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venerdì 19 luglio 2024

Quel giorno dovevano salire i Tedeschi in paese

Viozene, Frazione del Comune di Ormea (CN). Foto: Arbenganese. Fonte: Wikimedia

Nella notte dal 5/6 dicembre 1944 alcune donne, giunte da Ponte di Nava, recano la notizia che il giorno dopo i Tedeschi sarebbero saliti a Viozene [Frazione del Comune di Ormea (CN)] ed io fui informato di ciò.
Il mattino seguente, dopo aver celebrato la Santa Messa, uscito fuori della chiesa fui colpito da uno strano ed insolito silenzio che regnava in paese. Domandato il motivo mi fu risposto che quel giorno dovevano salire i Tedeschi in paese e che a quella notizia, portata a Viozene nella notte, quasi tutti i partigiani e la popolazione erano fuggiti prima che facesse giorno.
Avevo dormito nella vecchia canonica attigua alla chiesa, ma alla notizia mi recai nella nuova per dare l'allarme in caso vi si trovassero ancora delle persone. Trovai l'edificio aperto e vuoto mentre i pochi partigiani ammalati si erano già allontanati, lasciando tuttavia chiari segni della loro presenza in passato. Allora cercai di far sparire ogni traccia sospetta, specialmente nel salone del primo piano adibito ad infermeria, quindi ritornai in chiesa in attesa di eventi.
Nel primo mattino, mentre le persone rimaste stavano chiuse in casa, un gruppo di partigiani di stanza in Pian Rosso, tra cui un certo Gian Luigi Martini di Diano Marina ed un certo Ramoino di Cesio, forse ignari dell'allarme della notte precedente, scesero in paese in cerca di viveri. La popolazione diede loro tutto il necessario purchè si allontanassero subito, dato il pericolo incombente; così non tardarono a riprendere la via di Pian Rosso, quantunque considerassero con scetticismo la paura dei Viozenesi. Appena giunsero in località Baraccone, ove ha inizio il sentiero che sale a Pian Rosso, dalla Costa del Pagano, di fianco a Viozene, dalle fasce allora coltivate, all’altezza della Borgata Toria, incominciò un infernale fuoco di mitragliatrici e di altre armi da fuoco tedesche.
I Tedeschi (come dopo si seppe) dalle prime ore del mattino si erano appostati in quel posto da cui si poteva avere sott’occhio tutta Viozene e la zona circostante. Ai primi colpi sparati, il Martino sopraddetto incominciò a zoppicare: era stato colpito da una pallottola ai piedi e si diresse, camminando come poteva, verso la Borgata Mussi, preceduto da un suo compagno di Genova.
Il Ramorino, con altri compagni, si precipitò a valle verso il Negrone e con quanti erano con lui riuscì a mettersi in salvo nella zona di Pian Cavallo. Il Martino ed il suo compagno, mentre stavano fuggendo verso la Borgata Mussi, si imbatterono in una formazione di Tedeschi appostati nei pressi di detta Borgata.
La zona di Viozene, con un piano ben premeditato, era stata chiusa, fin dalle prime ore, in una ferrea morsa da Tedeschi provenienti da Ponti di Nava e da Upega. I due furono immediatamente fucilati sul posto: il compagno del Martino (di cui lo scrivente non ha potuto conoscere il nome) sul sentiero che da Viozene porta ai Mussi, proprio nel punto in cui il ruscello attraversa detto sentiero; il Martino che seguiva a distanza, essendo ferito ai piedi, un po’ più avanti verso Viozene, al di sopra dello stesso sentiero. Una croce di legno fu posta per entrambi sul luogo ove furono fucilati.
Per tutta la giornata continuarono gli spari e le raffiche tedesche in tutte le direzioni, tra il terrore della popolazione rimasta in paese, chiusa nelle loro case, in attesa di qualche tragico destino. Verso sera i Tedeschi, muovendo dai Mussi e da Toria, si riunirono in Viozene.
