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venerdì 20 giugno 2025

Il gruppo continuò a stampare proclami per la popolazione, incitandola a combattere fascisti e Tedeschi

Ventimiglia (IM): Via Cavour

Nell'intento di chiarire un punto che appare all'inizio della trascrizione che qui segue, ci si permette di affermare in premessa che ben difficilmente il tipografo Riccardo Parodi stampasse in funzione antifascista pezzi di propaganda e documenti falsi a Ventimiglia "all'insaputa del proprietario", il patriota Pietro Giacometti, il quale, anzi, con tutta probabilità, fu da subito il vero responsabile di tali azioni. Confermano tale aspetto - da quella ditta ubicata in Via Cavour a Ventimiglia "usciva ed uscì tutta la stampa clandestina antifascista del Ponente ligure" - i ricordi della figlia di Giacometti, Emilia, in cui vi è la traccia di tutta la faticosa ed intensa attività resistenziale del padre, ricordi pubblicati di recente nel libro di Daniela Cassini, Gabriella Badano e Sarah Clarke Loiacono, Protagoniste. Storie di donne e Resistenza nel Ponente ligure (Isrecim - Regione Liguria - Fusta Editore, 2025). E rafforza il ruolo di Giacometti un memoriale di Giuseppe Porcheddu, che lo colloca tra i collaboratori dei primi organizzatori della Resistenza nella zona di Baiardo e non solo. Va sottolineato, invero, che sia il diario di Emilia Giacometti che gli appunti di Porcheddu erano inediti alla data di uscita dell'opera di Francesco Biga, cui qui ci si riferisce. In ogni caso, quella di Pietro Giacometti risulta ancora oggi una figura trascurata dalla storiografia.
Adriano Maini

Uno dei più noti protagonisti della stampa della Resistenza Imperiese fu il tipografo Riccardo Parodi. Prima dell'8 settembre 1943 lavorava nella tipografia «Giacometti» di Ventimiglia ed era in contatto coi compagni Castagneto e Ricci. All'insaputa del proprietario il Parodi stampava volantini e manifesti, talvolta anche a mano, e carte d'identità false per gli antifascisti ricercati.
Quando l'8.9.1943 fu proclamato l'armistizio, stampò pure, a mano, il famoso manifesto intitolato «Fuori i Tedeschi dall'Italia», ma, rimastevi sopra le sue impronte digitali, le copie già affisse furono fatte strappare nella notte da squadre di attivisti.
Ritirava i volantini stampati nella tipografia di Ventimiglia la moglie del geometra Ricci che ne curava la distribuzione in collaborazione col compagno Boccadoro. Quest'ultimo, che venne arrestato, morì tubercolotico a Parigi per le sofferenze patite.
A fine settembre 1943 le prime copie dell'organo del P.C.I. «L'Unità», edizione imperiese, uscivano dattiloscritte, compilate clandestinamente in una stanza di salita San Leonardo, curate dal segretario G. Castagneto.
Giunti ad Imperia il 12-13 settembre 1943, i Tedeschi prendevano possesso della città, ma l'organizzazione del P.C.I. continuò a funzionare. I collegamenti con Genova, Alassio, Albenga, Diano Marina, San Remo e Ventimiglia, venivano ripristinati. Ripresa la distribuzione del materiale di propaganda e l'affissione dei manifesti provenienti dal «Centro» di Genova.
In casa del rag. G. Castagneto, in via del Monastero, si continuò a produrre del materiale di propaganda; il Castagneto dattilografava i manifestini, Riccardo Parodi e Giovanni Ericario, sistemati i caratteri su tamponi a mano, li stampavano.
Nel dicembre 1943 veniva ristrutturata la tipografia clandestina, sempre a Porto Maurizio, a pochi passi e nella stessa via dove aveva sede la squadra politica fascista.
Un artigiano falegname aveva preparato due cassette in legno che rappresentavano due rudimentali ciclostili. La seta necessaria per i rulli era stata recuperata nel pastificio Agnesi.
Uno dei ciclostili, completo di tutto, fu inviato a San Remo; con l'altro, il gruppo continuò a stampare proclami per la popolazione, incitandola a combattere fascisti e Tedeschi.
Si stampavano pure giornaletti formati da due o tre pagine, che riportavano articoli di fondo compilati da Giacomo Amoretti (Menicco), notizie dai fronti, appelli, ecc.
Gli addetti lavoravano di notte perché col ciclostile non si faceva rumore; i clichés, invece, erano preparati di giorno con la macchina da scrivere.
Sempre nella notte, appositi sacchetti pieni di volantini, portati in un luogo prestabilito lontano dalla tipografia, venivano ritirati dalle staffette Paolo Ligi (Litto), Pietro Benvenuti (Petrin Scintilla), Adolfo Stenca (Rino) ed altri, che li portavano a destinazione.
Il materiale, comprendente la macchina da scrivere, il ciclostile, riserve di carta ecd inchiostri, quando non si adoperava era tenuto accuratamente nascosto in una vecchia cisterna di un caseggiato, col fondo coperto da un buon metro e mezzo di acqua. La cisterna aveva una sola botola con un'apertura di cm. 40x40, che serviva per attingere l'acqua piovana con un secchio.
Chiunque si fosse affacciato avrebbe scorto soltanto il liquido poiché il materiale tipografico era posato su un ponte di legno costruito di lato, del tutto invisibile a causa dell'oscurità. Si scendeva al ponte in legno tramite una scala a chiodi infissi nella parete della cisterna.
Al dicembre del 1943 risale il servizio stampa clandestina quando, per ordine del C.L.N. imperiese, si ebbero i primi contatti con i partigiani di Albenga («il Barbiere», «u Ghighillu», «Enrico», ecc.) con i quali si stampavano volantini a ciclostile.
Importanti manifesti furono stampati a Porto Maurizio in occasione degli scioperi antifascisti proclamati il 18.2.1944 e l'1.3.1944, non solo per Imperia, ma anche per Alassio e per Albenga.
Di notte le staffette Pietro Benvenuti (Petrin Scintilla) e Vittorio Ardissone (Victoir) di Diano Borganzo, portavano nel Dianese i volantini stampati ad Imperia.
Nei primi giorni del 1944 era stato trasportalo da San Remo a Taggia un ciclostile, inviato da Farina e Ferraroni, col quale si iniziò a stampare un foglio intitolato: «Il Comunista Ligure», che riportava notizie di cronaca tratte dai notiziari di radio Londra e di radio Mosca, articoli di propaganda e sulla resistenza armata.
Il ciclostile era stato sistemato in una botola sotto la bottega del barbiere Mario Cichero, all'angolo delle vie «Vittorio Emanuele» (oggi «Candido Queirolo») e «San Giuseppe». Con Bruno Luppi collaboravano alla stampa i cospiratori Mario Cichero, Mario Siri, Candido Queirolo, Mario Guerzoni ed altri.
Nel maggio 1944 il tipografo Riccardo Parodi (Ramingo), che lavorava ancora a Ventimiglia, sospettato, riuscì a sottrarsi alla cattura perché era stato segnalato col nome di Frontero, quando il vero Frontero Tommaso, con Renacci e tutti gli altri, il 23 era già stato arrestato. Come vedremo, trasferitosi ad Oneglia, il Parodi salirà in montagna alla fine di giugno.
Nella primavera altri volantini venivano dattiloscritti in casa del compagno Giovanni Ericario in via Domenico Acquarone, a Porto Maurizio.
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, IsrecIm, Milanostampa Editore - Farigliano, 1977, pp. 248-250

venerdì 25 aprile 2025

Un buon servizio di guardia avrebbe potuto salvare i partigiani?

Degna, Frazione del comune di Casanova Lerrone (SV). Fonte: F.A.I.

