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venerdì 8 maggio 2020

I partigiani dell'Imperiese ed il proclama di Alexander

Colline a ponente di Baiardo (IM)

La Brigata S.A.P. di Imperia "Walter Berio" a novembre 1944 disarmò 4 militi repubblichini, recuperò diverse armi leggere, vari equipaggiamenti, 10 bombe  a mano tedesche, arrestò 4 spie, che vennero consegnate ai partigiani in montagna; giustiziò (il 4 novembre) un soldato delle brigate nere vicino ad Oneglia: per rappresaglia il nemico prelevò dalle carceri tre prigionieri partigiani che vennero uccisi in pubblico.
Gli alleati il 9 novembre bombardarono pesantemente Bordighera (IM) con il tiro di cannoni a lunga gittata.
Il 13 novembre 1944 venne diffuso il tristemente noto "proclama di Alexander", con cui il generale inglese, ringraziando i partigiani italiani per l'impegno profuso, li invitava a tornare alle proprie case, abbandonando provvisoriamente la lotta, in attesa che trascorresse il freddo.
Gli organi locali di stampa del fascismo scrivevano con compiacimento che gli alleati intendevano abbandonare i ribelli al loro destino. Sostenevano, ad esempio, che "in simili circostanze il dovere del governo [Bonomi] è di aiutarli. Ma se egli non riesce a procurarsi quei pochi aereoplani che sarebbero necessari per inviare a Berna e a Londra i nuovi ambasciatori italiani, come potrà organizzare un rifornimento per via aerea in favore dei fuorilegge?"
Il proclama di Alexander non considerava che i patrioti nelle loro case erano attesi dai capestri. E non valutava neanche il loro orgoglio.
Nei reparti della I^ Zona Operativa Liguria si sviluppò un acceso dibattito sul proclama. I garibaldini intesero continuare la guerra.
Tutt'al più alcuni di loro andarono ad ingrossare le file delle S.A.P.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

A quel proclama rispose duramente Carlo Farini [Simon], ispettore della I^ Zona operativa Liguria, a nome del Comando unificato ligure, dicendo al generale Alexander quello che si meritava e incitando i partigiani a serrare le fila e a combattere ancora più duramente contro i nazifascisti, rinfacciando altresì agli alleati la scarsissima consistenza degli aiuti inviati ai garibaldini, sporadicamente, e fino ad allora solo per mare con una minuscola imbarcazione che sbarcava nella zona tra Bordighera e Ventimiglia.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

Pagina iniziale della "interpretazione" data dal CVL al proclama di Alexander

Così, durante il mese di novembre, uno a uno, i distaccamenti della II^ Divisione garibaldina "F. Cascione" rivalicarono lunghe teorie di monti, di passi e di boschi, tra bufere di neve, nel gelo e nei pericoli delle valanghe, e rientrarono ai loro casoni ben sapendo che qui li attendeva l'inverno ed un avversario dappertutto vigile e implacabile.
C'era, però, in loro anche la fiducia che la pressione dei tedeschi sarebbe stata fra non molto alleggerita, perché gli alleati angloamericani avrebbero dato avvio all'offensiva contro la Linea Gotica costringendo i tedeschi a ritirare soldati e mezzi dal fronte antiguerriglia.
Senonché, inatteso, una di quelle grigie sere di novembre, toccò anche ai partigiani della I^ Zona Liguria di dover ascoltare un proclama rivolto a tutti i partigiani d'Italia, che diceva:
"Patrioti, la campagna estiva è finita e ha inizio la campagna invernale. Il sopravvento della pioggia e del fango inevitabilmente significa un rallentamento del ritmo della battaglia. Quindi le istruzioni sono come segue:
1) cesserete per il momento operazioni organizzate su vasta scala;
2) conserverete le vostre munizioni e vi terrete pronti per i nuovi ordini;
3) ascolterete il più possibile il programma 'Italia combatte' trasmesso da questo Quartier generale in modo da essere al corrente di nuovi ordini e cambiamenti di situazioni...
".
Si trattava del proclama del comandante delle truppe alleate in Italia, generale Alexander; un proclama col quale si invitavano i partigiani italiani a deporre le armi, a non guerreggiare più; in altre parole a tornarsene a casa, come se ai tedeschi e ai fascisti essi avessero potuto dire:  "Per adesso non facciamo più alla guerra, stiamocene in pace per qualche mese, riprenderemo ad ammazzarci più avanti, quando gli angloamericani daranno l'ordine".
"Un assurdo, un tradimento, una sporca manovra politica per smantellare il movimento partigiano e vietare al nostro popolo di conquistarsi col proprio decisivo contributo la libertà e l'indipendenza", ecco, questa fu l'immediata amara interpretazione che la stragrande maggioranza dei partigiani diede al proclama.
E dignitosa fu la risposta che anche i partigiani dell'estremo Ponente ligure diedero all'ordine del generale Alexander: "Non lasceremo la botta; non nasconderemo le armi; non attenderemo ordini di smobilitazione dallo straniero, ma solo dai nostri comandanti, che sono con noi nel pericolo e nel sacrificio".
Fu una risposta tanto dignitosa quanto drammatiche si prospettavano le condizioni di lotta in quella vigilia di un inverno rigido e in un territorio impervio, povero di risorse alimentari e, soprattutto, intensamente presidiato dal nemico che, per effetto del proclama del generale Alexander, poteva intensificare le azioni dì rastrellamento, più abbondantemente disponendo di uomini e di mezzi distolti dal fronte di guerra, appunto dalla cosiddetta "Linea Gotica".
Ebbe così inizio un altro capitolo della Resistenza dell'Estremo Ponente ligure; le squadre, i distaccamenti, i battaglioni e le brigate, più saldamente organizzandosi in due divisioni, anziché deporre le armi, ne tirarono fuori altre, e, in luogo di cessare le "operazioni organizzate", moltiplicarono le azioni di guerriglia in imboscate, in colpi di mano, in attentati, in sabotaggi, in distruzioni di ponti, in attacchi a mezzi di comunicazione tedeschi, in caccia a spie e a collaborazionisti.
Per risposta, tedeschi e fascisti reagirono con più ferocia investendo le basi partigiane, moltiplicando i rastrellamenti, le razzie, le fucilazioni indiscriminate e le persecuzioni contro i civili rastrellati per i casolari e nei poveri villaggi della montagna.
Bruno Erven Luppi, Saltapasti, La Pietra, Milano, 1979 

I partigiani garibaldini e i badogliani, allora gli rispondono di no, al generale Alexander, che gli aveva mandato a dire di disarmare, basta così.
Gli rispondono fuori dai denti, che se lo tenga pure tutto intero il suo proclama, ma se lo adoperi soltanto per pulirsene il culo; e che semmai lo mandi a dire ai nazifascisti di mettersi in borghese, si salvi chi può.
Poi nei loro dialetti tutti d'accordo in tutte le valli dell'alta Italia, gli dicono ancora degli altri bruttezzi come vengono vengono, alla sanfasson.
A Fontane però, i tedeschi non ci vengono né subito né dopo, stancandosi ai valichi; cosicché in Piemonte con comodo i garibaldini, coi soldi del cielleenne, si mettono in sesta; invece i badogliani allarmati cominciano a ciccare aglio avanti indietro, per il timore della rappresaglia, dopo i primi colpi di mano.
Le staffette si mettono per la pianura dalle parti di Mondovì, in cerca di panno buono e di scarpe di cuoio fatte a mano, tanto per non perdere tempo in quella valle tranquilla, dove non ci capita mai niente; i distaccamenti fanno qualche puntata qua e là, ma per lo più battono la fiacca, perché adesso si mangia finalmente il pane bianco e di nuovo il ragù, anche se manca il sale.
Poi, a poco a poco si rifanno gli appelli e gli elenchi della roba, con gli inventari tutti in regola per la intendenza, trafficando un po' con la repubblica nei magazzini di fondovalle o alle buone o alle brutte, chissà come capita.
Ma gli uomini diventano nervosi a stare sempre lassù, essendo all'altro modo il terreno piemontese tutto diverso nella guerriglia che dura; eppoi, bisogna ben tornarci sul terreno ligure adatto e confacente tra gli ulivi, che loro conoscono essendoci sempre stati come a esserci proprio di casa: laggiù dico, dove i nazifascisti hanno bruciato così tanto vicino al mare; bisogna ben tornarci per rifarli anche con loro i conti come si deve.
Bisogna ben dirlo insieme con tutta quella gente com'è andata, e i conti rifarli proprio giusti sul posto tutti insieme, senza imbrogli per nessuno, altroché.
C'è della gente, ce n'è ancora tanta laggiù tra gli ulivi, con le spie i campi minati i ponti rotti e i posti di blocco, senza l'intendenza senza nessuno che ci pensa; senza più nemmeno poter piangere da soli con gli occhi secchi.
Epperciò, bisogna ancora farne per così di delibere democratiche nelle repubbliche di quelle valli vicine al mare, scarpentate dai nazifascisti; bisogna farle lo stesso, anche se adesso ci sono ancora i tedeschi con la brigata nera, che non la finiscono mai di bruciare.
E tu dunque, o partigiano delle balle, lo capisci sì o no che non ci puoi più stare in questa valle piemontese, anche se ci stai comodo, perché non ci sei di casa? 
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, p. 114
 