Il Parroco sottoscritto, subito ricercato, fu appoggiato al muro della Chiesa per essere fucilato. Gli scarponi militari ed altri indumenti, avuti in cambio da soldati italiani di passaggio, che gli trovarono addosso, dopo avergli aperto la talare, furono sufficienti cause della sua condanna. Mentre già il gruppo di soldati Tedeschi stava estraendo le pistole, uno scoppio fortissimo, a brevissima distanza, li mise nello scompiglio e li fece momentaneamente fuggire in cerca di un rifugio. Il sottoscritto approfittò di questo momento di confusione per fuggire anche lui e andò a nascondersi in un oscuro angolo in fondo alla Chiesa. Ricercato poco dopo, non fu ritrovato dai Tedeschi, i quali dalla Chiesa entrarono nella Sacrestia e di qui nella vicina Canonica mettendo a soqquadro e distruggendo ogni cosa.
Tutti gli uomini trovati in paese furono, a forza, fatti uscire dalle loro case e condotti, tutti insieme, in un prato nel centro dell’abitato (nel luogo ove fu costruita la casa del Sig. Dulbecco) davanti ad un nido di mitragliatrici; intanto la soldataglia, entrata nelle case, faceva man bassa di quanto trovava e rubava il poco bestiame della popolazione. Fatto bottino di quanto ancora trovarono in Paese, i Tedeschi presero la via di Ponti di Nava.
Si seppe poi anche che essi al mattino, salendo a Viozene, avevano ucciso un innocente individuo, residente in una Borgata di Ormea, il quale stava scendendo verso Ponti di Nava e di cui il sottoscritto non sa il nome. Fu ucciso dai Tedeschi a Rio Bianco ed ivi rimase seppellito (nella nuda terra) fino al termine della guerra.
La giornata si chiuse tra il terrore della popolazione, privata di tutto il bestiame che ancora le era rimasto e nella pesante incertezza sulla sorte di quanti erano fuggiti.
Per fortuna in quella triste giornata Viozene non ebbe a subire perdite tra la popolazione.
I fuggiti di casa, specialmente i giovani, rimasero tutto il giorno nascosti nei cespugli, nelle caverne e negli anfratti di Pian Cavallo e del Mongioie, donde potevano seguire le mosse dei Tedeschi. Questi, però, due giorni dopo, l’8 dicembre, fecero ritorno a Viozene e vi rimasero fino alla fine del mese. Imposero il coprifuoco nelle ore notturne ed entravano sovente nelle case private ordinando da mangiare ed imponendo che fosse loro preparato ciò che da essi veniva stabilito.
In quei giorni venne devastata la Canonica di Viozene (Villa Bottaro), quella che era stata adibita ad ospedale. I Tedeschi la resero inabitabile, rompendo finestre, porte, mobili, portando via coperte, biancheria ed altri oggetti.
Non soltanto in quel periodo i Tedeschi rimasero in Viozene, ma giorno e notte mantennero, fino a quando se ne andarono, un rigoroso controllo dei valichi delle Saline e del Bocchin dell’Aseo. In quel tempo essi avevano lanciato un forte attacco contro i Partigiani delle Valli Ellero e Corsaglia. Molti cercavano di porsi in salvo verso Viozene attraverso i valichi sopraddetti ed inconsciamente venivano a cadere nelle mani dei Tedeschi che, legati con delle corde, a piccoli gruppi, li conducevano a Viozene e di lì ai forti di Nava, ove venivano fucilati. Questa fu la sorte di tanti giovani di cui le famiglie ignorarono per sempre il luogo ed il genere di morte che ebbero a subire.
Verso la fine di dicembre tutti i Tedeschi ritornarono a Ponti di Nava. La popolazione derubata dai Tedeschi del bestiame e degli scarsi prodotti agricoli (avena, grano, patate) si dibatteva nella penuria, sempre più carente di viveri; unico sostentamento erano le patate.
Don Paolo Regis, Diari, A Vaštéra, Anno XXII - Primavera - Estate 2012