Il 18 febbraio [1945] giunse a tutti i distaccamenti il proclama del comando della Bonfante:
«Garibaldini, ormai insistente è la voce messa in giro dai nostri nemici, dai loro giornali, dalle loro radio, che i partigiani sono stati distrutti. Gongolano nelle loro caserme i traditori repubblicani. Abbiamo distrutto i partigiani e i nuovi partigiani, quelli che saranno stati i più furbi, saremo noi! Essi dicono. Così questi bastardi insultano i nostri morti, così questi rapinatori, che la nostra popolazione ha ben dolorosamente riconosciuti, credono di aver trovato la loro salvezza nel nostro sangue. Ma non è per loro che sono caduti i nostri compagni.
Tedeschi e fascisti sono riusciti a cacciarci dai paesi e ci siamo rifugiati nelle capanne, ci hanno incendiato le capanne, ma abbiamo dormito nella neve. Nulla potrà mai la loro ira bestiale contro la nostra fede. Sono i nostri caduti che ci indicano la via da seguire, sono i nostri fratelli che giacciono a centinaia nei crepacci gelati del Mongioie, ancora stretti l'uno all'altro per mano, quelli che riposano sotto la neve a piccoli gruppi e sparsi lontano a passo Saline.
Aspettare con calma, come belve in agguato, questo è il nostro compito ora. Rivelarci è fare il gioco tedesco. Troppo vale per loro aver la strada della ritirata libera, quella strada che hanno agognato per sei anni per non usare ogni mezzo per raggiungere i loro scopi. Invece dobbiamo aspettare silenziosi, non visti da nessuno, ignoti. E poi scatteremo con la violenza della nostra passione, con i nostri vent'anni, in giù verso il mare, combatteremo ovunque, nessuna tregua daremo ai fascisti, ai traditori, a tutti coloro che hanno tradito il popolo, che hanno scavato trincee contro di noi. E tutta questa sbirraglia, quando si sentirà ormai sola, senza l'appoggio tedesco, cadrà ai nostri piedi implorando quella pietà che loro hanno cancellato dalla nostra anima. Un pugno d'acciaio tratterà i vinti. Guai a loro!
Garibaldini! Questo è il momento del silenzio, dell'attesa! Ogni imprudenza può rovinare i nostri piani. Sparite dai paesi, marciate solo di notte. Eseguite gli ordini con la massima esattezza. Siete rimasti in pochi, i migliori. Unici tra le formazioni partigiane siamo riusciti con la nostra tattica ed una buona applicazione degli ordini a superare questo periodo tremendo con pochissime perdite che sarebbero state irrisorie se gli ordini fossero stati eseguiti a   tempo, anche là dove ciò non è avvenuto.
In alto gli sguardi, la nostra ora non può tardare. Morte all'invasore tedesco! Morte ai traditori!
P.S.: Distruggete il presente appena data lettura nei distaccamenti.
Il COMANDANTE
Giorgio [Giorgio Olivero
Dal proclama di Giorgio possiamo vedere quale era lo stato d'animo del Comando e di parte della Bonfante superato il rastrellamento, quali erano le direttive immediate, quale il giudizio che dava il Comando sul rastrellamento.
Malgrado le recenti prove subite si vede che il dramma dei badogliani di Fontane era sempre assai vivo nel nostro cuore che non dimenticava il sacrificio di tanti fratelli di lotta.
Le direttive della  tattica invernale semicospirativa venivano ribadite e rafforzate nella loro necessità dalla recente esperienza.
Più importante è l'ultima parte del proclama: le nostre perdite erano state esigue ed avrebbero potuto essere minori: merito degli ordini dati e colpa degli errori fatti.
Più di due terzi delle perdite ci furono inflitte infatti nel primo giorno. Ciò è imputabile al mancato funzionamento delle sentinelle di Degna  [Frazione del comune di Casanova Lerrore (SV)], alla inerzia delle staffette del recapito e di ciò non è responsabile il Comando divisionale. E' imputabile al mancato pattugliamento della cresta che era stato ordinato alla III Brigata e di ciò è responsabile Fra' Diavolo [Giuseppe Garibaldi], che disse a sua discolpa che aveva gli uomini senza scarpe idonee. In realtà vedemmo come il 19 gennaio fossimo alla ricerca affannosa di una partita di scarpe.
La sorpresa è imputabile al tradimento di Carletto [n.d.r.: Amleto De Giorgi, un ex partigiano passato alle dipendenze della Feldgendarmerie di Albenga] che condusse le colonne nemiche alle spalle dei nostri, che segnalò l'intendenza di Ubaghetta, ciò il comando avrebbe potuto impedire sopprimendo Carletto senza indugio la sera del processo. E' però da tener presente che, anche in tale ipotesi, parte delle informazioni Carletto le aveva già date. Sarebbe stato bene cambiare posizioni alle intendenze: ed alle squadre e ciò non venne fatto. Se i partigiani avessero  adottato già in precedenza le misure precauzionali prese in seguito, avessero dormito nei rifugi o all'aperto, la sorpresa sarebbe mancata. La data precisa del rastrellamento era stata comunicata alle bande, bisogna però riconoscere che  erano mesi che la minaccia si rinnovava periodicamente.
Un buon servizio di guardia avrebbe potuto salvare le squadre? Forse, ma sarebbe stato necessario che le sentinelle fossero numerose e controllassero tutte le vie di accesso e poste in modo tale da avvistare il nemico a sufficiente  distanza, in modo da dare il tempo ai compagni di prepararsi a resistere o ad occultarsi. Ciò non era mai stato nelle abitudini partigiane ed era ancor più difficile ora con le squadre ad effettivi ridotti.
«Se pensassimo che ogni notte rischiamo la vita e che il nemico può ucciderci nel sonno non chiuderemmo occhio», mi disse un partigiano in quei giorni. L'abitudine al pericolo era un bene, perché altrimenti la nostra vita sarebbe diventata insostenibile; era però un danno perché ci portava a trascurare precauzioni essenziali. Era necessario arrivare ad un compromesso che fu raggiunto da qualche banda e solo in parte, tra queste fu il Garbagnati.
Se le squadre di Bosco e di Degolla avessero avuto la combattività del Garbagnati o del Catter avrebbero potuto sganciarsi? Forse a Degolla Franco con i suoi tentò un'estrema difesa. Il fatto però che due terzi degli effettivi venissero fucilati a Pieve di Teco fa supporre che dopo la morte di Franco la lotta disperata venisse abbandonata.
L'esempio della banda di Stalin [Franco Bianchi, comandante del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" della I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano"] ci fa pensare che una decisione estrema avrebbe permesso uno sfondamento, sicuramente avrebbe inflitto al nemico perdite gravi.
Bisogna però riconoscere che quei di Bosco e Degolla non disponevano del volume di fuoco del Garbagnati e vennero colti completamente di sorpresa, perché nessuno di loro sospettava un attacco alle spalle, ciò non accadde più alle altre bande.
Avrebbe potuto il nemico infliggerci perdite maggiori, annientarci?
Commise errori gravi e fatali alla buona riuscita dell'operazione?
Non credo. Se avesse prolungato il rastrellamento nel tempo, se avesse intensificato le puntate, adottato la tattica della controbanda certo la nostra situazione si sarebbe aggravata, ma tenendo conto che la sorpresa del primo giorno non poteva ormai più ripetersi, che la probabilità di incontrare i partigiani in transito sulle mulattiere era minima, credo di poter concludere che le nostre perdite non sarebbero state molto maggiori.
Avrebbe potuto crollare il nostro morale? Portarci allo sbandamento definitivo, alla resa? Non era la minaccia di un rastrellamento, sempre limitata nel tempo,    che avrebbe potuto piegarci.    
Ricordo una minaccia ben più grave che mi aveva fatto meditare in quei mesi. Ero a Pairola per Natale, quando era giunta la notizia della controffensiva tedesca sul fronte belga. Le notizie come al solito erano state ingrandite, si diceva cbe i tedeschi avessero sfondato e puntassero sul mare e su Parigi, che avanzassero anche sul nostro fronte ed avessero ripreso Nizza, che avessero impiegato nuove armi misteriose e decisive.
«Che farai figlio? - mi chiese mia madre portandomi queste belle notizie - se i tedeschi vinceranno ci sarà sicuro qualche amnistia e tu potrai tornare a casa». Sentii un brivido interno. In tanti mesi non avevo mai considerato l'ipotesi di una vittoria tedesca.
«Vedremo - risposi - non è ancora detto che vincano. Una sola cosa posso dirti fin d'ora, se dovessero vincere a casa non ci torno mai più. Cercheremo di sconfinare in Francia, piomberemo su Oneglia e ci impadroniremo di qualche nave per andare in Corsica, ma la resa mia e dei miei compagni non l'avranno mai». Sentivo che se non proprio tutti, la maggioranza l'avrebbe pensata come me.
Il nostro morale malgrado tutto era ancora abbastanza saldo per non considerare la possibilità di una resa. Certo, senza il bando emesso nelle vallate, molti partigiani sarebbero tornati alla vita civile, si sarebbero confusi con i giovani che lavoravano nei paesi, ma finito il pericolo, forse dopo soli pochi giorni, sarebbero riaccorsi nelle bande. Il nemico ci aveva tolto anche questa possibilità contribuendo a mantenerci uniti, armati e vigilanti.
Il nemico fu sorpreso di non scontrarsi con uno schieramento difensivo, di non subire un contrattacco organizzato: i Cacciatori degli Appennini erano un corpo specializzato in rastrellamenti: era la prima volta, dicevano, che i  partigiani non reagivano. Un nostro contrattacco fu temuto a lungo, ciò impedì al nemico di aumentare il numero dei presidi a scapito della loro forza numerica, di operare in colonne più numerose, ma meno forti, di disperdere sentinelle e pattuglie a tutti gli incroci, sui passi, nei passaggi obbligati, occultandole e tendendoci agguati.
Il nemico comprese che i colpi che ci aveva inflitto avevano eliminato due o al massimo tre squadre e che tutte le altre nostre bande erano intatte ed inafferrabili. Non comprese la nostra tragica debolezza, la mancanza di capi, di armi e di collegamenti.
Certo che se avessimo usato di tutte le nostre forze, se tutte le bande, le squadre ed i partigiani isolati avessero sempre agito con freddezza e coraggio come i quattro di Cappella Soprana ed avessimo attaccato il nemico ad ogni occasione, avremmmo potuto infliggergli duri colpi se avesse commesso l'imprudenza di lasciare nuclei esigui ed isolati. Ciò lo indusse alla prudenza e contribuì alla nostra salvezza.
Il nemico volle attaccarci contemporaneamente alla Cascione per impedire uno spostamento, un appoggio reciproco che in pratica non sarebbero stati possibili, ciò ridusse gli effettivi impiegati.
Questo il giudizio che è possibile dare del rastrellamento di gennaio, atteso da molti mesi come il colpo di grazia della Bonfante.   
In conclusione le nostre possibilità di resistenza avevano superato le previsioni.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980,  pp. 163-167 

 

14 febbraio 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava un rastrellamento avvenuto nella zona del I° Distaccamento con i nemici che arrivavano da tre direzioni, da Via Colletto di Pairola, da Diano Castello e da Chiusavecchia e che, individuato il nascondiglio i nemici, avevano prelevato 5 garibaldini in seguito fucilati a Chiusavecchia: Raspin, Luis, Stendhal, Joe ed un certo Villa.

14 febbraio 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Relazione sull'attività svolta a gennaio dai Distaccamenti dipendenti dalla Brigata, nella quale si riferiva che il 9 gennaio 1945 una squadra sulla strada 28 nei pressi di Pontedassio aveva attaccato una pattuglia tedesca, uccidendo 3 soldati e ferendone 2; che il 20 una squadra al comando di 'Gordon' [Germano Belgrano] aveva assalito una pattuglia tedesca uccidendo un soldato; che, ancora il giorno 20, il Distaccamento "Giovanni Garbagnati" aveva ferito 2 tedeschi facendo scoppiare delle mine.

14 febbraio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 116, al comando della I^ Brigata - Convocazione del comandante "Mancen" [Massimo Gismondi] e del commissario "Federico" [Federico Sibilla] per concertare l'impiego di alcuni Distaccamenti.

14 febbraio 1945 - Dal comando della I^ Zona Operativa Liguria al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Informava che presto avrebbe potuto avere luogo un lancio di materiale nella zona indicata da quel comando di Divisione, ma aggiungeva che occorrevano dati più precisi sulla natura del terreno, sulla distanza dai presidi militari più vicini e dalle abitazioni. Concludeva invitando a comunicare la lista del materiale ricevuto, per il quale aggiungeva la raccomandazione di un trasferimento in luogo sicuro.

15 febbraio 1945 - Dal comando della I^ brigata al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Riferiva dell'attacco subito il 9 gennaio 1945 dal Distaccamento "Giovanni Garbagnati" a Casanova Lerrone (SV) ad opera di reparti della Divisione repubblichina "Monterosa" e di quello del 27 gennaio, effettuato da reparti sia della "Monterosa" che della "Muti", che aveva causato la morte dei partigiani Mario Longhi (Brescia) e Silvio Paloni (Romano).

15 febbraio 1945 - Dal comando del Distaccamento "Silvio Torcello" della III^ Brigata Garibaldi "Libero Briganti" della I^ Divisione "Gin Bevilacqua" [II^ Zona Operativa Liguria] al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che 6 ex appartenenti alla Brigata scrivente, fuggiti a dicembre dopo il rastrellamento nemico, razziavano, continuando ad autodefinirsi garibaldini, civili, per cui, siccome "da ottime segnalazioni" risultava che i 6 si aggirassero nella zona della Bonfante, si chiedeva di arrestare quei sei, "Maciste", "Salvatore", "Cancarin", "Morello", "Brindisi", "Pianta", e di trasferirli nelle mani della Briganti.

