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giovedì 4 aprile 2024

Ben presto la fama della Feldgendarmerie come ‘squadrone della morte’ si era diffusa nella zona dell’albenganese


Prima e ultima pagina della sentenza della condanna a morte [tramutata subito in una breve carcerazione] emessa contro Ennio Contini dalla Corte di Assise di Savona, 1945. Fonte: Francesca Bergadano, Op. cit. infra

Ad Albenga (SV), quasi sempre alle foci del Centa, tra partigiani e civili, vengono uccise dai nazifascisti più di cento persone.
Il 13 novembre 1944 a Castelvecchio di Rocca Barbena viene fucilato il civile Moreno Pietro (classe 1883), mentre il figlio Moreno Teodoro (classe 1910), arrestato, è ferito in un tentativo di fuga e, trasportato ad Albenga all'ospedale cittadino, decede per complicazioni. La loro morte è l'esito di una denuncia ben documentata per aver fornito viveri ai partigiani. La ritorsione da parte dei partigiani porta all'uccisione di Giuseppina Daldin Malco, moglie di Giuseppe Malco, commissario prefettizio a Castelvecchio, e di don Guido Salvi, un prete accusato di delazioni a favore della Feldgendarmerie.
Il primo dicembre 1944 Angelo Casanova (Falco), con una squadra di partigiani, tende un agguato mortale ad un gruppo di tedeschi nei pressi di Leca d'Albenga, in cui vengono uccisi otto tedeschi e quattro rimangono feriti. Il "Pippetta", la spia locale Giovanni Navone, denuncia gli autori di questo agguato alla Gendarmeria, ma almeno tre dei quattro arrestati sono solo parenti dei responsabili dell'agguato.
[...] Dopo una perquisizione nella casa della famiglia Navone di Villanova d’Albenga, accusata di fornire cibo ai partigiani, i membri di sesso maschile della famiglia, il padre Pietro e i figli Annibale e Alfredo, vengono catturati.
In seguito tedeschi e brigate nere si recano a Garlenda dove vengono arrestati il partigiano Esirdo Simone (Zirdo), il parroco del paese e altri due uomini nonché due donne.
Il 27 dicembre 1944 il distaccamento “Maccanò” della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante" si scontra con una pattuglia tedesca uccidendone tre soldati e ferendone altri sei a nove chilometri da Albenga.
La stessa sera per rappresaglia vengono fucilati alla foce del Centa in Albenga (SV) i sei uomini, Esirdo Simone, Giovanni Fugassa, Pietro Navone, Annibale Navone, Alfredo Navone, Artemio Siccardi, e una donna, Giovanna Viale, presa il giorno precedente. Solamente il parroco di Garlenda, don Giacomo Bonavia, non verrà giustiziato ma salvato dall’intervento del vescovo di Albenga.
Il giorno successivo altri 15 ostaggi, quasi tutti residenti a San Fedele, sono fucilati alla foce del Centa a causa di una delazione delle spie Camiletti e Calderone. I condannati sono Ciarlo Emilio (nato nel 1893), Cristofori Vittorio (1908), Epolone Pio (1879), Fugassa Emilio Domenico (1904),  Fugassa Emilio Samuele (1897), Pastorino Vittorio (1897), Roveraro Angelo (1925), Semeria Giuseppe (1878), Tomati Andrea (1898), Tomati Francesco (1889) e Parolo Cirillo (1901), tutti civili. A questi si aggiungono i partigiani Faroppa Pasquale, Merlino Mario, Parolo Leonida e Roveraro Prospero.
[...] Giuseppe Calmarini (Stalinger) e Settimio Vignola (Vespa), partigiani nel distaccamento "Filippo Airaldi" della Divisione "Bonfante", scesi dai monti nell’inverno, vengono arrestati mentre si trovano nelle proprie abitazioni durante il rastrellamento di Pogli del 20 gennaio 1945, denunciati da una spiata dell'ex partigiano Luciano Ghio detto il Pisano.
Il 22 gennaio 1945 vengono fucilati alle foci del Centa insieme ad altri tre civili tutti di Pogli, Angelo Gandolfo (nato nel 1905), Ernesto Porcella (1921) e Luigi Vignola.
[...] Il 18 febbraio 1945 vengono giustiziati ad Albenga per rappresaglia De Lorenzi Pietro (Gin) nato a Vendone il 17.6.1904 (sappista), Isoleri Gino nato a Villanova d'Albenga il 26.5.1905, Cavallero Severino nato a Cuneo l'1.5.1926, Mosso Ennio nato a Villanova d'Albenga l'1.11.1904, Nano Francesco nato a Castelvecchio di Rocca Barbena il 29.1.1927, Sapello G. Battista nato a Villanova d'Albenga il 23.11.1883.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I Caduti della Lotta di Liberazione nella I^ Zona Operativa Liguria, ed. in pr., 2020 

[ altri lavori di Giorgio Caudano: Giorgio Caudano con Paolo Veziano, Dietro le linee nemiche. La guerra delle spie al confine italo-francese 1944-1945, Regione Liguria - Consiglio Regionale, IsrecIm, Fusta editore, 2024; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016 

Genovese Giacomo, nato a Catanzaro il 5 gennaio 1945, Capitano della Brigata nera “Briatore” (Giacomo Genovese venne fucilato a Vado Ligure in località Fosse S. Ermete il 29 giugno 1945 dopo essere stato prelevato con altri dal carcere di Finalborgo dove era detenuto)
Interrogatorio del 12.5.1945 nelle carceri di Savona: [...] Complessivamente la forza della brigata [nera] si aggirava sulle 150 unità, ripartite fra Vado, il posto di blocco di Albisola e servizio fisso al comando tedesco. Vi erano poi tre distaccamenti: Varazze, Albenga ed Alassio, comandati rispettivamente da Felice Uboldi e Fabbrichesi a Varazze, da Scippa prima e poi Sesta ad Albenga e ad Alassio Capello prima ed Esposito poi. Tutti questi reparti erano alle dipendenze dei tedeschi ed anzi aggiungo che i reparti di Alassio ed Albenga dovevano effettuare i servizi di pattuglia per conto dei tedeschi.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9,  StreetLib, Milano, 2019

Quando Ennio Contini giunge ad Albenga, nel marzo 1945, lo scontro tra formazioni partigiane ed esercito tedesco è al culmine della sua ferocia; rappresaglie antifasciste e rastrellamenti della Feldgendarmerie <1 sono all’ordine del giorno. Per sua conformazione geografica (la famosa “piana” poteva essere un ottimale punto di sbarco alleato ed era allo stesso tempo molto vicina alla Francia) la zona costituiva un punto di snodo importante sia per le forze alleate sia per l’esercito germanico e in questo lembo di terra era cresciuto in modo esponenziale anche il movimento antifascista. Qui, nel luglio 1944, era nata infatti la Divisione d’assalto Garibaldi intitolata a Felice Cascione, primo comandante partigiano caduto in battaglia. Il 1944 è un anno tristemente importante per l’Italia e per Albenga, ormai nel pieno di una guerra civile. Scrive Gianfranco Simone nel suo libro "Il boia di Albenga": «Fino all’arrivo della Feldgendarmerie nel novembre 1944 l’albenganese aveva sofferto meno per la repressione nazifascista che per le incursioni dei bombardieri francesi e angloamericani» <2. La polizia militare tedesca, alla fine del novembre 1944 in risposta a continui attacchi partigiani e all’uccisione di venti militari e due spie aveva attuato le prime rappresaglie nell’entroterra di Albenga, nella zona di Ortovero e Ranzo (IM), avvalendosi dell’aiuto della Brigata Nera <3 ‘Francesco Briatore’ di Savona, a quel tempo comandata da Felice Uboldi. Ben presto la fama della Feldgendarmerie come ‘squadrone della morte’ si era diffusa nella zona dell’albenganese, accrescendosi anche per la personalità quantomai feroce e spietata di Luciano Luberti <4, chiamato ‘il Boia’. Luberti, si scoprirà solo alla fine della guerra, aveva torturato e ucciso più di un centinaio di persone. Solo la foce del fiume Centa restituirà cinquantanove cadaveri, fucilati senza pietà da Luberti e dal suo sottoposto Romeo Zambianchi, chiamato il ‘vice-Boia’.
[NOTE]
1 La Feldgendarmerie era la polizia militare dell’esercito tedesco. Era divisa in «Trupp» e di norma era formata da due plotoni, tre ufficiali, quarantuno sottufficiali e venti graduati di truppa.
2 Gianfranco Simone, Il boia di Albenga. Un criminale di guerra nell’Italia dei miracoli, Milano, Mursia, 1998, p. 25.
3 Nel giugno del 1944 era stato istituito, per volere di Alessandro Pavolini, il Corpo Ausiliario delle Squadre d’azione delle Camicie Nere. Le federazioni provinciali del Partito Fascista Repubblicano avevano preso il nome di Brigate Nere.
4 Luciano Luberti (Roma, 1921-Padova, 2002), detto ‘il Boia di Albenga’, era stato un criminale di guerra, giunto alla ribalta della cronaca anche negli anni ’60 per l’uccisione della compagna Carla Gruber. Secondo alcune fonti Luberti si arruolò nell’esercito nel 1941 ma è nel gennaio 1944, con il suo reclutamento tra le file della Wermacht che Luberti iniziò a farsi strada tra tradimenti e omicidi. Nel gennaio 1944 fu coinvolto nel rapimento di Umberto Spizzichino, ebreo suo amico, condotto nel campo di sterminio di Auschwitz, dove morì nell’agosto 1944. Sempre nel 1944 Luberti decise di passare alla Feldgendarmerie di Albenga, in veste di traduttore, ma ad Albenga uccise e torturò più di
sessanta persone (stando alla sentenza della corte d’Assise straordinaria di Savona Luberti si era reso colpevole di oltre duecento omicidi). Catturato nel 1946, mentre cercava di espatriare in Francia, Luberti venne condannato a morte e scontò sette anni di carcere. Subito dopo la sua scarcerazione Luberti tornò a Roma dove, tra il 1953 e il 1970, diede vita ad alcune iniziative editoriali attraverso l’Organizzazione Editoriale Luberti, pubblicando suoi testi come Furia (sotto lo pseudonimo di Max Trevisant) del 1964 o I camerati del 1969. Nel gennaio 1970 la compagna di Luberti, Carla Gruber, fu ritrovata morta nell’appartamento del ‘Boia’ in avanzato stato di decomposizione, uccisa da un colpo di pistola al cuore. Luberti venne arrestato per l’omicidio della Gruber solo nel 1972 e scontò, anche questa volta, solo otto anni di carcere perché «incapace di intendere e volere». Trascorse i suoi ultimi anni a Padova, tra arresti per detenzione di droga e il manicomio. Nel 1998 la Rai lo intervistò per la trasmissione "Parola ai vinti". Il ‘Boia’ morì qualche anno dopo, ospite di una casa di riposo.

