ruscello che nasce sotto lo stradone Tèstico-Cesio e che finisce nel Lerrone. Due mulattiere provenienti da Degna e da Vellego scavalcano il Lerrone, si uniscono a fondovalle  presso la cappella dell'Ascensione, indi salgono nella valletta ripida e chiusa costeggiando il rivo sul lato occidentale. Il paese di Ginestro è situato in alto, verso la testata della valle, la massima parte sul versante occidentale verso Cesio, qualche casupola sul versante di fronte. Le due creste della piccola valle sono percorse da sentieri e mulattiere, i pendii sono a castagni, ulivi e rovi, molti rovi che rendono impraticabili le zone senza strade ed anche qualche sentiero come quello che dalla frazione orientale dovrebbe portare a Degna.
Questo il terreno, ottimo d'estate, mediocre d'inverno perché l'occultamento vi è difficile per la ristrettezza della zona e la scarsità di alberi a foglie perenni. Se si occupano in tempo le creste, la valle è difendibile. In caso di attacco di sorpresa ci si potrebbe ritirare su Poggiobottaro, Tèstico, Vellego e Degna, è però possibile essere anche attaccati simultaneamente da tutti questi punti ed allora la situazione può diventare disperata.
Due squadre del Garbagnati presidiano la frazione orientale, in quella principale ad occidente c'è una buona banda locale su cui si può contare, almeno per il servizio di guardia: sono giovani che non hanno risposto al bando italo-tedesco di Casanova e quindi condividono il nostro destino. Le sentinelle partigiane controllano la cresta orientale di Poggiobottaro e gli accessi da Tèstico, i borghesi la cresta verso Cesio e la mulattiera di fondovalle.
La mattina del 27 i borghesi danno l'allarme: colonne provenienti da Degna e Vellego risalgono la valle puntando verso il paese: sono Cacciatori degli Appennini, non si sa quanti siano ma è evidente la loro intenzione di rastrellare.
Appena dato l'allarme i partigiani impugnano le armi e puntano verso la cresta: se riescono ad arrivare in cima potranno dare una buona lezione ai rastrellatori perché con le mitraglie pesanti piazzate sulla cresta potranno battere agevolmente la strada di Ginestro. E' necessario salire rapidamente per non essere colti sul versante in fase di spostamento. Purtroppo è già tardi: come si temeva, il nemico non attacca solo da fondovalle. Mentre salgono, i garibaldini incontrano la pattuglia che era in cresta che scende: ci sono i tedeschi che da Tèstico salgono sull'altro versante. Sono già in cresta? E' probabile perché, quando la sentinella li ha avvistati, erano ormai vicini. La pattuglia ha preferito scendere ad avvisare piuttosto che dare l'allarme sparando per non rivelare la propria presenza. Questo ritardo ci è fatale: ormai i partigiani sono tra due fuochi: bloccati sul pendio da tre lati col nemico di fronte, di sopra e di fianco.
Riconquistare la cresta è difficilissimo perché dal versante di fronte gli alpini possono controllare i nostri movimenti e spararci addosso; sperare che il nemico non ci veda è impossibile, perché la manovra indica chiaramente che il rastrellamento è per noi. Non rimane che cercare di ripiegare verso Degna per il vecchio sentiero impraticabile, passando come si potrà. Se necessario si darà battaglia per aprirsi il varco.
La lotta si sviluppa violenta: il nemico piazzato tra gli ulivi e nel paese di fronte tira sui nostri con tutte le sue armi, i partigiani, occultati tra i roveti ed i cespugli, si spostano a tratti, a brevi balzi rapidi, verso il fianco libero, cercando di non esporsi ai colpi nemici. Le armi del Garbagnati rispondono ai colpi cercando di individuare le mitraglie più pericolose, di coprire la ritirata dei compagni.
I partigiani sono abituati a vedere la morte da vicino; pure poche volte una banda si trovò in una situazione così grave; erano necessari tutta l'esperienza, l'allenamento, il coraggio affinati in lunghi mesi di lotta per riuscire a sganciarsi. Nella ritirata si forma un gruppo composto da Osvaldo, Pantera, Formica, Pirata e Brescia: procedono a sbalzi fra i rovi fin quando vengono bloccati da un piccolo dirupo: quattro o cinque metri più sotto è la piazzola di una carbonaia battuta delle mitraglie nemiche, più in là il bosco. E' necessario saltare sotto il fuoco. Prima tenta Osvaldo: una raffica di colpi gli strappa la coperta dalle spalle e lo ferisce leggermente ad un piede, ma riesce a passare. Poi è la volta di Pirata, che era stato con la Matteotti: viene colpito ad un braccio e perde il fucile automatico. Poi è la volta di Pantera, Formica e Brescia: passano incolumi. Al margine del bosco Brescia si ferma, prende il mitragliatore che ha portato con sé e riprende a sparare sui fascisti che gridano ai partigiani di arrendersi. Per meglio sparare si alza in piedi, invano incitato da Pantera a venir via. Una raffica nemica lo colpisce alle braccia, un'altra gli crivella il ventre. Gli altri proseguono la ritirata al coperto del bosco. Cade Romano, che si diceva avesse preso parte a Roma all'attentato di Via Rasella. Chissà come era finito in settembre con i San Marco di base a Chiappa:  quando i partigiani si erano avvicinati al suo reparto aveva fatto arrendere i compagni evitando il combattimento. Mentre il «Garbagnati» ripiegava Romano si smarrì e scese a fondovalle assieme a Mimmo. Scontratisi con una pattuglia nemica vennero catturati entrambi. Poco dopo Mimmo tentò la fuga e, lasciando la giacca fra i rovi, riuscì a dileguarsi. Romano, fuggito anche lui, incontrò un'altra colonna e venne fulminato da una scarica. Sono perduti per il «Garbagnati» la mitraglia di Brescia ed il fucile di Pirata, le altre armi e parte del materiale vengono invece salvate. Il terreno è aspro ed impervio, in molti punti vere barriere di rovi vengono sfondate dai partigiani lanciatisi tra le spine per aprirsi un varco: nuovi sentieri vengono aperti nel sottobosco nella disperata fuga della banda sotto il fuoco nemico. Anche questa volta si riesce ad uscirne; a poco a poco la valle si allarga, i colpi si fanno più radi, i partigiani passano in Val Lerrone, quindi la banda si disperde.
Le perdite nemiche non furono accertate; qualche tempo dopo il corpo di un alpino fu trovato nella cappella dell'Ascensione: forse un ferito dissanguatosi che aveva cercato un inutile rifugio. Di altri caduti non avemmo notizia.
Il nemico incendiò a Ginestro la cappelletta che era stata la nostra base, saccheggiò a fondo Ginestro usando i metodi propri delle squadre comandate dal cap. Ferraris del quale alcuni dissero di aver riconosciuto la voce che intimava ai partigiani la resa, poi tornò da dove era partito: il colpo era andato in gran parte a vuoto.
Pantera ed Osvaldo ripiegarono su Degna, poi di là proseguirono per Ubaghetta. Osvaldo era malato, una febbre forte lo aveva colpito da qualche giorno e la sua marcia era difficile e lenta. Ad Ubaghetta il nemico si accorse dell'avvicinarsi dei nostri e li attese appostato con una mitraglia: avrebbe ripetuto il colpo già riuscito e che era costato la vita di Miscioscia. Quando i nostri erano ormai quasi a tiro incontrarono un civile che, in preda ad una violenta emozione, li avvertì che il nemico li aspettava. Così questa volta l'agguato andò a vuoto.
Lo scontro di Ginestro fu l'ultimo del rastrellamento: il 28 ed il 29 i nemici sgomberarono la Val Pennavaira, la Val Lerrone, la Valle di Stellanello. In Val d'Arroscia rimase solo un presidio a Ranzo.
Ancora una volta i partigiani possono riunirsi, contarsi, seppellire i loro morti, riannodare le file strappate.
Il bilancio del rastrellamento? Quale era stato intanto l'obiettivo nemico? L'annientamento del movimento partigiano?
L'inverno ci aveva obbligato a scendere in una zona militarmente infelice, senza possibilità di ritirata. Eravamo rimasti in pochi, male armati: se il nostro annientamento non fosse riuscito ora, non sarebbe riuscito mai più. Il rastrellamento invernale era stato la migliore e forse ultima occasione che aveva avuto il nemico.
I mezzi impiegati? Vari: l'attacco diretto contro le bande, il presidio dei paesi, il pattugliamento degli stradoni per impedire il raggruppamento degli sbandati, per aumentare le possibilità di catture fortite. Le minacce contro i civili dovevano impedire che i banditi trovassero appoggio, potessero mimetizzarsi tra i giovani dei paesi per poi tornare ad accrescere gli effettivi delle bande.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 156-160