Il 15 novembre 1944 i tedeschi, accompagnati da un delatore del posto, rastrellarono la zona di San Romolo, Frazione di Sanremo (IM), ed uccisero in varie azioni, alcune particolarmente efferate, 5 patrioti, tra cui Aldo Baggioli (Cichito), comandante della Brigata S.A.P. "Giacomo Matteotti". Delle centinaia di persone fermate in quell'operazione, quasi tutte rilasciate, 7 o 8, a seconda delle fonti, vennero fucilate al Forte di Santa Tecla nei pressi del porto di Sanremo (Mario Mascia nel suo L'epopea dell'esercito scalzo - Ed. Alis, 1946, ristampa del 1975  a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia - raccolse e pubblicò su quel rastrellamento la drammatica e dettagliata testimonianza del sapista Dario Lori Rovella).
Molti altri episodi di guerriglia e di rastrellamenti si susseguirono nella seconda metà di novembre 1944.
Per colpa di alcune spie vennero uccisi 2 partigiani a Pieve di Teco (IM).
Il 17 novembre al termine di un  rastrellamento condotto nel centro storico della Pigna e in Frazione Poggio, sempre di Sanremo, venivano fucilati 3 civili. A Poggio vennero anche bruciate alcune case.
Il 24 novembre i nazifascisti uccisero in Sanremo altre 10 persone su 24 prelevate in alcuni paesi.
Da Pigna vennero condotti a Poggio di Sanremo per essere fucilati i partigiani Giuseppe Castiglione, Pietro Famiano, Michele Ferrara, Giobatta Littardi, Angiolino Bianconi Selmi.
Da Rocchetta Nervina a San Giacomo di Sanremo, dove vennero trucidati, Domenico Basso, Filippo Basso, Stefano Boero e Marco Carabalona. Sempre in Sanremo venne fucilato quel giorno il sapista Giovanni Dino Ceriolo.
Il 18 novembre 1944 aerei alleati colpirono Briga e Pieve di Teco (IM).
Il 20 navi inglesi bombardarono Sanremo (IM), causando danni nella parte occidentale della città.
Il 29 venne colpita dal mare - ci furono numerose vittime - Ventimiglia (IM).
I partigiani, molti dei quali erano diventati molto abili nell'uso del tritolo, attuarono un numero considerevole di attentati, utilizzando anche mine anticarro e mine antiuomo: tra le vie di comunicazione rese inagibili figurano quella di Triora-Montalto e quelle di Montalto-Carpasio.
Si intensificarono da parte nazista i ricorsi ai delatori. Le informazioni erano pagate fino a 25 mila lire. Era una strategia non più basata su vasti rastrellamenti, che si erano dimostrati macchinosi e scarsi di risultati, ma su attacchi veloci, di preferenza notturni, su obiettivi sicuri indicati da spie.
In un quadro di questo genere andò a delinearsi a breve la trista figura della "donna velata".
I comandi tedeschi e fascisti, inoltre, per cercare di tagliare gli approvvigionamenti ai garibaldini, decisero di presidiare più centri abitati con stanziamenti militari fissi.
Rocco Fava, Op. cit.

domenica 29 marzo 2020

Incursione dei partigiani nella caserma Siffredi


Dove sorgeva la caserma Siffredi oggi insiste il Tribunale di Imperia
 
Nella notte dal 28 al 29 giugno u.s. una trentina di partigiani asportarono dalla caserma "Siffredi" di Oneglia, adibita a dormitorio di operai della Todt, circa 40 moschetti nonché un quantitativo imprecisato di coperte, prelevando il custode.
Ermanno Durante, Questore di Imperia, Al capo della Polizia - Maderno, Relazione settimanale sulla situazione economica e politica della Provincia di Imperia, Imperia, 3 luglio 1944 - XXII° 
 
La prima azione importante cui partecipai fu quella dell'incursione nella caserma Siffredi in Via XXV Aprile [attuale nome dell'arteria ad Imperia Oneglia], dove erano accantonati i lavoratori della TODT, e dove in un magazzino era depositata una sessantina di fucili.
Fucili che ci sarebbero serviti perché nel nostro distaccamento non tutti erano in possesso di un'arma, compresi noi, ultimi arrivati. 

Comunicai a "Merlo" [n.d.r.: Nello Bruno caduto il 25 gennaio 1945 da commissario di un Distaccamento della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione Felice Cascione"]  la  notizia.
Egli mi disse: «Dove prenderesti questi fucili?». Risposi: «Alla caserma Siffredi».
"Merlo" fece una smorfia e mi chiese: «La caserma presso la stazione ferroviaria di Oneglia?».
Alla mia affermazione esclamò: «Ma tu sei matto?».
Io tacqui e lui si allontanò dicendomi: «Ne riparleremo». 
Il giorno successivo mi chiamò nel suo stanzino e mi disse: «Siediti e dimmi come organizzeresti questo colpo».
Gli spiegai il mio piano che per me era semplicissimo, conoscendo il luogo e la situazione.
Lui ascoltò con molta attenzione e, dopo essere rimasto qualche minuto soprappensiero, mi disse: «Prendi una decina di uomini, vai a compiere il recupero delle armi e... buona fortuna».

Il giorno successivo, forse il 28 o il 29 giugno 1944, partii con una decina di uomini comandati dal caposquadra Corradi "Battaia", che aveva qualche anno più di noi e, quindi, era più esperto.
Strada facendo, incontrammo il partigiano "Binello" il quale, vedendoci armati e provvisti di viveri, ci chiese dove eravamo diretti. Gli rispondemmo che andavamo a prendere dei fucili nella caserma Siffredi. "Binello" rimase un attimo senza parlare, poi sentenziò: «Ma dove volete andare! Sembrate una banda di profughi... date retta a me, ritornate indietro e andatevene a dormire!».

[...] in serata giungemmo presso il frantoio del "Bisciallo" [...] mi diressi verso Oneglia.
Ero abbastanza tranquillo poiché in tasca avevo ancora il tesserino bilingue della TODT.
Giunto a casa mia [...] mi recai nella caserma Siffredi per constatare se il guardiano del deposito era sempre il mio vecchio amico "Cassina", il milanese, e, soprattutto, se nel deposito vi erano ancora i fucili [...]
Il "Cassina", che era un gran brav'uomo [...]: «Sono quindici giorni che non ti vedo... come mai?».
[...]
Verso la mezzanotte mi recai al luogo dell'appuntamento presso la chiesetta delle Cascine (intitolata a San Luca), dove mi attendeva la squadra di "Battaia".
Fatti i segnali convenuti e ricevuta la risposta, io e tutta la squadra, attraverso scorciatoie, ci avviammo verso la caserma.

Una vecchia immagine della Caserma Siffredi

Quando giungemmo nell'attuale via XXV Aprile, dissi alla mezza dozzina di partigiani che mi erano vicini di stare attenti perché ad una cinquantina di metri (appena sopra all'allora ditta Isnardi) si trovava una scuderia dove i tedeschi tenevano sei cavalli e materiale bellico, e presso la quale sia di giorno che di notte vi erano sentinelle di guardia.
Per entrare nella caserma dovevamo attraversare la strada uno o due per volta, cercando di non farci scorgere dalle sentinelle.
Io, che ero il primo, mentre mi accingevo ad attraversare la strada, sentii delle voci vicinissime; mi schiacciai contro il muro di una rampa, sperando di non essere visto.
Un pensiero mi assalì: per essere in giro a quest'ora con il coprifuoco, questi debbono essere soldati o poliziotti, e allora fuggire indietro su per una piccola salita (eravamo in un sentiero vicino all'oleificio fratelli Calvi, che da anni non esiste più) voleva dire farsi sparare nella schiena.
Non andò come speravo perché le due persone che passavano ci videro (seppi poi che erano due guardie notturne in borghese, forse allora non usavano ancora le divise) e ci chiesero chi eravamo e che cosa facevamo in quel luogo a quell'ora.
Non risposi e non diedi loro il tempo di aggiungere altre parole, li tirai con forza in un vicoletto lì vicino e a voce bassa dissi: «State zitti o siete morti!».
Li perquisii: uno dei due, il capo, aveva una piccola pistola a tamburo che sembrava un giocattolo, l'altro non aveva alcuna arma.
Li mandai accompagnati da un partigiano in cima al viottolo per farli consegnare agli altri partigiani che erano in attesa che si compisse la nostra azione.