Francesca Bergadano, «Il gioco irresistibile della vita». Ricerche su Ennio Contini (1914-2006): poeta, scrittore, pittore, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2017-2018

venerdì 23 luglio 2021

Circa il boia di Albenga

Albenga (SV) - Fonte: Wikipedia

È utile a questo punto tracciare una breve biografia di Luciano Luberti, battezzato durante la guerra, quando indossava la divisa nazista, il boia di Albenga.
Finito il liceo, il giovane fascista si iscrisse alla facoltà di Scienze politiche.
Non prese la laurea e nel 1941, chiamato alle armi, dopo essere stato cacciato per indegnità dalla scuola allievi ufficiali di Spoleto, fu assegnato al terzo reggimento artiglieria celere di stanza a Milano.
Il giovanotto rientra subito a Roma e prende a collaborare con i tedeschi, arruolandosi addirittura nella Wermacht e vestendo la divisa della Kriegsmarine, la marina da sbarco di Hitler.
Combatte a Nettuno e a Livorno. Ma poiché parla perfettamente tedesco, viene usato come interprete nelle operazioni di rappresaglia. È soldato semplice, diventa presto caporale.
La sua carriera nell’esercito tedesco comincia immediatamente rastrellando partigiani italo-francesi in Corsica e meritandosi la croce di ferro di seconda classe. Quindi viene destinato alle costiere di Alassio e in ultimo trasferimento ad Albenga dove c’è la sede del comando della Feldgendarmerie, la polizia militare tedesca.
Qui la sua macabra ideologia e la sua malvagia natura si scatenano.
Ecco la deposizione della signora Ernesta Spalla, vedova del sindaco di Albenga, Emidio Viveri:
“Un giorno si presentò a casa mia alla testa di un gruppetto di nazisti. Fecero una perquisizione ed in una camera trovarono mio figlio Angelo, di 15 mesi, che dormiva. Il Luberti afferrò il bambino per i piedi e, tenendolo sospeso nel vuoto, minacciò di lasciarlo cadere dalla finestra se non avessi smesso di piangere. Benché anziani, i miei genitori furono brutalemte percossi, io venni portata alla gendarmeria e chiusa in una stanzetta buia dove erano rinchiuse altre 14 donne. Ricordo che una delle mie compagne di sventura tentò di suicidarsi, ingoiando degli anelli e che un’altra non venne neppure portata in ospedale benché fosse in stato interessante e avesse abortito”.
I partigiani della zona dicono che Luciano Luberti si rese responsabile, sia pure non come esecutore diretto, di innumerevoli stragi.
Uno dei suoi divertimenti preferiti consisteva nel recarsi in un piccolo centro abitato, di raggruppare un bel numero di uomini e di donne e di sottoporli a sevizie. Ad Albenga c’è ancora chi non ha fugato quegli incubi.
Sulla coscienza di Luberti grava la barbara esecuzione di 59 ostaggi, donne e uomini, compiuta alle foci del fiume Centa tra il 1944 ed il 1945.
Bruno Mantero, un albergatore ligure, riferisce: “A mio fratello, davanti ai miei occhi, strappò le orecchie, le unghie, i denti e infine gli cavò gli occhi”.
Un’altra vittima, Bartolomeo Panizza, aggiunge:
“Era il 12 gennaio del 1945. Con altri 11 ostaggi ci stavano portando al fortino del Centa per fucilarci. In attesa dell’esecuzione, il Luberti, che montava la guardia con il suo vice, Luciano Zambianchi (il quale venne fucilato subito dopo la Liberazione) ci sottoponeva ad ogni sorta di sevizie. Io sono stato l’unico di quei famosi sessanta prigionieri a salvarsi. E’ stata una pura fortuna”.
Il luciferino e furbissimo boia di Albenga riuscì a cavarsela quando un suo “scagnozzo” tentò di farlo fuori. L’episodio ebbe come protagonista un ex saltimbanco, tale Carletto, suo collaboratore che egli era riuscito ad infiltrare nelle file partigiane. Carletto venne scoperto e fatto prigioniero, ma riuscì a scappare e a rimettersi in contatto con Luberti. Era l’inverno del 1944 [inverno 1944-1945]. Il saltimbanco sentiva odor di Liberazione e, per mettersi in buona luce con i futuri vincitori, per farsi perdonare delle orrende malefatte, meditò di uccidere il boia. Prese il suo fucile Thompson e lo puntò contro Luberti. Ma questi, che aveva intuito il voltafaccia del subalterno, si era premunito, svuotando le cartucce dalla polvere da sparo. Quello tirò il grilletto davanti al riso sguaiato del capo, il quale, subito dopo, lo freddò con la rivoltella.
Terminata la guerra, i partigiani si misero alla caccia della belva. Ma lo presero soltanto il 17 maggio del 1946, mentre stava andando in Francia per arruolarsi nella Legione straniera, come fecero tanti altri collaborazionisti che cercavano di scamparla.
Al processo i giudici lo condannarono a morte, ma la sentenza non fu eseguita subito. Così quando, in applicazione della nuova Costituzione, fu abolita la pena di morte, quella venne tramutata in ergastolo.
Luciano Luberti stesso racconta, con un pizzico di disprezzo per la novella Repubblica, come accadde poi che da condannato all’ergastolo si ritrovò a godere della piena libertà:
“La Cassazione giostrò tra testo costituzionale ed indulgenze varie al fine di ridurre le pene. E così il mio ergastolo fu trasformato in venti anni; si trattò di un’operazione portata avanti sotto banco, senza clamore… Infine il ministro Pella aveva accordato un ulteriore condono di dieci anni, ma ne sarebbero restati da scontare due o tre… ma il procuratore generale di Genova, con arditissima piroetta giuridica, ci mise fuori subito” [...]
Fonte: Amare fino alla morte, suppl. Il Messaggero 1994
Vincenzo Cerami, Cenni biografici di un boia, Misteri d'Italia  

[n.d.r.: seguono alcune note sulla spia Carletto, detto anche 'Carletto il cantante', al secolo Amleto De Giorgi, spia sopra citata]

31 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della I^ Zona Operativa Liguria - Relazione sui rastrellamenti subiti il 10 ed il 20 gennaio 1945 "nelle valli di Caprauna, Arroscia, Lerrone e Andora. Dopo l'arresto del comandante Menini ebbe inizio l'atteso rastrellamento nelle valli suddette. Il 10 gennaio una colonna di tedeschi, partita da Pieve di Teco, circonda Gavenola e rastrella il paese, catturando il garibaldino 'Carletto', il quale ha tradito i propri compagni facendo giungere i tedeschi presso la sede del capo di Stato Maggiore ma con esito per loro sfavorevole...
5 marzo 1945 - Dal capo di Stato Maggiore della Divisione "Silvio Bonfante" al comando della Divisione - Informava che i tedeschi, guidati da "Carletto", avevano eseguito una puntata su Nasino per sorprendere il Distaccamento "Giannino Bortolotti" della II^ Brigata "Nino Berio" ma senza causare perdite tra i partigiani...
6 marzo 1945 - Dal comando [comandante "Domatore" Domenico Trincheri] della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo", prot. n° 4, al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che alcuni reparti tedeschi, accompagnati da alcuni delatori, tra cui "Carletto"ed il "Boia", erano arrivati da Albenga e da Ponti di Nava in Val Pennavaira, dove si erano "limitati a rastrellare il fondo valle senza avventurarsi nelle campagne"...
21 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 1/107, al capo di Stato Maggiore ["Ramon", Raymond Rosso] della VI^ Divisione - Comunicava che il dottor Massone, di cui si era disposto l'arresto, si era nascosto; che occorreva vagliare attentamente, sentiti i testimoni e studiati attentamente i fatti concreti addebitatigli, la posizione del podestà di Ortovero (SV); che occorreva fermare ed interrogare la signora Maria Raffaello che a Ceriale (SV) svolgeva attività filo-fascista; che era necessario indagare sulla signora Scialdema di Ortovero, vista insieme alla probabile spia filotedesca "Carletto".
30 marzo 1945 - Da "Pantera" [Luigi Massabò, vice comandante della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] alla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione - Avvertiva che "... l'ex garibaldino 'Carletto' è stato ucciso il 24 u.s." ad Albenga"...
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), "La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945)" - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999
 