29 gennaio 1945 - Da "Pantera" [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione sull'andamento della Divisione e sulla dislocazione dei suoi reparti, rispetto ai quali segnalava lo spostamento del Distaccamento "Giuseppe Maccanò" della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" nella zona di Aurigo e del Distaccamento "Gian Francesco De Marchi" della menzionata Brigata in Val Pennavaira.
31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione: "... Il 26 gennaio il commissario di Brigata [III^ Brigata "Ettore Bacigalupo"] 'Gapon' [Felice Scotto] veniva attaccato dai soldati della RSI, ma infliggeva loro la perdita di 6 uomini. I soldati repubblicani occupavano Alto, Nasino, Borgo Ranzo, Borghetto d'Arroscia, Ubaga e Ubaghetta; il 21 gennaio occupavano altresì Casanova Lerrone, Marmoreo, Garlenda, Testico, San Damiano, Degna e Vellego. Il 22 gennaio il nemico abbandonava Borghetto d'Arroscia, Ubaga e Ubaghetta. Il 27 gennaio le forze avversarie attaccavano una squadra la quale riportava la perdita di 2 garibaldini. Durante il rastrellamento il capo di Stato Maggiore della Divisione insieme ai comandanti 'Cimitero' [Bruno Schivo] e 'Meazza' [Pietro Maggio] con 2 Distaccamenti attaccavano in più punti il nemico infiggendo la perdita di 13 uomini e subendo l'uccisione di 1 solo partigiano".
31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" a... allegato n° 24 circa le perdite subite nel mese di gennaio 1945: "... il 23 Germano Cardoletti; il 26 Ettore Talluri, Bruno Cavalli, Walter Del Carpio, Giuseppe Lobba, Oreste Medica, Ugo Moschi, Luciano Mantovani, Fausto Romano, tutti deceduti a Degolla e a Cappella Soprana Renzo Orbotti; il 27 a Ginestro Mario Longhi (Brescia) e Silvio Paloni (Romano)...".
2 febbraio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione sui fatti di Ginestro e di Testico del 27 gennaio 1945, quando vennero attaccate 2 squadre del Distaccamento "Garbagnati" e rimasero uccisi "Brescia" [Mario Longhi] e "Romano" [Silvio Paloni].
3 febbraio 1945 - Dal commissario prefettizio di Albenga ai podestà di Ortovero, Villanova d'Albenga, Casanova Lerrone, Vendone, Nasino, Castelbianco, Castelvecchio, Zuccarello, Cisano sul Neva e Garlenda - Trasmetteva l'ordine della Feldgendarmerie di fare rientrare nella Brigata Nera di Albenga le giovani reclute che, appena arrivate all'arruolamento, si erano allontanate dalla caserma, perché passibili di fucilazione come "banditi".
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

domenica 28 luglio 2024

I nazifascisti trovano Ubaghetta deserta

Borghetto d'Arroscia (IM). Foto: Pampuco. Fonte: Wikipedia

La notte tra il 19 e il 20 gennaio 1945 sembra tranquilla, ma lo è solo in apparenza, perché il nemico è già in movimento. I Tedeschi dislocati a Cesio partono, raggiungono il passo di Ginestro e quindi puntano sul paese di Vellego che raggiungono rapidamente. Avvisati dalle sentinelle borghesi, i giovani si mettono in salvo; però a Degna, il paese successivo sulla carrozzabile, non giunge subito la grave notizia. Dopo un'ora è anch'esso investito, ma i nazifascisti non sembrano avere idee bellicose, cercando solo una guida per farsi condurre in Val Arroscia. I giovani del paese, chiusi in casa, sentono il rumore delle armi, degli zoccoli dei muli e delle scarpe chiodate; non possono uscire, non possono andare ad avvisare gli uomini del Comando della “Bonfante”, mentre la colonna nemica passa a circa duecento metri di distanza dallo stesso.
Sapranno del passaggio del nemico nella tarda mattinata, quando ritornerà indietro la guida borghese che aveva accompagnato la colonna sulla cresta della montagna. La colonna diretta a Bosco è accompagnata dalla oramai spia famosa “Carletto”.
Il Comando della “Bonfante” non ha alcuna possibilità di avvisare i garibaldini dislocati a Bosco. Oramai è tardi. Sperano che le sentinelle del luogo abbiano potuto avvistare il nemico che stava avvicinandosi. Si spera che anche questa azione sia una puntata isolata e non faccia parte di un momento del grande rastrellamento previsto.
Scrive Gino Glorio (Magnesia) nel suo diario: "Il Comando della Divisione “Bonfante” si sposta a Degna per esaminare la situazione più da vicino; quanti erano e come armati, con muli o senza, perché la guardia borghese non ha funzionato? In Val Lerrone la situazione si mantiene calma, ma che avviene di là? Se il nemico, come probabile, tornerà alla base per la carrozzabile della Valle Arroscia, sarà possibile agganciarlo? Sembra che al di là della cresta gli avvenimenti siano più gravi di quanto si temesse. Un borghese che si è spinto in cresta, riferisce che le colonne di fumo si levano da Degolla e da Costa Bacelega, segno che il nemico non si è limitato alla puntata su Bosco, lunghe raffiche di mitraglia indicano che la lotta è ancora in corso. Le ore passano lente, uguali, verso mezzogiorno giunge a Segua uno sbandato da Bosco. Aveva i pantaloni strappati e lo sguardo inquieto dell'animale braccato. Racconta che con i suoi era sveglio da qualche minuto, aveva rimesso al fuoco le castagne e si preparava a lavarsi, quando vede a breve distanza i Tedeschi che scendono tra gli ulivi. Urla “I Tedeschi”, e via senza voltarsi. Quelli sparano ma il fuggiasco non vede più niente, e non sa cosa sia successo agli altri. Erano quasi circondati e la resistenza si presentava impossibile. Dopo una corsa selvaggia tra i rovi e gli ulivi, si era trovato fuori tiro senza armi ma con l'asciugamano in mano. Da mezzogiorno fino a sera nessuna novità. A sera una colonna tedesca scende dalla cresta verso Degna. L'allarme è portato in paese dalla figlia di Bertumelin, contadino del luogo che aiutava molto i garibaldini. In pochi istanti borghesi e partigiani spariscono tra gli alberi, mentre i Tedeschi, preannunciati da una raffica di mitragliatrice, entra in paese. Dopo mezzora Degna è di nuovo libera, il nemico ha proseguito per Cesio. Si spera sia tutto finito. Il giorno 21 niente di nuovo in Val Lerrone. Il comandante Olivero e Gustavo Berio (Boris) lasciano la Divisione, vanno oltre la strada statale 28 in cerca del Comando I Zona Operativa Liguria, per appellarsi alla sua autorità, poiché non riescono più a controllare la situazione. La Divisione rimane così affidata al commissario Osvaldo Contestabile e al vicecomandante Luigi Massabò (Pantera). La sera del 21 il SIM, trasferitosi a Poggio Bottaro, annuncia che il rastrellamento è sospeso in seguito all'offensiva sovietica; non si capisce il collegamento tra i due eventi, ma la notizia è quella. Il 22 la situazione si chiarisce di colpo. La Valle Arroscia è presidiata dai Tedeschi e dai Cacciatori degli Appennini...".
Ma vediamo un poco più da vicino cosa è accaduto nei paesi attaccati il primo giorno di rastrellamento. All'alba del 20 un poderoso schieramento di forze irrompe nella zona della "Bonfante" col compito di rastrellare e distruggere definitivamente le formazioni partigiane ivi dislocate.
Francesco Biga  (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. IV. La Resistenza nella provincia di Imperia dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 35-37