Due alla volta attraversammo la strada e ci portammo dentro la caserma.
[...]
Bussai alla porta dove all'interno dormiva il "Cassina".
Dovetti bussare una decina di volte, e sempre più forte, il guardiano aveva il sonno duro.
Presso la porta destra del deposito c'era un dormitorio, un lungo camerone nel quale dormiva un centinaio di lavoratori, ed alcuni di loro vennero sulla porta per vedere cosa stava succedendo.
Rimasero sorpresi di vedere sei uomini in borghese ed armati.
Mi rivolsi a loro invitandoli perentoriamente ad andare a dormire perché non c'era niente che potesse interessarli.
Intanto mi venne in mente che in fondo alla camerata vi erano i servizi igienici, compresa un'uscita che dava sul piazzale.
Pensai che, se qualcuno avesse voluto denunciarci, poteva uscire da quella porta.
Mandai un partigiano a controllare quella uscita. Dato un calcio alla porta, finalmente il guardiano si svegliò e chiese chi lo stava cercando.
Risposi: «Sono Badellino, vengo a ritirare la coperta».
Il pover'uomo venne subito, ma, quando aprì la porta rimase di stucco poiché si trovò davanti cinque giannizzeri armati e male in arnese (il partigiano "Olimpio" aveva per copricapo la fodera interna, in pelle, di un elmetto per cui sembrava un guerriero delle crociate).

Il "Cassina", tremante, mi guardò con uno sguardo interrogativo.
Gli dissi di non avere paura, che lo avremmo lasciato tranquillo e avremmo preso solamente i fucili accatastati che gli indicai con la mano.
Allargò le braccia, rassegnato.
Gli chiesi una decina di coperte e del filo di ferro per legare i fucili a mazzi. 
Il "Cassina" ubbidì immediatamente.
In ogni coperta, avvolgendoli, sistemammo sette od otto fucili, legandoli insieme.
In questo modo confezionammo sette od fasci, e ci preparammo ad uscire con i carichi sulle spalle.
Il "Cassina", pensando al poi, impaurito mi chiese: «Cosa faccio adesso, cosa dirò al lagerfuhrer (capocampo)?».
Pensai un attimo, quindi gli dissi di darmi un pezzo di corda per legarlo stretto alla branda. Così facemmo.
Lo imbavagliai con un asciugamano invitandolo a stare tranquillo almeno per un'ora.
Lo avvisai che, se non avesse rispettato il mio ordine, sarebbe stato ucciso da un partigiano che io avrei lasciato di guardia, facendogli presente che ciò mi avrebbe rattristato perché lo consideravo un amico.
Mi assicurò che così avrebbe fatto.

Noi uscimmo. Siccome di quell'uomo mi fidavo e gli involti delle coperte con i fucili pesavano, non lasciai l'uomo di guardia ed uscimmo sul piazzale diretti fuori della caserma.
Ma nel casamento a fianco si accese una luce ad una finestra ed io, sapendo che era proprio la stanza del capocampo, raccomandai ai miei compagni di camminare in silenzio.
"Olimpio" mi disse: "Se è la stanza del capocampo perché non andiamo ad ucciderlo?".
Risposi: «Guarda che al piano di sopra ci sono altri dieci o o quindici soldati tedeschi bene armati...».
Riattraversammo Via XXV Aprile, raggiungemmo alcuni uomini che avevo lasciato di guardia nel vicoletto, nel caso avessero dovuto coprirci la ritirata.
Ci aiutarono a portare le armi fino in cima allo stesso, dove sostavano altri uomini in attesa del nostro arrivo.
Dopo aver ridistribuito a più uomini (compresi i due prigionieri) i carichi dei fucili ci incamminammo verso Oliveto.
Da questa località volevamo raggiungere, attraverso il torrente Impero, il paese di Borgo d'Oneglia dove eravamo sicuri di trovare qualche mezzo per trasportare i fucili.
Appena sopra Oliveto, scorgemmo in basso, nei pressi della chiesetta delle Cascine, alcuni razzi illuminanti e sentimmo alcune raffiche di mitra lontane.
Cercammo di camminare in fretta, ma ci accorgemmo di girare a vuoto: nessuno di noi conosceva la strada e di notte era molto difficile rintracciarla.
In accordo con il caposquadra "Battaia" decidemmo di attendere l'alba in modo da orientarci meglio. Così facemmo.
All'alba ci portammo sulla stradina che da Costa d'Oneglia conduce sulla strada statale 28 e, facendo attenzione a non incappare in qualche mezzo in transito, attraversammo strada e torrente Impero due o tre per volta (mentre transitava un autocarro di tedeschi i quali, probabilmente, ci scambiarono per contadini al lavoro) e raggiungemmo Borgo d'Oneglia dopo una mezz'ora di marcia.
In questo paese la banda locale, che era efficientissima, dopo averci dato da bere del latte, mise a nostra disposizione un paio di muli su cui caricammo i fucili e dei viveri, incamminandoci poi verso Pianavia.
Preciso che nella caserma Siffredi, dove era alloggiato il capocampo, soggiornava anche un centinaio di tedeschi che dovevano, il giorno dopo, portarsi sopra un altro treno, oltre il ponte della ferrovia, interrotto da un bombardamento aereo, per cui, se avessimo attuato il consiglio di "Olimpio", è facile immaginare come sarebbe andata a finire.
Quando con "Battaia" decidemmo di lasciare liberi i due prigionieri, che non erano più ventenni, "Olimpio" ci rimproverò dicendo che, se avessero individuato qualcuno e noi, certamente lo avrebbero denunciato ai fascisti; secondo lui, sarebbe stato meglio farli fuori. Ma io non mi sbagliai: si comportarono bene, non fecero la spia, uno di loro continuò a salutarmi con simpatia dopo la liberazione, and negli anni nei quali divampò l'ostracismo contro i partigiani.
Forse "Olimpio" non era crudele come voleva apparire: probabilmente era solo un poco spavaldo. Che fosse coraggioso lo dimostrò quando in piazza del Duomo a Porto Maurizio sparò contro i brigatisti neri che avevano la caserma nelle vicinanze.
A proposito del partigiano "Binello", probabilmente fu armato anche lui con uno dei fucili che prelevammo nella caserma. [...]

Sandro Badellino *, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

* Sandro Sandro Badellino. Entrò a far parte della Resistenza il 10 Maggio 1944, nella squadra comandata da Angelo Setti "Mirko", che operava nella zona del Monte Acquarone, tra la Valle Impero e la Val Caramagna. Quasi subito partecipò ad una prima fortunata azione alla Caserma "Siffredi" di Oneglia, che comportò un buon bottino di armi. In seguito passò nella formazione "Volante" di Silvio Bonfante "Cion" che agiva nella Val Steria (Testico, Rossi, Stellanello), e nella "Volantina" del Comandante "Mancen" Massimo Gismondi [in seguito comandante della I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"]. Ai primi di agosto 1944, durante uno scontro, Badellino subì varie ferite che lo costrinsero convalescente per un mese dopo essere sfuggito alla cattura. Costretto nuovamente alla fuga dal suo rifugio in seguito ad una spiata, raggiunse il Bosco di Rezzo nella circostanza del famoso rastrellamento che si concluderà con la Battaglia di Monte Grande. Sebbene ferito, vi partecipò affiancando la squadra di mortaisti che, colpendo le postazioni tedesche da San Bernardo di Conio [Borgomaro (IM)], ebbe un ruolo determinante nella riuscita dell’operazione. In seguito ricoprì l'incarico di intendente presso il Distaccamento "Comando" di Mancen. Il 25 Aprile 1945 scese ad Andora (SV) in qualità di Commissario di Brigata.
 Vittorio Detassis

mercoledì 5 febbraio 2020

La liberazione dei detenuti antifascisti ad Oneglia, 19 luglio 1944

l'Unità, ciclostilato clandestino della federazione comunista di Imperia. Luglio 1944. Prima pagina. All'interno, la notizia del colpo partigiano al carcere di Oneglia. Documento conservato presso l'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, digitalizzato da Istituto Nazionale Ferruccio Parri


Nella seconda metà di luglio del 1944 il C.L.N. sollecitò un intervento dei garibaldini per liberare un centinaio di prigionieri politici, detenuti nel carcere del capoluogo di provincia, segnatamente ad Oneglia.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999
 

Già da qualche tempo è segnalata al Comando partigiano la presenza di un rilevante numero di prigionieri politici e di ostaggi nelle carceri di Oneglia e corre voce di un tentativo per liberarli.
L'impresa, certamente, non è di poco conto; anzi, si tratta, addirittura, di penetrare in numero esiguo in piena città, nella tana degli armatissimi Tedeschi e fascisti, forzare gli ingressi, introdursi nella prigione, liberare i prigionieri e portarli in salvo.
Ma tant'è. Quando nel campo garibaldino si fa strada un'idea, ben difficilmente si desiste dal realizzarla senza averla almeno prima tentata. Corre voce di un diretto interessamento del comandante «Curto» [Nino Siccardi], che avrebbe incaricato lo stesso «Cion» [Silvio Bonfante] dell'impresa, ed è prevista la partecipazione di «Mancen»; ma sui due non è possibile fare assegnamento perché, come si vedrà in seguito, particolari situazioni li avevano improvvisamente trasferiti, con le loro formazioni, nell'Alta Val Tanaro.
Comunque, la notizia più certa è che, da vario tempo, il CLN di Imperia sollecita i partigiani della montagna ad un'azione tendente a liberare un centinaio di prigionieri politici rinchiusi nelle carceri. Il direttore, Salvatore Cangemi, collaboratore e patriota, aveva fornito tutte le informazioni necessarie partecipando a due colloqui, tenutisi in Villatalla (frazione di Prelà), con il Comando del 2° distaccamento, accampato a Ville San Pietro [Frazione del comune di Borgomaro (IM)].
L'azione viene quindi decisa e sarà compiuta proprio dal 2° distaccamento, denominato «Inafferrabile». Non tutti sono consenzienti a partecipare ad un'impresa tanto rischiosa in piena città. All'appello rispondono in diciannove. Si fanno i preparativi ed il 19 di luglio, verso le 15, si parte da Ville San Pietro.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992
 