[...] A questo punto si pone il problema di definire soggetti come Luberti che, oltre a mostrare una personalità sadica e tratti di sadismo sessuale, svolgono anche una attività che giustifica queste caratteristiche. Accanto al soggetto che agisce come sicario o torturatore al semplice scopo di ottenere un vantaggio concreto (denaro, status…) senza trarne piacere, è presente un più esiguo gruppo di criminali che sceglie una attività perché sintonica col proprio io e con le proprie esigenze perverse. Guadagno o vantaggi materiali, a questo punto, costituiranno un tornaconto aggiuntivo e collaterale alla primaria fonte di soddisfazione: l’uccisone, la tortura e lo stupro.
Per esprimere il concetto con le parole di un sadico “Lo scopo è la sofferenza perché non c’è maggior potere su un’altra persona di quello derivato dall’infliggerle dolore, dal forzarla a subire sofferenze senza essere in grado di difendersi. L’essenza dell’impulso sadico, quindi non è altro che il piacere della completa dominazione su di un’altra persona”….”stava fremendo dal dolore, e mi è piaciuto. In quel momento stavo unendo il culmine del godimento sessuale con lo stupro ed il culmine del mio potere con la paura la somma di tutto ciò è al di la di ogni spiegazione… io ero vivo per il solo scopo di causare sofferenza e riceverne gratificazione sessuale. Mi stavo godendo il dolore come anche il sesso…” (Mike De Bardeleben)
Dalle narrazioni dei superstiti di Albenga, l’attività di Luberti sembra includere anche il  sadismo sessuale. Il compiacimento che provava nella sua attività di torturatore, infatti, era noto. Come lo era la sua sete di crudeltà. Luberti non mostrerà mai pentimento o rimorso per gli atti commessi, anzi, durante una intervista televisiva del 1997 (organizzata dal sociologo Sabino Acquaviva), ricorderà con malcelato orgoglio i tempi della Wehrmacht.
Chiara Camerani
(Psicologa, criminologa e direttrice Cepic) direzione@calasandra.it, Luciano Luberti: un possibile caso di psicopatia, www.cronaca-nera.it, 22 marzo 2013

[...] Un documento straordinario, spaventoso, ma anche carico di insidie per il "fascino sinistro" che emana dal personaggio - il massacratore charmeur è ben tratteggiato da una delle sopravvissute - e non solo per questo: ma di ciò parleremo più avanti. Chi cerchi nell' intervistato la freddezza o il gesto trattenuto di un Priebke rimarrà deluso. Niente in Luberti tradisce contrizione. Non la voce né lo sguardo sornione né il ghigno perpetuo. Un personaggio inquietante, che sintetizza anche nella figura falstaffiana ferocia nazista e teatralità all' amatriciana. "Gli ho fatto un buco così, gli ho fatto, a Giovanni il Siciliano", ripete disegnando nell' aria un melone. "L' ho beccato dopo che aveva fatto fuori quel poveretto delle Brigate Nere. Gli ho scaricato in testa dieci bossoli, un buco così gli ho fatto a Giovanni il Siciliano...". Non la banalità, ma la voluttà del male. Prima di affrontare i rischi di questa operazione televisiva (che potrebbe sollevare le stesse perplessità che sollevò due anni fa Combat Film), converrà ricordare chi è il Boia d' Albenga, un personaggio romanzesco su cui s' è esercitato anche uno scrittore come Vincenzo Cerami. Fascista innamorato del Fuhrer, a ventidue anni s' arruola direttamente nella Wehrmacht. La sua brillante carriera nell' esercito tedesco comincia con il rastrellamento di partigiani italo-francesi in Corsica: è determinato, efficiente, merita la croce di ferro di seconda classe.
Quindi nel dicembre del 1944 il trasferimento ad Albenga, un paesino vicino a Savona che ospita il comando della Feldgendarmerie, la polizia militare del Fuhrer. Sevizie d' ogni genere. Torture. Anche stupri con bottigliette di gassosa infilate a calci. Capezzoli tagliati. Pareti imbrattate di sangue. "Beh, certo, la Feldgendarmerie lavorava sodo", dice ora il Boia un tantino compiaciuto. "Stavamo sulle palle anche ai camerati di Savona. Ma - che volete? - interpretavamo la legge, eravamo fedeli al regolamento". Dopo la guerra, la foce del fiume Centa restituirà cinquantanove cadaveri. "Befehl ist Befehl, l' ordine è ordine", continua a ripetere oggi il Boia, scuotendo la candida barba che va giù a cascata. "E io, al contrario di Priebke, ho obbedito senza lacrimare... Povero Priebke, ha 82 anni: finge un po' di pentimento, scarica su Kappler, ma se l' ha fatto è perché sentiva di obbedire volentieri a quell' ordine. Che me stanno a cantà?". Nell' aprile del 1945, Luberti riesce a fuggire. Prima Torino, poi Napoli, il tentativo di arruolarsi nella Legione Straniera. Il 17 maggio del 1946, sulla banchina del porto di Genova, viene riconosciuto da una sua vittima. Al processo i giudici lo condannano a morte. L' anno successivo la Corte d' Appello di Genova trasforma la sua pena prima in ergastolo, poi in 19 anni e sei mesi di carcere. L' amnistia del 1953 gli toglie ancora dieci anni. Nel luglio del 1956 il Boia torna libero. Possibile? Sentiremo ancora parlare di lui [...]
Simonetta Fiori, Sevizie e stupri. Torna l'incubo del boia di Albenga, la Repubblica, 11 febbraio 1997

Luciano Luberti, classe 1921, nacque a Roma, nell'infanzia si trasferì a Padova, dove dapprima frequentò le scuole elementari all'Istituto Pestalozzi, in via Montebello. Effettuò successivamente studi commerciali, diventando ragioniere.
Il Luberti è stato personaggio dagli aspetti psicologici inquietanti, frequentazioni spesso eccellenti hanno caratterizzato la sua ambigua esistenza. Ammise di avere avuto una relazione con un omosessuale appartenente ad una famosa famiglia ebraica.
IL BOIA DI ALBENGA
Partecipò alla Seconda Guerra Mondiale, dopo non aver portato a termine il corso per Allievi Ufficiali, prestando servizio, sino all' 8 settembre 1943, nell'Artiglieria.
Successivamente entrò nella Wehrmacht: si arruolò dapprima nella Guardia costiera ma poi fu inviato nella Feldgendarmerie.
Fremeva d'ammirazione per i nazisti (i fascisti gli parevano troppo “molli”). Combatté a Nettuno (RM), poi venne trasferito ad Alassio (SV), addetto alle batterie costiere; di lì, grazie alla conoscenza della lingua, passò al servizio, dapprima quale interprete quindi come alter ego, del maresciallo Strupp, comandante della Feldgendarmerie di Albenga, cioè il luogo dove venivano interrogati i partigiani, o i presunti tali, molto spesso davanti a padri, madri, figli, mogli o sorelle che non di rado subivano torture per far parlare i parenti inquisiti.
Si rese responsabile di torture, maltrattamenti, persecuzioni personali, abusi sessuali ed esecuzioni nei confronti non solo di partigiani ma anche di civili.
Così Luberti venne battezzato col sinistro epiteto di "Boia" di Albenga (SV), perché ritenuto torturatore e massacratore di una sessantina di albenganesi.
Molti testimoni, alcuni dei quali ancora viventi, ricordano che Luberti, la mattina, soleva leggere brani della Bibbia, mentre il pomeriggio andava a torturare i prigionieri dentro ad un bunker. Violenze di ogni genere, senza mai pentirsi o provare rimorso, pietà per le vittime; in uno speciale televisivo organizzato dal sociologo Sabino Acquaviva (nel 1997), ricordò con malcelato orgoglio: "Beh, certo, la Feldgendarmerie lavorava sodo.".
Altro tragico fatto il tradimento dell'amico d'infanzia ebreo Umberto Spizzichino.
Umberto Spizzichino e Luciano Luberti erano amici fin dalle scuole elementari all'Istituto Pestalozzi, in via Montebello.
Nel 1944 Umberto decise di fuggire in Svizzera e chiese aiuto all'amico. Luciano gli diede appuntamento in viale Manzoni. Dove le SS lo portarono in via Tasso, poi a Fossoli, poi ad Auschwitz dove morì il 28 agosto 1944.
Terminata la guerra, ad Albenga, in una fossa comune alla foce del Centa vennero riesumate ed identificate 59 salme.
Il 10 giugno 1946 tutte le 59 bare furono portate in Piazza San Michele, ad Albenga, ove si svolse una solenne cerimonia funebre; 2 lapidi vennero apposte alle pareti del bunker ove avvennero le torture e gli assassinii:
- la prima da parte dell'Unione Donne Italiane (U.D.I);
- la seconda da parte dell'Amministrazione comunale e di varie altre associazioni antifasciste.
Luberti, insieme al "boia di Genova" Friedrich Engel, è stato considerato dagli storici un "dio del male". Catturato nel 1946, riconosciuto da un prigioniero cui aveva torturato ed ucciso il fratello, mentre tentava di espatriare da Ventimiglia per arruolarsi nella Legione Straniera, fu accusato di cinquantanove delitti (tra torture ed omicidi).
Sottoposto a processo nel 1946 per i delitti nazifascisti, fu dapprima condannato alla pena di morte, «mediante fucilazione alla schiena», il 24 luglio 1946. La sentenza venne emessa dalla Corte d'Assise straordinaria di Savona, e fu l'ultima tra l'entrata in vigore dell'amnistia e la fine del 1947, anno in cui la Corte cessò le sue funzioni.
Per Luberti successivamente, facendo leva sull'infermità mentale, la condanna fu tramutata in ergastolo e quindi con l'amnistia (concessa dal guardasigilli Palmiro Togliatti e secondo una fonte opportunamente teleguidata da uno zio cardinale) a 7 anni di carcere militare. [...]
PUBBLICAZIONI
- Lionarto Kreyscaps, Luciano Luberti: assassino per onore
- Luciano Luberti, In difesa del popolo dei pazzi, programma in 7 puntate dalla rubrica televisiva - La gente scomoda (Telecittà, Bologna) febbraio-aprile 1982 / Luciano Luberti (M.T.), Luberti (Collana di documentazione sul nostro tempo; 9. ), Padova, 1982. BN 83-12359
- Vincenzo Cerami, Fattacci. Il racconto di quattro delitti italiani, Einaudi (Einaudi Tascabili. Stile libero n.483) , Torino, 1997, ISBN 88-06-14598-3
- Gianfranco Simone, Il boia di Albenga. Un criminale di guerra nell'Italia dei miracoli, Mursia, Vicenza, 1998, ISBN 884252378X
- Pier Mario Fasanotti e Valeria Gandus, Bang Bang, Marco Tropea Editore, 2004, ISBN 88-438-0422-7
- Giuliana Giani e Massimo Michelini, Luciano Luberti: il fiore putrefatto dell'amore, dal n° 3 di "M Rivista del mistero" , Alacran Edizioni, 2007
- Nanni De Marco, 1940-1945: La guerra dei Savonesi, ANPI Legino e Archivio del Partigiano Ernesto, Savona, 2002
- Luciano Luberti, La preghiera d'Ignazio e altre poesie, Organizzazione Editoriale Luberti, 1969
- Giuliano Luberti, Annali del debito pubblico / Giuliano Luberti, Roma: Organizzazione editoriale Luberti, 1966. BN 665881
- Renzo Vanni, Trent'anni di regime bianco, Giardini, 1976
- Petra Rosenbaum, II nuovo fascismo: da Salò ad Almirante: storia del MSI, Feltrinelli, 1975
- Luciano Luberti, Affaire Luberti, 1982-1984, Organizzazione Editoriale Luberti, 1987
- Application No. 9019/80: Luciano Luberti Against Italy: Report di Luciano Luberti - 1982
- Max Trevisan, Lukas, Organizzazione Editoriale Luberti, 1965
- Luciano Luberti, Le vacanze / grottesco di Max Trevisant, Roma: OEL, 1967 BN 677971.
- Luciano Luberti, I camerati / Luciano Luberti, Roma: Organizzazione editoriale Luberti, 1969,BN 709294
- Luciano Luberti, Israele : Appunti sulla crisi del Medio Oriente, Roma: Luberti, 1967, BN 6710260.
- Luciano Luberti, L'ebreo e il nazista, Roma: Organizzazione editoriale Luberti, 1968, BN 6814035.
- Luciano Luberti, La preghiera d'Ignazio, 2. ed., Roma: Organizzazione editoriale Luberti, 1975,BN 769984.
- Luciano Luberti, Altri dialoghi: gli assassini, Roma: Organizzazione editoriale Luberti, 1969, BN 7010974.
- Luciano Luberti, Furia, Roma: Organizzazione Luberti, 1964. BN 647002.
Armati Cristiano e Selvetella Yari, Roma Criminale, Newton & Compton, 2005