martedì 31 gennaio 2023

Nello stesso giorno furono uccisi dalla banda Ferraris il partigiano Silvano Belgrano, il giovanissimo Matteo Canale ed il parroco di Stellanello don Pietro Enrico

 

Dintorni di Stellanello (SV). Foto: Eleonora Maini

Silvano Belgrano fu uno dei primi partigiani che aderirono alla lotta in montagna. Amico e componente della banda del Cion (Silvio Bonfante) e di Mancen (Massimo Gismondi), fu proprio a fianco di Cion che cadde, forse colpito a freddo da un infiltrato che approfittò dell’infuriare della battaglia per eliminare una delle figure più carismatiche della Resistenza imperiese della prima ora. Sicuramente a conoscenza delle posizioni tenute dal distaccamento Volante di Silvio Bonfante (Cion) e del distaccamento Volantina di Massimo Gismondi (Mancen), il comando provinciale della GNR di Imperia pianificò un’azione tesa a separare i due distaccamenti. Il distaccamento di Cion si trovava sul Monte Ceresa, quello di Mancen in zona Fussai, sopra Evigno, <1 pronti a darsi manforte reciproca in caso di attacco nemico. La GNR, il 19 giugno 1944, mise in campo, tra le altre, la compagnia operativa del capitano Ferraris, sostenuta da un plotone tedesco di cacciatori della 42a Jäger-Division appena giunta in Liguria dalla Garfagnana. Ferraris, ricco dell’esperienza fatta nei Balcani contro i titini, pianificò l’operazione incuneandosi tra le due formazioni partigiane per evitare che potessero operare in sinergia. Una colonna, per lo più composta da tedeschi salì dalla rotabile Alassio-Testico, mentre un’altra proveniente da Cesio, superò il Passo San Giacomo. L’attacco venne diretto contro gli uomini di Cion, che in evidente inferiorità numerica riuscirono a tener testa ai nemici per parecchio ore per poi sbandarsi quando la pressione avversaria divenne insostenibile. Nonostante la notevole inferiorità numerica, il distaccamento “Volante” dovette piangere un solo compagno, Silvano Belgrano, e contare poco meno di una decina di feriti più o meno gravi. Nello stesso giorno furono uccisi dalla banda Ferraris il giovanissimo Matteo Canale (Stellanello 2/3/28) falciato sull’uscio di casa nella zona di San Lorenzo di Stellanello (SV) ed il parroco di Stellanello don Pietro Enrico che, accusato di fiancheggiare i partigiani, fu portato in località Molino del Fico [n.d.r.: oggi nel comune di San Bartolomeo al Mare (IM)] e fucilato.
(1) Il Pizzo d'Évigno (988 m), detto anche Monte Torre o Torre d'Évigno, è montagna erbosa a forma di piramide, che sorge alle spalle di Imperia. È la vetta più elevata di un sottogruppo montuoso abbastanza vasto, che si estende tra la Valle Impero, la Valle Arroscia. Costituisce un importante punto nodale: verso sud dirama il contrafforte che separa la Valle Impero dalla valletta di Diano, mentre verso est dirama il costolone che delimita sul lato destro idrografico la valle del Torrente Merula, e che forma l'adiacente Monte Ceresa.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020  

[ n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944-8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]
 
Silvano Belgrano
Nato ad Imperia il 5 agosto 1924, appartenente al Distaccamento “ Volante”.
All’alba del 19 giugno 1944 il distaccamento di Silvio Bonfante “Cion”, di stanza ad Evigno (nota 1), viene attaccato da forze nemiche, numericamente di gran lunga superiori, che ne tentano l’accerchiamento. I partigiani si portano sulle alture e combattono strenuamente a lungo: i tedeschi non passano che a sera. I garibaldini, protetti dai loro compagni, si mettono in salvo; tutti ad eccezione di Silvano Belgrano. In seguito si appurerà che a causarne la morte era stata una spia infiltratasi tra le fila dei garibaldini.
A Silvano Belgrano è intitolata la I^ Brigata della Divisione d’assalto Garibaldi “Silvio Bonfante”.
(nota 1) Nella zona di Evigno avevano la loro base due distaccamenti garibaldini: quello comandato da Silvio Bonfante “Cion” è a Cian Bellotto e controlla tutto il pendio nord del Pizzo d’Evigno; quello di Massimo Gismondi “Mancen” era lungo i fianchi rivolti a sud, in località Fussai. Questa zona il 19 giugno 1944 fu teatro di una delle battaglie più accanite tra le truppe nazifasciste e i garibaldini del solo Distaccamento di “Cion”. “Mancen”, con vari uomini, si era recato a Diano Gorleri per disarmare un presidio della Guardia di Finanza e, compiuta l’azione, di ritorno all’accampamento trovò tutti i percorsi sbarrati dal rastrellamento nazifascista. “Cion” e i sui uomini dal Pizzo della Penna mitragliarono con continuità; “Fiume”, l’aiutante mitragliere che orientava la direzione dell’arma a seconda degli spostamenti nemici, si trovò le braccia ustionate dalla canna arroventata dell’arma! I Tedeschi non passarono che a sera, dopo aver pagato a caro prezzo la padronanza del campo di battaglia e tutti i partigiani, protetti dai compagni più valorosi, primo fra tutti il comandante, si misero in salvo. Unico caduto fu Silvano Belgrano.
Dal rapporto del comandante “Cion”:
"Giorno 19 giugno. Ore 6,45 il distaccamento viene messo in allarme dalle sentinelle che sentono alcuni colpi di fucile e movimenti di camion sulla strada Alassio - Testico. Ore 7, disposizione delle squadre per il combattimento. Il distaccamento viene attaccato da sinistra e di fronte da forze nazifasciste di gran lunga superiori alle nostre (numero finora accertato degli attaccanti: 1200). Noi attacchiamo senza esitare le forze nemiche che tentano l’accerchiamento di fronte al Distaccamento per poterle fare ripiegare verso sinistra dove si trovano già altre loro forze: il tentativo riesce. Portatici sulle immediate alture, cerchiamo il tutto e per tutto per far allontanare sempre di più le forze tedesche dal Distaccamento… Rientro in serata al distaccamento, ancora intatto… Da segnalare il comportamento esemplare di 4 compagni: Federico, Germano, Carlo II, Aldo, Fiume… Accertamento dei morti nemici, da fonte competente n. 62…"
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Redazione, Arrivano i Partigiani. Inserto 2. "Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I Resistenti, ANPI Savona, numero speciale, 2011
 