Bollettino del CLN Alta Italia del 15 settembre 1944 cit. infra

Liberazione di 95 prigionieri politici.
Il 18 luglio due squadre del II° Distaccamento si portavano nella notte al centro di Imperia e riuscivano a liberare dalle carceri giudiziarie tutti i prigionieri politici, in un'azione audace durata solo 15 minuti. Entrati con un inganno, immobilizzato il portiere, i garibaldini davano la libertà ai prigionieri che già si trovavano al completo nei corridoi a causa dell'allarme aereo avvenuto pochi minuti prima dell'azione. L'odissea dei 95 liberati e della squadra è stata terribile. Infatti, segnalati immediatamente, furono inseguiti fino alla Colla di S. Bartolomeo, luogo avanzato dei partigiani. 
CLN Alta Italia, Corpo Volontari della Libertà, Comando Generale per l'Italia occupata, Bollettino n° 9 - 15 settembre 1944 -, Dai Bollettini della II^ Divisione d'Assalto Garibaldi "F. Cascione" (22 giugno-27 agosto). Fonte: Fondazione Gramsci

Il giorno 19 c.m. il Distaccamento comandato da Ivan si portava ad Oneglia, quindi penetrava nelle locali carceri giudiziarie e metteva in libertà i detenuti quasi totalmente di carattere politico. Questi venivano avviati presso l'accampamento del Distaccamento stesso. Inutile dire che sui corpi di certuni di costoro risultano ancora troppo evidenti i segni dei supplizi subiti, anzi qualcuno non fu nemmeno in grado di sostenere la marcia di poche ore necessaria per raggiungere la meta e dovettero essere rilasciati in consegna di contadini lungo il percorso. Un particolare poco confortevole ci è dato dal contegno di Ufficiali che trovavasi carcerati: invitati a prendere la propria libertà questi cominciarono, e col dimostrarsi tutt'altro che entusiasti, tergiversarono accennando alla necessità di studiare bene la cosa, al pericolo che avrebbero potuto incorrere le famiglie cosicché furono lasciati liberi di seguire o rimanere il tempo non permettendo di ritardare di troppo la decisione; e questi non uscirono dalla prigione.
Tutti i detenuti liberati manifestarono la loro gioia e senso di gratitudine verso i Partigiani; gran parte di questi chiesero di rimanere con noi a continuare la lotta. In totale furono liberate circa 90 persone.
Volontario della Libertà, Organo dei Distaccamenti delle Brigate d'Assalto "Garibaldi" di Savona e Imperia, N. 2 del 21 agosto 1944, Azioni audaci della Divisione d'Assalto Garibaldi "F. Cascione" - 21/7/1944. Fonte: Fondazione Gramsci

I partigiani agirono il 19 luglio con un appoggio interno.
Il direttore della casa di pena, Salvatore Cangemi, comandante (clandestino) di una squadra delle SAP, aveva, infatti, fornito tutte le informazioni necessarie a Giacomo Ivan Sibilla [già comandante di una delle prime bande partigiane dell'imperiese, in seguito comandante della II^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Nino Berio" della Divisione "Silvio Bonfante"], comandante in quel momento del II° Distaccamento, noto come l'Inafferrabile, della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione "Felice Cascione".
In più Cangemi fece avere due divise da militi e due acconci tesserini, falsificati.
Le divise vennero indossate da Inglese, Silvano Sasso, e Pablos, Paolo De Marchi, che si avvicinarono al penitenziario insieme al partigiano Chisne, Palo Rauli, e finsero di scortare un prigioniero, il partigiano Carlo Montagna, "Milan", comandante della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione [caduto il 17 gennaio 1945 a Villatalla, Frazione di Prelà (IM)].
Tra i partecipanti all'azione anche Elio Messuia Rovaris, capo di una squadra, già attivo nella banda di Ivan.
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I


Gli altri rimangono all'esterno, a protezione dell'azione. «Bacistrasse» e «Messuia», armati ciascuno di un mitragliatore S. Etienne, sono piazzati ai due lati di via Magenta, proprio sopra la galleria ferroviaria.
Gli otto avanzano ancora e pervengono ai pochi scalini esterni presso i quali si fermano in tre.
Entrano nell'atrio in cinque e fingono di voler internare un prigioniero politico ammanettato. Bussano. Un Tenente li scruta attraverso lo spioncino; diffida. Lo sollecitano, dato lostato di allarme. Finalmente apre la porta. Il finto prigioniero, «Milan», fa cadere a terra le manette e punta la pistola contro il Tenente, mentre «Kisne», con mossa fulminea, introduce un piede tra la parete e la porta, per evitare l'eventualità che la stessa possa essere improvvisamente richiusa. Il Tenente chiede pietà, mentre i partigiani distruggono l'impianto telefonico e radunano i detenuti che, temendo le solite carneficine notturne da parte dei nazifascisti, creano confusione. Il momento è delicato e difficile. «Clark» [Alfredo Semeria] divide i prigionieri politici dagli altri. Suonano le 23: in venti minuti l'operazione è compiuta!
Carlo Rubaudo, Op. cit.
 
Erano appena suonato il segnale d'allarme [per un attacco aereo alleato] che si presentavano 3 borghesi tra cui uno sembrava ammanettato, il guardiano credendo trattarsi di agenti di P.S. apriva la porta e ivi i tre Garibaldini immobilizzavano il guardiano e rendevano liberi i prigionieri. Venivano segnalati immediatamente, ma i garibaldini riuscivano a portare tutti in salvo...
l'Unità, ciclostilato clandestino della federazione comunista di Imperia [n.d.r.: questo documento - di cui qui si riproduce la copia - indica in 95 il numero dei detenuti fatti evadere]

Immobilizzato il milite di guardia all'entrata e riusciti, pertanto, a penetrare nel carcere, distrussero l'impianto telefonico e radunarono i detenuti politici e gli ostaggi. 

l'Unità, ciclostilato clandestino della federazione comunista di Imperia. Documento conservato presso l'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, digitalizzato da Istituto Nazionale Ferruccio Parri. Foglio (pagina) cit. infra  

Imperia: la zona della stazione ferroviaria (in oggi dismessa dopo lo spostamento a monte della linea ferrata) di Oneglia e delle carceri

[...] Era appena suonato il segnale d'allarme che si presentavano 3 borghesi tra cui uno di essi sembrava ammanettato. Il guardiano, credendo trattarsi di agenti di P.S., apriva la porta e ivi i tre garibaldini immobilizzavano il guardiano e rendevano liberi i prigionieri. Venivano segnalati immediatamente, ma i garibaldini riuscivano a portare tutti in salvo.
l'Unità, ciclostilato clandestino della federazione comunista di Imperia. Luglio 1944. Documento conservato presso l'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, digitalizzato da Istituto Nazionale Ferruccio Parri

Escono in un numero imponente di carcerati che, come una valanga, si riversano all'aria libera, alla vita. Una parte di essi all'alba sarebbe stata destinata alla fucilazione o alla deportazione nei lager: fra questi il valoroso Angelo Balegno (Venko) che, in seguito, sarà l'intendente di tutta la I^ Zona Liguria. La lunga colonna procede speditamente sulla via del ritorno: percorre via Ghersi, salita Monti, Lagoni, Cascine, Pini Spinelli; quivi sosta per prendere fiato ed orientarsi. Poscia i fuggiaschi proseguono alla svelta, anche se con minore affanno, mentre sete e disagi si fanno sentire. Camminano per due lunghe ore. Alcuni sono scalzi. Spunta l'alba quando giungono a Gazzelli, dove la popolazione offre del pane. Intanto i Tedeschi, venuti a conoscenza della fuga, attaccano con i mortai fra Chiusanico e Torria. I prigionieri liberati sono inviati nei boschi, mentre i partigiani si dispongono a difesa. Poi i Tedeschi cessano il fuoco. I garibaldini scendono sulla Statale n. 28 per attraversarla.
Carlo Rubaudo, Op. cit.
 
Il numero complessivo dei prigionieri liberati dovrebbe essere stato pari a 92, tra cui Angelo Balegno (Venko), che in seguito divenne intendente di tutta l'organizzazione partigiana della I^ Zona Liguria.

