Il riposo di Gapon [n.d.r.: Felice Scotto, commissario della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" della Divisione Garibaldi "Silvio Bonfante] è breve, il freddo è intenso e fermarsi all'aperto sarebbe fatale per tutti. I quattro scendono a un casone a Cappella Soprana, il pensiero dei compagni che fra poco saranno in salvo li tranquillizza in parte, ma dà anche un'acuta malinconia. Nel casone sono soli, intorno freddo, neve, squallore. Che fare? Accendono un fuoco per scaldarsi, per ravvivare l'ambiente, per asciugare gli abiti bagnati, per sentirsi meno soli.
Non saranno più soli fra poco: un gruppo di Cacciatori degli Appennini ha visto il fumo levarsi dal casone; di solito a quell'altezza i casolari sono vuoti d'inverno: quel fumo puzza di ribelli, gli alpini decidono di andare a vedere.
Gli alpini salgono lungo il pendio cauti, silenziosi: è necessario cogliere i partigiani di sorpresa e intorno il terreno è bianco di neve e scoperto; se i ribelli avessero una mitraglia pesante e sparassero sarebbero guai.
Bruno avvista gli alpini ed avverte: «Gapon, c'è la Monte Rosa!». I partigiani guardano la colonna che sale e comprendono che ormai è tardi per uscire: i fascisti sono troppo vicini e loro troppo stanchi, verrebbero colpiti agevolmente nella fuga allo scoperto. Non rimane che attendere, attendere cosa? Di essere assediati che hanno solo tre moschetti ed un mitra Mas francese, che tira solo a raffica ed a breve distanza?
Gapon ha un piano, disperato, ma il solo possibile: attendere, attendere che il nemico sia a pochi metri, che l'ufficiale in punta di piedi si avvicini ad una porta, allora Gapon si affaccia all'altra che è a fianco della prima e spara sul tenente, gli altri assieme tirano sul grosso. Il nemico è sorpreso, esita, i nostri tirano ancora, gli alpini ripiegano lasciando sul terreno il tenente e cinque morti, allora i partigiani escono e si danno alla fuga. Bruno viene ferito ad una gamba, Marat [Renzo Urbotti] cammina a stento. Allora Gapon decide di fermarsi da solo, tratterrà il nemico facendo fuoco col MAS, attirando su di sé i colpi degli alpini, darà forse agli altri la possibilità di salvarsi. Gapon ha pochi colpi, spara come può raffiche brevi, poi si ritira a balzi, inseguito dalle raffiche del nemico, fin quando un banco di nebbia provvidenziale lo mette al coperto.
Lo scontro di Cappella Soprana costò al nemico sei morti, a noi uno: Marat che non riuscì a superare i disagi della marcia e del clima, che con Bruno perse la strada e nella notte finì assiderato presso il passo di Cesio.
Nei giorni tra il 24 ed il 27 Pantera [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"], che era rimasto nascosto presso Casanova, riesce a raggiungere Osvaldo [Osvaldo Contestabile, commissario della stessa Divisione partigiana] a Segua [borgata del comune di Casanova Lerrone (SV)].
La situazione in Val Lerrone è sempre grave, pattuglioni nemici del presidio di Casanova percorrono la carrozzabile a tutte le ore, tuttavia la frazione di Segua, per la stessa vicinanza allo stradone, è trascurata dagli alpini che non sospettano che un Comando partigiano possa rimanere in una zona tanto esposta. Il Comando vi sosterebbe ancora se non gli fosse giunta una notizia di una gravità incalcolabile: a Casanova è stato catturato Pimpirinella, una staffetta che è al corrente della sede del Comando, anzi conosce la stessa ubicazione dei rifugi di Segua. Poco dopo si sparge la voce che, durante l'interrogatorio, Pimpirinella ha parlato.
Il nemico da Casanova può piombare a Segua in mezz'ora, non vi è quindi da esitare, il comando deve partire. Per dove? Si decide di andare a Ginestro: là c'è un gruppo numeroso del G. Garbagnati, la banda di Stalin; in caso di bisogno si potrà contare su uomini decisi e su armi discrete. Partono così Pantera, Osvaldo ed una staffetta, quello che rimaneva del Comando della Bonfante.
Il nemico invece di attaccare Segua aveva già come obiettivo Ginestro. Perché? Ci fu chi lo mise al corrente dello spostamento? Probabilmente no, forse la verità fu diversa da quanto avevamo supposto. E' probabile che Pimpirinella, interrogato dagli alpini su dove fosse il comando divisionale, abbia compreso che tenersi sulla negativa era rischiare la pelle o la tortura. Non volendo tradire e sapendo che era nella zona di Degna fece il nome di Ginestro. Perché proprio Ginestro? E' difficile dirlo, probabilmente perché il nemico aveva già visitato Vellego, Casanova, Degna, Poggiobottaro e Tèstico. A Poggiobottaro anzi era entrato più volte nella casa dove era il S.I.M. senza trovare traccia dei partigiani nascosti. Il nemico sapeva che il Comando era in Val Lerrone, aveva creduto che fosse ancora presso Marmoreo ed aveva battuto la zona a fondo. Non si poteva far quindi il nome di questi paesi perché il nemico non vi avrebbe creduto e sarebbe passato alle torture. Non rimaneva incontrollata che qualche frazione isolata come Segua e Ginestro; è probabile che il prigioniero abbia fatto questo nome per salvarsi e sviare le ricerche; per questo in seguito verrà da Pantera accusato di tradimento. L'accusa resterà però solo teorica perché Pimpirinella sparì e si disse che fosse deportato in Germania.
