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giovedì 6 luglio 2023

Non appena la banda dei partigiani ebbe imboccato l'archivolto sembrò scatenarsi l'inferno

Sanremo (IM): uno scorcio di Via Escoffier (già Via Privata)

A primi di ottobre [1944] informatori del SIM del Comitato di Liberazione di San Martino [a Sanremo], funzionante provvisoriamente in luogo del CLN Comunale, tuttora allo stadio preparatorio, comunicarono che nella caserma di via Privata [n.d.r.: attuale Via Escoffier], già sede della Tenenza dei Carabinieri, erano stati condotti in stato di arresto quasi tutti i principali esponenti dell'antifascismo attivo Sanremese. Le informazioni dicevano che almeno una trentina di personalità cittadine, fra le quali il Dottor Donzella Marco, l'Avvocato Paolo Manuel Gismondi, il prevosto di San Siro don Luigi Boccadoro, il Dottor Ronga, Alfredo Cremieux e il Ragioniere Aldo Zoli, si trovavano rinchiusi nella caserma in attesa di un sommario giudizio e della fucilazione.
Le prime affrettate notizie risultarono grandemente esagerate, ma il C.L.N. diramò immediatamente istruzioni agli organi militari cittadini dipendenti perché si agisse senza indugio, allo scopo di salvare i detenuti, approfittando che la caserma, a differenza di altri luoghi di detenzione normalmente usati dai nazi-fascisti, si prestava ad essere facilmente attaccata di sorpresa, posta,com'era, al margine della città vecchia.
Istruzioni precise furono passate a Giorgio (Giuseppe Ferraroni) che si mise a contatto con Fifo (Adolfo Siffredi), il quale si era, in quel frattempo, trasferito dalla campagna in un luogo nascosto nel centro della città vecchia, perché questi, a sua volta, attraverso Pipì (Giuseppe Carbone) informasse Cichito (Aldo Baggioli) e Riccardo (Adriano Siffredri), rispettivamente Comandante e Commissario della Brigata GAP cittadina «Giacomo Matteotti», del progettato attacco e lo predisponessero nei suoi dettagli.
La risposta fu: «L'attacco è già in via di preparazione».
E, infatti, il Comando della Brigata, appena avuto sentore degli arresti, a mezzo dei suoi organi di collegamento con la città, Pier delle Vigne (Giuseppe Sughi) e Romeo (Archimede Gioffredi), aveva iniziato lo studio di un piano completo che doveva poi pienamente riuscire.
L'operazione, che si presentava difficile e piena di pericoli, veniva messa a punto, con accuratezza veramente geniale, da Cichito e da Riccardo. I due temuti capi del GAP ed alcuni dei loro uomini più audaci si riunirono un'ultima volta in casa del Professor Calvino. Dopo lunghe discussioni venne deciso di compiere l'attacco di sorpresa, con un numero limitato di uomini, tutti bene armati ed equipaggiati, in modo da assicurare la riuscita e permettere, nello stesso tempo, una discesa segreta in città ed una ritirata veloce. Venne pure deciso, ad evitare eventuali indiscrezioni che avrebbero potuto compromettere la riuscita del piano, di avvertire singolarmente gli uomini scelti per compiere l'operazione, senza per altro scoprire loro le ragioni della mobilitazione. Si studiò a lungo la lista dei partecipanti e vennero scelti molti partigiani, provati in combattimenti ed imboscate, giovani decisi a tutto osare e sulla cui fedeltà i capi non avevano alcun dubbio, fra cui: Grassadonna Salvatore, Bonfante Armando e suo fratello, Cazzolino Nando, Carbone Nino, «Negus», «Turiddu», Grignolio Sergio [Ghepeu], Gruttin Dario, «Tom», «Saetta».
Si fissò come luogo di adunata il forno di Ernesto Ivaldi in via S. Stefano, ora del convegno le 21.
Durante tutto il giorno continuò l'opera infaticabile delle staffette in montagna ed in città: nel tardo pomeriggio gli uomini designati erano stati tutti avvertiti di «riunirsi alla spicciolata da Ernesto per comunicazioni di estrema urgenza». Nello stesso tempo «Iolanda», che operava in qualità di staffetta ed informatrice della Brigata, prese contatto con due militi fascisti, soprannominati Totò e Negus, già da tempo collegati con Cichito e Riccardo, i quali si erano dichiarati disposti a facilitare ai nostri uomini il compito dì penetrare nell'edifizio senza dover usare le armi. Ormai le operazioni preliminari erano state portate a termine e si apriva la fase finale, la decisiva.
 