Torria, Frazione di Chiusanico (IM) - Fonte: Wikipedia

Il punto di arrivo della maggior parte dei detenuti liberati fu Torria, Frazione di Chiusanico (IM).
L'eclatante azione dei garibaldini venne qualche giorno dopo annunciata addirittura da Radio Londra.
Tra le persone liberate vi fu anche una spia nazi-fascista, il prof. Giuseppe Della Valle **, il quale, entrato nelle formazioni partigiane, mandò avanti la sua perniciosa attività [...]
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I
 

Dal suo diario [quello di Giuseppe Lacheri], che contempla il periodo 26 maggio-21 agosto 1944, emergono soprattutto il profondo affetto e l'amore per la moglie Vincenzina Sebastiani. Ciò prova, come del resto il Lacheri scrive esplicitamente, la ragione per la quale il 19 luglio non crede opportuno approfittare dell'occasione per riacquistare la libertà.
Stralciamo dal diario le note relative al 20 luglio, giorno immediatamente successivo, quindi, alla liberazione dei detenuti: «... 20/7 - Ieri sera, alle 22,40 circa, in periodo di allarme, assalto dei partigiani. Evasi 64 detenuti del giudiziario e 2 internati; rimasti 24 del giudiziario e 4 internati. Io ero a letto al 3° piano, mi sono alzato, mi sono preparato e poi ho visto la mia Vincenzina, ho pensato che non ho commesso nulla di male, che non l'avrei potuta vedere che alla fine della guerra e sono rimasto. Non ho voluto andare contro il destino. Tutta la notte siamo rimasti alzati. Sono venuti il Prefetto, il Questore ed altre autorità che ci hanno quasi promesso la liberazione. Si vedrà in seguito. Le guardie di servizio Ciardi, Cocco e Alcisi sono state messe in cella. Il S.C. Piroddi è stato arrestato ma non è qui...».
Per ultimo riportiamo il documento che i liberati dal carcere hanno inviato il 23 luglio 1944 al Comando Divisionale d'Assalto Garibaldi «F. Cascione»: "... In questo momento che le azioni delle Brigate Garibaldi si susseguono ininterrotte, non possiamo, noi ex detenuti delle Carceri di Oneglia, non citare con particolare encomio la brillante quanto temeraria impresa di liberazione condotta dai partigiani del distaccamento d'assalto Garibaldi comandato da Ivan. L'apparizione subitanea dei patrioti nelle carceri fu come il segnale di risurrezione di una vita nuova per tutti quei giovani che erano desti­nati alla deportazione in Germania o alla fucilazione. L'azione condotta con calma e coraggio si è conclusa con la liberazione di 65 fratelli che, ingrossando con entusiasmo le ben guarnite file dei volontari Patrioti, fremono d'impazienza in attesa di potere al più presto an­che lassù prendere parte attiva a nuove missioni di guerra per il riscatto dell'Italia e cacciare l'odiato tedesco dal nostro sacro suolo. Onore e gloria a questi prodi che tanto osarono nel cuore stesso dei Comandi delle forze tedesche e «repubblichine» che debbono inchinare ogni giorno di più il capo d'innanzi ai duri colpi che tutti questi bravi giovani instancabilmente loro assestano... ".
Carlo Rubaudo, Op. cit.

* [...] In quel periodo Milan [Carlo Montagna], con Bruno Battaglia, Bacistrasse [Giobatta Gustavino] ed altri valorosi, entrò nelle carceri di Imperia Oneglia e liberò i prigionieri politici e comuni, accompagnandoli al sicuro in territorio partigiano. Al Comando Divisione ne arrivarono cinque: un professore grassoccio chiamato subito prof. **, che si dichiarò comunista da sempre e che, a suo dire, era in carcere per le sue convinzioni politiche, Vengo, di Sanremo, che era stato torturato brutalmente e ancora ne portava i segni su tutto il corpo, un romano già anziano detenuto comune, ed infine altri due che erano con i prigionieri comuni: Walter e Bol (due spie dei tedeschi, come il professore). Feci notare ai componenti del comando lo stato di Vengo, e quello del Prof **. Lo stato di salute del secondo era splendido: ben pasciuto, senza un segno di percossa (quando tutti ben sapevamo come venivano trattati i sospettati di simpatie comuniste dai tedeschi e dai fascisti) perciò, a mio avviso, dovevamo diffidare di lui. Ma fu tutto inutile; il prof. fu nominato addirittura Presidente del tribunale divisionale per il suo scilinguagnolo e il suo ruffianesimo e incominciai a vederne i risultati quasi subito. [...]
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo) (1), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994
(1) Fra Diavolo, già a capo nell'autunno 1943 di un piccolo gruppo partigiano in Cipressa (IM), in seguito alla guida di formazioni partigiane sempre più importanti, poi comandante della Brigata "Val Tanaro" della Divisione "Silvio Bonfante", infine alla Liberazione comandante della IV^ Brigata "Domenico Arnera", nuova denominazione della Brigata "Val Tanaro", della VI^ Divisione "Silvio Bonfante".

** Intanto giunse a Fontane, Frazione di Frabosa Soprana (CN), Val Corsaglia [dove erano confluiti la maggior parte dei partigiani della I^ Zona Liguria per sfuggire al tremendo rastrellamento tedesco di ottobre 1944, per l'appunto, durante il quale, trageda nella tragedia, il 17 persero la vita i valorosi comandanti partigiani Libero Briganti (Giulio) e Silvio Bonfante (Cion)] l'ex sottotenente tedesco Otto Trostel, da tempo collaboratore dei garibaldini, che portò con sé le prove del tradimento di Giuseppe Della Valle (Prof), il quale da presidente del tribunale della Divisione "Felice Cascione" aveva provocato la morte di diversi giovani patrioti il 9 agosto 1944 a nord di Pieve di Teco, il 5 settembre a San Bernardo di Conio, il 19 settembre nel bosco di Rezzo, ancora il 17 ottobre ad Upega. Della Valle, riconosciuto colpevole dal tribunale militare partigiano, venne fucilato il 4 novembre 1944 a Fontane. Il 24 ottobre analoga sorte era già stata riservata alla moglie del "Prof", che aveva fatto da tramite tra il marito ed i nazisti.
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I
 

mercoledì 29 gennaio 2020

La "donna velata", spietata spia fascista

Pontedassio (IM). Fonte: Wikipedia
 
Per vendicare la scomparsa di due soldati tedeschi avvenuta l’8 [secondo altre fonti il 7] gennaio 1945 "lungo il tratto di strada Castelvecchio-Pontedassio… non essendo ritornati ed avendo avuto comunicazione che i due soldati furono bestialmente uccisi, sono apparsi davanti al tribunale militare germanico ... I suddetti fuorilegge appartenevano tutti a bande partigiane e vennero fatti prigionieri in azioni di rastrellamento. Quindici dei quali furono disarmati in combattimento. In seguito a tale fatto il comando germanico rivolge ancora una volta l’intimidazione ai banditi di abbandonare volontariamente le loro bande e presentarsi ai Comandi Militari, sia germanici che italiani. Si fa presente che coloro i quali ritorneranno di loro spontanea volontà non andranno incontro a nessuna punizione …", (così recitava il manifesto fatto affiggere dal comando tedesco, un documento conservato presso l'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia) tra i partigiani catturati in Val Prino o arrestati il 9 gennaio o direttamente prelevati dalle carceri di Oneglia ad Imperia dove erano stati condotti in diverse date, 10 garibaldini furono fucilati da soldati tedeschi del 34 I.D. Grenadier-Regiment 80 il 31 gennaio 1945 lungo la salita di Capo Berta, che unisce Oneglia a Diano Marina (IM).
Altri 4 patrioti processati dal tribunale tedesco, Adler Oscar Brancaleoni, della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione "Felice Cascione", Doriano Mizar Carletti, della IV^ Brigata, Matteo Stella Cavallero, della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione, Ernesto Austriaco/Deri Deri, della IV^ Brigata, Biagio Biagio Giordano, nato a Monreale (Palermo) il 18.05.1925, della V^ Brigata, furono fucilati il 15 febbraio 1945 dietro il cimitero di Oneglia.
Responsabile in larga misura di questi eccidii e di altri, che si verificarono da gennaio 1945 alla fine della guerra, fu una donna, la cui identità rimase a lungo celata, tanto che fu conosciuta con lo pseudonimo di "donna velata": Maria Concetta Zucco.
Per l'importanza che questa spia ricoprì nella storia della I^ Zona Operativa Liguria, risulta necessario tracciare un breve sunto delle vicende di cui fu protagonista.
Da ricerche effettuate e dalle risultanze del processo a suo carico, che si svolse nell'immediato periodo post-bellico, si può affermare che il suo arrivo in provincia di Imperia avvenne nell'estate del 1944, per alcune fonti il 15 agosto, allorchè era accompagnata, insieme ad un'altra donna, Elisabetta Rossi, da un certo Domenico Valli o Viale (o Domenico Valle o ancora Dominic Villani: le testimonianze in proposito, come su altri aspetti che circondano la figura di questa donna, sono confuse e discordanti). Passò dalla Francia, dove prima faveva fatto parte delle formazioni fasciste Azione Nizzarda e poi era stata reclutata dallo spionaggio fascista perché incaricata di infiltrarsi nel movimento partigiano, nell'imperiese attraverso Ventimiglia (IM). Arrestati dai nazifascisti nei pressi di Alassio (SV), le donne e l'uomo vennero liberati da partigiani della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante". Da Alassio si spostarono ad Imperia, dove in qualche modo li nascose Salvatore Cangemi, direttore del carcere di Oneglia, ma segretamente antifascista, tanto da essere un dirigente clandestino delle Brigate SAP a Oneglia, (tanto è vero che aveva già avuto un forte ruolo nell'assecondare la liberazione, a luglio 1944, dei detenuti politici dal suo stesso carcere). Lo stesso Cangemi li condusse poi a Sant’Agata, dove presero contatto diretto con i partigiani del posto. E le due donne furono inquadrate nella I^ Brigata S.A.P. "Walter Berio" della Divisione S.A.P. "Giacinto Menotti Serrati".
La donna velata entrò dunque a fare parte di gruppi partigiani della I^ Zona Operativa Liguria. Poté così vedere i volti ed apprendere le generalità ed i nomi di battaglia di molti patrioti. Ma anche memorizzare le sedi di comando di molte formazioni, luoghi di incontro tra le staffette cittadine e i combattenti di montagna e, soprattutto, generalità ed abitazioni dei civili, che appoggiavano i partigiani prestando loro molte forme di aiuto. Maria Zucco, per dare più peso alla sua finzione di essere una patriota, prese parte con grande energia ad alcune azioni di guerriglia, come quella che portò alla liberazione - con la complicità del già detto Gangemi, direttore del reclusorio - dal carcere di Oneglia del garibaldino Eraldo Guasco (K. 13), comandante di un Distaccamento della IV^ Brigata "Elsio Guarrini". Nei primi giorni di novembre del 1944 la donna velata, dicendo di essere sospettata dalle autorità nemiche, chiese ai comandi partigiani di poter tornare nella Francia del sud, dove sosteneva di avere alcuni parenti.I partigiani confidarono nella buona fede della Zucco, per cui le venne concesso "dal capo del S.I.M. Adolfo Stenca (Rino) di sistemarsi con l'amica in casa della staffetta partigiana Giuseppe Mela (Sacchetto) [della IV^ Brigata "Elsio Guarrini"]. All'alba le due donne, accompagnate da quest'ultimo, vengono da lui affidate in Villatalla [Frazione di Prelà (IM)] al partigiano Chicù [che era] alle dipendenze di Rinaldo Risso (Tito R.) dopo di che di banda in banda giungono alla frontiera", come scritto in Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III.: Da settembre a fine anno 1944, a cura Amministrazione Provinciale di Imperia e patrocinio Isrecim, Milanostampa Editore - Farigliano, 1977.
Rocco Fava, La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945). Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