A Casanova quindi il 26 si sospettava che il Comando della Bonfante fosse a Ginestro: prevedendo una forte resistenza si decise di tentare il colpo in grande stile, non uno avrebbe dovuto sfuggire.
Ginestro è situato in una valletta laterale scavata da un ruscello che nasce sotto lo stradone Tèstico-Cesio e che finisce nel Lerrone. Due mulattiere provenienti da Degna e da Vellego scavalcano il Lerrone, si uniscono a fondovalle presso la cappella dell'Ascensione, indi salgono nella valletta ripida e chiusa costeggiando il rivo sul lato occidentale. Il paese di Ginestro è situato in alto, verso la testata della valle, la massima parte sul versante occidentale verso Cesio, qualche casupola sul versante di fronte. Le due creste della piccola valle sono percorse da sentieri e mulattiere, i pendii sono a castagni, ulivi e rovi, molti rovi che rendono impraticabili le zone senza strade ed anche qualche sentiero come quello che dalla frazione orientale dovrebbe portare a Degna.
Questo il terreno, ottimo d'estate, mediocre d'inverno perché l'occultamento vi è difficile per la ristrettezza della zona e la scarsità di alberi a foglie perenni. Se si occupano in tempo le creste, la valle è difendibile. In caso di attacco di sorpresa ci si potrebbe ritirare su Poggiobottaro, Tèstico, Vellego e Degna, è però possibile essere anche attaccati simultaneamente da tutti questi punti ed allora la situazione può diventare disperata.
Due squadre del Garbagnati presidiano la frazione orientale, in quella principale ad occidente c'è una buona banda locale su cui si può contare, almeno per il servizio di guardia: sono giovani che non hanno risposto al bando italo-tedesco di Casanova e quindi condividono il nostro destino. Le sentinelle partigiane controllano la cresta orientale di Poggiobottaro e gli accessi da Tèstico, i borghesi la cresta verso Cesio e la mulattiera di fondovalle.
La mattina del 27 i borghesi danno l'allarme: colonne provenienti da Degna e Vellego risalgono la valle puntando verso il paese: sono Cacciatori degli Appennini, non si sa quanti siano ma è evidente la loro intenzione di rastrellare.
Appena dato l'allarme i partigiani impugnano le armi e puntano verso la cresta: se riescono ad arrivare in cima potranno dare una buona lezione ai rastrellatori perché con le mitraglie pesanti piazzate sulla cresta potranno battere agevolmente la strada di Ginestro. E' necessario salire rapidamente per non essere colti sul versante in fase di spostamento. Purtroppo è già tardi: come si temeva, il nemico non attacca solo da fondovalle. Mentre salgono, i garibaldini incontrano la pattuglia che era in cresta che scende: ci sono i tedeschi che da Tèstico salgono sull'altro versante. Sono già in cresta? E' probabile perché, quando la sentinella li ha avvistati, erano ormai vicini. La pattuglia ha preferito scendere ad avvisare piuttosto che dare l'allarme sparando per non rivelare la propria presenza. Questo ritardo ci è fatale: ormai i partigiani sono tra due fuochi: bloccati sul pendio da tre lati col nemico di fronte, di sopra e di fianco.
Riconquistare la cresta è difficilissimo perché dal versante di fronte gli alpini possono controllare i nostri movimenti e spararci addosso; sperare che il nemico non ci veda è impossibile, perché la manovra indica chiaramente che il rastrellamento è per noi. Non rimane che cercare di ripiegare verso Degna per il vecchio sentiero impraticabile, passando come si potrà. Se necessario si darà battaglia per aprirsi il varco.
La lotta si sviluppa violenta: il nemico piazzato tra gli ulivi e nel paese di fronte tira sui nostri con tutte le sue armi, i partigiani, occultati tra i roveti ed i cespugli, si spostano a tratti, a brevi balzi rapidi, verso il fianco libero, cercando di non esporsi ai colpi nemici. Le armi del Garbagnati rispondono ai colpi cercando di individuare le mitraglie più pericolose, di coprire la ritirata dei compagni.