Il 21 gennaio 1945 il comandante Giorgio Giorgio Olivero ed il vice commissario Gustavo Boris Berio lasciarono la sede della Divisione "Silvio Bonfante", per provare a fare il punto della tragica situazione al comando di Zona, lasciando la formazione affidata al vicecomandante Luigi Pantera Massabò. Il 21 gennaio la divisione repubblichina Monte Rosa occupava Casanova Lerrone (SV), Marmoreo, Frazione di Casanova Lerrone (SV), Garlenda (SV), Testico (SV), San Damiano, Frazione di Stellanello (SV), Degna, Frazione di Casanova Lerrone (SV), e Vellego, Frazione di Casanova Lerrone (SV), dopo avere già occupato il giorno prima Alto (CN), Borgo di Ranzo (sede comunale di Ranzo), Borghetto d'Arroscia (IM), Ubaga e Ubaghetta, Frazioni di Borghetto d'Arroscia (IM). A Marmoreo il nemico uccise il civile Settimio Testa.Nei tre giorni successivi le formazioni della Divisione "Silvio Bonfante" sfuggirono ai rastrellamenti  nemici di San Damiano, Rossi, Frazione di Stellanello (SV) e Marmoreo, Frazione di Casanova Lerrone (SV). Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Nelle prime ore di sabato 20 gennaio tre colonne naziste e alcune compagnie di Cacciatori degli Appennini giungono in zona provenienti da Borghetto d’Arroscia, Casanova Lerrone e Pieve di Teco. La pattuglia garibaldina avvista il nemico e apre il fuoco (dal diario militare di Luigi 'Pantera' Massabò). Al rientro dalla zona di Marmoreo dove ha portato viveri, il ventitreenne addetto all’Intendenza Mario Miscioscia avvista una delle tre colonne nazifasciste che si sta dirigendo verso Ubaghetta. Impossibilitato a sorpassarla senza farsi notare e trovandosi in una posizione che gli rende difficile la fuga, per dar l’allarme ai compagni Mario lancia contro la colonna una bomba a mano e s’avvicina ulteriormente per scaricarle contro la pistola: il colpo di mano nemico viene così scongiurato. Una raffica però colpisce mortalmente Mario: all’ufficiale fascista che gli offre di darsi prigioniero in cambio delle cure che gli avrebbe fatto prodigare, risponde: “Preferisco la morte al disonore di venire con voi”, frase riferita dallo stesso ufficiale a persone di Borgo di Ranzo. I nazifascisti trovano Ubaghetta deserta: i partigiani dislocati nei dintorni si sono allontanati e anche i contadini hanno abbandonato le loro case. Tuttavia, nel tentativo di sottrarsi al rastrellamento, sabato 20 gennaio 1945 il ventenne Germano [Cardoletti (Redaval)] resta ferito gravemente a una gamba con frattura dell’osso. In qualche modo riesce a nascondersi ma verso sera viene scoperto e catturato dai nazifascisti: portato su una scala a Borghetto d’Arroscia gli viene praticata una medicazione superficiale e viene adagiato su un dito di paglia con una sola coperta. Il maggiore comandante del battaglione dice che Germano sarà portato all’ospedale di Pieve di Teco. Eppure per tre giorni Germano resta privo di ogni cura: dei circa 60 uomini della compagnia presente a Borghetto solo un sergente maggiore mostra attenzione verso di lui. Probabilmente Germano viene interrogato, forse con percosse e torture, ma nessuna informazione ottengono i fascisti sulle posizioni dei distaccamenti in zona. Alla sera di lunedì 22 gennaio un tenente coi capelli grigi annuncia che il tribunale militare (pare composto solo da lui e da un altro soldato) s’è adunato e ha condannato Germano a morte. Nel tentativo di salvargli almeno provvisoriamente la vita, il locale sacerdote don Casa si offre invano con altri per portarlo all’ospedale. Al sacerdote che dalle ore 5.30 di martedì 23 gennaio 1945 è in attesa dell’ultimo colloquio, neppure viene concesso di parlare a Germano se non cinque minuti prima dell’esecuzione. A quel punto la voce di Germano è talmente debole che il sacerdote non è certo d’aver compreso il nome del padre Cesare e quello della madre Erminia. Alle ore 7 lo sfinito Germano viene fucilato a vent’anni dal plotone fascista d’esecuzione sulla piazzetta del municipio di Borghetto d'Arroscia in provincia di Imperia.
Redazione, Scheda biografica di Germano "Redaval" Cardoletti, Centro Documentazione Resistenza ANPI Voghera

sabato 22 giugno 2024

Un giovane caduto partigiano accomunato nella memoria all'eroico Baletta ed a un patriota di Bordighera

Lastre dedicate a Mario Ponzoni e Giovanni Olivo in Pieve di Teco (IM). Fonte: Pietre della memoria

«In quelle immagini mio padre riassumeva la sua gioventù». Lo dice Gabriella Manfredi, figlia del compianto onorevole democristiano Manfredo nel giorno dell’anniversario della Liberazione. La Manfredi ha deciso, infatti, di divulgare le memorie del compianto padre, Manfredo Manfredi.
«Costretto a sedici anni a raccogliere il cadavere del suo migliore amico fucilato da un plotone di esecuzione dell’esercito tedesco, condannato a morte dopo un processo farsa in cui non si era potuto nemmeno difendere dall’accusa di aver prodotto documenti di identità falsi per dei “banditi”. Condannato per aver aiutato i nemici dell’esercito tedesco e secondo la legge militare tedesca fucilato dal plotone di esecuzione, a diciotto anni». «Quel ragazzo si chiamava Mario Ponzoni. Mio padre aveva  16 anni, troppo pochi per andare sui monti a combattere, ma abbastanza per raccogliere i cadaveri dei fucilati dai nazifascisti», racconta con commozione Gabriella Manfredi.
«Solo dopo molti anni mio padre - prosegue la Manfredi -  iniziò a raccontare quegli episodi, che ho trascritto in forma di diario. Episodi che avevano segnato profondamente la sua vita e conseguentemente le sue scelte di impegno politico contro ogni sopruso. Il giorno dell’inaugurazione del monumento ai caduti di Pieve di Teco, posto proprio sul luogo delle esecuzioni, mio padre disse chiaramente che non aveva mai dimenticato l’odore di quei momenti. “Quell’odore del sangue sulle mie mani era il profumo della Libertà” gridò agli astanti durante il suo discorso, con la rabbia di un sedicenne che vede morire il suo amico più caro. Fu anche quella rabbia a sostenere mio padre, e molti altri come lui, in quel lungo percorso di ricostruzione di un Paese devastato ma non sconfitto. La morte di quei ragazzi ci regalò un sogno chiamato Libertà. Sta a noi coltivare quel sogno, non permettiamo a nessuno di pensare che quel sacrificio sia stato vano, che quelle giovani vite siano state spezzate per regalare la Libertà a chi non la merita».
[...]
Di seguito il “diario” di Manfredo Manfredi di quei giorni tragici concessoci dalla figlia Gabriella che ringraziamo.
6 gennaio 1945
Ecco, è successo. Hanno arrestato Mario. Mario amico mio, ti hanno portato ad Albenga, dicono ci sarà un processo! Ma tu cosa hai fatto?? Hai solo diciotto anni, che reato hai mai commesso? Non si riesce a sapere nulla, il Parroco ha detto che si informerà.  Aspettiamo, ma io ho paura amico mio.
10 gennaio
Amico mio non ci posso credere! Ti hanno processato, un tribunale militare tedesco, stasera è passato il banditore con il suo tamburo per declamare a tutta Pieve la tua condanna. Amico mio, ti hanno condannato a morte. A morte!! Il tamburo rullava, e la voce stentorea ci invitava a non uscire di casa domattina, per nessun motivo. Mario ho tanta paura, non posso immaginarti solo stasera in quella cella. Il mio cuore non regge al pensiero di domani.
11 gennaio 1945
Fa freddo stamattina, i campi sono brinati, un silenzio strano ci avvolge come un sudario. Ecco il rumore delle camionette, le portiere sbattono, i chiodi degli scarponi risuonano sul selciato, insieme a pochi secchi comandi. Nel silenzio un urlo, riconosco la voce di tua madre che grida il tuo nome tra i singhiozzi, mentre l’eco dei passi si perde. Silenzio. Spari. E ancora silenzio. Le portiere sbattono ancora, le camionette ripartono. Arriva il parroco trafelato, piange. Devo andare. Devo venire da te l’ultima volta amico mio. Ti vedo sdraiato nel campo gelato di brina. Quanto sangue, esce dai fori del tuo bel maglione verde, impregna il terreno gelato, che non è più bianco ma rosso, rosso vermiglio. Penso che il tuo maglione è verde, il tuo sangue rosso e la terra bianca di gelo. Sono i colori della mia bandiera, della mia Patria. E quell’odore, di sangue misto a polvere da sparo, non lo dimenticherò mai! Ho solo sedici anni, ma sono diventato un uomo.
Diego David, Manfredo Manfredi nel suo “diario” del 1945: «L’odore di sangue misto a polvere da sparo non lo dimenticherò mai», Riviera24.it, 25 aprile 2021 