15 febbraio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", Sezione SIM, a "Citrato" [Angelo Ghiron] - Comunicava che era stato nominato vice responsabile del servizio SIM e che in tale veste avrebbe dovuto "carpire notizie" sulle truppe tedesche dei vari presidii ed in transito sulla Via Aurelia, con particolari indagini sul semaforo di Capo Mele e sui posti di ascolto di Albenga (SV), Alassio Capo Mele e Capo Berta, nonché scoprire se il fiume Centa [ad Albenga] era nel suo ultimo tratto minato.

15 febbraio 1945 - Dal comando della I^ brigata "Silvano Belgrano" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Avvertiva che la famiglia di "Elettrico" aveva comunicato che l'abitazione era stata perquisita dai fascisti, che avevano asportato anche delle fotografie del partigiano.

15 febbraio 1945 - Dal comando della I^ Zona Operativa Liguria al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Trasmetteva i ringraziamenti del "Capitano Roberta" [Robert Bentley, ufficiale alleato di collegamento] per la prontezza con cui il comando della Divisione aveva realizzato il collegamento con il colonnello Stevens ed il suo impegno a fare prendere in considerazione l'ipotesi di bombardare Ormea (CN), "in cui si trovano importanti obiettivi militari" e ribadiva la necessità di fare propaganda tra i soldati repubblichini per indurne il più alto numero possibile a passare con le armi nelle fila della resistenza. 

da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

sabato 20 aprile 2024

La salma di Ivanoe Amoretti è oggi custodita nel sacello 103 del Mausoleo delle Fosse Ardeatine insieme a quelle delle altre vittime dell’eccidio

Ivanoe Amoretti. Fonte: Mausoleo Fosse Ardeatine

Ivanoe Amoretti nacque a Imperia il 12 novembre del 1920 da Augusto e Antonietta Delbecchi. Rimasto orfano di padre dall’età di quattro anni, fin da giovanissimo fu attivo membro del circolo Giac «Giosuè Borsi» di Imperia Oneglia. I compagni di associazione, in una testimonianza scritta dopo la sua morte, lo descrissero come uno dei soci più impegnati: «L’associazione Borsi di Oneglia lo ebbe tra i suoi più assidui Aspiranti. In seguito passato alla Sezione Effettivi fece parte del Gruppo Studenti di cui fu uno dei più zelanti ed assidui. Si dimostrò sempre di carattere buono e serio, aperto ed affettuoso con gli amici, i quali ne serba[ro]no gelosamente un perenne ricordo. Ebbe incarichi direttivi nell’Associazione dove temprò l’anima ed il cuore».
Dopo gli studi elementari e medi presso la città natale, si iscrisse al liceo scientifico di Genova e, ottenuto il diploma, alla Facoltà di ingegneria dell’università del capoluogo ligure. Ben presto, però, temendo che la madre non potesse sostenere la spesa per continuare i suoi studi, decise di fare domanda per essere ammesso all’accademia militare di Artiglieria e Genio di Torino. Passate brillantemente le selezioni, dopo il periodo di formazione ottenne il grado di sottotenente in servizio permanente effettivo e si vide assegnato alla 6ª divisione fanteria Isonzo con la quale partecipò alle operazioni belliche della Seconda guerra mondiale.
Nel corso del 1941 venne dapprima spedito con il suo reparto in Grecia, successivamente trasferito in Croazia per il presidio delle postazioni italiane più avanzate. Fu in questa nuova destinazione che venne raggiunto dalla notizia della firma dell’armistizio di Cassibile che, pur ponendo fine alle ostilità con gli angloamericani, lasciava drammaticamente aperto il nodo circa i rapporti da tenere con l’ex alleato germanico. In particolar modo, vista l’ambiguità degli ordini provenienti dal governo Badoglio e l’incertezza dei comandi militari sull’opportunità di resistere all’inevitabile offensiva tedesca, i reparti cominciarono a sbandarsi e diversi suoi commilitoni decisero di lasciare il loro posto per trovare una via di fuga e non rischiare la deportazione in Germania. Già il 9 settembre, infatti, la Wermacht attaccò le guarnigioni italiane presenti in Croazia e, dopo aver preso parte ai primi combattimenti ed essere stato ferito lievemente a una gamba, A. non poté che fare ritorno in patria unendosi ad altri ufficiali che avevano trovato il modo di recarsi a Roma.
Giunto nella capitale, prese immediati contatti con il movimento resistenziale che andava costituendosi. Dopo diversi colloqui con alcuni responsabili delle bande partigiane operanti nel territorio romano, decise di inserirsi tra le fila dell’organizzazione clandestina Travertino che era raccolta attorno alla figura di don Desiderio Nobels, carismatico parroco della chiesa di San Giuseppe nell’omonimo quartiere. Viste le sue capacità militari affinate durante il periodo di formazione e di servizio presso l’esercito, ad A. venne assegnato il compito di addestrare diversi nuclei di giovani volontari che si dicevano disponibili ad entrare tra le file dei partigiani, in particolar modo nei periodi successivi all’emanazione dei bandi di reclutamento fortemente voluti da Graziani. A questo, peraltro, aggiunse una delicatissima opera di informazione e contatto con le forze angloamericane che risalivano la penisola verso la capitale. Fu lo stesso don Nobels che nel dopoguerra ebbe modo di testimoniare: «Della sua attività nessuno sapeva nulla. Le preziose carte militari dei dintorni di Roma, arrotolate in una canna su cui sospendeva le cravatte, non furono scoperte. Nulla trapelò sull’organizzazione di cui faceva parte. Nulla, né a casa, né a via Tasso dove fu sottoposto a interrogatorio, né a Regina Coeli dove attendeva la fine. […] Il tenace e generoso Amoretti portò il suo segreto con fedeltà nel cupo silenzio delle fosse Ardeatine e vi fu sepolto con lui».
Il 12 febbraio del 1944 ebbe l’incarico di accertare gli effetti di un bombardamento effettuato dagli Alleati alla Cecchignola e di fornire notizie precise al fine di rettificare il lancio delle bombe per ottenere un risultato di maggior rilievo. Probabilmente a causa di una delazione, mentre era occupato in questo compito venne raggiunto da un manipolo di militi tedeschi che lo bloccarono e lo posero in stato di arresto. Condotto nelle carceri di via Tasso, A. fu duramente interrogato, percosso e torturato per diversi giorni, allo scopo di indurlo a confessare i nominativi dei responsabili del movimento resistenziale capitolino e le informazioni che attraverso la sua attività aveva recapitato al nemico. Trincerato dietro un ostinato silenzio, i suoi aguzzini dovettero infine arrendersi all’impossibilità di estorcergli rivelazioni e decisero di condurlo al carcere di Regina Coeli.
Il 23 marzo del 1944, a seguito di un’azione condotta da un Gap della capitale in via Rasella, in cui trovarono la morte trentatré militi della forza d’occupazione tedesca appartenenti alla XI Compagnia del III Battaglione Polizeiregiment Bozen, P. fu tra i 330, poi divenuti 335, nomi che vennero designati per la rappresaglia decisa dal comando nazista che scelse di condannare a morte dieci italiani per ogni tedesco morto nell’operazione gappista. Il giovane, dopo essere stato prelevato dalla sua cella, venne dunque condotto alle Fosse Ardeatine e trucidato insieme agli altri prigionieri designati. La salma di A. è oggi custodita nel sacello 103 del Mausoleo delle Fosse Ardeatine insieme a quelle delle altre vittime dell’eccidio.
Nel 1995 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli conferì la medaglia di bronzo al valor militare alla memoria con la qualifica di tenente in servizio permanente effettivo e la seguente motivazione: «Subito dopo l’8 settembre 1943, rientrato dalla Croazia, prese parte ad alcune operazioni nelle montagne di Imperia. Recatosi a Roma nel novembre del 1943, entrò nell’associazione clandestina “Traversito” [sic]; fra l’altro ebbe l’incarico di fare sopralluoghi per il servizio segreto di informazioni alle dipendenze della 5a armata americana. Durante una difficile missione, 12 febbraio 1944, venne arrestato dalle SS tedesche; incarcerato e seviziato non tradì mai la causa. Fu barbaramente trucidato il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine».
Redazione, Ivanoe Amoretti, Biografie Resistenti

Ivanoe Amoretti nacque ad Imperia il dodici Novembre del 1920, figlio di Augusto ed Antonietta Delbecchi.
Entrato nell’esercito combatté durante la seconda guerra mondiale soprattutto nei Balcani: l’armistizio di Cassibile, l’otto Settembre del 1943, che segnò il termine delle ostilità tra italiani ed anglo-americani lo colse con il suo battaglione in Croazia, allora stato fantoccio guidato dal premier fascista Ante Pavelic. Riuscì fortunosamente a rientrare in Patria dove si unì alla pari di altri ufficiali e sottufficiali dell’armata italiana allo sbando ai partigiani.
Condusse la guerra di liberazione nel Lazio alle porte di Roma ed all’interno della città stessa. Fu inquadrato nella banda partigiana dell’Arco di Travertino, periferia sud- orientale di Roma, nata attorno alla figura del parroco belga della chiesa di San Giuseppe nell’omonimo quartiere, monsignor Desiderio Nobels. L’intento della banda, organizzata su volere degli anglo-americani, era quello di fornire il maggior numero di informazioni ai nuovi alleati proprio nel momento in cui essi stavano compiendo il maggior sforzo per liberare la capitale dall’oppressione nazi-fascista.
Amoretti fu un elemento molto prezioso di quella banda ma forse un tradimento da parte di una spia germanica ne decretò l’arresto. Candidato ad essere condannato a morte, Amoretti fu condotto nella tristemente nota pensione “Oltremare” di Via Principe Amedeo all’Esquilino e qui orrendamente torturato dagli sgherri della Gestapo. Fu tra i primi ad essere inserito, da Kappler, nell’elenco dei trucidandi alle Fosse Ardeatine.
Nel 1995 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli conferì la medaglia di bronzo al valor militare alla memoria.  
Redazione, Ivanoe Amoretti, Infinita memoria 