Fabio, Luciano Luberti..., crimeworld.forumcommunity.net, 31 dicembre 2011

Dottor Luberti, dovrei odiarla, ma non posso. Lei uccise mio cugino Esildo Simone. Non ricorda quando mia zia, una bella ragazza bionda, s'inginocchiò davanti alla Kubelwagen del capitano che aveva arrestato Esildo? II tedesco stava per cedere, conosceva mia zia perché occupava la sua casa, ma gridò: «Nein!».
Non ricordo né sua zia, né suo cugino.
Certo, visto che ne avete uccisi 59, stando ai nomi sulla lapide del bunker, alla spiaggia.
Erano di più.
Per gli Alleati erano duecento. E' vero?
Ridacchia. Usciamo insieme dal misero bilocale. Mi offro di portarlo in auto a ritirare le analisi.
Lei è sempre stato nazista, non fascista?

Fascista mai. I fascisti non mi piacciono, erano spacconi, ma non li disprezzo, ne sono stati uccisi tanti. E quelli dall’altra parte non erano migliori di noi. Sparavano alle spalle. Comunque nel ‘40 già capivo che avremmo perso, perché frequentavo gli ambienti vaticani e loro sapevano tutto.
Ecco perché Luberti, liberato, trovò un posto alle Acli. Ad Albenga dicono che lo proteggeva uno zio cardinale. C'era un suo parente fra quei prelati?
Mio nonno era un abate. Mio padre non me l'ha mai fatto conoscere. Lo odiava.
Simone Gianfranco, Io, boia di Albenga. Colpevole senza rimorsi, Corriere della Sera, 16 gennaio 1995

Luciano Luberti detto il Boia di Albenga (Roma, 25 aprile 1921 - Padova, 10 dicembre 2002) è stato un militare e criminale italiano e collaborazionista con il regime nazista durante l'occupazione tedesca dell'Italia. Fu responsabile di diversi crimini e dell'uccisione di almeno 59 persone durante la guerra, episodio conosciuto come strage di Albenga.
Biografia
Nacque da padre meccanico a Roma dove frequentò le elementari all'Istituto Pestalozzi. Divenne poi ragioniere, lavorando anche come commesso in un negozio. Soldato di leva della classe 1921, venne ammesso al ritardo alla leva perché impegnato negli studi universitari di Economia e Commercio.
Secondo il suo foglio matricolare il 4 marzo 1941 fu arruolato nel 3º reggimento Artiglieria Celere motorizzata. Fatti alcuni corsi militari, il 16 aprile divenne caporale e il 16 giugno fu promosso sergente. Venne inserito nel corso per Allievi ufficiali, ma il 16 novembre venne ritrasferito al Deposito del 3º Reggimento Artiglieria Celere per completare i suoi obblighi di servizio militare perché dichiarato non idoneo ad allievo ufficiale. Il 3 maggio 1942 venne denunciato al tribunale di Spoleto per furto e pertanto fu sospeso dal grado di sergente; il reato fu poi amnistiato l'8 ottobre 1945.
Dopo l'armistizio
Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 Luberti lavorò per le SS di Roma. Tuttavia Luberti molte volte negò quanto detto, dicendo di non essere mai stato nel Regio esercito, ma che quello era solo un omonimo.
Nel novembre del 1943 entrò in contatto con Umberto Spizzichino, che era stato suo compagno alle scuole elementari Pestalozzi. Secondo la ricostruzione dei carabinieri effettuata nel dopoguerra, nel gennaio 1944 Spizzichino chiese a Luberti un nascondiglio sicuro per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi. Luberti si offrì di farlo fuggire in Svizzera, dove sarebbe stato in contatto con un altro ebreo che in Italia lo aveva incaricato di acquistare preziosi. Luberti gli diede appuntamento per il 23 gennaio 1944 in viale Manzoni per consegnargli i documenti per l'espatrio in Svizzera; in realtà Spizzichino venne consegnato alle SS dallo stesso Luberti. Il 22 febbraio Umberto Spizzichino riuscì a inviare al fratello Alessandro una lettera in cui comunicava che si trovava nel carcere di Regina Coeli, formulando il dubbio che Luberti fosse il responsabile del suo arresto. Infatti secondo Spizzichino i due dopo essersi incontrati si recarono presso il comando delle SS che si trovava in via Tasso dove furono entrambi tratti in arresto, ma il fatto che poi Luberti non fosse stato portato anch'esso a Regina Coeli gli fece sospettare il tradimento. Nello stesso mese Umberto Spizzichino fu trasferito nel campo di prigionia di Fossoli vicino a Modena, poi ad Auschwitz dove morì il 28 agosto 1944. Nella lettera scritta al fratello raccontò il tradimento:
Dopo un periodo di addestramento nella Wehrmacht Luberti fu assegnato alla Marina costiera tedesca, di Capo di Santa Croce di Alassio come addetto alle batterie costiere. Poi fu inviato alla Feldgendarmerie di Albenga come traduttore.
Il boia di Albenga
In seguito Luberti fu impiegato come traduttore presso la Feldgendarmerie di Albenga e successivamente presso il tribunale militare di guerra della 34 Infanterie-Division, che fu insediato nella palazzina dove aveva sede la locale Brigata Nera che faceva da carceriere. Il tribunale era solitamente composto dal maresciallo capo Friedrich Strupp che comandava la Feldgendarmerie e svolgeva il ruolo di accusatore, dai sergenti maggiori Fuchs e Nusslein. Luberti fungeva da traduttore, limitandosi a tradurre le domande agli imputati e riferire le risposte ai membri del tribunale. I processi si concludevano di solito con la condanna a morte e i prigionieri venivano condotti presso la foce del fiume Centa dove venivano allineati presso una fossa e uccisi con un colpo alla nuca. L'esecuzione della sentenza veniva assolta dal maresciallo Strupp e da Luberti.
La prima esecuzione presso la foce del fiume Centa avvenne il 3 dicembre 1944 quando furono fucilati quattro civili contigui alla resistenza. Secondo alcune testimonianze, mentre si trovavano prigionieri nella Feldgendarmerie furono torturati da Strupp e da Luberti. Il 16 dicembre avvenne una nuova fucilazione in cui trovarono la morte i due fratelli Gandolfo e un altro civile. Il marchese Andrea Rolandi Ricci, che divenne poi commissario prefettizio della città, ne perorò inutilmente la grazia.
Luberti fu responsabile di torture, maltrattamenti, persecuzioni personali, abusi sessuali ed esecuzioni nei confronti di circa una sessantina di partigiani e di civili tanto che fu soprannominato il "boia" di Albenga. Partecipò anche a molti rastrellamenti nei comuni vicino ad Albenga. Il 13 dicembre 1944 a Lusignano fece un rastrellamento che portò all'uccisione di due civili. Fu più volte interrogata la moglie del partigiano Libero Emidio Viveri. Per costringerla a confessare dove fosse nascosto il marito, Luberti prese per una gamba Angelo il figlio duenne, tenendolo appeso nel vuoto fuori dal balcone del quarto piano, e minacciando la madre di lasciarlo cadere nel vuoto; pur non ottenendo le informazioni non realizzò la minaccia. La signora Viveri venne torturata dallo stesso Luberti e detenuta sette giorni nelle carceri di Via Trieste. Durante il processo, molti testimoni raccontano che di ritorno in gendarmeria dopo le fucilazioni, ogni volta il Luberti era solito lasciarsi andare a manifestazioni rumorose di allegria per le avvenute morti.
Molti testimoni ricordano che Luberti, la mattina, soleva leggere brani della Bibbia pur professandosi non credente, mentre il pomeriggio andava a torturare i prigionieri dentro al bunker presso la foce del fiume Centa. In uno speciale televisivo organizzato dal sociologo Sabino Acquaviva (nel 1997), ricordò con orgoglio: "Beh, certo, alla Feldgendarmerie si lavorava sodo."
Fine della guerra e primo processo
Terminata la guerra, ad Albenga, in una fossa comune alla foce del Centa vennero riesumate e identificate 59 salme. Il 10 giugno 1946 tutte le 59 bare furono portate in Piazza San Michele, ad Albenga, dove si svolse una solenne cerimonia funebre. Due lapidi vennero apposte alle pareti del bunker dove avvennero le torture e le fucilazioni: una da parte dell'Unione Donne Italiane e la seconda da parte dell'Amministrazione comunale e di varie associazioni antifasciste.
Il 25 aprile 1945 Luberti si unì alle 34° Infanterie-Division che dopo aver lasciato la Liguria si stava spostando verso il Piemonte per poi dirigersi in Germania. A Torino trovò dei falsi documenti tedeschi e si fece ricoverare per farsi estrarre una scheggia di granata, ma venne preso dagli alleati e portato nel carcere di Ivrea. Un partigiano, Bruno Schivo detto Cimitero, al quale il boia aveva ucciso il padre e la fidanzata, lo riconobbe nel carcere in mezzo agli altri, ma il comandante del campo non glielo consegnò, ritenendo che fosse un tedesco. Luberti fuggì a Portici, dove si nascose da un panettiere, e dopo qualche tempo decise di arruolarsi nella Legione Straniera. A Napoli, occupata dai francesi, gli venne detto di dirigersi verso Marsiglia per arruolarsi. Venne catturato nel 1946, riconosciuto da Bruno Mantero, un poliziotto, che si era arruolato proprio per catturare Luberti, che anni prima gli aveva torturato e ucciso il fratello accusato di essere un partigiano. Stava tentando di espatriare da Ventimiglia [...]
Redazione, Luciano Luberti, owlapps