Con questi suoi amici passa di banda in banda, fino a raggiungere il confine.
Ma mentre essi proseguono per Nizza, la Zucco, portata ormai a termine la sua scaltra azione di infiltrazione nel movimento resistenziale, tradendo in modo vile i compagni che le hanno dato aiuto fraterno, si ferma in Italia e diventa preziosa collaboratrice dei nazifascisti...
Attilio Mela, Qualcosa della Resistenza: ricordi personali, episodi, interviste, contributi vari, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1995 

Durante questo tentativo, il 3 gennaio 1945, a Ventimiglia, [Maria Zucco] veniva fermata e arrestata dalla Gnr locale, insieme a Elisabetta R. Riportava il comandante Salvatore N. nel verbale di fermo della donna: "Si è proceduto al fermo delle nominate in oggetto, espatriate volontariamente dalla Francia in seguito allo sbarco Anglo americano, la prima perché appartenente al Fronte Popolare Francese [n.d.r.: leggasi, invece, Partito Popolare Francese], la seconda perché appartenente alla Milizia Francese. Le suddette si sono presentate a questo Comando dichiarando di voler oltrepassare il fronte di guerra per raggiungere i loro parenti nella Francia occupata. Spontaneamente hanno fatto dichiarazioni sul Comitato di Liberazione di Imperia, sulla banda 'Pelletta' come da accluse dichiarazioni scritte".
Francesca Gori, Ausiliarie, spie, amanti. Donne tra guerra totale, guerra civile e giustizia di transizione in Italia. 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012/2013

Per rendere più agevole la sua opera di delazione venne trasferita dai fascisti in un'abitazione, attentamente sorvegliata da loro, ad Oneglia, in pieno centro cittadino di Imperia.
Nel tentativo di non essere riconosciuta cambiò abbigliamento, coprendosi il volto con velo o cappuccio - da cui in seguito la definizione di donna velata - ed occhiali, spesso vestendo la divisa repubblichina delle Brigate Nere.
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I

Nel gennaio 1945 assume, con il grado di Capitanessa, il comando del Corpo Ausiliario, costituito da alcune decine di donne imperiesi, figlie di immigrati, che si era costituito nel dicembre dell'anno precedente. Da questo momento Maria Zucco diventa la "Donna Velata", la famigerata "Donna Velata", terrore per mesi delle nostre vallate, dove seminerà lutti e sangue a piene mani. Veste la divisa delle Brigate Nere e per non farsi riconoscere dalle vittime, nasconde il viso con un cappuccio e un paio di occhiali scuri...   
Attilio Mela, Op. cit.

La Zucco iniziò allora subito la ricerca di coloro che aveva conosciuto in montagna, come ricordò Gerolama Mela in un documento garibaldino (Gerolama Mela vedova Zanchi rilasciò una dichiarazione con la quale sosteneva che la "donna velata" aveva fatto arrestare suo marito, garibaldino, e che le aveva inoltre intimato di svelare dove si trovasse "Rino" Adolfo Stenca - documento IsrecIm).
La "donna velata" vestiva la divisa  e, per non farsi riconoscere delle vittime, nascondeva il volto con un cappuccio ed un paio di occhiali scuri. Diventò l'anima della lotta antipartigiana, instancabile nei rastrellamenti, sadica torturatrice, sempre a fianco dei figuri fascisti più tristementi noti, il capitano Borro, i tenenti Vannucci e Lo Faro, il capitano Giovanni Ferraris.
 
Imperia: una vista su Oneglia e su Capo Berta da Porto Maurizio

Tra l'8 e il 9 gennaio 1945 vennero catturati una ventina di uomini, che furono esaminati dalla spia Zucco, che riconobbe in loro diversi partigiani, ma non in un primo momento Adolfo Rino Stenca.
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I

La Zucco Maria nel corso di un’incursione  in  casa  mia,  ingrata  e  disonesta  nella  forma  più  schifosa, insinuava  al  maresciallo  della Gnr [n.d.r.: Guardia Nazionale Repubblicana] T.,  altro  delinquente  e  raffinato  rapinatore,  di  procedere all’arresto  di  mia  moglie,  anche  se  in  istato  di  avanzata  gravidanza  e  se  i  miei  cinque  teneri bambini sarebbero  rimasti  in  balia  di  se  stessi,  ritenendo  che  tale  provvedimento  potesse finalmente indurre mia moglie a dire quanto non avevano sino a quel momento ottenuto[...]  belva più  che donna,  perché  resasi  in brevissimo volgere  di  tempo,  in  Imperia  e  paesi limitrofi,  responsabile  in  modo  diretto  e  non  equivoco,  di  feroci  assassini,  rapine,  persecuzioni violente, torture e sevizie a sangue in cui essa “passionaria” fece sottoporre e sottopose una schiera interminabile di giovani e giovane innocenti [...]
Denuncia di Salvatore Cangemi, 14 agosto 1945, b. 36, f. Maria Zucco, ff. 7 e segg., documento dell'Archivio di Stato di Genova citato in Francesca Gori, Op. cit.

In particolare l’11 gennaio avveniva un rastrellamento nella zona S. Lucia-Budamà, durante il quale venivano fermati alcuni uomini, poi portati alla caserma della Gnr, interrogati e percossi. In  particolare il ricercato principale era Salvatore C. [Salvatore Cangemi], che però riusciva a fuggire e a nascondersi in un rifugio sotterraneo. Maria Z. e gli altri militi della Gnr, arrivati nella sua abitazione, trovavano soltanto la signora Lucia I., la donna che per prima aveva ospitato Maria al suo arrivo in Italia, a letto perché degente dopo aver subito un’operazione chirurgica. La donna veniva trasportata all’ospedale di Oneglia dove veniva sottoposta alle prime torture e, successivamente, nonostante il parere contrario del medico, veniva portata alla caserma della Gnr. Riprendevano così gli interrogatori, durante i quali la “donna velata”, coadiuvata dal tenente V. e da altri militi, percuoteva la vittima e la seviziava con scudisci, bastoni, corde, le bruciava vari parti del corpo, tra cui gli organi genitali e il seno, e le veniva fatto ingoiare un liquido che le provocava problemi viscerali. Nella stessa occasione veniva  anche fermata e arrestata la moglie di Salvatore C., successivamente rilasciata, e nella sua abitazione venivano requisiti oggetti vari. [...] 14 gennaio, Maria Z. [Maria Zucco] partecipava a un rastrellamento nella zona di S. Agata condotto da italiani e tedeschi insieme. Uomini e donne venivano prelevati dalle proprie abitazioni e portati sulla piazza della chiesa, dove a uno a uno erano interrogati con i soliti metodi brutali. Giovannina M., che aveva conosciuto Maria Z. personalmente durante la sua permanenza tra i partigiani nel novembre 1944 e a cui aveva confidato che il proprio fidanzato, Carlo M., era un partigiano, per esempio dichiarava: "Dopo circa due mesi e precisamente il 14 gennaio durante un rastrellamento effettuato in Sant’Agata, mi rividi nella mia abitazione, mentre mi trovavo a letto, la donna velata, la quale avvicinatasi al mio letto nell’impormi di alzarmi mi diede uno schiaffo. Poi, dietro il fatto della mia confidenza fattale, come sopra ho detto, essa donna velata mi chiese dov’era il mio fidanzato. Dopo averle risposto negativamente essa mi portò unitamente ad elementi nazifascisti nella Piazza della Chiesa, ove venni ancora interrogata e di nuovo picchiata dalla donna velata, dal tenente F. e da alcuni tedeschi. Dopo di ciò fui portata nella caserma 'Muti' di Porto Maurizio ove rimasi rinchiusa per circa una settimana ed in seguito liberata". Raccontava anche Ernesto R., sfollato nel comune di Sant'Agata: "Dopo che siamo stati riuniti sulla piazza, ad uno ad uno venivamo chiamati in disparte e dopo un breve interrogatorio venivamo picchiati a sangue dai sopraddetti dirigenti l’operazione di rastrellamento. Quando fu la mia volta, fui interrogato dalla Z. Maria, la quale insisteva perché le dessi i nomi dei partigiani del paese. Alle mie risposte negative, che d’altronde dichiaravo di non conoscere nessuno del paese essendo ivi sfollato, la Z. Maria mi percuoteva a sangue sul viso con la pistola che essa teneva, gridandomi in faccia che lassù eravamo tutti ribelli e che nessuno voleva confessarlo. Finito il rastrellamento io e altro gruppo di circa quindici rastrellati fummo condotti a Imperia nella Caserma della Gnr ove parte di noi venne nuovamente interrogata e malmenata. Dopo circa un’ora io ed altre sei persone fummo rilasciati mentre gli altri venivano avviati alle carceri". 
Francesca Gori, Op. cit.