Sanremo (IM): un angolo della Pigna

Un po' prima delle 21 Cichito e Riccardo, scendendo per viottoli tortuosi e bui della Pigna, giunsero al forno dove Iolanda attendeva. Nella mezz'ora successiva singolarmente o a piccoli gruppi tutti gli altri erano adunati sul luogo.
 

Sanremo (IM): Palazzo Nota, già sede del Municipio

Le porte sbarrate, le luci velate, nel basso locale, a pochi passi dal Municipio [n.d.r.: all'epoca situato in Piazza Nota], la banda fu informata del progetto. Uno scoppio di entusiasmo fece eco alla proposta. Iolanda riferì che il colpo avrebbe dovuto essere eseguito all'una in punto, ora in cui i due militi amici avrebbero atteso i nostri per aprire loro la porta. Brevi e precise istruzioni furono impartite a tutti. La gioia era al colmo: attaccare una caserma ben munita, liberare i prigionieri, catturare il presidio con tutti i suoi magazzini, preziosi per uomini sempre «affamati» di armi e munizioni, significava eseguire il più bel colpo della storia della brigata, significava portare il terrore nel cuore stesso della città che si riteneva immune da ogni offesa, presiiata, com'era, da imponenti forze nemiche. I cuori tutti battevano, gli occhi brillavano d'entusiasmo. Ed Ernesto volle festeggiare il prossimo successo dell'impresa distribuendo vino e focacce. Si mangiò, si brindò in sordina alla riuscita dell'avventura, poi i giovani si distesero sul pavimento a riposare mentre Cichito e Riccardo rimanevano di guardia. Alle dodici e mezzo fu data la sveglia: vennero controllate le armi e distribuite le munizioni; i giovani si tolsero le scarpe e, ad uno ad uno, si uscì nella notte buia, silenziosa e nemica.
L'aria era immobile e greve. Una fosca nuvolaglia bassa nascondeva le stelle, rendendo più fitta l'oscurità non rotta da alcun lume. Ovunque intorno immobilità ed assoluto silenzio.
Ghepeu e due uomini armati di Sten e Winchester vengono inviati ad appostarsi all'angolo da Via Palazzo e Piazza Colombo, presso la foto Ceresani, allo scopo di poter sorvegliare la casa del fascio e le arterie sboccanti in Piazza Colombo, per una eventuale azione di disturbo nel caso non improbabile che sopravvenissero rinforzi da quella parte o dalla zona orientale della città.
 

Sanremo (IM): l'archivolto, denominato in Mario Mascia, Op. cit. infra, di Piazza Cassini

Gli altri, silenziosi come fantasmi, passano sotto l'archivolto di Piazza Cassini, scendono per via Palazzo e strisciando lungo i muri delle case addormentate, imboccano l'archivolto di via Privata e, in pochi minuti, sono davanti alla Caserma.
 

Sanremo (IM): il passaggio (archivolto) di Palazzo Roverizio tra Via Palazzo e Via Escoffier (già Via Privata)

Tutto procedeva ottimamente: si agiva nel silenzio più assoluto, con matematica precisione: non una parola, non un gesto inutile: soltanto il lieve fruscìo dei piedi nudi indicava la presenza dei giovani in marcia.
 