 
Matteo Canale. Fonte: Giorgio Caudano, op. cit.

Don Enrico e il ricordo di Lorenzo Stalla che fu catturato in Chiesa, patì la violenza dei Repubblichini e rimase prigioniero destinato ad un Lager. Riuscì a sopravvivere ed alla fine della guerra poté tornare a casa sfinito e morì dopo poco. L’altro ricordo riguarda l’uccisione di Matteo Canale, detto Malin, un ragazzo di 16 anni falciato da una raffica perché era stato visto correre verso casa sua gridando ‘I picca u prève!
Malin compagno di giochi sveglio e simpatico. In suo ricordo é stato posto un cippo davanti alla casa di famiglia, poco oltre la chiesa di San Lorenzo.
Don Enrico era austero: viveva solo nella Sua solitaria canonica, assistito da una vecchia perpetua (forse una parente), brava cuoca che ammanniva pranzi luculliani per le feste solenni a beneficio degli altri numerosi Parroci della valle e delle persone che riteneva di riguardo. A quei convivî partecipava sempre anche il vegliardo Don Laureri, di San Damiano - allora Vicario foraneo del Vescovo d’Albenga - che intratteneva i commensali improvvisando versi d’occasione.
La puntuale testimonianza sulla fucilazione di Don Enrico dev’essere di persona che si trovò ad assistervi, tanto é accurata. La vile ed inutile strage di Stellanello fu il movente del rastrellamento: chi semina vento raccoglie tempesta. Successivamente - ai primi d’agosto - vi fu il bombardamento di Andora ed allora c’è chi si trasferì a Torino (dove i bombardamenti erano ancora più frequenti e devastanti) [...]  Matteo Canale detto Malin. Nato a Stellanello il 2-3-1928. Assassinato il 19 Giugno 1944. Il comando fascista imperiese il 19 giugno 1944 coordinava un’azione di forte contrasto nelle vallate, inviando squadroni di militi con esperienza nei rastrellamento. Molti erano fuoriusciti dalla Francia, oriundi imbevuti di nazionalismo, avanzi di galera con alle spalle omicidi e violenze. Un gruppo di tedeschi seguiva le azioni repressive. Barbetta, il noto fascista Vittorio Ottavi di Stellanello, si era aggregato alle squadracce come guida pratica del posto, rimarcando così il suo odio per i resistenti. Appena giunti a Stellanello questi mercenari uccidevano un ragazzino sedicenne, Matteo Canale, uscito sulla soglia di casa al passaggio della soldataglia che aveva appena arrestato il prete don Pietro Enrico, accusato di avvisare i partigiani mediante scampanelli. Il ragazzo, impressionato dalle percosse affibbiate al povero chierico, aveva richiamato a gran voce la madre affaccendata in cucina. Ciò era bastato perché lo sventurato ragazzino si prendesse a bruciapelo una fucilata da quella ciurma di criminali. Un ulteriore colpo alla nuca ribadiva le intenzioni dei fascisti per la giornata, che si concluderà con l’assassinio del prete a Molino del Fico, vicino a dove erano già stati torturati orrendamente e poi fucilati qualche giorno prima i martiri partigiani Marco Agnese (Marco), Alessandro Carminati (Sandro), Carlo Lombardi (Giuseppe) e Celestino Rossignoli (Celestino).
Redazione, Stellanello: ricordi di don Enrico e di Malin ucciso a 16 anni. Quella vile e inutile strage. I convivi in canonica e i versi di don Laureri, Trucioli, 9 luglio 2020   
 