venerdì 22 marzo 2024

Il Professore, traditore dei partigiani della Divisione Cascione

Upega, Frazione di Briga Alta (CN). Foto: Mauro Marchiani

Mario [Carlo De Lucis] era commissario della I Brigata, ma lo rimase ancora per poco: ai primi di novembre [1944] vennero formati i nuovi quadri. I resti del comando della Cascione stavano affluendo a Fontane [Frazione del comune di Frabosa Soprana in provincia di Cuneo] cercando penosamente di ricostruire servizi, uffici, organizzazione, ma ormai dopo il colpo di Upega era impossibile tornare ad essere quelli di una volta. Oltre al materiale perduto mancavano gli uomini e la volontà. Curto [Nino Siccardi: in quel periodo comandante della Divisione "Felice Cascione"], arrivato dalla Liguria, provvide alle nuove nomine. Il posto di commissario della Cascione, dopo la morte di Giulio, passava a Mario. Vicecommissario diventa Miliani, già capo dell'Ufficio Agitazione e Propaganda della I Brigata. Cion [Silvio Bonfante], vicecomandante della Cascione, viene sostituito da Giorgio [Giorgio Olivero]. La Divisione ha quindi Curto e Giorgio, Mario e Miliani. Comandante della I Brigata diventa Mancen [Massimo Gismondi], già vicecomandante, la carica vacante passa a Pantera [Luigi Massabò], già capo di Stato Maggiore, il cui posto verrà ricoperto da Pablo, già mio superiore nell'Ufficio Operativo che viene soppresso. Commissario della I diventa Osvaldo [Osvaldo Contestabile] che lascia la V Brigata. Vicecommissario sarà Socrate [Francesco Agnese] che in ottobre, quando era commissario del distaccamento "Rainis", aveva effettuato un brillante colpo di mano sulle caserme di Diano Marina. II posto rimase vacante perché Socrate doveva essere in Val Pennavaira col suo distaccamento e purtroppo le nostre speranze erano infondate: Socrate era morto ad Upega.
[...] Notevole importanza poteva invece avere la soppressione del tribunale divisionale essendo venuto a mancare il suo capo: Prof. [Giuseppe Della Valle]. Prof. era uno strano individuo: professore di lingue orientali era stato liberato dalle carceri di Oneglia assieme ad ottanta altri detenuti politici. Perché era in carcere allora? Credo che nessuno avesse mai indagato seriamente. Si diceva per traffico di sterline o perché fosse ebreo, poi fu detto che fosse stato confidente della polizia con l'incarico di ottenere le confidenze dei detenuti. Da allora era rimasto sempre con noi ché, per la sua età avanzata, non gli avevamo affidato incarichi di combattente. Della sua opera di giudice nessuno aveva mai avuto a lamentarsi. Ricordo poco Prof.: non era figura di primo piano. Mi sono rimasti impressi solo due episodi in cui ebbi modo di rendermi conto che era intelligente ed abile. A Piaggia fui presente ad una discussione tra lui ed il maggiore Elio. Mentre quest'ultimo sosteneva che in teoria non meritassero la morte coloro che, iscritti al partito Fascista Repubblicano, non appoggiavano materialmente la Repubblica, Prof. sosteneva che l'appoggio morale, concretato nell'iscrizione, era a suo parere sufficiente, poiché l'iscritto si rendeva complice e corresponsabile, dava esplicitamente la sua approvazione a quanto si faceva contro di noi, diventava: «Un anello della catena che ci soffoca».
L'altro episodio era l'obiezione fatta a Boris [Gustavo Berio] dopo una conferenza di quest'ultimo sul Comunismo, tenuta una sera a Piaggia al Comando della Cascione. Boris aveva sostenuto che nei Paesi capitalistici non vi è vera libertà di stampa perché pubblicare un giornale costa cifre enormi che solo i capitalisti possono spendere. I giornali operai vengono sistematicamente eliminati dalla concorrenza non avendo fondi per i servizi speciali eccetera.
«Sei giovane e certe cose non le puoi ricordare, - gli disse Prof. - ma noi non possiamo dimenticare quello che hanno saputo fare con i loro pochi mezzi i giornali socialisti prima del 1922».
Ricordo un caso di giustizia partigiana che era presentato in quei giorni, ma non ricordo la parte che vi ebbe Prof.
A Fontane i borghesi avevano riconosciuto in un garibaldino un ex rastrellatore di Val Casotto. Il caso era grave. Indubbiamente molti militari repubblicani erano venuti con noi tra maggio e settembre e nessuno aveva mai indagato sul loro passato: se c'era qualche macchia la vita sui monti l'avrebbe riscattata. Il movimento partigiano era un po' come una legione straniera, ognuno era giudicato per il suo presente. Questa però non era né una consuetudine né tanto meno una legge, era solo una conseguenza della mancanza di accuse dirette, ora all'accusa si aggiungeva la confessione: il partigiano aveva ammesso che nel marzo 1944 era salito in Val Corsaglia con i repubblicani a rastrellare. Era stato costretto a farlo, ma ciò a noi importava poco, i fatti commessi comportavano la pena di morte. Vennero interrogati i suoi superiori: «E' un buon ragazzo - risposero -,  è in banda da molti mesi ed ha fatto sempre il suo dovere».
Il comando restò incerto, poi decise di trasferire l'accusato in altra banda: era bene sottrarlo all'ambiente dove ormai si era fatto degli amici e far sì che i civili, che lo conoscevano, non lo vedessero più, avessero l'impressione della sua eliminazione. Il nuovo capobanda fu avvenito del passato del suo nuovo combattente [...]
Era Prof. la famosa spia che per mesi era stata l'incubo della Cascione? Ritenemmo di sì, ma solo il futuro ci avrebbe dato conferma. Se avessimo colpito giusto, il nemico avrebbe mancato d'ora innanzi di informazioni precise ed il comando non sarebbe stato attaccato con tanta sicurezza come a Villa Talla e ad Upega. Prof. per il suo incarico aveva una grande libertà di movimento e la possibilità di avere notizie esatte e precise; rimase però un mistero come potesse avvertire tempestivamente il nemico, poiché il metodo postale scoperto dall'accusa era puerile ed inefficace perché il servizio postale era da mesi inesistente in tutti i paesi dell'entroterra. Se era realmente colpevole doveva pertanto avere dei complici volontari od inconsci cd era nostro interesse scoprirli. Deplorai pertanto che fosse stato soppresso senza un regolare interrogatorio in modo da poter andare più a fondo in tutto il problema. (*)
Soppresso Prof., formati i nuovi quadri, prendemmo contatti ed accordi con le formazioni badogliane che avevano stabilito posti di blocco su tutte le carrozzabili che portavano nella nostra zona.
Notammo subito una diversità di stile fra i nostri capi ed i loro. Forse anche i badogliani usavano pseudonimi, in tal caso però erano meno strani e coloriti dei nostri. Al nome nelle lettere e nelle presentazioni usavano premettere il grado: tenente, capitano, maggiore invece che l'incarico: commissario, comandante, vicecomandante. Immediatamente Mancen, Pantera, Giorgio fecero uso dei gradi creati a Piaggia diventando maggiori e colonnelli.
(*) Dal 3° volume della «Storia della Resistenza Imperiese» [Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con patrocinio Isrecim, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977] apprendo che il sottotenente Otto Trostel delle SS, passato ai partigiani il 24 ottobre, ci informò che Prof. era in contatto con i tedeschi. La moglie, arrestata a Carpasio dalla IV Brigata, prima di essere fucilata, inviò a Prof. una staffetta con una lettera dove aveva scritto: «Stai attento, la Questura ti cerca».
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 19-22

venerdì 9 febbraio 2024

Solo un piccolo gruppo di partigiani riesce ad agganciare il nemico che fugge perdendo materiale ed equipaggiamento

Cervo (IM)

Il 17 aprile 1945 il «Garbagnati» [n.d.r.: Distaccamento "Giovanni Garbagnati" della I^ Brigata "Silvano Belgrano", VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] distrugge il ponte di Degna [Frazione di Casanova Lerrone (SV)] e la sera stessa il nemico sgombra Vellego e Garlenda: con un colpo solo la Val Lerrone è liberata dalle pattuglie e dalle minacce nemiche: non più l'incubo dei ciclisti tedeschi, non più lo stradone superato d'un balzo. Il 18 giunge con una staffetta Fernandel [n.d.r.: Mario Gennari, comandante della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo", VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] a visitare Tèstico: «Verrò con i miei a difendere il paese» dice ai contadini che gli chiedono armi, poi va a S. Damiano alla ricerca del Comando divisionale che da qualche giorno ha lasciato Poggiobottaro. A S. Damiano ci sono le bande di Stalin [Franco Bianchi, comandante del Distaccamento "Giovanni Garbagnati"] e Marco: le mitraglie sono puntate verso Alassio, i partigiani si lavano al sole. Sullo stradone, altri preparano il rancio, ovunque un'aria di festa, di sicurezza. «Vai ad occupare Tèstico? Auguri ... noi non siamo stati così scemi», dicono a Fernandel quelli di Stalin. Fernandel è meravigliato, ma non si impressiona: «Ho visto la zona ed ho fatto i miei piani: il Catter [n.d.r.: Distaccamento "Giuseppe Catter" della III^ Brigata] può tenere il paese».
Con Fernandel tutta la III^ Brigata si sposterà a sud a presidiare la Val Lerrone. In Val d'Arroscia e ad Alto resterà la II [n.d.r.: II^ Brigata "Nino Berio", comandante "Gino", Giovanni Fossati], in Val Tanaro la IV [comandante "Fra Diavolo", Giuseppe Garibaldi]. Così all'ingrosso lo schieramento da elaborare nei particolari.
Non possiamo contare egualmente su tutte le bande e ci vorrà ancora un po' di tempo perché i nuovi Comandi della II e della III non hanno ancora in mano la situazione e parecchi capibanda sono restii ad obbedire. Comunque l'atmosfera si fa febbrile, una colonna tedesca che punta su Garlenda provoca la reazione di parecchie bande, ma solo un piccolo gruppo di partigiani riesce ad agganciare il nemico che fugge perdendo materiale ed equipaggiamento.
Il presidio fascista di Molino Nuovo viene attaccato dalla I Brigata e riporta perdite sanguinose, due disertori del presidio di S. Bernardo di Conio vengono catturati presso Ginestro [Frazione di Testico (SV)], percossi selvaggiamente dalle donne dei paesi che attraversano e finiti da quelli di Stalin.
Al Comando divisionale, che ha ormai sede ufficiale a S. Gregorio, l'attività si fa intensa. Arriva il Curto [n.d.r.: Nino Siccardi, comandante della I^ Zona Operativa Liguria] del Comando zona, arrivano la missione alleata con le radio trasmittenti, staffette, capibanda, ordini, notizie. Boris [n.d.r.: Gustavo Berio, vice commissario della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] parte in missione per la IV Brigata in Val Tanaro con notizie e disposizioni urgentissime, Pantera [n.d.r.: Luigi Massabò, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] va ad Alto dove si dice ci sia stato un piccolo lancio, ad organizzare la II Brigata.
Ha inizio così la terza decade di aprile: il Comando è di fronte ad eventi e problemi di enorme importanza perché la situazione militare precipita. Le azioni di sabotaggio e di imboscata si fanno sempre più audaci e fortunate, il nemico comincia anche lui a sentire la morsa del terrore: ormai la fine è imminente, chi viene catturato o diserta è soppresso senza pietà: i trenta morti di Ginestro e gli otto di Cervo hanno ridato alla guerriglia il suo carattere di durezza spietata.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 241-242