Sanremo (IM): Via Matteotti (già Via Vittorio), in prossimità di Piazza Colombo

Sanremo (IM): sullo sfondo, Via Palazzo in prossimità di Piazza Colombo

Riccardo e Cichito sussurrano i loro ordini: due uomini vengono inviati in perlustrazione, altri due si piazzano all'angolo di via Vittorio, presso la farmacia Salus, pronti a respingere un attacco eventuale da quella parte.
 

Sanremo (IM): lo sbocco (sotto Palazzo Roverizio) di Via Palazzo in Via Escoffier (già Via Privata)

Il grosso intanto si raduna nello stretto viottolo che da Via Privata conduce all'entrata della Caserma. Riccardo si fa alla porta e bussa tre volte, a brevi intervalli, come era stato convenuto. Gli altri si tengono guardinghi in posizione di sparo. Pochi istanti di angosciosa attesa: poi la porta cigola leggermente, uno spiraglio si apre ed una lama di luce si riflette sulla strada e sparisce. Un breve scambio dì frasi mormorate a fior di labbra. Poi metà degli uomini entra seguendo Totò e Negus, l'altra metà si apposta nel breve cortile esterno, nel viottolo ed all'imboccatura di Via Privata.
I giovani penetrano immediatamente nel magazzino impadronendosi di tutte le armi: due fucili mitragliatori, due mitra, una mitragliatrice pesante a nastro, quindici moschetti, venti rivoltelle, alcuni fucili da caccia e numerose munizioni.
Nella caserma nessuno si sveglia. Sempre scalzi, illuminati ad intervalli dai bagliori dì una lampadina elettrica, i nostri giovani salgono al primo piano. Qui, in due stanze, dormono quattordici militi di guardia. Incuranti della loro inferiorità numerica e fiduciosi nel loro coraggio e nel vantaggio che l'elemento sorpresa offre loro, Cichito e Riccardo, seguiti dagli altri, fanno irruzione in massa nei dormitori, urlando e brandendo minacciosi le armi. I nemici, svegliati improvvisamente, esterrefatti si arrendono: solo qualcuno tenta una debole quanto inutile resistenza: viene in breve sopraffatto e disarmato. Un uomo cerca, almeno così sembra ai nostri, di nascondersi fra le brande per fuggire alla cattura. Viene raggiunto, colpito ed atterrato. Scalcia come un animale preso in trappola, riesce a liberare la strozza da una stretta possente che lo strangolava e tossendo e sputando urla: «ma io non sono mica un milite... sono un prigioniero!» E' Turiddu, che seguì poi la banda in montagna trasportando in spalla la mitragliatrice fino a San Michele, che doveva, più tardi, perdere il senno sotto i colpi feroci dei nazi-fascisti.
Naturalmente il rumore della lotta aveva messo in subbuglio tutta la caserma. I prigionieri si erano destati: escono dalle loro stanze in abiti succinti, assonnati, increduli: sono il Dott. Marco Donzella, il Gen. Ninchi, l'Avvocatessa Ada Barbieri, il vice Parroco di San Giuseppe don Angelo Aprosio, ed alcuni altri sconosciuti, fra i quali un elegantissimo e compitissimo signore dal modi cortesi, ex gerarca fascista, che chiede di essere messo in libertà e viene immediatamente accontentato.    
A lungo si discute con gli ostaggi circa l'opportunità della loro liberazione e si conviene che, in vista della mancanza di prove specifiche a loro carico e quindi di un immediato pericolo e ad evitare rappresaglie contro le loro famiglie, è conveniente che essi non seguano il distaccamento nella sua ritirata e restino in caserma.