domenica 4 ottobre 2020

Stragi alla foce del Centa fra il 1944 e il ’45

Il bunker alla foce del torrente Centa in Albenga (SV) - Fonte: Wikipedia
 
Albenga era la sede del comando dell’80° Reggimento della 34a Infanterie-Division della Wehrmacht e sempre ad Albenga erano presenti sia il tribunale militare del reggimento sia il plotone della Feldgendarmerie del reggimento. Molti dei partigiani che venivano catturati nel campo operativo del reggimento venivano trasferiti nella caserma di Albenga, dove subivano un processo sommario per  poi, nella grande maggioranza dei casi, essere condannati a morte: sentenze che venivano eseguite entro pochi giorni dalla pronuncia. Alcuni nomi si resero protagonisti di processi istruiti nel dopoguerra: il comandante del reggimento e presidente del Tribunale Militare, maggiore Gerhard Dosse; il maresciallo Friedrich Strupp, spesso Pubblico Ministero durante i dibattimenti, accusato di torture e sevizie nei confronti degli arrestat; gli italiani, ufficialmente interpreti, ma autori di feroci delitti, Luciano Luberti e il suo vice Romeo Zambianchi, questi l’unico che venne condannato a morte dalla Corte d’Assise di Savona con una condanna capitale effettivamente eseguita. Ad Albenga, quasi sempre alle foci del torrente Centa, tra partigiani, collaboratori, fiancheggiatori e civili vennero giustiziati più di cento persone [...] Bruno Mantero, poliziotto ferroviario, fratello di Agostino, patriota della SAP di Albenga, arrestò a Ventimiglia nel 1946 Luberti, che tentava di espatriare in Francia [...] Durante una perlustrazione mirata nel borgo di Lusignano vennero catturati il 6 dicembre 1944 due partigiani, Francesco Baracca De Pascale e Giovanni Giletta Gugliotta. I due furono subito uccisi con due colpi alla nuca. Gugliotta freddato dal tristemente conosciuto maresciallo Friedrich Strupp della feldgendarmerie di Albenga, De Pascale dall’ancor più feroce Luciano Luberti [...]
[...] In Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9,  StreetLib, Milano, 2019, si apprende: [...]
Rapporto dei carabinieri di Albenga del 24.6.45: Il dottor Russo Pierluigi giunse ad Albenga verso la metà del febbraio 1945 in servizio presso la locale brigata nera. Dimostrò subito particolare zelo nel coadiuvare la Feldgendarmerie di Albenga che in quel periodo spiegava una feroce attività di intimidazione attraverso l’uccisione di numerosi ostaggi. Il dottor Russo era coadiuvato dalla sua amante Andreis Anna, la quale esercitava la sua deleteria influenza sul maresciallo della Feldgendarmeria Strupp, di cui contemporaneamente ne era l’amante. Il dottor Russo vantava la sua appartenenza alla brigata nera e si dichiarava fervente nazifascista. Portava sulla manica destra della giubba la scritta “Per l’onore d’Italia”.
Interrogatorio di Russo Pierluigi del 30.7.1945: Sono iscritto dal 1927 al Pnf fino al 1934 quando venni
espulso per morosità, non sono mai stato iscritto al PFR [...] Andai quindi a Genova a consigliarmi con degli amici che mi dissero che solo le brigate nere erano il rifugio sicuro degli sbandati e come medico avrei potuto avere un impiego adeguato. Il 15 febbraio mi presentai al comando della brigata nera di Savona dove venni incorporato ed inviato subito ad Albenga per compiere un’inchiesta amministrativa a carico del comandante del distaccamento, Ten. Scippa, arrestato sotto l’imputazione di ammanco per circa mezzo milione. Le indagini da me condotte riuscirono positive e rimasero implicati oltre al tenente anche cero Cesare Lampasoma, sottufficiale della brigata nera, Raineri, direttore della mensa e magazziniere della brigata ed indirettamente anche il pretore di Albenga, Avv. Tacconi. Questo risultato portò ad una serie di denunce contro di me ed il 10 marzo 1945 fui fatto rientrare a Savona sotto inchiesta, esentato da qualsiasi servizio e con l’obbligo di vestire in borghese. A fine mese venni alla fine smobilitato e cessò ogni mio rapporto con le brigate nere. Con la Feldgendarmeria tedesca ebbi soltanto rapporti superficiali di pratiche d’ufficio. Non conosco l’attività politica e spionistica esercitata da Andreis Anna, detta Zola, in favore della Feldgendarmeria tedesca. La mia relazione con lei fu interrotta nel 1943. Non sono mai stato a conoscenza circa presunte uccisioni di ostaggi, maltrattamenti a detenuti, sevizie e violenze carnali a donne fermate imputate alla Feldgendarmerie, in quanto durante la mia breve presenza ad Albenga non è avvenuto nulla di tutto ciò.
Rapporto del Comando Polizia Militare Forze Armate Americane del Mediterraneo del 23.8.45:
Le seguenti informazioni sono state ricevute dal sottufficiale Alfred Fuchs che si trova attualmente in campo di concentramento a Verona. Egli appartenne al I° Btg. dell’80° Rgt. della 34^ Divisione di Fanteria. Questo reparto aveva rinforzato la gendarmeria di campo di Albenga fra Imperia ed Alassio. Il capo della gendarmeria da campo era il Maggiore Gerhard Dosse e questo Dosse era di solito incaricato di eseguire spedizione terroristiche che avvenivano fra la mezzanotte e l’alba con il pretesto di scovare i partigiani. Il criminale di gran lunga più attivo fu il Maresciallo Fritz Strupp, sposato, residente a Coblenza, che era in relazione con una certa signora Anna di Albenga. Lo Strupp ha personalmente ucciso la maggior parte delle persone fucilate ad Albenga e presenti in un album fotografico di sua proprietà. Queste persone erano indicate allo Strupp da tale Alfredo Ghio, un partigiano disertore. Un altro criminale molto attivo era tale Luberti, proveniente dalla Marina. Secondo le dichiarazioni del Fuchs, un italiano, tale Dottor Russo, appartenente alle brigate nere, sarebbe anch’esso stato un attivo criminale.. 
Bisterzo Felice: nato a Stoccarda, il 16 giugno 1913, squadrista della Brigata Nera “Briatore”, distaccamento di Albenga
Interrogatorio del 15.7.1945: Mi sono iscritto al PNF nel 1935 e al PFR dall’ottobre del 1944. Entrai a far parte delle brigate nere ai primi di dicembre 1944 fino al 24 aprile 1945. L’8 settembre ero soldato all’autocentro 2° di Trieste dove venni fatto prigioniero da tedeschi e trattenuto fino al mese di novembre. In questo periodo fuggii per ben tre volte e indotto poi a lavorare nella Todt come operaio. Mi sono arruolato nella brigata nera volontariamente l’1.12.44. Ammetto di aver dato due schiaffi per ordine del maresciallo della Feldgendarmeria all’intendente del comandante partigiano “Domatore”, arrestato in Albenga, quando questi era già orribilmente straziato, il boia Luciano dopo di ciò mi disse “Gliene hai date ancora poche”. Ho accompagnato, prelevandoli dal carcere della Feldgendarmeria, numero 17 ostaggi alla spiaggia dove i tedeschi ad uno ad uno li prendevano da noi e li portavano ad una cinquantina di metri dove, con un colpo alla nuca, li giustiziavano; quella volta non ci hanno fatto sotterrare né fare la guardia ai morti. Mi sono fatto consegnare soldi e viveri dalle famiglie, assicurandole che i loro congiunti, si trovavano in carcere e stavano bene mentre invece erano già stati giustiziati, tenendomi i soldi ed i viveri. Le esecuzioni al mare erano eseguite dal maresciallo Strupp e dal boia Luciano. Il partigiano Aldo Basso è stato fatto arrestare dal Brazzi Ennio, ex partigiano, passato al servizio delle bande nere. Gli esponenti della brigata nera di Albenga sono Reiner (direttore di mensa), Ten. Contini ed il vice comandante Lampason Cesare. Il 12 gennaio 1945 venni arrestato per aver fatto allontanare il partigiano, Tenente Aldo Basso, e venni tradotto in prigione nella federazione repubblicana di Savona dove rimasi fino al 2 di aprile. Rilasciato, ripresi servizio come motociclista presso la brigata nera a Savona, rimanendovi fino al giorno 22 quando mi nascosi presso una famiglia. Il 10 maggio mi presentai alla polizia di Albenga che mi condusse al carcere di Savona [...]
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I Caduti della Lotta di Liberazione nella I^ Zona Operativa Liguria, ed. in pr., 2020 
 