I partigiani sono abituati a vedere la morte da vicino; pure poche volte una banda si trovò in una situazione così grave; erano necessari tutta l'esperienza, l'allenamento, il coraggio affinati in lunghi mesi di lotta per riuscire a sganciarsi. Nella ritirata si forma un gruppo composto da Osvaldo, Pantera, Formica, Pirata e Brescia: procedono a sbalzi fra i rovi fin quando vengono bloccati da un piccolo dirupo: quattro o cinque metri più sotto è la piazzola di una carbonaia battuta delle mitraglie nemiche, più in là il bosco. E' necessario saltare sotto il fuoco. Prima tenta Osvaldo: una raffica di colpi gli strappa la coperta dalle spalle e lo ferisce leggermente ad un piede, ma riesce a passare. Poi è la volta di Pirata, che era stato con la Matteotti: viene colpito ad un braccio e perde il fucile automatico. Poi è la volta di Pantera, Formica e Brescia: passano incolumi. Al margine del bosco Brescia si ferma, prende il mitragliatore che ha portato con sé e riprende a sparare sui fascisti che gridano ai partigiani di arrendersi. Per meglio sparare si alza in piedi, invano incitato da Pantera a venir via. Una raffica nemica lo colpisce alle braccia, un'altra gli crivella il ventre. Gli altri proseguono la ritirata al coperto del bosco. Cade Romano, che si diceva avesse preso parte a Roma all'attentato di Via Rasella. Chissà come era finito in settembre con i San Marco di base a Chiappa: quando i partigiani si erano avvicinati al suo reparto aveva fatto arrendere i compagni evitando il combattimento. Mentre il «Garbagnati» ripiegava Romano si smarrì e scese a fondovalle assieme a Mimmo. Scontratisi con una pattuglia nemica vennero catturati entrambi. Poco dopo Mimmo tentò la fuga e, lasciando la giacca fra i rovi, riuscì a dileguarsi. Romano, fuggito anche lui, incontrò un'altra colonna e venne fulminato da una scarica. Sono perduti per il «Garbagnati» la mitraglia di Brescia ed il fucile di Pirata, le altre armi e parte del materiale vengono invece salvate. Il terreno è aspro ed impervio, in molti punti vere barriere di rovi vengono sfondate dai partigiani lanciatisi tra le spine per aprirsi un varco: nuovi sentieri vengono aperti nel sottobosco nella disperata fuga della banda sotto il fuoco nemico. Anche questa volta si riesce ad uscirne; a poco a poco la valle si allarga, i colpi si fanno più radi, i partigiani passano in Val Lerrone, quindi la banda si disperde.
Le perdite nemiche non furono accertate; qualche tempo dopo il corpo di un alpino fu trovato nella cappella dell'Ascensione: forse un ferito dissanguatosi che aveva cercato un inutile rifugio. Di altri caduti non avemmo notizia.
Il nemico incendiò a Ginestro la cappelletta che era stata la nostra base, saccheggiò a fondo Ginestro usando i metodi propri delle squadre comandate dal cap. Ferraris del quale alcuni dissero di aver riconosciuto la voce che intimava ai partigiani la resa, poi tornò da dove era partito: il colpo era andato in gran parte a vuoto.
Pantera ed Osvaldo ripiegarono su Degna, poi di là proseguirono per Ubaghetta. Osvaldo era malato, una febbre forte lo aveva colpito da qualche giorno e la sua marcia era difficile e lenta. Ad Ubaghetta il nemico si accorse dell'avvicinarsi dei nostri e li attese appostato con una mitraglia: avrebbe ripetuto il colpo già riuscito e che era costato la vita di Miscioscia. Quando i nostri erano ormai quasi a tiro incontrarono un civile che, in preda ad una violenta emozione, li avvertì che il nemico li aspettava. Così questa volta l'agguato andò a vuoto.
Lo scontro di Ginestro fu l'ultimo del rastrellamento: il 28 ed il 29 i nemici sgomberarono la Val Pennavaira, la Val Lerrone, la Valle di Stellanello. In Val d'Arroscia rimase solo un presidio a Ranzo.
Ancora una volta i partigiani possono riunirsi, contarsi, seppellire i loro morti, riannodare le file strappate.
Il bilancio del rastrellamento? Quale era stato intanto l'obiettivo nemico? L'annientamento del movimento partigiano?
L'inverno ci aveva obbligato a scendere in una zona militarmente infelice, senza possibilità di ritirata. Eravamo rimasti in pochi, male armati: se il nostro annientamento non fosse riuscito ora, non sarebbe riuscito mai più. Il rastrellamento invernale era stato la migliore e forse ultima occasione che aveva avuto il nemico.
I mezzi impiegati? Vari: l'attacco diretto contro le bande, il presidio dei paesi, il pattugliamento degli stradoni per impedire il raggruppamento degli sbandati, per aumentare le possibilità di catture fortite. Le minacce contro i civili dovevano impedire che i banditi trovassero appoggio, potessero mimetizzarsi tra i giovani dei paesi per poi tornare ad accrescere gli effettivi delle bande.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 156-160
29 gennaio 1945 - Da "Pantera" [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione sull'andamento della Divisione e sulla dislocazione dei suoi reparti, rispetto ai quali segnalava lo spostamento del Distaccamento "Giuseppe Maccanò" della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" nella zona di Aurigo e del Distaccamento "Gian Francesco De Marchi" della menzionata Brigata in Val Pennavaira.