L'attacco era ormai pienamente riuscito: gli archivi in nostra mano, un ingente quantitativo di armi e munizioni catturato, tutti i militi, eccetto uno, fatti prigionieri. Quell'uno rimasto in libertà era un sergente delle SS italiane, delinquente pericoloso e brutale, che si aveva l'ordine di giustiziare. L'uomo si era barricato in una stanza armato, a quanto assicuravano i prigionieri, di mitra, pistola e bombe a mano. Malgrado il pericolo di sostenere forti perdite in un attacco frontale, Cichito aveva deciso di forzare l'uscio e di impadronirsi dell'uomo vivo o morto, quando uno dei nostri rimasto fuori giunse per avvertire che la città era ormai messa a rumore, che la nostra presenza era conosciuta e che occorreva affrettarsi se non si voleva che tutta la guarnigione nazi-fascista accorresse sul posto, circondasse il distaccamento e lo annientasse.
Si abbandonò il sergente al suo destino e si presero immediatamente disposizioni per compiere una ritirata rapida e sicura. I militi prigionieri vennero rinchiusi in una stanza, si pregarono gli ostaggi di tenersi al sicuro, le armi e le munizioni catturate furono distribuite agli uomini e l'archivio venne dato alle fiamme. Pochi istanti dopo il distaccamento, senza la perdita di un sol uomo, raggiungeva il gruppo di guardia fuori, conducendo con sé un milite delle SS colpevole di omicidio e spionaggio, il quale veniva più tardi passato per le armi in montagna. Negus, Totò e Turiddu si unirono ai nostri.
Non appena la banda ebbe imboccato l'archivolto sembrò scatenarsi l'inferno. Dalle finestre del pian terreno della caserma si alzavano le fiamme; urla venivano dai caseggiati vicini, colpi di fuoco risuonavano da per tutto e da Piazza Colombo giungeva l'eco di scariche nutrite e degli scoppi laceranti delle bombe a mano.
In verità, come si apprese il giorno dopo, il nemico, sorpreso e spaventato, non aveva tentato che un'azione molto debole che si esaurì in brevissimo tempo. La fucileria era stata aperta dai nostri e venne continuata dalle retroguardie anche quando il grosso aveva già raggiunto la vecchia città e risaliva la costa, contro i vigili del fuoco, alcuni dei quali venivano colpiti, accorrenti per estinguere le fiamme che sembravano dover consumare la caserma, e che erano stati scambiati, nell'oscurità, per nazi-fascisti.
Dieci minuti dopo l'evacuazione della caserma e l'inizio della ritirata anche le pattuglie di retroguardia ripiegavano verso la città vecchia e si riunivano al grosso sotto la Madonna della Costa.
Qui vi fu un breve scambio di fuoco con i soldati tedeschi addetti alle postazioni antiaeree dei Giardini Regina Elena e, alle tre del mattino, il distaccamento al completo col suo prigioniero, le nuove reclute, le armi e le munizioni catturate in parte raggiungeva i sicuri rifugi in collina, in parte rientrava nelle proprie case.
Ebbe così termine un azione temeraria, che costò al nemico non soltanto gravi perdite materiali, ma costituì oltre tutto un durissimo colpo per il prestigio suo e la cui vittoriosa riuscita resta un esempio mirabile di coraggio e di intuizione militare che onora i giovani capi che la diressero ed i valorosi che la eseguirono.
Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. A.L.I.S., 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp. 265-269  