 
Don Pietro Enrico. Fonte: Giorgio Caudano, op. cit.

Una volta vennero sul serio da San Damiano, Testico, Stellanello, Chiusavecchia e Pairola [n.d.r.: Frazione del comune di San Bartolomeo al Mare (IM)], un finimondo che ci pareva il poligono dei tiri in funzione sul mandamento; epperciò tutto intorno, da  ogni parte, non si sentivano manco più a parlare tra loro negli spari così forti.
Con le pesanti in postazione, sì che i partigiani c'erano ai passi sempre di guardia; e anche le pattuglie avanti indietro si davano il cambio; sì che attorno ai casoni le sentinelle stavano ferme anche col freddo a sentire i rumori: ma quando li senti così vicini ormai è tardi, altro che balle.
Quando arrivano così da tutte le direzioni, che non sai come, non ti serve più, niente di niente, perché sai che tanto è inutile, sicché ce la metti tutta soltanto per schivarti se ti riesce.
Tu allora spari finché spari per fermarli e va bene, ma mica puoi gridargli alto là fermi tutti, di qui non si passa; come fai a fermarli se sono una valanga, e hanno già preso anche il Pizzo d'Evigno?
Come fai, se ce n'è pieno sulle creste e il pendìo del Ceresa è pelato come in mano, che di lì proprio non ci puoi passare sempre sotto tiro?
Adesso invece porca la miseria, in più tieniti anche sti colpi di mortaio sempre più secchi, spiaccicato lì sull'erba.
Sempre lì fermo con tutta la paura addosso che hai, intanto loro aggiustano il tiro coi binocoli; e tu rimani lì ad aspettare il colpo giusto se arriva sì o no a schiantarti; ti raggricci di più, sempre di più, con la pancia a terra da volerci sprofondare come un verme nell'erba fitta, e sparire.
Eccoti dunque che li impari a conoscere sul serio sti bastardi di mortai, col tempo che ci vuole per sentirteli proprio addosso; col tempo che ci vuole voglio dire per indovinare il colpo quando parte e lo squarcio quando arriva nello schianto, sempre di più vicino a te.
Questo modo che impari, è proprio come quello di starsene all'avventura; tanto o prima o poi lo schianto arriva preciso anche per te: è inutile pensare all'altromodo, se il tuo destino è così; ma è lo stesso anche se ti raggricci ancora di più, perché ciononostante gli squarci ti si aprono da tutte le parti coi sibili e il fracasso.
Poi sti tedeschi li senti che vengono avanti con le bardature e l'armamentario, scendono dalle creste passo passo frugando in tutti i buchi, che non gli scappa niente.
Ecco che così adesso, senti veramente di essere soltanto un verme molle da schiacciare come vogliono loro o prima o poi, siccome devi stare sempre fermo ad aspettare, guai a muoverti.
Devi starci spiaccicato pancia a terra in questo inferno, con gli squarci da tutte le parti, e loro che vengono sempre avanti a scovarti senza smetterla e sparando in presa diretta, sempre così; il fatto sta che loro sanno tutto della situazione com'è, scendendo dalle creste e mettendosi a frugare.
Lo sanno che in questa valle presidiata, da non poterne più uscire, ci sono quelli del Cion già famosi dappertutto; e che perciò adesso bisogna batterla ben bene coi mortai, per farli saltar fuori proprio tutti al completo.
Eppoi sanno che bisogna andarci dentro con le pattuglie passo passo in rastrellamento metodico per non dargli scampo; epperciò, con tutte le bardature elmetti armi automatiche munizionamento a bizzeffe e i mortai che li sparano giusti con tutti i colpi che ci vogliono e anche di più, adesso vengono avanti; vengono avanti sempre sul sicuro frugando dappertutto, così ce la faranno eccome a schiacciarti proprio come un verme molle.
Successe invece che quella impresa i nazifascisti la finirono da arrabbiati senza concludere, senza minimamente riuscire a scovarli dai nascondigli.