31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione: "... Il 26 gennaio il commissario di Brigata [III^ Brigata "Ettore Bacigalupo"] 'Gapon' [Felice Scotto] veniva attaccato dai soldati della RSI, ma infliggeva loro la perdita di 6 uomini. I soldati repubblicani occupavano Alto, Nasino, Borgo Ranzo, Borghetto d'Arroscia, Ubaga e Ubaghetta; il 21 gennaio occupavano altresì Casanova Lerrone, Marmoreo, Garlenda, Testico, San Damiano, Degna e Vellego. Il 22 gennaio il nemico abbandonava Borghetto d'Arroscia, Ubaga e Ubaghetta. Il 27 gennaio le forze avversarie attaccavano una squadra la quale riportava la perdita di 2 garibaldini. Durante il rastrellamento il capo di Stato Maggiore della Divisione insieme ai comandanti 'Cimitero' [Bruno Schivo] e 'Meazza' [Pietro Maggio] con 2 Distaccamenti attaccavano in più punti il nemico infiggendo la perdita di 13 uomini e subendo l'uccisione di 1 solo partigiano".
31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" a... allegato n° 24 circa le perdite subite nel mese di gennaio 1945: "... il 23 Germano Cardoletti; il 26 Ettore Talluri, Bruno Cavalli, Walter Del Carpio, Giuseppe Lobba, Oreste Medica, Ugo Moschi, Luciano Mantovani, Fausto Romano, tutti deceduti a Degolla e a Cappella Soprana Renzo Orbotti; il 27 a Ginestro Mario Longhi (Brescia) e Silvio Paloni (Romano)...".
2 febbraio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione sui fatti di Ginestro e di Testico del 27 gennaio 1945, quando vennero attaccate 2 squadre del Distaccamento "Garbagnati" e rimasero uccisi "Brescia" [Mario Longhi] e "Romano" [Silvio Paloni].
3 febbraio 1945 - Dal commissario prefettizio di Albenga ai podestà di Ortovero, Villanova d'Albenga, Casanova Lerrone, Vendone, Nasino, Castelbianco, Castelvecchio, Zuccarello, Cisano sul Neva e Garlenda - Trasmetteva l'ordine della Feldgendarmerie di fare rientrare nella Brigata Nera di Albenga le giovani reclute che, appena arrivate all'arruolamento, si erano allontanate dalla caserma, perché passibili di fucilazione come "banditi".
Rocco Fava di Sanremo (IM), La
Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della
documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo
II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico
1998-1999
sabato 10 agosto 2024
Cade Romano, che si diceva avesse preso parte a Roma all'attentato di Via Rasella
domenica 28 luglio 2024
I nazifascisti trovano Ubaghetta deserta
Sapranno del passaggio del nemico nella tarda mattinata, quando ritornerà indietro la guida borghese che aveva accompagnato la colonna sulla cresta della montagna. La colonna diretta a Bosco è accompagnata dalla oramai spia famosa “Carletto”.
Il Comando della “Bonfante” non ha alcuna possibilità di avvisare i garibaldini dislocati a Bosco. Oramai è tardi. Sperano che le sentinelle del luogo abbiano potuto avvistare il nemico che stava avvicinandosi. Si spera che anche questa azione sia una puntata isolata e non faccia parte di un momento del grande rastrellamento previsto.