mercoledì 24 giugno 2020

Un partigiano "bridge blower"



Dintorni di Ceriana (IM)
Ghepeu, al secolo Sergio Grignolio, scuote l'indice verso di me e ride di un riso franco da buon ragazzone quale egli è. Adesso esageri... dice. Protesta allegramente perchè l'ho presentato al Governatore, capitano inglese Garigue, e ad altri ufficiali come il “bridge blower”, cioè l'uomo che fa “saltare i ponti”. Protesta e ride, ma si vede che ne è compiaciuto. In verità Ghepeu è il tipico partigiano. Alto, di membra possenti, ha una bellissima testa ricciuta ed un volto da buon ragazzo, illuminato da due magnifici occhi castani. Si tiene ritto innanzi al generale Graham, venuto a Sanremo in occasione della rivista della vittoria e della pace e si dondola un po' su una gamba ed un po' sull'altra, impacciato e rosso in volto. Nessuno immaginerebbe che egli è stato, durante tutta la guerra di liberazione uno dei nostri patrioti più valorosi. Ha preso parte a combattimenti, agguati, sorprese, è stato in “galera”, ha sposato la morte decine di volte, ha subito la tortura. Ed ha soltanto diciannove anni.
 
Raccontaci come hai fatto a distruggere il ponte della Madonna della Villa.
 
Non qui... fuori mi risponde e vedo che è veramente sulle spine. E l'intervista col generale Graham ed il capitano Garigue finisce. Ghepeu ritorna al suo risotto...ahimé troppo esiguo per il suo appetito... ma finito il pranzo mantiene la promessa.
Ritto innanzi a me parla ed agisce illustrando con potenza drammatica il suo semplice racconto che ha la forza di un'epopea. Quando avvenne l'impresa? Interrogo. Ai primi di settembre 1944. Mi trovavo nuovamente fra i miei compagni, in montagna. Ritornavi in città? Ritornavo dalla prigione... ma questa è un'altra storia. Accennala, può essere interessante.
 
In poche parole, l'affare andò cosi. Dopo aver fatto saltare i Tre Ponti fui denunciato da un pseudo amico come informatore dei ribelli e costruttore di radio clandestine.
Agenti dell'U.P.I. in pieno mezzogiorno fanno irruzione in casa mia, immobilizzano i miei sotto la minaccia delle pistole e mi prelevano. Mi trasportano all'ufficio di Piazza del Mercato. Con me c'era Ciccio Corrado, che fu poi fucilato a San Martino il 12 settembre
[1944]. Breve: mi ammanettano, mi denudano il dorso e mi fanno sedere. E comincia l'interrogatorio. Per quattro ore andarono avanti a forza di schiaffi, pugni e calci. Alla fine della seconda ora mi si bruciò della polvere da sparo sulla schiena. Ed io zitto. Mi si fece stendere supino, mi si pose sullo stomaco un asse di mitragliatrice sul quale i miei torturatori sedevano a turno. Ed io zitto. Alla fine mi strapparono i capelli - e si tocca la chioma - con un coltello sdentato. Ma io non ho parlato. 

Bravo! Interrompo.

Ho fatto semplicemente il mio dovere - continua Ghepeu. Mi si porta a Villa Giulia in attesa della fucilazione. Vi resto due giorni e due notti. Il terzo giorno studio un piano di evasione, scardino le inferriate del gabinetto, mi butto nel giardino e... sono di nuovo libero. E questo è tutto.
 
Ritorniamo al ponte della Madonna della Villa.

Dunque mi trovavo nuovamente in montagna. Vi ero da pochi giorni quando Gino [Luigi Napolitano di Sanremo (IM)] con i suoi uomini attaccò il presidio di Baiardo. Ero nei boschi con due miei compagni, Angelo Massa e Nino Vigo, in perlustrazione quando udimmo in distanza il rumore del combattimento incorso. Decidemmo di portarci sulla strada per sorprendere eventuali distaccamenti tedeschi inviati a Baiardo di rinforzo e così facemmo.

Dove vi imboscaste?   
Fra un gruppo di alberi a pochi chilometri a valle di Baiardo, ad una cinquantina di metri dalla strada che conduce al Piazzale della Madonna della Villa.
Un paio d'ore di attesa che ci parvero interminabili, poi vedemmo sbucare in distanza la testa di una colonna tedesca che veniva su di rinforzo in bicicletta. Erano circa settanta uomini quasi tutti in possesso di armi automatiche. Noi si era in tre, armati di moschetto, decidemmo di rimanere sul posto ed attaccare. Non appena il grosso del nemico giunse nei pressi del piazzale, aprimmo un fuoco accelerato. Il nemico si sbandò immediatamente. Qualche colpo fu tirato a casaccio: poi credendo certamente di aver di fronte un forte distaccamento, abbandonò il campo e si ritirò disordinatamente su Ceriana, portando con sé qualche ferito. Il tiro era riuscito in pieno!