[  altri lavori di Giorgio CaudanoGiorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016   ]
 
Fra l’ottobre del 1944 e l’aprile del ’45 ad Albenga, in via Trieste, in uno degli edifici Incis al momento disabitati, ma che in passato avevano ospitato famiglie di dipendenti statali, si insedia la Feldgendarmerie Trupp, un distaccamento della polizia militare della Wehrmacht che dipende dal 1° Battaglione dell’80° Reggimento Granatieri della 34ª Divisione.
Il 1° Battaglione, comandato dal capitano della riserva Gerhard Dosse, un insegnante prestato all’esercito e noto per la sua ferocia e lussuria, presidia la zona fra  Andora e Ceriale tramite singoli distaccamenti come quello ingauno e dipende a sua volta dall’80° Grenadier-Regiment, di stanza a Villa Grock, ad Oneglia.
Questo Reggimento è posto sotto il comando del colonnello Klaus Stange con il compito di controllare l’area compresa fra Imperia e Albenga e risponde alla 34ª Infanterie-Division, sotto l’alto comando del generale Theobald Helmut Lieb, che presidia il Piemonte meridionale e la Liguria occidentale. A capo della Feldgendarmerie c’è il maresciallo Fritz Friederich Strupp, da cui dipendono il sergente maggiore Alfred Fuchss, il caporale Johann Hans Nüsslein e una decina di graduati tedeschi. Li affianca un fascista, Luciano Luberti, che, arruolatosi nella Wehrmacht dopo l’8 settembre, è stato addestrato in Germania e, con il grado di caporalmaggiore, funge da interprete. Per effettuare azioni di rastrellamento e interventi di controllo del territorio, la Feldgendarmerie si avvale delle truppe del capitano Dosse e dei fascisti della Brigata nera locale intitolata a “Francesco Briatore”, fra i quali spicca per efferatezza Romeo Zambianchi. Le stragi a opera della Feldgendarmerie avvengono nei pressi della foce del fiume Centa, un’area pressoché inaccessibile alla popolazione sia per la presenza di fortificazioni militari erette dalla Todt in funzione antisbarco, sia per la vigente ordinanza del coprifuoco, che va dalle 17.30 alle 6 del mattino, sia infine per l’impraticabilità della zona, collocata fra la stazione ferroviaria e il mare e ricoperta da sterpaglia e canne. E’ tuttavia importante notare che, nel caso di Albenga, la procedura esecutiva messa in atto dalla polizia militare tedesca riflette solo parzialmente le misure repressive indicate dal sistema di ordini emanato il 17 giugno 1944 dal feldmaresciallo Kesselring. In tale sistema al rastrellamento, generalmente conseguenza di attacchi partigiani, segue la cattuta di civili sospettati di essere complici o parenti dei “banditi”, il loro concentramento presso strutture di raccolta, quindi l’interrogatorio aggravato dal ricorso a forme di tortura e, infine, la selezione dei “validi”, non coinvolti nel partigianato, che vengono inviati al lavoro in Germania, dai restanti prigionieri, destinati a formare un serbatoio di ostaggi funzionale a eventuali rappresaglie. In questo modo la procedura dei rastrellamenti, di per sé aberrante, assumeva il significato di un concreto monito rivolto alla popolazione per dissuaderla dall’offrire aiuto ai ribelli. La Feldgendarmerie di Albenga si discosta però da tali procedure mettendo in atto alcune modalità esecutive che eccedono in efferatezza la tattica imposta dalle direttive superiori. Fra queste si osserva: il frequente ricorso a segnalazioni di spie locali, sovente prive di qualsiasi fondamento; la forte propensione a far leva - grazie soprattutto alla stretta collaborazione con fascisti del calibro di Luberti e ingauni privi di scrupoli come il Zambianchi - su conflitti individuali e su contese di natura privata preesistenti fra le famiglie per provocare scontri, avviare rastrellamenti di cittadini e razzie e saccheggi dei loro beni; la “corte marziale”, priva d’ogni fondamento di legalità, allestita dal Dosse nella Feldgendarmerie; oppure ancora la tendenza a strumentalizzare con particolare pervicacia “l’invidia” personale e di classe, diffusa sul territorio anche a fronte del benessere di proprietari di aziende agricole, attività commerciali e imprese artigianali presenti in una piana come quella del Centa che, per estensione e fertilità, costituisce da sempre un’eccezione fra le modeste aree coltivabili del savonese. A queste costanti, occorre aggiungere le perplessità che i rastrellamenti di civili effettuati dai nazifascisti dell’albenganesesuscitano se interpretati, secondo la consuetudine, come deterrente in risposta a eventuali azioni partigiane o in funzione di possibili selezioni di personale valido e idoneo al lavoro rispetto a soggetti inabili. In altri termini, la Feldgendarmerie agisce con un surplus di crudeltà apparentemente gratuita e ingiustificata rispetto alle logiche belliche correnti e, data la frequenza e le dimensioni quantitative delle stragi di civili effettuate, non trova riscontro in altri eccidi avvenuti nel biennio 1944-’45 nel savonese né in altre zone operative liguri. A titolo esemplificativo, tra gli episodi di delazione, ricordo la spiata di Roberto Richero che, denunciando i Gandolfo, ricchi proprietari di un’azienda agricola a Ortovero, per aver fornito viveri ai partigiani, offrì il destro alla Feldgendarmerie per impossessarsi dei beni della famiglia Gandolfo, farne razzia e per procedere all’arresto prima di Silvestro e poi di Amerigo, che si era presentato al distaccamento per chiedere il rilascio del fratello. Entrambi, pur non avendo mai dato prova di convinzioni politiche antifasciste, vengono fucilati il 16 dicembre 1944 insieme a Gino Zunino, un giovane cestaio di 18 anni, forse renitente alla leva. Un altro episodio in cui la spiata di un concittadino diventa l’occasione perchè la Feldgendarmerie attui le sue trame criminose è data dall’arresto a Villanova di Albenga di Pietro Navone, ricco macellaio del paese, con i due figli Annibale e Alfredo. L’accusa di aver fornito cibo ai partigiani gli viene mossa da Giovanni Navone, detto “il Pipetta”, non imparentato con l’omonima famiglia di Villanova. Poco importa che - come in regime d’emergenza poteva capitare - i Navone fossero stati indotti con la forza a consegnare le loro carni ai partigiani.L’occasione è sufficiente per dare modo ai gendarmi tedeschi e alle Brigate nere di saccheggiare per una settimana i beni dei tre, i quali vengono fucilati il 27 dicembre del ’44 presso la foce del Centa con altri 4 ostaggi. Alle vicende ingaune sono anche legate due macabre beffe. La prima rimanda al proclama del 29 dicembre 1944, emesso dal commissario prefettizio maggiore Bruno Pacifici, che sollecita la popolazione a sostenere con denaro le famiglie dei concittadini economicamente in difficoltà per l’arresto dei loro congiunti che si ritiene siano imprigionati presso la Feldgendarmerie o le carceri savonesi di Sant’Agostino.L’offerta in denaro, che pare sia stata consistente, conferma che gli albenganesi sono all’oscuro delle reali macchinazioni dei nazifascisti. La seconda richiama la “tragica messinscena” della sera del 12 gennaio ’45, quando Luberti, in seguito a un sommario processo in cui ha riferito a 13 ostaggi che la loro condanna consiste in alcuni mesi da scontare nelle carceri di Sant’Agostino, mette nelle loro tasche un biglietto ferroviario con destinazione Savona.La verità emerge soltanto grazie alla fortuita fuga di uno degli ostaggi, Bartolomeo Panizza, attivo come Sap ad Albenga. Egli percorre sotto scorta con gli altri ostaggi il sentiero che dalla stazione ferroviaria conduce alla foce del Centa ma, giunto nel bunker di raccolta, riesce a liberarsi raggiungendo poi il Distaccamento di Domenico Trincheri (“Domatore”). Alla fuga rocambolesca del Panizza assiste accidentalmente anche Luigi Pesce, noto come “Luassu”, un partigiano incaricato dai compagni di esplorare la zona mare per verificare cosa avvenga in quell’area impraticabile. Durante il processo all’ex capitano Dosse, accusato di “reato continuato di violenza con omicidio da parte di militari nemici contro privati italiani”, la condanna imputatagli si ridurrà alle sole vittime del 12 gennaio ’45, ossia alla dozzina di civili sulla cui morte hanno testimoniato il superstite Bartolomeo Panizza, Luigi Pesce in quanto testimone oculare, nonché don Giacomo Bonavia, a conoscenza dei fatti per essere stato a sua volta catturato