18 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 302, al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava che il giorno prima una squadra comandata dal capo squadra "Mancinotto" [Giuseppe Gismondi] e da "Cis" [Giorgio Alpron, capo di Stato Maggiore della I^ Brigata "Silvano Belgrano"] aveva fatto nuovamente brillare il ponte tra Degna e Vellego [Frazioni di Casanova Lerrone (SV)].
18 aprile 1945 - Da "Giglio" alla Sezione SIM della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che lo scontro di Vellego aveva portato alla fucilazione di alcuni civili da parte del nemico, che i tedeschi in zona detenevano molti ostaggi e che era necessaria un'azione di forza su Nava ed altri presidi nemici.
18 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 300, al comando del Distaccamento "Filippo Airaldi" del Battaglione "Ugo Calderoni" della II^ Brigata "Nino Berio" - Comunicava come punizioni che il capo squadra "Cimitero" [Bruno Schivo] doveva rimanere disarmato per 15 giorni presso il comando di Brigata e che il garibaldino "Riva" doveva eseguire 19 giorni di corvèe presso il Distaccamento "Giuseppe Catter" della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" e che erano invece mandati assolti i partigiani "Berto", "Grosseto" [Italo Chegia], "Prem-Prem", "Ercole" [Demo Trillocco], "Vessalico" [Vittorio Doglio].
18 aprile 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" [comandante "Mancen", Massimo Gismondi] al comando del Distaccamento "Francesco Agnese" [comandante "Buffalo Bill"/"Bill"/"Pippo", Giuseppe Saguato] ed al comando del Distaccamento "Angiolino Viani" [comandante "Russo", Tarquinio Garattini] - Disponeva che i garibaldini "Osanna" e "Bascherini" venissero assunti in forza al Distaccamento "Francesco Agnese" e che i garibaldini "Cimitero" [Bruno Schivo] e "Riva" dovevano passare, armati solo in caso di allarme, al Distaccamento "Angiolino Viani".
18 aprile 1945 - Da "Giglio" alla Sezione ["Livio", Ugo Vitali responsabile, "Citrato", Angelo Ghiron, vice responsabile] S.I.M. [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che ad Acquetico [Frazione di Pieve di Teco (IM)] alcuni partigiani avevano "avvisato la popolazione di un imminente attacco di patrioti al paese"; che lo scontro di Vellego [Frazione di Casanova Lerrone (SV)] aveva portato alla fucilazione di alcuni civili; che risultava "pericoloso attaccare frontalmente" i tedeschi perché dimoravano nelle case private trattenendo presso di loro non solo le loro squadre di lavoratori [coatti] ma anche "il consueto numero di ostaggi"; che sarebbe sata necessaria un'azione di forza partigiana su Nava e su tutti gli altri presidi nemici.
18 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava l'elenco del materiale ricevuto con il lancio alleato su Caprauna nel quale, tra l'altro, risultavano 9 cariche di plastico, 6 bombe incendiarie, 15 granate, 11 matite esplosive.
18 aprile 1945 - Dal Comando Operativo della I^ Zona Liguria al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Invito a mandare sollecitamente il materiale del lancio in pari data al "capitano Roberta" [Robert Bentley] e ordine di mettere a disposizione di "R.C.B." [sempre il capitano Robert Bentley del SOE britannico, incaricato della missione alleata presso i partigiani della I^ Zona Operativa Liguria] i paracadute in seta.
19 aprile 1945 - Dal Comando [comandante Curto, Nino Siccardi] della I^ Zona Operativa Liguria al comando della VI^ Divisione d'assalto Garibaldi "Silvio Bonfante" - Segnalava che aveva stabilito di inviare presso le formazioni 'Mauri'  un ufficiale di collegamento, pensando di conferire tale incarico a Giovanni 'Gino' Fossati, comandante della II^ Brigata "Nino Berio", da sostituire nel precedente incarico con Giacomo 'Basco' Ardissone o "altro elemento capace".
19 aprile 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che una pattuglia del Distaccamento "Francesco Agnese" aveva sorpreso nei pressi di Oneglia un tedesco armato di pistola, ucciso mentre tentava la fuga.
19 aprile 1945 - Dal comando della II^ Brigata "Nino Berio" al SIM della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che due ufficiali tedeschi di stanza a Garessio desideravano parlare con una competente persona per fornire i piani militari di cui erano a disposizione e, pertanto, si rimaneva in attesa di istruzioni.
19 aprile 1945 - Dal comando della II^ Brigata "Nino Berio" al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che una squadra del Distaccamento "Filippo Airaldi" aveva attaccato il 17 aprile sulla Statale 28 un carro di tedeschi per cui si supponeva l'esito di 18 morti e 3 feriti e che il 18 una squadra dello stesso Distaccamento aveva catturato a Vendone 4 tedeschi tra cui un sergente.
19 aprile 1945 - Dal comando del Distaccamento "Igino Rainis" al comando della II^ Brigata "Nino Berio" - Riferiva che sulla Statale 28 nei pressi di Calderara [Frazione di Pieve di Teco (IM)] una squadra di 4 uomini aveva attaccato un carro tedesco uccidendo 2 soldati e ferendone un altro e che, mentre tentavano di recuperare il materiale, quei partigiani erano stati "disturbati da altri 30 tedeschi, riuscendo, tuttavia a sganciarsi".
19 aprile 1945 - Dal comando del Distaccamento "Elio Castellari" al comando della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" - Segnalava che il 16 aprile, verso le ore 18, un gruppo di garibaldini aveva attaccato 4 carri tedeschi provenienti, carichi di materiale, da Garlenda (SV): risultavano 4 feriti gravi tra le fila nemiche.
19 aprile 1945 - Dal comando della IV^ Brigata "Val Tanaro" al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che in Val Tanaro si erano formati altri 2 Distaccamenti, il primo con elementi di Garessio per un totale di 25 uomini solo in parte armati, il secondo formato da 30 uomini di Ormea; che sarebbero stati necessari 2 mitragliatori, 2 o 3 Sten, plastico e bombe a mano. Chiedeva, poi, di dare il nome definitivo alla Brigata.
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

venerdì 24 dicembre 2021

L'alta Val Tanaro non deve essere un elemento di discordia tra partigiani

Uno scorcio di Val Casotto - Fonte: Mapio.net
 
Nella provincia di Cuneo, tra la fine del '43 e l'inizio del '44, le bande più organizzate sono quelle guidate da Ignazio Vian, l'eroe di Boves, Piero Cosa e Franco Ravinale, ufficiali dell'ex esercito. Questi, che occupano le valli Casotto, Corsaglia, Mongia, Tanaro, Ellero e Pesio, a partire dal febbraio decidono di affidare al maggiore “Mauri”, che dal dicembre guida una banda nella val Maudagna, il comando dell'area alpina. <209
[...] Per tutto il mese di gennaio, le vallate alpine vengono colpite dai tedeschi, che adottano un nuovo tipo di rastrellamento, basato sullo scontro frontale e sull’accerchiamento. Le postazioni partigiane vengono assalite, tanto da disperdere i partigiani e metterli in fuga, come documenta “Mauri” nel suo diario dopo il rastrellamento in val Maudagna, il 14 gennaio: <217
"Siamo rimasti in trentacinque. Saliamo sull'alto, al rifugio di Prel, sopra Frabosa. Ma rimanere lassù non è possibile; è un posto ideale per villeggiare, ma non va bene per fare il partigiano. Troppo lontano dalle strade". <218
Dopo il rastrellamento, “Mauri” con i pochi uomini rimasti è costretto a spostarsi in Val Casotto, e a unirsi ai gruppi lì presenti.
[...] Come “Mauri” stesso scrive nella relazione sui fatti d'arme di val Casotto, in pochissimi giorni giungono al comando «circa un migliaio di uomini che non costituivano che un peso»: <221 l'impossibilità di armarli e la previsione di un'imminente rastrellamento tedesco nella zona aggravano in questo modo una situazione già precaria. Simile circostanza si verifica presso altri comandi partigiani, come ad esempio in quelli GL posizionati in valle Stura. <222
[NOTE]
209 G. Perona (a cura di), Formazioni autonome, cit., p. 319
217 Per i rastrellamenti di gennaio '44 vedi M. Giovana, La Resistenza in Piemonte, cit., p. 53, in particolare nota 26; D. L. Bianco, La guerra partigiana, cit., pp. 37-41; e 25 aprile. La Resistenza in Piemonte, ANPI Torino, Orma, 1946
218 E. Martini, Con la libertà e per la libertà, cit., p. 32
221 “Relazione sui fatti d'arme dal 13 al 17 marzo nelle valli Casotto, Mongia e Tanaro”, Dalle Langhe, 9 aprile 1944 - I° della Liberazione, in G. Perona (a cura di), Formazioni autonome, cit., doc. 2, p. 340
222 M. Giovana, “Popolazioni alpine nella guerra partigiana del Cuneese”, cit., p. 89

Giampaolo De Luca, Partigiani delle Langhe. Culture di banda e rapporti tra formazioni nella VI zona operativa piemontese, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013 
 
La “concorrenza partigiana” era invece determinata dalle voci, veridiche ma gonfiatesi a dismisura passando di bocca in bocca, dell’esistenza di un solido nucleo di resistenza militare attestato in Val Casotto, non lontano da Mondovì. Non furono pochi i savonesi che, fino al marzo del ’44, accorsero lassù lasciando i pochi ribelli della provincia ligure, tanto più che si vociferava di migliaia di militari italiani del Regio Esercito con armi pesanti e regolari rifornimenti aerei, comandati da ufficiali alleati. La realtà era meno rosea, e più d’uno ne fece le spese, come i vadesi fratelli Valvassura, Domenico, fucilato a Mellea di Fossano il 29 dicembre 1943, ed Enrico, ucciso a Ceva il 27 marzo 1944 <61.
61 cfr. G. Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Farigliano (CN), Milanostampa, 1965-69, vol. I, p. 84. Vedi ad esempio la testimonianza di Mario Savoini “Benzolo” in id., Cosa è rimasto. Memorie di un ribelle, Savona, Editrice Liguria, 1997, pp. 39-66
Stefano d’Adamo, "Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45)", Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000  

I tedeschi avevano nel frattempo posto un loro importante quartiere generale nell'Albergo Miramonti di Garessio (CN).
Da questo centro i nazisti organizzarono un forte rastrellamento contro le bande badogliane di Val Casotto, nelle quali militava anche un noto attore, Folco Lulli.
I nazisti furono, tuttavia, attaccati proprio nell'Albergo dai "ribelli", badogliani, ma non solo da questi. L'11 marzo 1944 nello scontro nella zona di Nava, nel comune di Pornassio (IM), perirono altri due patrioti imperiesi, Olivio Livio Fiorenza e Giovanni Ramò. Al fatto d'armi parteciparono partigiani autonomi di Martinengo [anche Capitano Martinengo, Eraldo Hanau] e gruppi di resistenti del posto non ancora collegati con le organizzazioni antifasciste
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999
 