Scrive Gino Glorio (Magnesia) nel suo diario: "Il Comando della Divisione “Bonfante” si sposta a Degna per esaminare la situazione più da vicino; quanti erano e come armati, con muli o senza, perché la guardia borghese non ha funzionato? In Val Lerrone la situazione si mantiene calma, ma che avviene di là? Se il nemico, come probabile, tornerà alla base per la carrozzabile della Valle Arroscia, sarà possibile agganciarlo? Sembra che al di là della cresta gli avvenimenti siano più gravi di quanto si temesse. Un borghese che si è spinto in cresta, riferisce che le colonne di fumo si levano da Degolla e da Costa Bacelega, segno che il nemico non si è limitato alla puntata su Bosco, lunghe raffiche di mitraglia indicano che la lotta è ancora in corso. Le ore passano lente, uguali, verso mezzogiorno giunge a Segua uno sbandato da Bosco. Aveva i pantaloni strappati e lo sguardo inquieto dell'animale braccato. Racconta che con i suoi era sveglio da qualche minuto, aveva rimesso al fuoco le castagne e si preparava a lavarsi, quando vede a breve distanza i Tedeschi che scendono tra gli ulivi. Urla “I Tedeschi”, e via senza voltarsi. Quelli sparano ma il fuggiasco non vede più niente, e non sa cosa sia successo agli altri. Erano quasi circondati e la resistenza si presentava impossibile. Dopo una corsa selvaggia tra i rovi e gli ulivi, si era trovato fuori tiro senza armi ma con l'asciugamano in mano. Da mezzogiorno fino a sera nessuna novità. A sera una colonna tedesca scende dalla cresta verso Degna. L'allarme è portato in paese dalla figlia di Bertumelin, contadino del luogo che aiutava molto i garibaldini. In pochi istanti borghesi e partigiani spariscono tra gli alberi, mentre i Tedeschi, preannunciati da una raffica di mitragliatrice, entra in paese. Dopo mezzora Degna è di nuovo libera, il nemico ha proseguito per Cesio. Si spera sia tutto finito. Il giorno 21 niente di nuovo in Val Lerrone. Il comandante Olivero e Gustavo Berio (Boris) lasciano la Divisione, vanno oltre la strada statale 28 in cerca del Comando I Zona Operativa Liguria, per appellarsi alla sua autorità, poiché non riescono più a controllare la situazione. La Divisione rimane così affidata al commissario Osvaldo Contestabile e al vicecomandante Luigi Massabò (Pantera). La sera del 21 il SIM, trasferitosi a Poggio Bottaro, annuncia che il rastrellamento è sospeso in seguito all'offensiva sovietica; non si capisce il collegamento tra i due eventi, ma la notizia è quella. Il 22 la situazione si chiarisce di colpo. La Valle Arroscia è presidiata dai Tedeschi e dai Cacciatori degli Appennini...".
Ma vediamo un poco più da vicino cosa è accaduto nei paesi attaccati il primo giorno di rastrellamento. All'alba del 20 un poderoso schieramento di forze irrompe nella zona della "Bonfante" col compito di rastrellare e distruggere definitivamente le formazioni partigiane ivi dislocate.
Francesco Biga (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria), Vol. IV. La Resistenza nella provincia di Imperia dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005, pp. 35-37
Il 21 gennaio 1945 il comandante Giorgio Giorgio Olivero ed il vice commissario Gustavo Boris Berio lasciarono la sede della Divisione "Silvio Bonfante", per provare a fare il punto della tragica situazione al comando di Zona, lasciando la formazione affidata al vicecomandante Luigi Pantera Massabò. Il 21 gennaio la divisione repubblichina Monte Rosa occupava Casanova Lerrone (SV), Marmoreo, Frazione di Casanova Lerrone (SV), Garlenda (SV), Testico (SV), San Damiano, Frazione di Stellanello (SV), Degna, Frazione di Casanova Lerrone (SV), e Vellego, Frazione di Casanova Lerrone (SV), dopo avere già occupato il giorno prima Alto (CN), Borgo di Ranzo (sede comunale di Ranzo), Borghetto d'Arroscia (IM), Ubaga e Ubaghetta, Frazioni di Borghetto d'Arroscia (IM). A Marmoreo il nemico uccise il civile Settimio Testa.Nei tre giorni successivi le formazioni della Divisione "Silvio Bonfante" sfuggirono ai rastrellamenti nemici di San Damiano, Rossi, Frazione di Stellanello (SV) e Marmoreo, Frazione di Casanova Lerrone (SV). Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999
Nelle prime ore di sabato 20 gennaio tre colonne naziste e alcune compagnie di Cacciatori degli Appennini giungono in zona provenienti da Borghetto d’Arroscia, Casanova Lerrone e Pieve di Teco. La pattuglia garibaldina avvista il nemico e apre il fuoco (dal diario militare di Luigi 'Pantera' Massabò). Al rientro dalla zona di Marmoreo dove ha portato viveri, il ventitreenne addetto all’Intendenza Mario Miscioscia avvista una delle tre colonne nazifasciste che si sta dirigendo verso Ubaghetta. Impossibilitato a sorpassarla senza farsi notare e trovandosi in una posizione che gli rende difficile la fuga, per dar l’allarme ai compagni Mario lancia contro la colonna una bomba a mano e s’avvicina ulteriormente per scaricarle contro la pistola: il colpo di mano nemico viene così scongiurato. Una raffica però colpisce mortalmente Mario: all’ufficiale fascista che gli offre di darsi prigioniero in cambio delle cure che gli avrebbe fatto prodigare, risponde: “Preferisco la morte al disonore di venire con voi”, frase riferita dallo stesso ufficiale a persone di Borgo di Ranzo. I nazifascisti trovano Ubaghetta deserta: i partigiani dislocati nei dintorni si sono allontanati e anche i contadini hanno abbandonato le loro case. Tuttavia, nel tentativo di