come ostaggio ma poi fortunatamente liberato per l’intercessione di Monsignor Cambiaso, vescovo di Albenga. Le stragi di civili presso la foce del Centa si succedono nelle seguenti date: 3, 16, 27 e 28 dicembre del ’44, in cui rispettivamente vengono fucilate 4, 3, 7 e 15 persone. Le stragi del 1945 avvengono il 12 e il 22 gennaio e il 18 e il 19 febbraio. Le vittime in questo caso sono costituite da gruppi formati da 12, 5, 6 e 5 persone. A fine guerra, fra il 6 e l’8 giugno 1945, in tre successivi disseppellimenti, vengono estratte dalle 7 fosse comuni ben 59 salme. Di queste, due soltanto non sono riconoscibili. Procedendo all’identificazione delle vittime, il dottor Marcello Navone, Vicepretore del Mandamento, e il dottor Mario Pagliari, Ufficiale sanitario del Comune di Albenga, annotano particolari raccapriccianti (“teschio irriconoscibile... mancante della dentatura superiore... alla caviglia del piede destro una ferita di pallottola... col volto irriconoscibile... dentatura mancante di denti”), segno indubbio delle torture cui vennero sottoposti gli ostaggi. Dei 57 corpi identificati: 5 appartengono a donne e soltanto 10 a partigiani. Per quanto concerne le classi di età: 11 vittime hanno meno di 20 anni (il 19,2%), 12 hanno un’età compresa fra i 20 e i 30 anni, 16 si collocano fra i 31 e i 40 anni, 10 fra i 41 e i 50 anni, 4 fra i 51 e i 60 anni e altrettanti nella fascia dai 61 anni in su. L’occupazione più diffusa è certamente il lavoro della terra, che impegna 15 agricoltori, ma ci sono anche piccoli commercianti e diversi esponenti d’una variegata serie di mestieri legati all’artigianato (molti ortolani, 3 cestai, un barbiere, un falegname, alcuni fornaciai e meccanici, un carrettiere e un fabbro), mentre scarsi sono i salariati dell’industria. Si distinguono inoltre alcuni cittadini benestanti (3 commercianti) e una famiglia di macellai. Per quanto concerne la provenienza, la maggior parte delle vittime è nata ad Albenga (11), Villanova d’Albenga (11) e Ortovero (6); 18 sono invece nativi di comuni limitrofi, ossia: Cisano, Garlenda, Borghetto d’Arroscia, Arnasco, Vendone, Pieve di Teco, Castelvecchio di Roccabarbena, Alassio, Loano, Finale e Stellanello; 3 provengono dal Ponente genovese; 4 dal “basso Piemonte”, 3 dalle province di Ferrara e di Padova e uno da Gela. Il gruppo più numeroso riflette il profilo sociale e professionale dell’area in cui le stragi sono avvenute è infatti formato da maschi di età compresa fra i 20 e i 40 anni, che costituisce il 49,1% del totale delle vittime, opera nel settore agricolo e proviene da Albenga o da paesi vicini.Infine, per quel che riguarda i criminali nazifascisti responsabili degli eccidi, rispetto alla componente italiana, l’unico a subire la condanna a morte per fucilazione, imputatagli il 21 marzo 1946 dalla Corte d’assise straordinaria costituita a Savona per i reati di collaborazionismo, è Matteo Zambianchi. Il Luberti, cui è imputata la medesima condanna con sentenza del 24 luglio 1946, nel 1949 ottiene la commutazione della pena nell’ergastolo che però, l’anno dopo, è tramutata dalla Corte di appello di Genova nella reclusione a 19 anni, a sua volta ridotta a 10 nel 1954. Di fatto, dopo 7 anni di carcere il Luberti nel 1953 viene liberato. Tuttavia torna agli onori della cronaca (nera) in quanto sospettato di contatti con gli esecutori materiali della strage di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 e con il principe Junio Valerio Borghese, noto per un tentativo di golpe nel dicembre dello stesso anno. Dal gennaio del ’70, dopo aver ucciso la giovane segretaria e amante Carla Gruber, è latitante. Catturato nel 1972 e condannato a 22 anni di reclusione dalla Corte di assise di appello di Roma, viene riconosciuto infermo di mente e rinchiuso nel gerontocomio di Aversa. Ricompare in un’intervista televisiva del 1998 e muore nel 2002. Riguardo ai graduati tedeschi che operarono nella Feldgendarmerie, dopo anni di silenzio, le indagini si riaprono una prima volta in seguito alla scoperta nel 1994 dell’“armadio della vergogna”, quando alla Procura militare di Torino pervengono due documenti: l’uno a carico di “ignoti militari” accusati del reato di violenza con omicidio contro “Gandolfo Amerigo e altri 58”, l’altro a carico di Strupp, Fuchss e Dosse in ordine a reati di “violenza, maltrattamenti contro privati nemici e ostaggi, saccheggio ed incendio”. In entrambi i casi l’anno successivo è però nuovamente chiesta l’archiviazione per “l’amplissimo lasso temporale trascorso” e, di conseguenza, per l’improbabile reperibilità degli autori materiali dei reati. Ma con la nomina a Procuratore militare di Torino di Pier Paolo Rivello e grazie soprattutto all’incontro pressoché casuale del procuratore con l’avvocato Claudio Bottelli, ex partigiano e presidente dell’ANPI di Alassio e Laigueglia, il 16 dicembre 2001 le indagini si riaprono e Gehrard Dosse è iscritto nel registro degli imputati.[...] Il Dosse è rinviato a giudizio con l’accusa dell’omidicio di dodici persone il 12 dicembre 1944, grazie ai riscontri probatori relativi a questa strage. Ma nei confronti degli eccidi perpetrati in precedenza e in quelli successivi, come quello di Vendone del 20 gennaio 1945 o quello avvenuto nel Cimitero di Leca di Albenga il 17 marzo dello stesso anno, la mancanza di prove è di ostacolo alla procedura penale. Agli interrogatori Dosse risponde con ostruzionismo: da un lato ribadisce che non ricorda e, dall’altro, nega addirittura di essere mai stato ad Albenga. Al processo i tre comuni di Villanova d’Albenga, Albenga e Arnasco si costituiscono parte civile (e Bottelli è uno dei tre avvocati che li rappresentano).Dopo aver ascoltato i teste, che ricordano la messinscena delle false corti marziali presso la Feldgendarmerie di via Trieste e le atrocità commesse, il 13 dicembre 2006 il Tribunale militare di Torino condanna all’ergastolo Gerhard Dosse e la sentenza passa in giudicato il 13 aprile dell’anno successivo [...] 
Giosiana Carrara, Stragi nazifasciste di civili nella provincia di Savona in Savona in guerra. Militari e vittime della provincia di Savona caduti durante il secondo conflitto mondiale (1940-’43/1943-’45), ISREC Savona, 21 gennaio 2013 

Macché pietà cristiana scambi di prigionieri umanitarisrni e tregue; basta coi se i ma i forse e i chissà; qui il sangue chiama sangue, e il solco si scava sempre di più.
- Si può sapere insomma cosa vuole ancora sto rompiscatole del vescovo, con le sue giaculatorie? Ma che lo faccia in cattedrale il suo mestiere, altro che remenarla sempre così coi tedeschi in gendarmeria: o gli piace o no, adesso qui comanda solo il boia - diceva il tenente della brigata nera, a rapporto dal federale.
- Se i prigionieri lui li torchia ben bene con tutti i sentimenti, ma non parlano lo stesso, allora i patti non servono né coi preti né col vescovo; e dunque va bene ammazzarli ancora nel bunker sulla spiaggia, sempre avanti così;  poi sto tenente scattava sull'attenti, salutava alla romana e se ne andava gridando secco -  a noi.
Il boia di Albenga, quando glielo domandano, dice che sì; nonostante tutto si può tentare ancora in segreto; anche se il lavoro aumenta non ci pensa nemmeno, ci mancherebbe altro: col coprifuoco o no, vivi sempre il fascio e morte ai ribelli; altroché.
Eppoi non ci sono problemi nel bunker, manco parlarne; eccome che lo sa come si fa sempre alla solita maniera, anzi ancora di più per sbrigarseli in fretta; adesso però si capisce, basta guardarsi un po' in giro come capita, è sempre peggio.
Bisogna ben farla finita una buona volta mettendocela tutta senza risparmio; e sempre avanti col fascio bisogna ben andarci fin lassù per agguantarli tutti, ma proprio tutti al completo; e che la porcavacca se li porti via sti fuorilegge bastardi. Dice che non si può mica continuare tutte le sere sempre uguale, a scaraventarseli così da una parete all'altra delle celle, senza farsene accorgere: - adesso basta; manco mettendocela tutta, uno non ci riesce più a continuare come prima, nemmeno con gli aiutanti addestrati sempre lì pronti e disponibili -, dice il boia.
- E dunque va bene: se è inutile tenerseli che non c'è da fidarsene, va bene, facciamoli fuori.
Osvaldo Contestabile, Scarpe rotte libertà. Storia partigiana, Cappelli editore, 1982, p. 202