Dopo quel traffico della malora dalle creste e quegli spari coi mortai nel rastrellamento, ben sapendo che c'erano eccome i partigiani, o di qua o di là nella valle, ma non li trovarono chissà, si incattivirono di più, bestemmiando forte.
Difatti i partigiani erano pratici e ce la fecero anche stavolta, perché bastava un rovo una crepa una fessura o un po' di fieno, sempre lì rintanati; poi sapevano strisciare adagio un poco più in là mentre loro, proprio da crucchi, andavano passo passo frugando un poco più in qua; e così gli sgusciavano di sotto.
Per la strada invece presero don Enrico, parroco di Stellanello - lui va bene porcomondo, perché è prete; non può negare - dicevano andando; se lo misero davanti legato a colpi nella schiena, sempre più secchi: perdio se dovrà parlare altroché.
- Su, svelto, facci vedere questi nascondigli; ma fa presto che tu lo sai, spicciati.
Lo portarono di qui di là, nel folto dei canneti, ai lati del torrente e sotto negli orti, avanti fin quasi sulle creste e dentro i paesi con la gente chiusi, che parevano cimiteri.
Per le strade dei campi e fuori strada, fin nelle pietraie, dappertutto lo fecero girare legato quel prete catturato nella sua valle, picchiandolo; andando tra le botte, lui diceva di curare le anime, non ste faccende degli uomini che si sparano tra loro in questi tempi da lupi.
Diceva così: che non è lecito di andarsene in mezzo alla sua gente nelle sparatorie accanite soltanto per sparare, di andarsene senza pietà voleva dire; ma che bisognava starci da prete come si deve; non come le bestie, santo cielo, a pregare per tutti.
Loro invece no, avanti botte sempre di più a sfigurarlo - tu lo sai, tu sei d'accordo prete sovversivo; e ce lo devi dire. Per la miseria se ce lo devi dire, perché noi del fascio ti faremo cantare: hai capito che ce lo devi dire?
Lo spingevano sempre di più con le botte a fracassarlo; tanto che ormai, manco volendolo, ce la faceva più a stare dritto in mezzo a quei manigoldi.
Andando, chinava il capo rassegnato come poteva; tra le case della sua gente tutte chiuse sigillate, andava a quel modo che alla gente faceva pietà; si vedeva che andando pregava, e che sapeva come finiva la sua storia.
Lui sapeva della morte inevitabile e dei nascondigli dei partigiani, perché sapeva tutto della sua gente in quella valle da una parte all'altra; ma i fascisti perdio li fece girare a vuoto per tutto quel giorno, sotto le botte, avanti indietro nella sua valle sempre uguale; sicché alla fine non si riconosceva più massacrato a quel modo com'era, dalla testa ai piedi.
Poi loro se ne accorsero che era proprio inutile, siccome lo capirono alla fine del giorno, che non ci si vedeva più.
Lo capirono che li aveva presi ben bene in giro, non volendo tradire la sua gente né di giorno né di notte, mai.
Lo finirono, sparandogli a bruciapelo quando era già scuro, e lui non ce la faceva più a reggersi in piedi.
Lo trascinavano di peso per la strada nella polvere spessa: erano arrivati in fondo alla valle, vicino al Molino del Fico, e lì si fermarono; la gente chiusa nelle case col terrore e i ribelli nei nascondigli ad aspettare da un momento all'altro, alla fine sentirono l'ultima raffica al Molino del Fico, e loro che imprecavano bestemmiando tutti sporchi di polvere sgomberando la valle.
Allora, tutti insieme, la gente e i partigiani capirono che se un prete è un prete, deve essere un prete così come questo qui ministro di Dio e dei suoi fratelli, con la sua gente fino al patibolo; e non se lo scordarono mai più.
Osvaldo
Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982,  pp. 45-47