sottrarsi al rastrellamento, sabato 20 gennaio 1945 il ventenne Germano [Cardoletti (Redaval)] resta ferito gravemente a una gamba con frattura dell’osso. In qualche modo riesce a nascondersi ma verso sera viene scoperto e catturato dai nazifascisti: portato su una scala a Borghetto d’Arroscia gli viene praticata una medicazione superficiale e viene adagiato su un dito di paglia con una sola coperta. Il maggiore comandante del battaglione dice che Germano sarà portato all’ospedale di Pieve di Teco. Eppure per tre giorni Germano resta privo di ogni cura: dei circa 60 uomini della compagnia presente a Borghetto solo un sergente maggiore mostra attenzione verso di lui. Probabilmente Germano viene interrogato, forse con percosse e torture, ma nessuna informazione ottengono i fascisti sulle posizioni dei distaccamenti in zona. Alla sera di lunedì 22 gennaio un tenente coi capelli grigi annuncia che il tribunale militare (pare composto solo da lui e da un altro soldato) s’è adunato e ha condannato Germano a morte. Nel tentativo di salvargli almeno provvisoriamente la vita, il locale sacerdote don Casa si offre invano con altri per portarlo all’ospedale. Al sacerdote che dalle ore 5.30 di martedì 23 gennaio 1945 è in attesa dell’ultimo colloquio, neppure viene concesso di parlare a Germano se non cinque minuti prima dell’esecuzione. A quel punto la voce di Germano è talmente debole che il sacerdote non è certo d’aver compreso il nome del padre Cesare e quello della madre Erminia. Alle ore 7 lo sfinito Germano viene fucilato a vent’anni dal plotone fascista d’esecuzione sulla piazzetta del municipio di Borghetto d'Arroscia in provincia di Imperia.
Redazione, Scheda biografica di Germano "Redaval" Cardoletti, Centro Documentazione Resistenza ANPI Voghera
mercoledì 12 ottobre 2022
I capi partigiani non si creavano né si improvvisavano
[...] Quindi i Distaccamenti della Bonfante si mettono al lavoro per riorganizzarsi al più presto e passare, così, dalla difensiva all'azione. Lo spirito ed il morale degli uomini è abbastanza elevato. Le perdite subite sono state dure, ma tutti vogliono vendicare i loro compagni caduti. Bisogna battere duramente il nemico. Le formazioni devono dimostrare di non essere state distrutte, come era desiderio del nemico, ma sono sempre in piedi per infierirgli colpi mortali. Il freddo è meno crudele degli altri giorni. La neve si scioglie gradualmente.
Francesco Biga, (con la collaborazione di Osvaldo Contestabile), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. IV: Dal Primo Gennaio 1945 alla Liberazione, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 2005
3 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" a tutti i reparti dipendenti - Comunicava che "la zona in cui si opera è di immediato retrofronte, per cui serve gente convinta, mettendo al bando ogni forma di disfattismo. Occorre reagire agli atti di vandalismo del nemico".
3 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della III^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Ettore Bacigalupo” - Direttiva: "Occorre provvedere, nei paesi in cui non vi sono garibaldini, ad inquadrare i giovani nelle squadre di riserva locali. Queste dovranno sorvegliare i passi durante la notte. Si ricorda che l'adesione ha carattere volontario. Il comando di tali squadre spetta al vice comandante di Brigata".
3 gennaio 1945 - Comunicazione interna alla Divisione Bonfante attinente il certificato di matrimonio di Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo) con Antonina Rabellino, celebrato [a dicembre 1944] alla presenza del vice commissario della III^ Brigata della Divisione "Silvio Bonfante", "Luciano" Luciano Calzolari, con la stesura della seguente postilla: "al termine della guerra si ratificherà tale certificato agli organi civili e religiosi".
3 gennaio 1945 - Da Curto [Nino Siccardi, comandante della I^ Zona Operativa Liguria] a Simon - Relazione sulla visita del comandante Curto alla Divisione Bonfante.
3 gennaio 1945 - Dal Comando Operativo della I^ Zona Liguria a Simon - Comunicava che "qualche elemento della Divisione Bonfante si è presentato ai tedeschi, guidandoli in qualche azione di rastrellamento".
3 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione sul rastrellamento effettuato ad Armo e a Pieve di Teco il 30 dicembre 1944, durante il quale era avvenuto l'arresto di Lionello Menini.
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La
Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della
documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della
Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo
II - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico
1998 - 1999
Nella frazione di Ubaghetta di Borghetto d'Arroscia ha sede la banda di "Fra diavolo", di circa 30 uomini.
A Ranzo e Borgo di Ranzo si trova la banda di certo Casanova di Leca d'Albenga, forte di un centinaio di individui.
Nella frazione Gavenola di Borghetto esiste altra banda, di circa 200 uomini, dei quali non è stato possibile conoscere il nome del comandante.
[...] Il 4 corrente nella zona di S. Bernardo di Pantasina un reparto germanico, guidato da elementi dell'U.P.I. della G.N.R., rastrellava numerose località, distruggendo molti ricoveri abbandonati precipitosamente dai banditi. Rinvenuti esplosivi, armi, vestiario e viveri. In Pianavia era scoperta e distrutta la sede della cosiddetta "Divisione d'assalto Silvio Bonfante".