Sergio Grignolio (Ghepeú). Fonte: Annalisa Piubello, op. cit. infra

La probabilità che il nemico, specialmente dopo l'ultimo scacco subito, inviasse altri rinforzi era certa. A qualunque costo bisognava interrompere la strada. Mi offersi di far saltare il ponte della Madonna della Villa, operazione che avrebbe, se fosse riuscita, interrotto completamente il traffico tra Ceriana e Baiardo. Mi posi in contatto con altri nostri compagni della zona e, la stessa notte del combattimento, sotto una pioggia dirotta, un piccolo gruppo capitanato da me, da Edmondo e da Mario si portò sul ponte. Vi scavammo tre buche, le riempimmo di esplosivo, facemmo allontanare i compagni e io e Mario demmo fuoco alle micce. Soltanto due mine saltarono: il ponte, per quanto danneggiato, rimaneva servibile. Ritornammo sul posto, preparammo una terza carica, accendemmo e stavamo per ritirarci quando la mina scoppiò improvvisamente. Fummo avvolti in una nube di fuoco e di fumo, mentre una pioggia di pietre ci investiva in pieno. Ma evidentemente qualche santo ci proteggeva, perchè ce la cavammo senza una scalfitura.


La mattina dopo, io, Mario e Gianni Pigati ritornando verso Baiardo incontrammo un gruppo di 5 tedeschi in perlustrazione. Li attaccammo immediatamente e, dopo un breve scambio di fuoco, tre di essi restano sul terreno e gli altri due fuggirono abbandonando le armi. 

Insomma una giornata magnifica!

Certo, certo finisce Ghepeu sorridendo tristemente. L'unico disappunto fu che quando ritornammo in banda trovammo che gli amici avevano dato fondo alle provvigioni e dovemmo accontentarci di un pugno di castagne secche.

Mario Mascia, L’epopea dell’esercito scalzo, Ed. Alis, 1946, ristampa del 1975  a cura di IsrecIm
 
Il secondo racconto del trittico, "Attesa della morte in un albergo", costituisce a sua volta il secondo tempo della vicenda storica sintetizzata da Ferrua.
Il protagonista, un giovane partigiano di nome Diego, insieme al compagno Michele viene catturato dai tedeschi in una operazione di rastrellamento e portato in un albergo per essere o fucilato o lasciato libero. In queste ore di attesa si viene apparentemente a sapere che Michele sarà giustiziato, mentre invece più tardi entrambi i compagni saranno trasferiti a Marassi, il carcere di Genova.
Le poche ore di «attesa della morte in un albergo» danno occasione a Diego per una serie di riflessioni e fantasie.
Il riscontro storico-biografico lo troviamo ancora una volta in Ferrua:
[...] una spiata dirige i nazifascisti a San Giovanni nel corso di un rastrellamento in tutta la vallata che continua fino a San Romolo il 25 novembre 1944. Riescono a fuggire Pier delle Vigne e Flori, mentre vengono arrestati Santiago <60, Leone e Ghepeú [...] Italo Calvino trascorre circa tre notti fra Villa Giulia o Villa Auberg e il carcere di Santa Tecla paventando una fucilazione che lo risparmierà ma mieterà altre vittime. Durante questa breve detenzione si imbatte in Sergio Grignolio [...], in Flavio Gioffredi, e in Fulvio Goya, il quale rievoca l’angoscia di una notte insonne e di un appello all’alba di fronte al plotone di esecuzione. (FERRUA, cit.: 94)
60 «Pier delle Vigne» è Pietro Sughi, «Flori» è il diminutivo di Floriano Calvino, il fratello, all’epoca
sedicenne, di Italo, mentre, come già detto, «Santiago » è il nome di battaglia scelto dallo scrittore.

Annalisa Piubello, Calvino racconta Calvino: l'autobiografismo nella narrativa realistica del primo periodo, Tesi di dottorato, Universidad Complutense de Madrid, 2016