Ammetto di aver fatto parte nell'autunno 1944 nella Brigata Cittadina [S.A.P.] G. Matteotti, e di essere poi andato in seguito nella Compagnia Provinciale [GNR repubblichina] agli ordini del Tenente Crippa. Passai in forza di tale Compagnia il 17 novembre 1944 e vi rimasi fino al 25 Aprile (giorno della Liberazione).
Partecipai a diversi rastrellamenti tra i quali quello in S. Agata dove andai insieme al Crippa e a tale Maria Zucco. Vi furono tre o quattro arresti tra i quali un Tenente di Marina.
Pietro Renzo, verbale di interrogatorio per il processo davanti alla Cas (Corte d'Assise Straordinaria) in data 3 giugno 1945, Ufficio di Commissariato di P.S. di Sanremo, documento in Archivio di Stato di Genova
 
Per trovare Stenca il 14 gennaio venne effettuato un rastrellamento a Sant'Agata, Frazione di Imperia, guidato dalla stessa donna velata, nel corso del quale fu tratto in arresto Faustino Zanchi, Libero, comandante di distaccamento della I^ Brigata S.A.P. "Walter Berio". Gli andò incontro la Zucco urlandogli "Tu sei Rino Stenca. Ti abbiamo preso!" e, tiratolo per il bavero, gli spaccò una guancia con il calcio di una pistola.
I fascisti intendevano conoscere il luogo dove si nascondeva Stenca.
Stenca venne riconosciuto per caso, proprio dalla donna velata, in un gruppo di patrioti catturato in precedenza.
Rino venne condotto alla caserma della Muti da dove fu prelevato per essere condotto alla fucilazione.
La Zucco condusse nuovamente i fascisti a Sant'Agata il 17 gennaio 1945.
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I




[ n.d.r.: si riproduce qui sopra un dispaccio partigiano, relativo all'arresto di Stenca ed indirizzato a Curto, Nino Siccardi, comandante della I^ Zona Operativa Liguria. L'Orsini citato dovrebbe corrispondere ad Agostino Bramè, commissario della V^ Brigata, Lenin invece Bruno Massignan, nato a Verona l'01/06/1925, anche lui della V^ Brigata ]

Mi portano ora vicino ad un fuoco che i fascisti si erano accesi sotto una lapide dei caduti.
Qui continuano a chiedermi di Sacchetto [Giuseppe Mela, padre di Attilio], di Rino, del Curto, di Bancarà [Angelo Perrone].
La Donna Velata sa perfettamente dei nostri rapporti con tutte queste persone.
Ma io continuo ostinato nella parte che ormai ho fatto mia: non ricordo, non so niente!
"E neppure di Zanchi non sai niente?" mi chiede la Donna Velata. "Non mi dirai che non ti ricordi che siamo andati assieme a casa sua a prendere il riso perchè tua madre potesse farci cena!".
Continua a parlare francese, che è più famigliare dell'italiano anche per me, che ho da poco finito i miei studi in Francia.
Essa mi parla e mi tiene continuamente sotto la minaccia della sua pistola.
Ad un certo punto, un energumeno, un pezzo di alemanno di due metri, con un pugno come una mazzata, che vuol rendere l'interrogatorio più convincente, sta per colpirmi.
Mi sento perduto. Se mi colpisce, mi uccide. Lo sento!
Con uno scatto improvviso, suggeritomi certamente dall'istinto di conservazione, incurante della sua pistola, abbranco la Donna Velata che mi sta di fronte e me ne faccio scudo!
Tra l'uno e l'altro riusciamo a deviare il colpo micidiale!
Il tedesco sta per riprovarci, ma la Donna Velata interviene perchè non insista con simili "gentilezze".
Ora l'interrogatorio si fa perfino monotono, con le stesse domande e le stesse risposte. Ho capito che fare il tonto può essere la mia carta vincente.
Ma il martellamento della Donna Velata non è fatto di parole soltanto.
Ora, con la pistola, una P.38, ha preso a percuotermi, con metodo, sulla spalla.
Evita deliberatamente la testa per non crearmi guai troppo seri, che non sarebbe neppure funzionali ai suoi fini, ma mi percuote con insistenza, sempre sulla stessa spalla, con un movimento ossessivo.
E mi fa male, veramente male!...  
Pierino Mela (Sacchettin) in Attilio Mela, Op. cit.

Nei giorni successivi la donna velata partecipò ai rastrellamenti di Andora (SV), Stellanello (SV) e di gran parte dei paesi della Val Prino e della Val Impero...
L'identità della donna rimase avvolta nel mistero, in quanto inavvicinabile, poiché, come già scritto, "abita in una villa a fianco dell'Opera Balilla insieme a due ufficiali fascisti".
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I

[...] si ripartì verso la località concordata al momento della fuga, situata sempre nella valle di Pietrabruna nell'incolto tratto situato tra l'omonimo comune e quello di Boscomare [Boscomare è invero Frazione di Pietrabruna]. Erano tutti seduti all'intorno [...] oltre alla ventilata soffiata di un informatore, la vera sorpresa consisteva nella presenza di un nuovo fatto venutosi ad inserire nel sottofondo del dramma locale: era comparsa una nuova interprete, la "donna velata", così venne chiamata. Giungeva a fianco delle milizie, agghindata con un pizzico di teatralità, interamente vestita di nero e con un fitto velo che le copriva completamente il volto, silenziosa in presenza dei paesani, ma sicura e decisa nei gesti, nell'indicare luoghi e cose. Un nuovo interrogativo ci veniva posto, ma al momento non si sapeva dare alcuna risposta, una sola considerazione risultava evidente, la delazione e la paura erano dovunque, nel piccolo e nel grosso paese, una minaccia subdola e continua viveva a contatto con noi, e si era soltanto ai primi di febbraio [1944]. Le nuove e pericolose realtà introdottesi ci obbligarono ad effettuare una strategia di continuo movimento, allo scopo di confondere i piani dell'avversario [...]
Renato Faggian (Gaston), I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza Imperiese. Diario partigiano 1944-45, Ed. Cav. A. Dominici, Imperia, 1984

31 gennaio 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] "Fondo Valle" della II^ Divisione all'Ufficio informazioni e spionaggio della I^ Zona Operativa Liguria - Relazionava che "... nella giornata in corso sono stati fucilati 10 garibaldini prigionieri lungo la salita di Capo Berta come rappresaglia all'uccisione di 2 tedeschi. Il mio cuore sanguina troppo per commentare. La causa di tutto è la famosa donna che ben conoscete..."
31 gennaio 1945 - Dalla Sezione SIM della II^ Divisione "Felice Cascione" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava che "... a Capo Berta sono stati uccisi 11 partigiani prigionieri, Stenca, De Marchi, Manodi, Ansaldo, Garelli, Bosco, Bertelli, Agliata, Ardigò, Noschese, Delle Piane, arrestati il 9 gennaio su indicazione della donna velata, che era stata con loro in montagna...".
1 febbraio 1945 - Da "Citrato" [Angelo Ghiron] alla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava... gli arresti di alcuni esponenti della Resistenza e del PCI di Imperia, avvenuti dietro intervento di una spia detta "La Francese" o "Primula Rossa", una donna italiana, che era stata tra i partigiani e che parlava bene il francese... 
da documenti Isrecim in Rocco Fava, Op. cit. - Tomo II  