Un fuori legge catturato e fucilato.
Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del 18 gennaio 1945, p. 21, Fondazione Luigi Micheletti
Quanto alla capacità di Fra Diavolo [Giuseppe Garibaldi] di esser qualcosa di più che un capobanda la dimostrerà in marzo ed aprile [1945] creando con i partigiani che accorreranno sotto di lui la IV Brigata «Arnera Domenico». La cosa era particolarmente difficile operando in Val Tanaro a contatto con un comandante come Martinengo di indubbio prestigio.
In dicembre Fra Diavolo si era sposato di fronte al commissario di Brigata Calzolari, unica autorità legittima per noi in quel momento. Dopo qualche tempo arriverà al Comando la sua richiesta di celebrare il matrimonio anche col rito religioso: «Devo mantenere la parola che ho dato a mia moglie il giorno che ci siamo sposati civilmente...». Fra Diavolo temeva che la sua richiesta venisse interpretata come rinuncia alla fede comunista che riaffermava profonda. Il Comando divisionale lo autorizzò senz'altro: «Tutto sta a trovare un prete che li sposi: dopo l'avventura del prete di Marmoreo che ha sposato il medico polacco e ha da mesi i tedeschi alle calcagna, gli altri ci penserano due volte».
Sarà il prete di Ubaghetta che unirà di fronte a Dio la vita del bandito Fra Diavolo a quella della sua compagna.
Mutati così i quadri della II^ e della III^ Brigata [della Divisione "Silvio Bonfante"] sarebbe stato forse desiderio di Giorgio [n.d.r.: Giorgio Olivero, comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] epurare anche i comandi della I^, che nella crisi di gennaio erano stati solidali con gli altri. Mancen [n.d.r.: Massimo Gismondi, comandante della I^ Brigata "Silvano Belgrano"] però si era tenuto più indietro evitando di dare le dimissioni: occorreva quindi una vera e propria destituzione e, senza l'autorizzazione diretta del Comando zona, un gesto simile poteva aver gravi conseguenze perché il prestigio di Mancen e Federico [n.d.r.: Federico Sibilla, commissario della I^ Brigata], dopo il rastrellamento superato brillantemente, era molto forte nell'ambiente partigiano.
Nella crisi di gennaio ed ancor più nella ripresa dei mesi seguenti, si rivelò una deficienza nelle formazioni garibaldine: la mancanza di buoni capi. Chi c'era ancora dei vecchi capibanda della campagna estiva? Stalin [n.d.r.: Franco Bianchi, comandante del Distaccamento "Giovanni Garbagnati" della I^ Brigata , Basco [Giacomo Ardissone], Fernandel [Mario Gennari], Trucco e Fra Diavolo. E gli altri? Cion era caduto, Orano, Renzo Merlini [n.d.r.: Renzo Merlino], Ugo, Giulio, Socrate, Menini caduti, Pelassa, Nasone, King Kong [Secondo Bottero] passati ad altre formazioni. Marco era nel S.I.M., Ramon [Raymond Rosso], Pantera [n.d.r.: Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"], Mancen, Turbine avevano lasciato le bande per incarichi di maggiore responsabilità. Nino Berio, Ettore ed altri che, per coraggio ed intelligenza avevano doti di comando, erano morti nei lunghi mesi di lotta.
I capi partigiani non si creavano né si improvvisavano. I migliori erano sui monti dal primo inverno o dalla primavera. Dal caos dei primi tempi erano emerse le personalità più spiccate, gli uomini avevano imposto ai comandi quelli che tra loro erano i prescelti per il coraggio, l'ascendente, la fiducia che ispiravano. Il sistema elettivo della prima estate aveva selezionato i migliori, che nessuno meglio del combattente poteva conoscere e giudicare chi doveva guidarlo. Successivamente tra questi il Comando brigata aveva operato una seconda selezione in base ad altri criteri, ma quasi sempre non aveva potuto che confermare il giudizio dato dagli uomini.
Lo sbandamento di ottobre e dicembre aveva privato il movimento di altri elementi discreti: molti, infatti, che, più non ebbero la forza e la tenacia di affrontare i disagi dell'inverno, avevano dimostrato in estate innegabili doti di coraggio e di sacrificio.
Altri furono scartati dai Comandi superiori per gli inconvenienti che poteva portare una personalità forte, ambiziosa, autonoma con forte ascendente sugli uomini; altri ancora ebbero posti di maggiore responsabilità ed incarichi di fiducia che però ostacolarono il contatto immediato con gli uomini, privò questi ultimi dell'esempio continuo e diretto.
Il promuovere i capibanda migliori ai Comandi superiori sarebbe stato utile se le Brigate avessero operato compatte in manovre a largo raggio di attacco o di sganciamento e se i capibanda, abituati ad operare bene con un pugno di uomini, fossero stati anche idonei all'altro compito.