Per la prima volta parlo pubblicamente di mio fratello Giovanni Olivo, eroe della Resistenza. Lo faccio con pudore, perché nessuna parola è efficace per esprimere il senso della sua grande e breve esistenza. Giovanni aveva 21 anni quando il 2 Marzo 1945, fucilato dai tedeschi a Pieve di Teco, donò la propria vita per un grande ideale. A me non fu concessa la gioia della condivisione come sorella: ci ha separato la differenza di età. Infatti avevo dieci anni quando lui, studente in medicina all’Università di Bologna, si rifugiò a Rezzo, dove aderì alla lotta partigiana, donando la propria giovinezza. Il suo nome è inciso sui Cippi che ricordano tutti i caduti: Arezzo, Pieve di Teco, Imperia e Bordighera.
La sua assenza-presenza è incisa nel mio cuore. La sua testimonianza è stata per me un faro di luce nei momenti in cui la vita mi ha dato modo di svolgere ruoli delicati, prima come insegnante ed educatrice, in seguito nel ruolo delicatissimo di pubblico amministratore, quale Sindaco della nostra amata Bordighera.
Ho accettato e affrontato situazioni impegnative, spesso laceranti, guardando a Lui, a mio fratello Giovanni, che offrì se stesso perché altri avessero la Vita. Ho voluto che da Rezzo, dove era stato tumulato dopo la sua morte, ritornasse a Bordighera, rispettando il desiderio dei nostri genitori.
E tornò in un giorno speciale: il 14 Maggio 1996, festività di S. Ampelio [...]
Renata Olivo in Paize Autu, Periodico dell’Associazione “U Risveiu Burdigotu”, Anno 7, nr. 4, Aprile 2014

[...] «Per me in particolare questa cerimonia - prosegue il sindaco - ha una connotazione personale perché mia madre era nel gruppo degli arresti insieme a Mario Ponzoni. Mia mamma insegnava nelle frazioni di Pieve di Teco, era maestra e una delle staffette arrestate insieme a Mario Ponzoni che poi fu fucilato e mia mamma e le sue colleghe sono state condannate a morte ma sono riuscite in qualche modo a scappare a Cuneo e si sono nascoste per due anni. Lei non me l’ha mai raccontato e per assurdo lo sono venuto a sapere in età avanzata però è un qualche cosa che sta nell’anima perché il fratello di Mario Ponzoni, Rino, era il mio padrino ed è stata una persona indimenticabile nella mia vita. Ben vengano queste cerimonie che servono a richiamare il ricordo collettivo, gli orrori della guerra e dall’altro l’orgoglio di appartenenza alla propria terra».
«La memoria è il faro nella notte - ha sottolineato il vicesindaco di Albenga Alberto Passino - di quella notte buia che ha visto il nostro paese precipitare nell’orrore. Grazie alla Resistenza e purtroppo anche al sangue anche giovane che è stato versato siamo riusciti a lavare l’onta che il ventennio del nazi-fascismo ha portato alla rovina la nostra bellissima Italia. Grazie quindi alla Resistenza che qua celebriamo purtroppo con i suoi anche ai suoi giovani morti. Grazie a Roberto Di Ferro, medaglia d’oro al valor militare, l’Italia si è potuta riscattare ed è nostro compito come Istituzioni, come cittadini, come Anpi guardare ai giovani perché attraverso l’educazione, attraverso la scuola si possano creare occasioni di confronto, dove la memoria venga sollecitata e riscoperta affinché nulla di più brutto possa di nuovo accadere e ancora grazie a chi ha donato la vita per la nostra libertà».
«Qui ricordiamo Baletta - spiega Giovanni Rainisio, presidente dell’Istituto Storico della Resistenza di Imperia - un ragazzo di quattordici anni che si è schierato, ha scelto di stare dalla parte della libertà, della democrazia, di opporsi all’occupazione tedesca e al regime fascista. È stato un esempio importante, una delle sei medaglie d’oro della Resistenza della nostra provincia ed ha contribuito a far ottenere alla nostra provincia la medaglia d’oro al valor militare della Resistenza. La nostra provincia ha avuto un momento importante nella liberazione, ha avuto più di 600 caduti militari e ha quasi 800 deportati. Credo che la memoria debba essere un momento importante perché è necessario ricordare tutti coloro che si sono sacrificati ma la memoria è importante per il futuro. Se non sappiamo perché siamo qui è perché  viviamo in democrazia, in libertà in una Costituzione varata dalla Resistenza non capiamo che cosa fare per il nostro futuro e soprattutto i giovani se non sanno cos’è stata la Resistenza, se non comprendono il sacrificio che la democrazia e la libertà è costata al nostro paese è difficile che poi si impegnino per un futuro migliore. La libertà e la democrazia non sono conquiste una volta per sempre, le conquiste della democrazia vanno alimentate, sostenute continuamente perché il rischio per la pace, democrazie e libertà è sempre incombente».
«Venire a commemorare Roberto Di Ferro - conclude Vio -  è un momento in cui inevitabilmente torniamo a vivere quei momenti che hanno vissuto le nostre genti. La famiglia di Roberto Di Ferro proveniva da Malvicino ma oramai era albenganese a tutti gli effetti, un ragazzo di 14 anni che aveva adottato, scelto ed abbracciato i valori e i partigiani e i resistenti antifascisti di allora raccontavano che scelse di partecipare alla lotta partigiana consapevole dei rischi che questa comportava e con altri partigiani venne catturato qui vicino, a Trovasta, e dopo un massacro umano a cui fu sottoposto, perché si dice che i tedeschi pensavano che essendo il più giovane avrebbe ceduto alle pressioni fisiche e avrebbe quindi svelato i nomi dei compagni partigiani».
Daisy Parodi, Pieve di Teco, 79esima commemorazione di Roberto Di Ferro, «La più giovane vittima della Resistenza», Riviera24.it, 23 marzo 2024

Imputati: DESCHEIMER - Obleutnant, MENIE - Leutnant, BAUMANN - Gefreiter, KOGER - Hauptmann
Violenza con omicidio art. 185 c.p.m.g.
Parte lesa: PONZONI MARIO
Condanna a morte a seguito di Sentenza del Tribunale Militare del Battaglione tedesco (p. 11). Il Proc. gen. mil. Borsari chiede ai Comandi dei Carabinieri di ZONA svolgere investigazioni. Il 20 settembre 1946 il Gabinetto del Ministero della Guerra chiede informazioni al Land Forces Sub
Commissione A.c. di Roma (p. 25)
ARCHIVIATO DAL GIP DI TORINO (DOC. 89/0)
Relazione finale (Relatore: on. Enzo Raisi), Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti (istituita con legge 15 maggio 2003, n. 107), Approvata dalla Commissione nella seduta dell’8 febbraio 2006, Trasmessa alle Presidenze delle Camere il 9 febbraio 2006, ai sensi dell’articolo 2, comma 4, della legge 15 maggio 2003, n. 107