Roma "Pronto, potrei parlare per cortesia con il signor boia?". "Sì, qui è la casa del dolore". Potrebbe capitare a chiunque: alzare il telefono, comporre il numero di telefono di Luciano Luberti, venire accolti da un ritornello tra il romanesco e il luciferino. Dall' altro capo del filo risponde un signore di settantasei anni dalla barba di lanugine e gli occhi serpigni. E' il boia di Albenga, il torturatore italiano della Feldgendarmerie tedesca che in appena quattro mesi, tra la fine del 1944 e il 1945, seviziò, talvolta violentò, mandò a morte un centinaio tra uomini e donne rastrellati alla foce del fiume Centa. "Pronto, sì, qui è la casa del dolore". Un boia che fa il boia. Un Mangiafuoco autoironico. Può capitare anche questo. Si riparla di questo seguace di Hitler perché a partire da ieri sera, a notte fonda, Raiuno manda in onda quattro puntate a cura di Sergio Tau con una lunga testimonianza del boia Luberti Luciano.
Un documento straordinario, spaventoso, ma anche carico di insidie per il "fascino sinistro" che emana dal personaggio - il massacratore charmeur è ben tratteggiato da una delle sopravvissute - e non solo per questo: ma di ciò parleremo più avanti. Chi cerchi nell' intervistato la freddezza o il gesto trattenuto di un Priebke rimarrà deluso. Niente in Luberti tradisce contrizione. Non la voce né lo sguardo sornione né il ghigno perpetuo. Un personaggio inquietante, che sintetizza anche nella figura falstaffiana ferocia nazista e teatralità all' amatriciana. "Gli ho fatto un buco così, gli ho fatto, a Giovanni il Siciliano", ripete disegnando nell' aria un melone. "L'ho beccato dopo che aveva fatto fuori quel poveretto delle Brigate Nere. Gli ho scaricato in testa dieci bossoli, un buco così gli ho fatto a Giovanni il Siciliano...". Non la banalità, ma la voluttà del male. Prima di affrontare i rischi di questa operazione televisiva (che potrebbe sollevare le stesse perplessità che sollevò due anni fa Combat Film), converrà ricordare chi è il Boia d' Albenga, un personaggio romanzesco su cui s' è esercitato anche uno scrittore come Vincenzo Cerami. Fascista innamorato del Fuhrer, a ventidue anni s' arruola direttamente nella Wehrmacht. La sua brillante carriera nell' esercito tedesco comincia con il rastrellamento di partigiani italo-francesi in Corsica: è determinato, efficiente, merita la croce di ferro di seconda classe.
Quindi nel dicembre del 1944 il trasferimento ad Albenga, un paesino vicino a Savona che ospita il comando della Feldgendarmerie, la polizia militare del Fuhrer. Sevizie d' ogni genere. Torture. Anche stupri con bottigliette di gassosa infilate a calci. Capezzoli tagliati. Pareti imbrattate di sangue. "Beh, certo, la Feldgendarmerie lavorava sodo", dice ora il Boia un tantino compiaciuto. "Stavamo sulle palle anche ai camerati di Savona. Ma - che volete? - interpretavamo la legge, eravamo fedeli al regolamento". Dopo la guerra, la foce del fiume Centa restituirà cinquantanove cadaveri. "Befehl ist Befehl, l'ordine è ordine", continua a ripetere oggi il Boia, scuotendo la candida barba che va giù a cascata. "E io, al contrario di Priebke, ho obbedito senza lacrimare... Povero Priebke, c'ha 82 anni: finge un po' di pentimento, scarica su Kappler, ma se l'ha fatto è perché sentiva di obbedire volentieri a quell' ordine. Che me stanno a cantà?". Nell'aprile del 1945, Luberti riesce a fuggire. Prima Torino, poi Napoli, il tentativo di arruolarsi nella Legione Straniera. Il 17 maggio del 1946, sulla banchina del porto di Genova, viene riconosciuto da una sua vittima. Al processo i giudici lo condannano a morte. L' anno successivo la Corte d' Appello di Genova trasforma la sua pena prima in ergastolo, poi in 19 anni e sei mesi di carcere. L' amnistia del 1953 gli toglie ancora dieci anni. Nel luglio del 1956 il Boia torna libero. Possibile? Sentiremo ancora parlare di lui. Prima come editore di libriccini d' ispirazione nazista, poi come militante del Fronte nazionale, l' organizzazione neofascista di Valerio Borghese.
[...]  Intanto scorrono sul video le testimonianze di ufficiali e sottufficiali della Divisione San Marco, soldati al servizio di Salò. Parlano anche le donne stuprate dai partigiani. Parlano i partigiani a cui furono portate via le donne poi stuprate. Parlano le vittime del Boia. Un western sanguinario di grande impatto emotivo. Una mattanza che però rischia dicancellare nel bagno di sangue le ragioni dei vincitori e dei vinti. Una marmellata rossa che condanna tutti e nessuno: chi si batteva per la democrazia e chi dalla parte della tirannide. Proprio come ai tempi di Combat Film: l'emozione prevale sul ragionamento, il discrimine fascismo-antifascismo si perde per strada. Queste riserve sono condivise da Gian Enrico Rusconi, lo storico chiamato da Tau a presentare i materiali insieme ad Acquaviva. "Si tratta di un programma molto efficace sul piano spettacolare", ci dice lo studioso, "ma segnato da una sorta di agnosticismo contestuale. Il messaggio che manda è una condanna generica della violenza di qualsiasi segno. Viene messa in scena una tragedia totalmente impolitica, una babarie astorica: potremmo essere in Bosnia come in Ruanda. Acquaviva sceglie di non storicizzare, come invece avrei fatto io". Rusconi rimarca le distinzioni tra la ragione dei vincitori e gli errori dei vinti - l'ha fatto nelle prime due puntate (già registrate) ma intende tornarci con maggior vigore nelle successive - "perchè quella è la nostra storia, una storia che non si può dimenticare o appiattire su personalità disturbate. Accanto alla guerra civile c' è anche una patologia della guerra civile: temo che il programma confonda due piani diversi".
Simonetta Fiori,... torna l'incubo del boia di Albenga, la Repubblica, 11 febbraio 1997

La procura militare di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio di Gerhard Dosse, un capitano delle forze armate tedesche durante la seconda guerra mondiale, per la fucilazione di dodici italiani avvenuta ad Albenga (Savona) il 12 gennaio 1945.
Dosse, che oggi ha 96 anni e vive a Wedel, in Germania, all' epoca dei fatti era il comandante delle truppe stanziate nella città ligure.
I dodici, sospettati di collaborare con i partigiani, furono uccisi in località Foce del Centa. Il più giovane aveva 18 anni, il più anziano 43. Tra di loro c'erano anche tre donne.
Secondo quanto ha ricostruito il pm Paolo Scafi, che ha indagato su una catena di uccisioni avvenute nella zona (in tutto si tratta dell'omicidio di 71 persone) tra il novembre del 1944 e l'aprile del 1945, il capitano Dosse ebbe un ruolo determinante: anzi, come si legge nelle carte dell'inchiesta, fu «una delle figure centrali di quel dramma».
Fino ad ora - è scritto - le stragi erano state «genericamente attribuite all'attività criminosa svolta da un gruppo di "feldgendarmerie" con il quale collaboravano anche due cittadini italiani, ma questa angolazione ha fatto sì che il ruolo di Dosse, capitano della Wehrmacht, sia stato sottovalutato». In realtà, secondo Scafi, l'ufficiale era il presidente di un tribunale speciale, chiamato «Standgericht», istituito per giudicare i partigiani. Un tribunale che però celebrava i suoi processi violando addirittura le norme giuridiche tedesche: gli incolpati, che non avevano diritto all'avvocato, non potevano seguire la discussione in aula e a volte non potevano nemmeno conoscere la sentenza, venivano condannati a morte per reati - come il favoreggiamento - che non prevedevano la pena capitale, ma al massimo il lavoro coatto. E' stata acquisita agli atti dell'indagine una nota del questore di Savona, che nel marzo del '45 indicò in Dosse il presidente dello «Standgericht» definendolo un «elemento che ha fama di spietata ferocia».
Il processo, comunque, è stato chiesto solo per le dodici fucilazioni di Foce del Centa. La prova regina, per gli inquirenti, è costituita dalle deposizioni di Bartolomeo Panizza, un uomo che riuscì fortunosamente a scampare alla strage, e del sacerdote don Giacomo Bonavia. «Entrambi - è scritto - hanno testimoniato di essere stati sottoposti a un procedimento di fronte a una corte marziale presieduta dal capitano Dosse il 4 gennaio 1945».
Quando venne a sapere che il suo nome era stato associato a un'inchiesta per crimini di guerra, Dosse tentò il suicidio. Nel fascicolo, il pm Scafi ha osservato che «gli eccessi commessi dai militari tedeschi in Albania, in particolare dalla 'Feldgendarmeriè, suscitarono vibrate proteste delle autorità della Repubblica Sociale Italiana».
Redazione, Nazismo - Chiesto giudizio per il «boia d'Albenga», La Gazzetta del Mezzogiorno.it, 10 febbraio 2005