In pratica però l'utilità fondamentale per la guerriglia era rimasta la banda ed anzi erano sempre state rare le operazioni di attacco che avessero impegnato più di una squadra. Anche quando molte bande erano state coinvolte in un rastrellamento, abbiamo visto come assai spesso, per la debolezza dei collegamenti ed altre circostanze, le bande fossero sfuggite al controllo dei Comandi superiori.
I Comandi di divisione e di Brigata si ridussero così quasi sempre ad aver funzioni amministrative e di organizzazione, sottraendo alle unità combattenti uomini veramente eccellenti.
Sottratti così alle bande molti dei migliori erano emerse le personalità minori, quelle che fino ad allora erano rimaste in ombra. La campagna invernale, con la sua parziale inattività, non permetteva agli uomini ed ai comandi di giudicare le reali qualità di combattenti di molti nuovi capi. Vennero apprezzate più le doti organizzative, che realmente erano le più necessarie ed urgenti, a scapito delle capacità combattive. Emerse più la tenacia che il coraggio.
C'era rimedio a tutto questo? Forse...
Avremmo potuto ridurre al minimo i Comandi superiori, ingrossare le band e tornando ai distaccamenti di quaranta uomini, ripristinare ai vecchi incarichi quei capi che già nell'estate scorsa avevano guidato gli uomini con successo, affidare a molte figure di primo piano, come Federico e Gapon [Felice Scotto], una banda e non un incarico di commissario.
Con trecentocinquanta uomini potevamo formare otto bande ed un Comando superiore invece che undici distaccamenti, tre Comandi brigata e un Comando divisionale. Col nuovo inquadramento forse i buoni capi sarebbero bastati.
La tattica cospirativa rimase così in vigore e la vita delle bande riprese.
Appena finito il rastrellamento, prima ancora di riorganizzarci, volemmo dar prova ai civili della nostra presenza. La banda di Stalin si portò a Degna [n.d.r.: Frazione del comune di Casanova Lerrone (SV)] dove i giovani del paese si erano presentati al bando tedesco e quelli della banda locale avevano mancato agli impegni presi con noi. Il paese venne multato di un coniglio per ogni giovane presentato al nemico. Dopo un quarto d'ora il numero non era ancora completo, Stalin incendiò un fienile e concesse altri quindici minuti. La pena inflitta a Degna era troppo mite a mio giudizio, ma Stalin, malgrado l'aspetto e la fama feroce, era capace anche di indulgenza e ne darà la prova anche in futuro.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 190,191
Verso la metà di febbraio 1945 l'eccezionale ondata di freddo dei mesi precedenti si era in parte attenuata ed "il bel tempo favoriva, sia pure per pochi fortunati, le visite dei familiari venuti dalla costa, ai partigiani, facilitate dall'accentuata diminuzione di rastrellamenti nel nostro settore. Madri o mogli, qualsiasi tentativo comportava un notevole impegno di fatica, a cui era da aggiungere l'assoluta necessità di eludere la sorveglianza a cui erano sottoposti i congiunti dei ribelli o presunti tali da parte dei servizi repubblicani", come scrisse Renato Faggian (Gaston) ne I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza imperiese. Diario partigiano 1944-45, Dominici, Imperia, 1984.
Anche i territori presidiati dalla Divisione Bonfante godettero durante la parte centrale del mese di febbraio una relativa tranquillità; "i tedeschi sono ormai convinti della perdita della guerra. Non attaccano più anche la nostra zona. I rastrellamenti sono puntate vere e proprie" ricordava Luigi Pantera Massabò, già vicecomandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" in Cronistoria militare della VI^ Divisione “Silvio Bonfante”, diario [inedito nel 1999] conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia.
Rocco Fava, Op. cit., Tomo I
Così ai primi di marzo si ponevano i primi interrogativi, i primi problemi della futura ripresa.
Il nemico, frattanto, cercava di mantenere l'iniziativa.
Gino Glorio, Op. cit.
1 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Comunicava la composizione dei comandi delle Brigate dipendenti: I^ Brigata "Silvano Belgrano" comandante "Mancen" [Massimo Gismondi], vice comandante "Gordon" [Germano Belgrano], commissario "Federico" [Federico Sibilla], vice commissario "Loris" [Carlino Carli], capo di Stato Maggiore "Cis" [Giorgio Alpron]; II^ Brigata "Nino Berio" comandante "Gino" [Giovanni Fossati], vice comandante "Basco" [Giacomo Ardissone], commissario "Athos" [Pellegrino Caregnato], vice commissario "Franco" [Giovanni Trucco]; capo di Stato Maggiore "Vincenzo"; III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" comandante "Fernandel" Mario Gennari; vice comandante "Leo" Leone Basso; commissario "Gapon" Felice Scotto; vice commissario "Megu" Ugo Rosso.
da documento IsrecIm in Rocco Fava, Op. cit., Tomo II