Imperia: il lato di levante di Piazza Roma

I partigiani, prima, quindi, della fine di gennaio 1945, ma sempre troppo tardi per tentare di evitare le stragi dei loro compagni cui si é accennato, iniziarono ad intuire l'esistenza di una donna per loro pericolosa, detta "la francese" o "Primula Rossa", che effettuava delazioni contro di loro e che, come sottolinea un documento partigiano, "dice di essere francese anche se è sarda [in effetti calabrese]; la donna è di statura media ha la fonte bassa [per alcune fonti era anche brutta], porta i pantaloni e ha circa 30 anni".
Si può leggere ancora in un altro documento garibaldino, conservato presso l'Archivio dell'Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, quanto segue: 5 febbraio 1945 - Da "Citrato" [Angelo Ghiron] al responsabile SIM [Livio, Ugo Vitali] della Divisione "Silvio Bonfante" - missiva scritta a mano - Testo: "... Avevo parlato in un precedente rapporto di una donna pseudo-Francese spia fascista abitante ad Oneglia. Costei risulta essere una Sarda, non ne è possibile conoscere il nome. Abita in Piazza Roma in una villa a fianco dell'Opera Balilla, insieme a due ufficiali fascisti - è circa 30nne, veste sempre pantaloni - usa tenere i capelli sciolti, ha una fronte bassa ed è di media statura. Ecco la pianta della Piazza [n.d.r.: Ghiron lasciò tracciato, in effetti, anche uno schizzo della piazza con le seguenti indicazioni: in alto, da sinistra la villa, il cancello, un orto, l'Opera Balilla, una sentinella; sotto, da sinistra una rampa, le scuole, Brigata Nera, ... d'Italia]. Come si vede dalla pianta è però troppo difficile coglierla in casa. Tuttavia essa risulta essere una delle spie fasciste più pericolose, molto stimata tra i fascisti stessi ed animata da un odio feroce verso i partigiani. A lei sono attribuiti numerosi arresti di compagni nostri. Essa è conosciuta per spia da membri del Comitato...".
E si cita ancora un documento, conservato nel già richiamato Archivio: <10 febbraio 1945 - Dalla Federazione del PCI di Imperia al Prefetto - Annuncio di pesanti rappresaglie se non cessavano le atrocità commesse dai fascisti ai danni di civili, soprattutto l'attività "di una donna che denuncia chi vuole cagionandone indicibili torture... trarre in arresto la donna, pena l'incolumità del personale dell'ente in indirizzo...">.
Il 16 febbraio 1945 la V^ Brigata "Luigi Nuvoloni" della II^ Divisione "Felice Cascione" segnalava la presenza di questa donna nella zona di Sanremo (IM):  Dal comando della V^ Brigata, prot. n° 286, al Comando della I^ Zona Operativa Liguria "... una spia pericolosa al servizio dei tedeschi: corporatura robusta, bruna, vestita con pantaloni, si è diretta verso Monte Bignone".
Ed il SIM della V^ Brigata in data 3 marzo 1945, con prot. n° 316, indirizzato al SIM della Divisione "Felice Cascione" e a 3 Brigate della Divisione "Silvio Bonfante", I^ Brigata "Silvano Belgrano", II^ Brigata "Nino Berio", III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" avvertiva "... partita da Imperia verso Monte Bignone con l'intento di incontrare i partigiani una donna: si tratta di una pericolosa spia... meridionale, bruna, tarchiata e parla bene il francese".
Ai primi di aprile in Località Campi di Taggia (IM) la Zucco accompagnava i nazifascisti quando questi uccidevano i patrioti Oris e Fil di ferro [Licindo Mosconi]...
A Carpasio [oggi nel comune di Montalto Carpasio (IM)] l'8 aprile 1945 la donna velata guidò il rastrellamento compiuto, mentre molti abitanti andavano verso la chiesa per ascoltare la Messa del giorno di Pasqua, anche con saccheggio del paese da militi repubblichini e da tedeschi. Nella triste occasione vennero uccisi 3 civili, Silvio Bonfiglioli, Vincenzo Invernizzi e Mario Cotta, barbaramente trucidati nelle vicinanze del cimitero, e ferirono altre 10 persone, come riportato il 9 aprile 1945 in un dispaccio inviato dalla Sezione S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] del CLN di Sanremo, con prot. n° 379/SIM, al Comando Operativo della I^ Zona Liguria e quello del 10 aprile,  Dal comando della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione "Felice Cascione" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava... che l'8 aprile 70 SS tedesche avevano "effettuato una puntata ad Arzene-Costa di Carpasio-Carpasio, uccidendo 3 borghesi prima di fare ritorno a Castelvittorio passando per S. Bernardo di Conio".
A Liberazione avvenuta, una relazione della I^ Brigata SAP "Walter Berio" riconobbe che a gennaio-febbraio 1945 l'attività della Brigata aveva subito un brusco rallentamento a causa degli arresti provocati dalla "donna velata".
E, come ha scritto Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese - Vol. III, la Zucco "nei giorni della liberazione riuscì a fuggire ad Alessandria, ma lassù fu raggiunta dai partigiani imperiesi e riportata ad Oneglia, dove il tribunale la condannò a morte. Ma poi qualche persona interessata disse che era incinta, così non venne giustiziata, anzi, come quasi tutti i criminali fascisti, fu liberata".
Rocco Fava, Op. cit. - Tomo I
 
È entrata in campo anche una donna, Maria Zucco, detta "la francese" o "la donna velata", ex-militante del Fronte Popolare Francese, un'associazione che si collega ai principi della 'rivoluzione nazionale' propugnata dal maresciallo Pétain. La Zucco si presenta nell'Imperiese, partecipa ad azioni di guerriglia urbana con i ribelli e poi, quando ritiene di conoscere bene la struttura dei banditi della zona, passa al servizio dei tedeschi e delle Brigate Nere. Le vittime saranno molte decine, e forse anche un centinaio. La donna, che indossa abiti maschili e si copre il volto con velo e occhiali, guida con la rivoltella in pugno le azioni di cattura o rastrellamento, e sembra gioire  di fronte alle torture inflitte ai prigionieri. La promuovono capitano delle ausiliarie e riesce a distruggere tutta l'organizzazione cospirativa di Oneglia e di buona parte della provincia. L’8 aprile 1945 si mette alla testa di 300 rastrellatori e giunge a Carpasio, un paese dell’entroterra: qui fa saccheggiare o bruciare diverse case e fucilare i civili Silvio Bonfiglioli, Mario Cotta e Vincenzo Invernizzi. Altri dieci paesani presi come ostaggi vengono poi battuti prima di essere rilasciati. Una scia di sangue accompagna le sue azioni, e tuttavia riuscirà poi a salvare la vita ed a ritornare clandestinamente in Francia.
Ricciotti Lazzero, Le Brigate Nere, Rizzoli, 1983
 
L'8 aprile 1945 Carpasio subiva il più duro rastrellamento nei venti mesi di lotta. Tedeschi e fascisti, guidati dalla brigatista Maria Zucco, la cosiddetta “donna velata”, saccheggiavano Carpasio. Mentre la gente si incammina verso la chiesa per ascoltare la Santa Messa della Pasqua si sente una paurosa sparatoria: sono Tedeschi e fascisti che portano terrore e scompiglio. I civili Silvio Bonfiglioli, Vincenzo Invernizzi e Mario Cotta vengono catturati. Tentata la fuga verso Montalto Ligure, sono fermati da uno sbarramento di fuoco di armi automatiche e devono ritornare indietro. Condotti sotto il Cimitero vennero barbaramente trucidati e spogliati di quanto possedevano.
Sabina Giribaldi, Episodio di Carpasio, 08.04.1945, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

Forse si sarebbero potute evitare tante sciagure se si fosse dato credito ad una comunicazione trasmessa in ottobre [1944] al comandante partigiano Giovanni Alessio (Peletta) dal tenente della brigata nera Leopardi, informatore, con la quale chiariva il vero ruolo assunto dalla Z.M. [Maria Zucco] nei confronti della Resistenza imperiese [...]
Francesco Biga, Op. cit.

Maria Concetta Zucco prese parte a rastrellamenti, interrogatori e torture, con la divisa delle Brigate Nere, nascondendo il volto con cappuccio e occhiali scuri. I giornali nei giorni del processo la descrissero in questo modo: "Ed ecco, un giorno, cominciano i rastrellamenti e le persecuzioni: Maria Zucco veste da uomo e si mette gli occhiali neri e un velo sul viso. È la figura stessa della rovina. Nero il viso nascosto; ella è la morte senza volto, lo sterminio senza discriminazione... [in tribunale] Maria Zucco ha il volto duro, gli occhi immutabili...". Suscitava interesse l'attaccamento, così maschile, alle armi, a quella Mauser usata dalla donna come strumento di tortura: "Non è più vestita alla maschia, con la grossa Mauser alla cintura, quella Mauser che le piaceva tanto maneggiare impugnandola per la canna, facendo del calcio il più efficace mezzo per colpire le teste, i visi, le bocche, quelle stesse bocche di ragazzi che oggi parlano contro di lei... A lungo si è cercato di far luce su questa donna straordinariamente inumana e cinicamente insensibile..."...
Cecilia Nubola, Fasciste di Salò. Una storia giudiziaria, Editori Laterza, 2016