Napolitano Luigi "Gino", nato a Sanremo il 1.1.1924. Nel 1943 è militare nel Regio Esercito in Istria. Dall'8 Settembre al 15 Dicembre 1943 è nella Resistenza istriana. Dalle formazioni autonome di "Mauri" a marzo 1944 passò definitivamente alle formazioni Garibaldi dell'estremo ponente ligure. Per le sue doti di coraggio e spirito combattivo veniva subito nominato comandante di un Distaccamento che, per l'aumentato numero di volontari, divenne poi Battaglione. Come risulta da un rapporto, era considerato dai nazi-fascisti "elemento assai pericoloso". Protagonista di un gran numero di battaglie tra le quali: Carpenosa, Giugno 1944; Badalucco, 29 giugno 1944; Ceriana, Agosto 1944; Carmo Langan, 8 ottobre 1944 e febbraio 1945; Baiardo, marzo 1945. Ferito in combattimento a Baiardo. A dicembre 1944 commissario del I° Battaglione "Mario Bini" della V^ Brigata. In seguito vice comandante della V^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Luigi Nuvoloni" [...]
Vittorio Detassis

[...] i tedeschi sono in agguato alla ricerca di arruolamenti di militari sbandati o fuggiti. Il compagno Pino mi ospita a casa sua. Non devo farmi vedere. I compagni cercano di farmi raggiungere i primi nuclei partigiani che si vanno formando. Vi è discussione tra i compagni, in quanto alcuni ritengono che dovrei lavorare per il P.[ artito ] in città. Insisto per andare in montagna. Prima tappa, accompagnato dal panettiere Floriardo, è Garessio, per raggiungere Valcasotto. Dopo Valcasotto, Valle d'Inferno, Trappa. Dopo uno sbandamento della formazione, raggiungo Alto e nuovamente la zona di San Remo. Il compagno Manetti Oreste mi accompagna a Molini dal farmacista, nel cui negozio ha sede di riferimento la formazione partigiana organizzata da Vittò. Gino Napolitano
(a cura di) Saverio Napolitano, Gino Napolitano, La semplicità della politica. Scritti autobiografici, lettere, immagini,  Arma di Taggia, 2012
 
Verda Francesco "Franco", nato a Pieve di Teco il 26.12.1924
Contadino, riceve la cartolina di precetto per partire militare il 5.8.43. Convalescente nell'ospedale di Pieve, non si presenta e viene considerato disertore.
Nascosto nella carbonaia dell'ospedale da una suora, sfugge all'arresto da parte dei tedeschi e, appena rimessosi in salute si rifugia con altri giovani ai casoni di Tetti Parodo, sulle alture della zona.
Da qui passa con altri a Viozene, dove c'è un gruppo di partigiani "badogliani", e poi in Val Pennavaira.
In seguito all'arresto del padre ed alla sua carcerazione nel penitenziario di Oneglia, si presenta al reparto T.O.D.T. di Albenga, e viene impiegato nella costruzione delle fortificazioni costiere.
Fuggirà definitivamente in montagna ai primi del 1944 in seguito a minacce di superiori che ne sospettavano le simpatie per i patrioti.
Dal 15 maggio al 10 ottobre 1944 farà parte delle formazioni autonome "Martinengo", nella Divisione "Mauri", brigata "Val Tanaro".
Passa quindi alle formazioni "Garibaldi" in Val Pennavaira, nella VI^ Divisione "Silvio Bonfante", II^ Brigata "Nino Berio" comandata da "Basco" Giacomo Ardissone.
Partigiano combattente, dal gennaio 1945 sarà Commissario e poi Comandante di una Squadra stanziata a Castelbianco, da dove controlla le attività antipartigiane di tedeschi e fascisti.
Partecipa costantemente alle attività militari nella sua zona operativa fino alla liberazione, quando scenderà con gli altri ad Albenga.
Vittorio Detassis
 
Levio Vitali, nato il 25 ottobre 1925 a Mezzani (Parma), nel 1942 si trasferì da Cologno Monzese alla Cascina Gaggiolo di Cernusco sul Naviglio [...] Chiamato alle armi in marina nell'estate del 1943, Levio Vitali non si presentò; si recava, invece, a Ospedaletti da un suo cugino che era lì impiegato presso la Todt, per farsi rilasciare una falsa tessera di servizio presso quell'organizzazione del lavoro. Ma il sotterfugio durò poco, perché era diventato troppo pericoloso per il cugino rinnovare la falsa tessera Todt. Così, un giorno, dopo l'8 settembre '43, Vitali non riusciva a scendere da un convoglio fermo alla stazione ferroviaria di Genova per la vigilanza di una pattuglia di militari fascisti. Un portabagagli notò i suoi tentativi: salito sulla carrozza si avvicinò al Vitali e gli chiese se era uno "sbandato"; alla sua risposta affermativa, egli gli chiese se voleva unirsi ai partigiani. Pronto a compiere quel passo, Vitali rispose di sì; allora il portabagagli, scansando la vigilanza della pattuglia fascista, lo fece scendere e lo nascose in un magazzino; giunta la notte lo portò fuori Genova, dai partigiani. Levio Vitali, salito in montagna, fu accolto da una famiglia contadina. Dopo un paio di settimane entrò in contatto con un gruppo di partigiani comunisti che operavano nell'alta Val Tanaro, in provincia di Cuneo. Il controllo di quella valle era molto importante, soprattutto per la linea ferroviaria che collega i porti di Imperia e Savona con Torino; compito prioritario dei partigiani era quello di ostacolare le comunicazioni con i sabotaggi. Tra Ormea e Bagnasco, la valle rimase per alcuni mesi sotto il controllo delle bande partigiane. Levio Vitali ricorda che in zona operò per qualche settimana, prima di organizzare la resistenza in Valsesia, anche Cino Moscatelli, che ebbe occasione di conoscere personalmente; infatti, di sera, Moscatelli teneva alle giovani reclute lezioni di politica: «Da lui ho appreso cos'era il comunismo», racconta il Vitali. Quando si seppe che i tedeschi sarebbero arrivati in forze per riprendere il controllo della Val Tanaro, Vitali e diciotto suoi compagni salirono nei pressi di una chiesetta: da lì, annidati in una grotta, puntarono sulla valle una mitragliatrice da 20 mm. Dopo diversi, cruenti scontri con i nazifascisti, la sua brigata si sciolse e Vitali, con alcuni compagni, camminando per tre notti e due giorni, si trasferì nelle alture più a ovest, in un'altra formazione garibaldina. Dopo circa un mese, quando egli e i suoi compagni ritornarono nella Val Tanaro, tutta la zona era ormai sotto il controllo delle formazioni autonome del maggiore Mauri, e così essi vennero inglobati nella 14ª brigata Val Mongia. Sul rapporto dei partigiani con la popolazione locale, Vitali dice: «Esso era di reciproco aiuto. Ad esempio, l'alimentazione di quei contadini era limitata alle castagne, al latte e al formaggio che forniva qualche capra o mucca. La fame, insomma, si faceva sentire, anche perché nelle zone dei "ribelli" non venivano mandate le tessere alimentari. Così i partigiani, che ricevevano alimenti dai contadini, contraccambiavano, appena potevano, con altri prodotti, quali lo zucchero e la pasta, presi con azioni di guerra». Vitali aveva 18 anni e in quell'anno di vita partigiana passata tra le valli del cuneese ha compiuto una ventina di azioni militari, di cui sette d'assalto. Ha visto la morte da vicino più d'una volta: in un attacco contro i fascisti della X Mas; nell'assalto a un mulino dove i tedeschi macinavano il frumento (azione pericolosissima, ma con la quale i partigiani riuscirono a impossessarsi di una notevole quantità di farina) e nell'assalto a una caserma di tedeschi. È su quest'ultima azione che egli particolarmente si sofferma:«Un mattino all'alba, saranno state le quattro, siamo andati ad attaccare i tedeschi. Tra tedeschi e fascisti, nella caserma c'erano circa 200 soldati; noi eravamo una quarantina. Circondata la caserma abbiamo aperto il fuoco; presi di sorpresa, i nemici hanno avuto molti morti. Abbiamo combattuto senza interruzione fino alle tredici. Noi abbiamo avuto sei morti, due dei quali erano stati fatti prigionieri; uno era gravemente ferito, morente; l'altro era molto giovane: i fascisti lo uccisero sotto i nostri occhi legandolo dietro un camion e trascinandolo per le vie. Fu straziante sentire le sue urla».
Giorgio Perego, Cernuschesi partigiani della montagna. Il nostro Antonio Benelli nelle pagine di Beppe Fenoglio, Comune di Cernusco sul Naviglio (MI), 2011
 
Nonostante le precauzioni dei comandi, si verificano episodi come quello di Bucciol Gino, della brigata Alta Val Tanaro, che spara per sbaglio a un proprio compagno ferendolo. Nelle dichiarazioni del Bucciol si parla di uno sbaglio, ma altre dichiarazioni e le circostanze del fatto fanno invece pensare a uno scherzo finito male.
In questi casi, la legislazione partigiana prevederebbe la pena di morte, ma la sentenza viene sospesa per richiesta di grazia al maggiore “Mauri” da parte dell'imputato. La grazia pare essere stata concessa, anche se “Mauri” in una lettera al comando della brigata val Tanaro precisa che la grazia sarebbe stata concessa solo se la II divisione Garibaldi, presso le cui file Bucciol aveva militato e compiuto «atti in corso di accertamento», avesse dato riscontro positivo. [...] “Mauri” esprime le sue preoccupazioni in una circolare del 15 giugno '44 scrivendo che con «l'afflusso di nuovi elementi é [sic] assolutamente indispensabile provvedere al loro immediato inquadramento per evitare quelle sensazioni di disordine» che danneggerebbero il movimento partigiano. Il maggiore vuole evitare che chi sale in montagna abbia «l'idea che al “ribelle” tutto sia lecito» e avverte che sarà «inesorabile contro chiunque» metta a repentaglio la vita dei suoi compagni. Persiste la paura infatti che tra i giovani saliti in montagna possano nascondersi spie o, più semplicemente, immaturi che «chiaccherano [sic] troppo», non rendendosi conto dell'insidia dell'ambiente in cui opera il partigiano. Inoltre, ragazzi giovani, per nulla smaliziati, potrebbero cascare in tranelli come quello orchestrato dalle brigate nere di Ceva, che utilizzano come spia la moglie di un comandante repubblicano facendola passare per «cugina del comandante Mauri».
Giampaolo De Luca, Op. cit.
 