Codice scheda:C00/00001/01/02/00010
Titolo: R.G. “Ruolo generale dei procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi”: n. 919
Descrizione: Organo giudicante:
Procura Generale Militare presso la Corte di Cassazione:
R.G. “Ruolo generale dei procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi”:
n. 919
Procura Militare presso il Tribunale Militare di Torino.
PM.: Dott. Luigi Gili
RGNR: 328/95
G.I.P. presso il Tribunale Militare di Torino:
Dott. Sandro Celletti
RG:1746/95
Provvedimento di “archiviazione provvisoria”:
14.01.1960 - Procuratore Generale Militare Dott. Enrico Santacroce
Provvedimento di archiviazione G.I.P.:
21.09.1995 - impossibile rintracciare gli autori e ricostruire i fatti per il lungo tempo trascorso
Indagati:
Indagato n. 1: Descheimer
Status: Militare tedesco, tenente, Comandante del battaglione di stanza a Pieve di Teco
Altri dati biografici: presidente del Tribunale militare di guerra del battaglione
Indagato n.2: Menie
Status: sottotenente
Altri dati biografici: primo assessore del Tribunale militare di guerra
Indagato n.3: Baumann
Status: caporale
Altri dati biografici: secondo assessore del Tribunale militare di guerra
Indagato n.4: Koger
Status: capitano
Altri dati biografici:
Parti lese:
Parte lesa n.1: Mario Ponzoni
Genere: maschio
Status: civile
Altri dati biografici: nato il 12.061926 a Pieve di Teco (Im), impiegato comunale. Minorenne al momento della sua uccisione.
Principali fatti contestati agli indagati:
Data e luogo del fatto: 11.01.1945, Pieve di Teco (Im)
Tipologia: violenza con omicidio
Descrizione sintetica: il 30.12.1944 Mario Ponzoni è arrestato per rilascio di una carta d’identità falsa al partigiano Berti (soprannominato Nenini) e l’11.01.1945 è condannato dal Tribunale Militare di Guerra tedesco (senza la presenza di un difensore) alla pena di morte che viene eseguita lo stesso giorno.
Reati contestati: Omicidio e violenza contro privati nemici art. 185 c.p.m.g.
Denuncia:
Tipologia denuncia: individuale
Data: 28.10.1945
Autorità ricevente: Carabinieri di Pieve di Teco.
Nominativo / Autorità denunciante: Omero Ponzoni
Tipologia denunciante: civile, padre della vittima
Sintesi denuncia: il 30.12.1944 il figlio del denunciante, Mario Ponzoni, è arrestato per rilascio di una carta d’identità falsa ai partigiani e l’11.01.1945 è condannato dal Tribunale Militare di Guerra tedesco (senza la presenza di un difensore) alla pena di morte che viene eseguita lo stesso giorno
fascicolo procura generale militare:
Documenti contenuti nel fascicolo:
Copertina fascicolo Procura Torino (frontespizio), Indice atti, Iscrizione notizia di reato, Copertine (2) fascicolo Procura Generale Militare (frontespizio), Scheda Procura Generale Militare, Appunti manoscritti, Lett. Procura Generale Militare al Governo Militare Zona US in Germania, lettera 28.03.1946 del Procuratore Generale Militare Borsari al Ministro della Guerra, lettera 08.04.1946 del Procuratore Generale Militare Borsari ai Carabinieri di Pieve di Teco, rapporto Carabinieri di Pieve di Teco con allegate dichiarazioni del testimone Ponzoni, Omero, Sentenza 11.01.1945 del Tribunale di Guerra Tedesco, Lettera 24.04.1946 della Procura Generale Militare ai Carabinieri di Pieve di Teco , Autorizzazione a procedere del Ministero della Guerra in data 19.04.1946, rapporto Carabinieri di Pieve di Teco in data 09.05.1946, richiesta di consegna degli imputati avanzata al Ministero degli Affari Esteri dal Procuratore Generale Militare Borsari in data 09.09.1946, relazione Commissione delle Nazioni Unite per i Delitti di Guerra, carteggio relativo alla richiesta di estradizione di Baumann, Archiviazione provvisoria 14.01.1960, Richiesta indagini Procura di Torino in data 08.04.1995, Richiesta di Archiviazione 18.07.1995, Comunicazione Carabinieri Torino 13.12.95. Tot.pagg. 37
Archiviazione provvisoria:
14.01.1960
Data di inoltro alla Procura Militare presso il Tribunale Militare di Torino:
03.12.1994
fascicolo del PM - Indagini preliminari - Archiviazione del Gip:
Data notizia di reato: 23.11.1994
Data iscrizione: 09.02.1995
Indagini preliminari: 09.08.1995
Richiesta di archiviazione del PM: Dott. Luigi Gili
Data: 08.07.1995
Motivazione: esito infruttuoso delle indagini finalizzate ad ottenere notizie sugli indagati, scarse probabilità di reperire gli indagati stante il lungo tempo trascorso.
Archiviazione G.I.P.: Dott. Sandro Celletti
Data: 21.09.1995
Motivazione: - impossibile rintracciare gli autori e ricostruire i fatti per il lungo tempo trascorso
Redazione, Fascicolo: R.G. “Ruolo generale dei procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi”: n. 919, Archivi della Resistenza e del '900

martedì 4 giugno 2024

Era partita una donna con l'incarico di spiare i garibaldini

Pompeiana (IM)