Entra [Italo Calvino] a far parte di una formazione partigiana denominata Brigata Alpina, che è stanziata in località Beulla o si muove nei territori dei Comuni di Baiardo e di Ceriana. La formazione è comandata da Candido Bertassi detto "Capitano Umberto”. Calvino vi rimane finché non inizia il suo graduale sfaldamento. 
Francesco Biga, A 20 anni dalla morte del grande scrittore. Italo Calvino, il partigiano chiamato "Santiago", Patria Indipendente, 29 gennaio 2006 

Inoltre, la posizione del «Capitano Umberto» [Candido Bertassi] appare alquanto confusa con quell'aderire alla IX Brigata e, contemporaneamente, col volersi considerare autonomo. Tale aggettivo, infatti, figura sovente accanto alla denominazione della formazione «Brigata Alpina».
Questa posizione assumerà il massimo dell'anacronismo a proposito della battaglia sostenuta il 25 luglio 1944 nell'Alta Val Tanaro, quando, già costituitasi la II Divisione «F. Cascione», la I^ Brigata «Silvano Belgrano», sotto il comando del «Cion», sosterrà duri combattimenti contro i Tedeschi. In tale occasione, come più diffusamente vedremo, il «Capitano Umberto» emetterà, non si sa a quale titolo, un suo comunicato sugli scontri.
Infine, va considerato che nelle zone montane estreme della nostra provincia e di quelle limitrofe savonesi, confinanti con l'Alta Val Tanaro, sono presenti alternativamente formazioni della XIII Brigata Val Tanaro alle dipendenze di Eraldo Hanau (Capitano Martinengo), che effettuano varie azioni contro i presidi nazifascisti, soprattutto a Nava. Dette formazioni sono autonome e denominate «badogliane». Alcune bande, distanti dal loro comando centrale, passano a volte sotto l'influenza delle forze garibaldine a seconda della massiccia presenza, o meno, degli uomini di «Curto» nella loro zona.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992, pp. 46,47

[...] nel corso dell'estate del '44, nella fase di espansione del movimento, i comandi [garibaldini] di divisione tentano, laddove sia possibile, di occupare nuove aree. La linea di confine tra la Liguria e il Piemonte sembra essere la sede predestinata a questo genere di confronto. Nel luglio infatti, un'unità garibaldina guidata da un certo “Bartali”, «sedicente inviato dal Comitato Ligure di Liberazione Nazionale», aveva disarmato alcuni reparti della Val Tanaro. Il comitato politico e quello militare di Torino rispondevano alla denuncia fatta da “Mauri”, assicurando di non aver mai consentito a un passaggio della val Tanaro alle dipendenze del comitato ligure e, provvedendo a denunciare il fatto alle autorità centrali, lasciava il maggiore libero di «adottare quelle altre misure contingenti che risultassero indispensabili per il ripristino della situazione».
Giampaolo De Luca, Op. cit.
 
Da almeno un mesetto la nostra squadra, vale a dire quella di Nino Micheletti, prestava servizio al posto di blocco avanzato operante sulla strada provinciale a valle di Frabosa Sottana (CN).
Verso il 24/25 settembre 1944 Micheletti venne convocato dai Dirigenti Divisionali (Cosa e Giocosa), per urgenti, indifferibili motivi.
[...] Il Comando divisionale, forse rassicurato dalla notizia che la squadra di Micheletti si era procurato tutto l’armamento rastrellando periodicamente l’area monregalese e quella tendasca, non esitò ad affidare a Micheletti e compagni il gravoso incarico di scortare i due messaggeri, Bessone e Astengo, oltralpe, per consentir loro di accedere all’aeroporto di Nizza, da pochi giorni liberata dagli alleati anglo-americani, e di lì raggiungere la meta prefissata. In realtà, i quattro partigiani della scorta, Micheletti, Mondino, A. Clerico e Maccalli, ignoravano totalmente le caratteristiche di quella zona alpina che avrebbero dovuto affrontare.
[...] Nel frattempo, prima della partenza, dietro insistenza degli stessi interessati, al nostro gruppetto vennero aggiunti una decina di militari alleati desiderosi di rientrare nei rispettivi organismi e due civili, un giornalista canadese (Morton) e l’italiano radiotelegrafista (Biagio).
[...] Partimmo da Rastello, piccolo borgo della Valle Ellero, il giorno 27 settembre 1944. A motivo delle precarie condizioni di salute del prof. Bessone, fummo accompagnati dal giovane medico monregalese Serafino Travaglio sino alla Frazione Piaggia di Briga Marittima, ove pernottammo.
[...] A Pigna ci accorgemmo che la frontiera, sia quella marina, che l’adiacente territorio montano, pullulava di militari repubblichini e di tedeschi. Noi ignoravamo al momento della partenza da Rastello, l’avvenuto potenziamento di quel tratto di confine, conseguente al recente sbarco delle truppe alleate nella vicina Provenza e la liberazione di Nizza.
[...] Ci furono due-tre giorni di combattimenti, ai quali partecipammo anche noi della Val Corsaglia. Gli assalitori, come già una quindicina di giorni prima, vennero respinti. Trascorse poche ore e ritornata un po’ di quiete, il gruppetto che aveva scelto l’espatrio “via mare”, si attivò affidandosi ai due robusti rematori citati.
[...] Dopo l’attenuarsi degli attacchi nazisti, ma ancora prima di conoscerne con assoluta certezza la fine, i Comandanti locali (Curto e Vittò) ci consigliarono fraternamente, per non mettere in gioco la nostra esistenza, di abbandonare la Valle e ritornare nella nostra Divisione monregalese.
Nel ringraziarci per la collaborazione prestata, espressero gratitudine e riconoscenza al Capitano Piero Cosa ed alla Valle Corsaglia per il grande aiuto concesso alle loro Formazioni in un momento tragico e disperato.
Decidemmo di rientrare. Insieme a noi c’erano 4/5 superstiti alleati che avevano rifiutato di tentare il passaggio della frontiera italo-francese.
Luigi Mondino, L'avventura della squadra Micheletti, in Libertà dal Popolo, Notiziario della F.V.L., n° 2 del 2010
 
Dopo diverse ore di cammino tra il 18 ed il 19 ottobre 1944 i partigiani giunsero a gruppi a Fontane, [Frazione di Frabosa Soprana (CN)].
I comandanti iniziarono a smistare gli uomini, che poterono usufruire delle scorte alimentari, delle coperte e degli abiti, che il garibaldino Domenico Arnera (Aldo) aveva da mesi con impegno e sagacia messo da parte nelle vicinanze. Arnera, capo di Stato Maggiore della I^ Brigata "Silvano Belgrano", a quel tempo ancora incorporata nella II^ Divisione, venne arrestato in Val Tanaro il 18 dicembre a seguito di un'involontaria delazione e fu fucilato a Mondovì (CN) il 27 dicembre 1944. A lui venne intitolata la IV^ Brigata della nuova Divisione "Silvio Bonfante". Si presero contatti anche con le formazioni autonome di "Mauri".
Rocco Fava, Op. cit. , Tomo I
 
Un vero e proprio passaggio è quello che interessa il gruppo di Arturo Pelazza. Fino alla fine di settembre [1944], la banda, che opera nella zona intorno a Ormea, fa parte delle formazioni garibaldine dell'Imperiese, presumibilmente della Divisione “F. Cascione”. Da una comunicazione di “Mauri” a Ezio Aceto, comandante della IV divisione Alpi, si evince che Pelazza ha chiesto direttamente al secondo di poter entrare a far parte delle autonome. “Mauri” non ha nulla in contrario, ma, come nel caso di “Bacchetta” e di Montefinale, agisce con prudenza nei confronti dei comandi garibaldini. Gli uomini del Pelazza possono essere inquadrati purché dichiarino che intendono passare a far parte delle formazioni “Autonome” e abbiano il nullaosta del Comando Garibaldino. “Mauri”, che nello stesso periodo sta vivendo insieme le conseguenze della cattiva gestione della vicenda "Devic-Biondino", l'esplosione dei contrasti nell'Astigiano per il caso Scotti e l'inizio del dissidio con Cosa  per l'inquadramento delle loro brigate nelle formazioni autonome, sembra ormai aver adottato e accettato le disposizioni del comitato, rinunciando, almeno per il momento, alla creazione di un organismo fuori dai partiti del CLN. D'altra parte, il rapido procedere degli eventi crea un crescente fermento nelle formazioni partigiane del basso Piemonte [...] Nel corso dell'inverno i continui sbandamenti mettono in allarme i diversi gruppi, che vivono nascosti nei paesi di montagna per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi. La situazione di tensione è riportata anche da episodi come quello che coinvolge “Primo” Rocca e reparti della II divisione Langhe. Questi ultimi, in seguito a un'azione compiuta dai tedeschi nella zona di Rocca, accorrono in suo aiuto. Qui però vengono accolti da un'imboscata compiuta dagli stessi garibaldini di Rocca, che nella confusione, temendo un ritorno dei tedeschi, avevano scambiato i reparti autonomi per nemici. <795
Nel mese di novembre, “Mauri” e i suoi sono costretti a rifugiarsi nella zona della VI divisione Garibaldi, non ancora colpita direttamente dai rastrellamenti. Qui affluiscono anche sbandati dalla Liguria e da Asti, già raggiunte dalle operazioni tedesche. <796 Dopo pochi giorni i partigiani radunati a Feisoglio, sede del comando della VI divisione, sono costretti a rifugiarsi altrove.
[NOTE]
795 La sera del 5 dicembre, sulla strada che Canelli-Nizza, una pattuglia del reparto della II divisione «viene investita da raffiche di sten operate da un posto di blocco garibaldino […] senza che fossero richiesti la parola d'ordine e intimato il chi va là». Nello scontro muore purtroppo un partigiano autonomo e viene ferito gravemente il padre di “Poli”, “Appendice all'attività svolta dalla II^ divisione Langhe nel mese di dicembre 1944 (azioni non comprese nella precedente relazione)”, f.to “Mauri”, in AISRP, B 45 b
796 Garibaldini provenienti dalla Liguria: «Nella Valle Bormida sono pure giunti centosessanta garibaldini della 5ª brigata ligure con parte del Comando. Anche loro hanno subito forti attacchi ed hanno dovuto sganciarsi. Abbiamo provveduto per quanto loro abbisogna, viveri e alloggiamenti, resta però inteso che appena la situazione lo permette ritorneranno alle loro basi», “Cari compagni”, 11.12.44 in C. Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi, Vol. III, cit., doc. 482 “Il commissario politico della 6ª divisione Langhe, Remo, alla Delegazione per il Piemonte”, p. 57

Giampaolo De Luca, Op. cit.
 