29 gennaio 1945 - Dal C.L.N. di Sanremo, prot. n° 233/SIM, al comando della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione "Felice Cascione" - Comunicava che una donna, figlia di una persona uccisa dai partigiani, intendeva fare catturare "Veloce" dalle SS, per cui, essendo risaputo che scendeva spesso a Pompeiana (IM), sottolineava che occorreva avvertire quel garibaldino del pericolo incombente.
31 gennaio 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militare] "Fondo Valle" della II^ Divisione "Felice Cascione" all'Ufficio informazioni e spionaggio della I^ Zona Operativa Liguria - Relazionava che "... nella giornata in corso sono stati fucilati 10 garibaldini prigionieri lungo la salita di Capo Berta come rappresaglia all'uccisione di 2 tedeschi. Il mio cuore sanguina troppo per commentare. La causa di tutto è la famosa donna che ben conoscete..."
10 febbraio 1945 - Dal CLN di Genova al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Invito a processare il signor Bossi e la moglie per tradimento.
22 febbraio 1945 - Documento con il quale ai quadri partigiani interessati si trasmetteva la descrizione fisica della spia Rina Bocio, del servizio informazioni del nemico: "alta 1,65 metri, bruna, capelli corti, molto scura in viso..."
23 febbraio 1945 - Dal comando della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione "Felice Cascione" al comando del I° Battaglione "Carlo Montagna" - Venivano richieste informazioni di carattere organizzativo e si emanava l'ordine di arrestare la signorina "Vera" di Montegrazie [Frazione di Imperia] che, già inquadrata nella I^ Brigata partigiana, era diventata ausiliaria della divisione fascista San Marco, nonché di sorvegliare il fidanzato di quella, un altro ex garibaldino, "Daladier".
7 marzo 1945 - Dalla GNR comando provinciale, ufficio servizi, prot. n° 3124/B.5P, al nucleo della polizia investigativa della GNR di Alassio (SV) - Si indicava al maresciallo Ferrero di chiedere alla signora Ernesta Ordano informazioni sui "ribelli" della zona di Stellanello, numero, movimenti, nominativi delle famiglie che li informavano, dato che la signora voleva la cattura della figlia che faceva parte dei "ribelli" in quella zona.
7 marzo 1945 - Da Ernesta Ordano al nucleo della polizia investigativa della G.N.R. di Alassio (SV) - Riferiva che la figlia, partigiana "Paola", era armata di pistola e moschetto, che il numero di "ribelli" a Stellanello era imprecisato, perché "tutta Stellanello ne è infestata", e forniva un elenco, con annotazioni sui singoli, di cittadini di Villarelli [Frazione di Stellanello (SV)], sottolineando che erano "tutti a favore dei fuorilegge" (nel fascicolo sono presenti anche due lettere del marito alla Ordano per tranquilizzarla sulle "buone intenzioni della polizia investigativa").
15 marzo 1945 - Dal CLN di Alassio alla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che, in risposta alla lettera prot. n°1/83 del 9 marzo 1945, erano state date disposizioni verso il Brinis residente ad Alassio; che riguardo a "Scippa" era stato informato il CLN di Albenga; che si stava indagando su "Pippo" e "Giacomo"; ... che in giornata era partita una staffetta recante notizie di Ernesta [Ordano, rivelatasi presto una spia nemica] e del marito Vittorino "Barbetta".
27 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 110 bis, al CLN di Alassio ed al comando della VI^ Divisione - Chiedeva quale fosse la data per l'arresto ed il processo alla spia Ernesta Ordano, stabilita in un primo tempo per il 26 marzo, ma fatta annullare, come riferito da "Lillo", dal CLN di Alassio...
29 marzo 1945 - Da "Dario" [Ottavio Cepollini] alla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava, in riferimento alla lettera del SIM prot. n° 107 del 21 marzo 1945, che la signora Scialdema era "partita per ignota destinazione"; che si stava praticando "una stretta sorveglianza" sulla signora Maria Raffaello...
28 marzo 1945 - Da "Carmelita" al C.L.N. di Sanremo - Segnalava che ... un'altra informatrice era una donna sudamericana di nome "Pegg", intima amica del Neri stesso.
30 marzo 1945 - Da "K. 20" alla Sezione SIM [responsabile "Livio", Ugo Vitali] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Avvertiva che "... alla Prefettura di Imperia si trova una donna che funge da interprete: risulta facilmente corruttibile dal punto di vista sentimentale..."
2 aprile 1945 - Da "Violetta" alla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che "... sussistevano gravi indizi a carico della concubina del commissario Franco [Giovanni Trucco caduto in combattimento a Trovasta il 27 marzo], signora Angiolina, che era con i tedeschi a San Luigi..."
2 aprile 1945 - Da "Sergio" al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava... che Vittorio Castellani, di professione carrettiere, aveva fornito informazioni alla già nota Ernesta Ordano...
3 aprile 1945 - Dalla Sezione S.I.M. della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 126, al comando della VI^ Divisione - Si segnalava l'individuazione della spia Rina Boero a Gazzo [Frazione di Erli (SV)].
3 aprile 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al comando del Distaccamento "Franco Piacentini" ed al comando del Distaccamento "Marco Agnese" - Segnalava che da Alassio era partita una donna, di cui veniva fornita la descrizione fisica, "diretta verso la montagna con l'incarico di spiare i garibaldini".
7 aprile 1945 - Da "Biscio" alla sezione S.I.M. della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che dopo la cattura degli uomini del Distaccamento di "Franco", Angiolina [Angela Bertone], ex fidanzata del commissario di quel Distaccamento, aveva accompagnato i tedeschi in una puntata su Vergana con la quale i nemici avevano bruciato 25 case, tra cui quella di "Ilda" [Gilda Piana], informatrice della Divisione, la quale aveva già subito un arresto sempre per opera della ricordata Angiolina...
11 maggio 1945 - Dal comando del I° Battaglione "Carlo Montagna" [comandante Giovanni Alessio "Peletta", commissario politico G.B. Pastorelli "Sferra"] della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" [comandante Umberto Bonomini "Brescia", vice comandante Angelo Setti "Mirko", commissario Mario Bruna "Falco"] della II^ Divisione "Felice Cascione" al comando della II^ Divisione - Comunicava che... il 16 aprile 1945 una pattuglia del III° Distaccamento "Nino Stella" [comandante Maurizio Massabò "Italo"] a Piani [Frazione di Imperia] aveva catturato insieme alla moglie il soldato "Romolo", nota spia ed aveva passato entrambi per le armi.
da documentiIsrecim in Rocco Fava di Sanremo (IM), "La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)" - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Anche nel caso riguardante Angela B. guerra civile e guerra tra i generi si contaminano <232. La donna aveva fornito informazioni ai reparti tedeschi di stanza ad Acquetico (in provincia di Imperia) a proposito di una banda partigiana di cui faceva parte anche il fidanzato, Nino D. In seguito i tedeschi operavano un rastrellamento, catturavano e uccidevano dodici partigiani, tra cui lo stesso fidanzato di Angela. La ragazza lavorava per i tedeschi, come addetta alla cucina, si era legata in una nuova relazione amorosa con un milite fascista repubblicano, e secondo un informativa del 30 aprile 1945, aveva avuto relazioni sessuali con altri soldati <233. L’informatore ricordava che “in paese correva voce che quest’ultimo [Nino D.] fosse nei confronti della fidanzata molto geloso e talvolta - per pretesa infedeltà - minaccioso e violento” <234 e dunque non escludeva che “l’incriminata [avesse] fatto la spia per togliere di mezzo il fidanzato e salvarsi così dalle sue giustificate reazioni, non esclusa quella di toglierle la vita” <235.
Tra queste vicende in cui si intrecciano amore, sesso e morte, devono essere menzionate anche quelle riguardanti alcune prostitute, che troviamo spesso tra le imputate di collaborazionismo. In alcuni casi si ravvisa un intreccio tra la loro attività professionale e le delazioni che esse compiono al fine di far arrestare dei partigiani o dei loro sostenitori. Entrando in intimità con i loro clienti infatti spesso potevano carpire notizie sull’identità clandestina o su dislocazioni di bande e armi, e non esitavano quindi a informarne le autorità competenti, spesso per denaro, per ottenere piccoli vantaggi o per rovesciare le dinamiche di potere sui loro clienti. Spesso sono infatti i deboli, gli esclusi della società ad avvicinarsi al potente di turno per riscattarsi dell’emarginazione subita e per rivalersi su chi li sfruttava in tempo di pace.
Si riporta per esempio la vicenda che coinvolge due prostitute imperiesi, Silvana M. e Alba P., accusate di aver provocato l’arresto di un partigiano <236. Dalle testimonianze e dalle deposizioni delle imputate si evince che Alba P. aveva incontrato in strada il partigiano, che conosceva di vista e che gli aveva chiesto di organizzare un incontro con Silvana M., con la quale desiderava avere un rapporto sessuale. Alba P. lo aveva accompagnato nella loro abitazione, dove però Silvana si era rifiutata di soggiacere ai desideri dell’uomo. Tuttavia i tre erano rimasti per un po’ a parlare e l’uomo aveva confidato alle due donne di essere un partigiano, fornendo anche alcune indicazioni più precise sulla sua attività. Silvana M. si allontanava allora per circa dieci minuti con il pretesto di avere un appuntamento con un suo amico marinaio. Una volta rientrata in casa, dopo qualche minuto, si udiva un fischio e la donna si allontanava precipitosamente. Subito dopo irrompevano quindi nell’abitazione quattro o cinque tedeschi armati che dichiaravano immediatamente in arresto il partigiano, mentre altri tedeschi sostavano all’ingresso del portone. Fra i tedeschi era presente anche certo Fritz, amante della stessa Silvana M. <237.