19 aprile 1945 - Dal Comando [comandante Curto Nino Siccardi] della I^ Zona Operativa Liguria al comandante Martinengo [Eraldo Hanau, della Brigata 'autonoma' Val Tanaro della IV^ Divisione Alpi del Iº Gruppo Divisioni Alpine 'autonome' che facevano riferimento al maggiore Enrico Martini 'Mauri'] -  Si rispondeva ad una comunicazione affermando che "l'offerta delle munizioni per i St. Etienne è la più bella dimostrazione dello spirito di collaborazione e amicizia che ci lega e che deve essere sempre più perfezionato. L'alta Val Tanaro non deve essere un elemento di discordia, ma il campo per la lotta comune per poi ricostruire insieme la pace".
19 aprile 1945 - Dal Comando della I^ Zona Operativa Liguria al comandante della IV^ Divisione  'autonoma' Alpi - Venivano affrontati diversi aspetti. Che il capitano Bentley [ufficiale alleato di collegamento con la I^ Zona] aveva richiesto le armi nascoste a Viozene. Che le armi, anche se recuperate, non erano mai state consegnate al richiedente. Che non era veritiera l'affermazione del "maggiore" secondo la quale "disposizioni superiori stabiliscono che tutto il Piemonte è di giurisdizione dei gruppi 'Mauri'. Che le suddivisioni amministrative non risultavano attendibili quanto "la demarcazione fisica" rappresentata dalle Alpi. Che tutta la zona a sud delle Alpi era indispensabile alle formazioni Garibaldi per poter difendere l'Alta Val Tanaro. Che nella Val Tanaro le richiamate organizzazioni autonome non avevano organici sufficienti per procedere ad un'adeguata occupazione del territorio. Che di conseguenza lo scrivente comando della I^ Zona aveva deciso di fare agire alcune sue strutture nella zona di Garessio-Ormea-Ponti di Nava. Che prendeva nota del desiderio di collaborare fraternamente nella lotta. Che il capitano Bentley era già addivenuto tramite incontro ad un accordo con la missione inglese presso le formazioni 'Mauri' per ottenere una proficua collaborazione più generale.
19 aprile 1945 - Dal Comando [comandante Curto Nino Siccardi] della I^ Zona Operativa Liguria al comando della VI^ Divisione d'assalto Garibaldi "Silvio Bonfante" - Segnalava che aveva stabilito di inviare presso le formazioni 'Mauri'  un ufficiale di collegamento, pensando di conferire tale incarico a Giovanni 'Gino' Fossati, comandante della II^ Brigata "Nino Berio", da sostituire con Giacomo 'Basco' Ardissone o "altro elemento capace".
23 aprile 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che "data la particolare situazione creatasi ad Oneglia e lungo la strada n° 28 la squadra partita per ritirare le munizioni presso 'Martinengo' [Eraldo Hanau, comandante della 13^ Brigata 'autonoma' Val Tanaro del gruppo divisioni alpine guidato dal maggiore Enrico Martini 'Mauri'] non ha potuto effettuare l'azione".
1 maggio 1945 - Dal comando della IV^ Brigata "Domenico Arnera" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al comando della IV^ Divisione Autonoma "Alpi" - Comunicava che i Distaccamenti della IV^ Brigata "Domenico Arnera" sarebbero rimasti per ordine del comando della VI^ Divisione in Alta Val Tanaro finché il Comando Unificato non avesse disposto altrimenti, criticava il termine "arbitrariamente", aggiungeva che l'Italia era finalmente libera per cui era naturale che formazioni partigiane di diversa estrazione collaborassero nella stessa zona, ricordava che le formazioni partigiane [secondo gli autonomi, quelle garibaldine] "arbitrariamente" presenti in Val Tanaro erano quelle che avevano provocato maggiori danni ai nemici, rimarcava che un Distaccamento della IV^ Divisione Autonoma "Alpi", stanziata a Nava, intendeva comandare in Alta Valle Arroscia [zona di competenza dei garibaldini].
da documenti Isrecim in Rocco Fava di Sanremo (IM), “La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

giovedì 16 luglio 2020

Un fallito reclutamento dei partigiani alla caserma di Santa Lucia in Oneglia


[...] con questa azione [incursione a fine giugno 1944 nella caserma Siffredi di Oneglia ad Imperia] guadagnai molta simpatia da parte di quelli che provavano diffidenza nei miei riguardi, essendo stato nella organizzazione tedesca TODT.
Ritornando al racconto di prima, una volta giunti a destinazione con il carico dei fucili, trascorremmo alcuni giorni come sono soliti fare i militari: pulizia alle armi, guardia, corvée in cucina, spaccatura della legna da ardere, qualche riunione di carattere politico e simili.
Ma, dopo qualche giorno, "Merlo" [Nello Bruno caduto il 25 gennaio 1945 da commissario di un Distaccamento della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione Felice Cascione"] mi chiamò nel suo ufficio io e lui soli, facendomi questo discorso: "Visto che alla Siffredi hai fatto un buon lavoro e siccome sono stato informato che nella caserma di Santa Lucia hanno dislocato un ventina di militari comandati da un sergente maggiore, il quale pare non sia convinto di servire ancora la Repubblica di Salò e si dimostra desideroso di sapere come vanno le cose in montagna, dovresti con grande prudenza prendere contatto in qualche modo con il militare e creare le condizioni per compiere un'azione come alla caserma Siffredi".
Risposi che non avevo nulla in contrario; sarei andato prima a parlare con la persona che avrebbe potuto aiutarmi [...] mi sembra che tale persona sia stata Guerrino Peruzzi, ancora vivo, fidatissimo antifascista (due suoi fratelli, Armando e Luigi, avevano combattuto nelle Brigate Internazionali contro Franco in Spagna durante la guerra civile 1936 - 1939. Armando cadde in combattimento durante l'offensiva fascista nel levante, nel marzo 1938).
Il Peruzzi mi dava la massima garanzia. Perciò decisi di scendere ad Oneglia insieme al partigiano Carlo, detto "Gallo du Bimbu", la cui fidanzata abitava vicino alla caserma di Santa Lucia. Il mattino seguente partimmo per la città scendendo dalla parte delle Cascine.
Inizialmente Carlo raggiunse la sua fidanzata ed io la mia casa destando sorpresa e contentezza in famiglia. Contentezza che si tramutò in preoccupazione quando illustrai ai miei familiari  il motivo della mia venuta in città. Li tranquillizzai dicendo loro che l'azione era già stata concordata con il sergente maggiore. Mangiai e per una notte dormii bene.
Il mattino successivo raggiunsi con Carlo la sua fidanzata mettendola al corrente dell'operazione che intendevamo compiere. Ci disse che probabilmente qualche soldato repubblichino voleva fuggire, compreso il sergente. Infatti, le avevano chiesto se aveva notizie dei partigiani, dove e quanti erano, come erano armati, ecc.
Domande che assumevano duplice interpretazione: conoscere, nel caso fossero fuggiti, dove sarebbero potuti finire, oppure carpire notizie sui partigiani. Erano tempi nei quali bisognava stare attenti: era sempre meglio essere più diffidenti che creduloni.
Chiesi alla fidanzata di Carlo di trovare un modo per avvicinare e parlare con il sergente maggiore, magari invitandolo nel pomeriggio a prendere un caffé (di surrogato). Lei mi rispose che non sarebbe stata cosa difficile dato che lo conosceva bene e sovente parlavano del più e del meno. Le suggerii di non avere fretta, di non dargli l'impressione che fosse una cosa urgente, insomma, di non allarmarlo. [...]
Il sergente, già veterano d'Africa, di Grecia e della Jugoslavia, di età sulla trentina, annuiva. Forse, più stufo di noi, e sposato, sperava che tutto finisse al più presto per tornarsene a casa. A questo punto, con accortezza, gli feci capire che forse i partigiani erano dalla parte giusta e potevano con le loro azioni accelerare la fine dell'inutile guerra. [...] Cercavo di rendere più credibile il discorso, anche con bugie, perché fino a quel momento gli angloamericani non ci avevano rifornito di niente.
Mi parve che il sergente rimanesse positivamente impressionato dalle mie dichiarazioni, tanto che la soluzione di andare in montagna gli sarebbe piaciuta, ma disse che prima avrebbe dovuto convincere i suoi soldati ad andare con lui, senza che si verificassero delle defezioni [...] aggiunsi che io ed il mio amico Carlo ci saremmo aggregati a loro [...]
Ma la mattina del giorno in cui dovevamo compiere l'operazione - erano circa le ore sei - venne correndo a casa mia la mamma di Carlo e concitatamente mi informò che alla caserma di Santa Lucia era giunto un autocarro con soldati tedeschi, i quali avevano disarmato i militari della Repubblica Sociale Italiana ivi accantonati e li stavano caricando sull'autocarro come bestie.
Mi disse che suo figlio, a scanso di pericoli, era già fuggito in montagna e mi consigliava di fare altrettanto, avendo avuto paura che il sergente maggiore avesse raccontato tutto ai tedeschi (cosa inverosimile perché la famiglia della fidanzata di Carlo non ebbe nessun fastidio). Di fronte a questa situazione raccolsi alla svelta i miei indumenti, salutai i miei cari e mi diressi verso la montagna. Quando giunsi al distaccamento raccontai tutto a "Merlo", il quale mi disse che avevo agito bene e che probabilmente il fallimento dell'operazione era dovuto a qualche chiacchiera di troppo di una delle due giovani; l'importante era che l'operazione fosse terminata senza danni per me e per Carlo, sperando che altrettanto avvenisse per quei poveri soldati.

Sandro Badellino *, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

* Sandro Sandro Badellino. Entrò a far parte della Resistenza il 10 Maggio 1944, nella squadra comandata da Angelo Setti "Mirko", che operava nella zona del Monte Acquarone, tra la Valle Impero e la Val Caramagna. Quasi subito partecipò ad una prima fortunata azione alla Caserma "Siffredi" di Oneglia, che comportò un buon bottino di armi. In seguito passò nella formazione "Volante" di Silvio Bonfante "Cion" che agiva nella Val Steria (Testico, Rossi, Stellanello), e nella "Volantina" del Comandante "Mancen" Massimo Gismondi [in seguito comandante della I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"]. Ai primi di agosto 1944, durante uno scontro, Badellino subì varie ferite che lo costrinsero convalescente per un mese dopo essere sfuggito alla cattura. Costretto nuovamente alla fuga dal suo rifugio in seguito ad una spiata, raggiunse il Bosco di Rezzo nella circostanza del famoso rastrellamento che si concluderà con la Battaglia di Monte Grande. Sebbene ferito, vi partecipò affiancando la squadra di mortaisti che, colpendo le postazioni tedesche da San Bernardo di Conio [Borgomaro (IM)], ebbe un ruolo determinante nella riuscita dell’operazione. In seguito ricoprì l'incarico di intendente presso il Distaccamento "Comando" di Mancen. Il 25 Aprile 1945 scese ad Andora (SV) in qualità di Commissario di Brigata.
da Vittorio Detassis su Isrecim