[...] Nel dicembre 1944 per esempio Giuseppina C. e sua sorella si erano trasferite da Mondovì a Vasia per partecipare alla stagionale raccolta di olive. Durante la loro permanenza nel paese, avevano stabilito rapporti di amicizia con un gruppo di partigiani, con i quali si intrattenevano spesso, e in particolare Giuseppina si era fidanzata con uno di loro, Giuseppe S. La loro relazione era trascorsa serenamente, finché il partigiano aveva trovato una lettera scritta dalla donna a un milite della compagnia Ordine Pubblico (OP) di Savona. Dalla deposizione dello stesso partigiano al processo sembra che il contenuto della missiva fosse privato, sembra insomma che la donna avesse anche col milite fascista repubblicano una relazione amorosa. Tuttavia Giuseppina e la sorella furono sospettate e accusate dai partigiani di essere delle spie infiltrate e, dopo otto giorni di reclusione e dopo aver subito un processo da un Tribunale partigiano, furono portate in una località appartata e fucilate. La sorella di Giuseppina moriva sul colpo, mentre lei, riusciva a salvarsi. Ferita a una gamba, si fingeva morta e successivamente riusciva a raggiungere la compagnia OP di Dolcedo e a mettersi quindi in salvo. La mattina seguente si offriva di guidare i soldati nella zona, per rintracciare il corpo della sorella. Veniva quindi avviata un’azione di rastrellamento durante la quale venivano incendiate diverse abitazioni <239.
[...] Ancora, Erminia O. era una fervente fascista ed era sposata con un maresciallo della Gnr che, il 28 agosto 1944, fu prelevato e ucciso dai partigiani. Erminia stessa, precedentemente, era stata catturata e le erano stati tagliati i capelli, ma successivamente era stata rilasciata. Dopo l’uccisione del marito aveva così pronunciato l’intenzione di farla pagare ai resistenti. Secondo le accuse avrebbe quindi indicato i nominativi di sette partigiani della zona di Case di Nava (Imperia), uno dei quali sarebbe poi stato fucilato <252.
[...] Per alcune la violenza è metodo della guerra ideologica, che si collega a quella che è stata definita la “prima guerra civile” degli anni ’20. Maria S. infatti rivendica con orgoglio la propria appartenenza alle squadre d’azione dell’imperiese e le proprie azioni violente <263. Il 23 marzo 1939 infatti scriveva al segretario federale del Pnf di Imperia per richiedere la qualifica di squadrista:
"Io sottoscritta Rag. S. Maria, impiegata di ruolo nel comune di Sanremo, donna fascista iscritta al Pnf dalla fondazione, madre di 5 figli (4 viventi), porge rispettosa istanza a V. S. Ill.ma affinché voglia compiacervi e riconoscere e concedermi la qualifica di squadrista per mio alto onore e ad esempio dei miei quattro figli!
Specifico che negli anni 1920 e seguenti ero studentessa ad Imperia […] fui delle primissime fasciste ed appartenni alla squadra d’azione studentesca […]. Il capitano R[…] Giuseppe potrà confermare che ero con lui nella squadra quando diedero le salde manganellate al professor B [...] sul piazzale delle nostre scuole a Porto Maurizio […]
Io sono quella studentessa fascista che con il capitano R […], P[…], tenente di vascello R […], rag. Mario M […], rag. M […], capitano C […], durante gli scioperi ferroviari nella stazione di P. Maurizio, ho attaccati due vagoni merci, ad un vagone viaggiatori il tutto pilotato da studenti[…] sfidando il pericolo minacciato che avrebbero fatto saltare il treno […]" <264
Aderire al fascismo repubblicano dovette dunque sembrarle una naturale continuazione di quella sua attività ante-regime: collaborava infatti come informatrice con brigate nere e SS tedesche, provocando arresti e rastrellamenti. Dai testimoni al processo venne descritta come donna violenta, che si aggirava armata per il paese alla ricerca di notizie scottanti da riferire ai suoi superiori. Così per esempio la descriveva un suo compaesano:
"[…] è risultato che la S. Maria collaborava in tutti i modi con le SS tedesche, tanto che andava armata di pistola, che portava dentro la borsetta, arma che nessun’altra si sarebbe permessa di portare se non fosse stata autorizzata, come era lei, e se non avesse avuto i motivi per portarla" <265.
Maria S. fu responsabile solo indirettamente dei rastrellamenti, informando le autorità competenti della presenza di partigiani, tuttavia dimostrò sempre un carattere aggressivo. Diverse vittime riportavano alcune sue espressioni, in cui manifestava le sue intenzioni di agire in modo violento. Diceva per esempio Assunta G. nel verbale del 4 luglio 1945 nella stazione dei Carabinieri di Sanremo:
"[…] Allora la S. aggiunse che [se] le avessero dato il comando a lei per 4 o 5 ore avrebbe distrutto tutti i ribelli e gli avrebbe tagliato gli organi virili e glieli avrebbe fatti mangiare prima di ucciderli" <266.
[...] Nei giorni seguenti proseguivano poi le azioni per sgominare la banda partigiana con cui era entrata in contatto la “donna velata”: tra il 13 e il 14 gennaio [1945] venivano arrestati alcuni componenti della formazione, tra cui Adolfo S. e Girolamo A., che venivano sottoposti a giudizio di fronte a un tribunale militare tedesco insieme ad un’altra ventina di uomini. Durante il processo, in seguito alle accuse mosse dalla stessa donna, veniva decretata la pena di morte, eseguita tramite fucilazione nei giorni successivi <276.
Lo stesso 14 gennaio, Maria Z. partecipava a un rastrellamento nella zona di S. Agata condotto da italiani e tedeschi insieme. Uomini e donne venivano prelevati dalle proprie abitazioni e portati sulla piazza della chiesa, dove a uno a uno erano interrogati con i soliti metodi brutali. Giovannina M., che aveva conosciuto Maria Z. personalmente durante la sua permanenza tra i partigiani nel novembre 1944 e a cui aveva confidato che il proprio fidanzato, Carlo M., era un partigiano, per esempio dichiarava:
"Dopo circa due mesi e precisamente il 14 gennaio u.s. durante un rastrellamento effettuato in Sant’Agata, mi rividi nella mia abitazione, mentre mi trovavo a letto, la donna velata, la quale avvicinatasi al mio letto nell’impormi di alzarmi mi diede uno schiaffo. Poi, dietro il fatto della mia confidenza fattale, come sopra ho detto, essa donna velata mi chiese dov’era il mio fidanzato. Dopo averle risposto negativamente essa mi portò unitamente ad elementi nazifascisti nella Piazza della Chiesa, ove venni ancora interrogata e di nuovo picchiata dalla donna velata, dal tenente F. e da alcuni tedeschi. Dopo di ciò fui portata nella caserma “Muti” di Porto Maurizio ove rimasi rinchiusa per circa una settimana ed in seguito liberata" <277.
Raccontava anche Ernesto R., sfollato nel comune di S. Agata [n.d.r.: in effetti, Frazione del comune di Imperia]:
"[…] Dopo che siamo stati riuniti sulla piazza, ad uno ad uno venivamo chiamati in disparte e dopo un breve interrogatorio venivamo picchiati a sangue dai sopraddetti dirigenti l’operazione di rastrellamento. Quando fu la mia volta, fui interrogato dalla Z. Maria, la quale insisteva perché le dessi i nomi dei partigiani del paese. Alle mie risposte negative, che d’altronde dichiaravo di non conoscere nessuno del paese essendo ivi sfollato, la Z. Maria mi percuoteva a sangue sul viso con la pistola che essa teneva, gridandomi in faccia che lassù eravamo tutti ribelli e che nessuno voleva confessarlo. Finito il rastrellamento io e altro gruppo di circa quindici rastrellati fummo condotti a Imperia nella Caserma della Gnr ove parte di noi venne nuovamente interrogata e malmenata. Dopo circa un’ora io ed altre sei persone fummo rilasciati mentre gli altri venivano avviati alle carceri <278.
Tra gli arrestati vi era anche Faustino Z., partigiano che aveva accompagnato la donna velata tra le formazioni di montagna nel novembre 1944. Svegliato alle 5 di mattina da colpi alla porta, veniva portato nella piazza della chiesa con gli altri abitanti della zona, dove ardeva un fuoco in cui veniva gettato. Mentre le fiamme incominciavano a bruciare gli abiti, veniva preso e accompagnato di fronte al tenente F. e a Maria Z., che lo interrogavano e lo picchiavano a sangue. Trasportato in caserma, dove era di nuovo interrogato e malmenato, e i militi organizzavano una falsa fucilazione per convincerlo a parlare. Veniva invece trattenuto nelle locali carceri fino al 23 aprile, quando riusciva ad evadere <279.
[...] Nella maggior parte dei casi invece le donne vengono tosate per aver compiuto delazioni o perché accusate di simpatie per il fascismo. È il caso per esempio di Erminia O., a cui nel giugno 1944 nell’imperiese erano stati tagliati i capelli perché di sentimenti fascisti. La violenza può essere interpretata come un avvertimento per la donna e i suoi familiari, tanto che dopo questa vicenda, due mesi dopo, nell’agosto 1944, veniva prelevato e ucciso il marito, maresciallo della Gnr <384.
[...] Alla rappresentazione di “mogli-mostro” si oppongono invece quelle di mariti non solo deboli vittime, ma anche succubi marionette nelle mani delle loro consorti, come si evince dal caso dei coniugi B., processati insieme dalla Cas di Imperia per essersi posti al servizio delle SS tedesche e aver compiuto delazioni. Nelle denunce a carico dei due è la donna ad essere descritta come principale responsabile dell’attività delittuosa. Ida D. viene infatti definita una donna “volgare, di pessima moralità, e capace di qualsiasi cattiva azione”, ritenuta la responsabile dell’attività delittuosa del marito, colpevole invece soltanto di assecondare le pressanti richieste della moglie. Emerge insomma l’immagine di una moglie che istiga il marito e che dunque può essere considerata l’unica colpevole morale dei fatti, come si rileva dalla denuncia del commissario di polizia di Sanremo del 14 giugno 1945 e dal rapporto del nucleo della polizia giudiziaria presso la Cas di Imperia del 19 giugno 1945:
"Da accertamenti eseguiti nei confronti dei coniugi in oggetto indicati è risultato che la moglie del Burchi fascista sfegatata istigava il marito a porgere denuncia presso il Commissariato di Polizia di Sanremo contro antifascisti e patrioti, avvalendosi della sua qualità di Brigadiere di polizia. Tutte le denunce a carico dei coniugi B. dovrebbesi attribuirle in causa prima alla moglie Ida, perché insisteva presso il marito di denunciare presso l’Ufficio di polizia" <523.
"La B. Ida era iscritta al Pfr e svolgeva continua attività a favore del partito stesso. La stessa era in relazione con le SS tedesche, tanto che quando essa si recava al comando di queste, era ricevuta immediatamente. Essa istigava sempre il marito, B. Silvio, brigadiere di PS, perché, avvalendosi della sua qualità, procedesse a denuncia di tutte le persone che manifestavano sentimenti antifascisti o che comunque fossero contrari al cessato regime" <524.
[...] Le donne che sconfinano nel campo d’azione maschile vengono quindi descritte non solo come prive dei caratteri femminili, ma anche in forme disumanizzate, come esseri ferini: Salvatore C. per esempio si riferisce all’imputata sempre con l’appellativo di “belva”, e fa riferimento inoltre alle sue “tigrine sembianze”. Altre volte l’accostamento non è solo con le bestie, ma con esseri malvagi e diabolici, assetati di sangue, rinviando al topos letterario della donna-vampiro <541.
[...] Le donne sono quindi presentate come madri che incoscientemente agiscono per il bene dei figli. Lo stesso artificio retorico è utilizzato anche nel caso di Rosa P., imputata presso la Cas di Imperia per aver denunciato un uomo che aveva espresso pubblicamente le sue opinioni antifasciste, in contrasto con le posizioni del figlio, arruolato nella Brigata nera. Già nell’interrogatorio del 17 giugno 1945 la donna sosteneva di aver agito “non per odio, bensì per dolore dell’unico mio figlio esposto a tanti pericoli” <549. Lo stesso giudice, pur ritenendo la piena consapevolezza dell’imputata nelle conseguenze che la sua delazione avrebbe comportato e che comportò, essendo stato l’uomo poi fucilato da militi della Gnr, e dunque ritenendola colpevole, ritenne però di doverle accordare le attenuanti generiche, “per la sua qualità di madre”, diminuendo così la sua pena da dieci anni a quattro anni e cinque mesi <550. Infine l’avvocato difensore continuava a solcare questa strada nell’intento di scagionarla definitivamente, nel ricorso in Cassazione, in cui sosteneva:
"In lei e nella sua azione non vi era che lo sfogo istintivo ed impulsivo di una madre che, colpita nel suo profondo dolore e ben lontana dal provvedere quelle che la sentenza definisce “le gravi conseguenze che ne sarebbero derivate”, non pensa più in là del fatto immediato e contingente" <551.
[...] Dello stesso avviso risulta il marito di Maria Delfina R., condannata dalla Cas di Imperia a 9 anni di reclusione per essere stata una fervente fascista, per essersi arruolata tra le ausiliarie di Imperia e per aver provocato un rastrellamento nel paese di Montegrazie, il quale così si esprime in un esposto al Presidente della Corte di Cassazione dell’11 novembre 1945:
"Il 3 agosto mia moglie venne processata e su accusa di 5 o 6 persone di Montegrazie, tutte imparentate tra loro, che avevano dei rancori personali verso la famiglia di mio suocero per vecchie questioni d’interesse, venne condannata a 9 anni per propaganda fascista. […] Credo che dopo tanti anni di guerra e di lontananza dalla famiglia, quella famiglia che ho sempre anelato di possedere e che il destino avverso non mi ha fatto mai godere, abbia quasi il diritto di vivere un poco in pace. È il grido di dolore di un reduce, che ha combattuto tutta la guerra sul mare […] E pensare che se fossi rimasto a casa, con la mia guida, con la mia presenza tutto questo non sarebbe successo. Ecco ciò che amareggia ancor di più noi reduci: aver subita la guerra ed aver trovato casa e famiglie distrutte, e cioè senza colpa alcuna" <568.
[NOTE]
232 Asge, Cas Imperia, fasc. 64/45.
233 Rapporto di Angiolina Bertone del 30 aprile 1945, in Ivi, ff. 12-14.
234 Ivi, f. 12.
235 Ivi, f. 13. La Cas di Imperia il 19 febbraio 1946 assolve l’imputata per insufficienza di prove. Cfr. sentenza, in Ivi, ff. 32-36.
236 Asge, Cas Imperia, b. 34, fasc. Silvana M. e Alba P.
237 Denuncia della Questura di Imperia del 27 luglio 1945, in Ivi, f. 3. Con sentenza del 10 settembre 1945 inoltre la Cas di Imperia condannava a 6 anni e 8 mesi di reclusione Silvana M. con la concessione delle attenuanti generiche in considerazione del fatto che “la denuncia non ebbe esito funesto e che era dovuta, più che a gravità d’animo, all’ambiente in cui sciaguratamente viveva […] ed alle suggestioni del suo amante tedesco”. Alba P. invece veniva assolta con formula piena per non aver commesso il fatto. Cfr. Sentenza contro Silvana M. e Alba P.del 10 settembre 1945, in Ivi.
239 Non si può sapere se effettivamente le due donne fossero o meno informatrici infiltrate, tuttavia la Cas di Imperia il 1/10/1945 assolve l’imputata perché il fatto non sussiste, accogliendo l’istanza difensiva di Giuseppina Comino che sosteneva di aver guidato i militi fascisti in rastrellamento solo al fine di ritrovare il cadavere della sorella. Cfr. Asge, Cas Imperia, fasc. 54/45.
252 La Cas di Imperia tuttavia con sentenza del 28 novembre 1945 la assolveva per insufficienza di prove, cfr. Asge, Cas Imperia, b. 35, fasc. 60/45 Erminia O.
263 Asge, Cas Imperia, b. 34, fasc. 36/1945 Maria S. La Cas di Sanremo con sentenza dell’11 gennaio 1946 condanna l’imputata a 11 anni e 6 mesi di reclusione. In data 13 novembre 1946 però la Corte Suprema di Cassazione annulla senza rinvio perché il reato risulta estinto per amnistia. Sulle donne squadriste, cfr. D. Detragiache, Il fascismo femminile da S. Sepolcro all‟affare Matteotti. 1919-1925, «Storia contemporanea», a. XIV, n. 2, aprile 1983, pp. 211-251.
264 Istanza di Maria S. al segretario federale del Pnf di Imperia del 23 marzo 1939 per richiedere la qualifica di squadrista, in Ivi, f. 39.
265 Verbale di Gastone L. di fronte ai carabinieri di Sanremo del 2 luglio 1945, in Ivi, f. 25.
266 Verbale di Assunta G. del 4 luglio 1945, in Ivi, f. 27.
276 Dichiarazioni di Alfredo T., capoguardia delle carceri di Imperia, del 21 settembre 1945 e del 21 gennaio 1946, in ivi, ff. 16-17; Dichiarazione di Silvio R. del 13 agosto 1945, in ivi, f. 18.
277 Dichiarazione Giovannina M. del 19 novembre 1945, in ivi, f. 31.
278 Dichiarazione di Ernesto R. del 15 novembre 1945, in ivi, f. 32.
279 Dichiarazione di Faustino Z. del 14 gennaio 1945, in ivi, ff. 35-37.
384 Asge, Cas Imperia, fasc. 10/1945, Ermina O.
522 Istanza di grazia da parte della madre di Margherita A. del 16 marzo 1956, in Acs, Ministero grazia e giustizia, Direzione generale affari penali. Grazie casellario. Ufficio grazie. Collaborazionisti, b. 61, fasc. 012323, Margherita A.
523 Asge, Cas Imperia, b. 39, fasc. Ida D., f. 22.
524 Ivi, f. 29.
541 A proposito di Rosa S., accusata di aver ingiuriato e percosso un partigiano, averlo denunciato e assistito alle sevizie, in una denuncia a suo carico per esempio si dice che dopo averlo bastonato, “ancora non esaudita la sua sete di sangue” continuava a persiguitare il malcapitato, assistendo alle torture durante il suo interrogatorio. Cfr. Asto, Cas Torino, 1946, b. 256, fasc. 119, f. 9. La visione delle donne armate come minaccia alla virilità e un attentato alla mascolinità è riscontrabile anche nella descrizione di Maria S., già citata sopra a p. 83, delineata da una testimone a carico che ricorda che la donna manifestò il suo intento di abbattere il movimento partigiano, dicendo che “se le avessero dato il comando a lei per 4 o 5 ore avrebbe distrutto tutti i ribelli e gli avrebbe tagliato gli organi virili e glieli avrebbe fatti mangiare prima di ucciderli”, cfr. Verbale di Assunta G. del 4 luglio 1945, in Asge, Cas Imperia, b. 34, fasc. 36/1945 Maria S., f. 27. Sulle donne-vampiro, B. Dijkstra, Idoli di perversità,cit.; Id., Perfide sorelle. La minaccia della sessualità femminile e il culto della mascolinità, Milano, Garzanti, 1997.
549 Asge, Cas Imperia, b. 39, fasc. Rosa P., f. 7.
550 Sentenza della Cas di Imperia del 20 luglio 1945, in Ivi, ff. 12-13.
551 Ricorso in Cassazione del 23 luglio 1945, in Ivi, f. 18.
568 Esposto di Evaristo M. al Presidente della Suprema Corte di Cassazione di Roma del 11 novembre 1945, in Asge, Cas Imperia, b. 39.

Francesca Gori, Ausiliarie, spie, amanti. Donne tra guerra totale, guerra civile e giustizia di transizione in Italia. 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013