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domenica 18 aprile 2021

E giunse l'alba del 4 settembre 1944

La zona della Cappella di Santa Brigida in Dolcedo (IM) - Fonte: Mapio.net


A Poggi [Frazione di Imperia] qualche casa era stata bruciata dalle formazioni dell'esercito repubblicano inferocite dell'accaduto. Con la sorella, per evitare il pericolo di eventuali ritorsioni, aveva ritenuto prudente abbandonare il paese; gli informatori anche sull'altro fronte erano piuttosto attivi e per il momento sarebbero rimaste in loco, in attesa dell'evolversi degli avvenimenti, che promettevano soluzioni e progetti futuri. L'incontro, piacevole per entrambi, ci diede la possibilità di stabilire un appuntamento per il dopodomani mattina in località Santa Brigida, avvenimenti permettendo; si era infatti in procinto di partire per raggiungere in serata quella posizione, in previsione del balzo finale che ci avrebbe condotti ad Imperia. Al convegno, mi assicurò sorridendo, sarebbe venuta con un canestro colmo di cose buone, dolci compresi, di cui mi sapeva ghiotto, sarebbe senz'altro stata una bella merenda nei prati come nei giorni del sereno; un ultimo sorriso, e il semplice saluto d'una stretta di mano, la vidi allontanarsi, figura di giovane donna dai chiari e lunghi capelli annodati da un vivace nastro. Come per incanto, il festante rumore della piazza ritornò ad essere presente. Un appetitoso e gradito pasto concluse la bella giornata, e prima che il sole scomparisse al di là dei monti che chiudevano l'orizzonte, si partì per raggiungere la nuova base assegnataci.
Il nuovo giorno per me significava attesa, attesa di un incontro che sicuramente avrebbe portato ore di un diverso interesse e forse attimi di poesia; scorrevo con lo sguardo il crinale della montagna che dal Faudo scendeva in un fitto verde verso il sud, fino a raggiungere ordinate coltivazioni di ulivi, immagini di un profondo silenzio avvolto in una cornice d'azzurro.
Un piccolo spiazzo, una fontana e una chiesetta semidiroccata, momentaneo luogo di sosta al nostro reparto  in attesa d'uno sviluppo ulteriore degli avvenimenti, unica mansione da compiere, il controllo del sentiero proveniente dalla costa sul dorso della montagna, che terminava sullo spiazzo del piccolo santuario dedicato a Santa Brigida. A questo, in tempo di pace, affluivano i pellegrini provenienti da Porto Maurizio e Oneglia nel giorno della ricorrenza; lo stato del fabbricato denunciava l'incuria del campo e degli uomini, i vetri delle poche finestre infranti, la porta divelta e l'intonaco mancante quasi per intero; restava l'indicazione dei giorni sereni, i nomi dell'abbandono. Quella notte, per ripararsi dal freddo, si era stati costretti a rifugiarsi all'interno della chiesetta, mentre il giorno, con il caldo sole di quell'inizio di settembre, ci vide tutti pigramente seduti o distesi sul piazzale antistante il fabbricato; unico rumore che si univa al nostro dialogo il continuo gorgoglio della piccola fonte, piacevoli momenti di pausa che facilitavano l'osservazione. Uomini abbronzati dai volti asciutti e malrasati, volti giovanili che richiamavano alla mente la fanciullezza, in una strana fantasia di abbigliamenti dalle origini più disparate, divise militari frammischiate a vestiti valligiani e borghesi, evidenti differenze di età, fogge e provenienza, che però non incidevano, poiché si poteva cogliere nello sguardo del gruppo l'espressione di una vita scelta, indicante una coesione che una qualsiasi disciplina non avrebbe saputo rendere maggiore. Alla quiete d'una monotonia piacevole, una sola necessità si faceva sentire con una certa insistenza, un gagliardo appetito che non accennava mai a diminuire e il primo giorno di permanenza, quando la prospettiva di mangiare si era notevolmente allontanata, causando un mormorio di protesta e volti accigliati, l'arrivo di Lecchiore, il più giovane mulattiere del distaccamento, risolse il problema. Lo si sentì arrivare, allegro come sempre, alla guida di un grosso mulo sul cui dorso faceva mostra un contenitore colmo di pastasciutta, preparata nel paese di Lecchiore. I piatti mancavano, ma la difficoltà venne agevolmente superata versando l'intero contenuto del recipiente sopra la porta della chiesa, e malgrado la precarietà del servizio, un tenace assedio liquidò in breve il tanto atteso rifornimento. Un altro giorno volgeva alla fine e nessuna novità era intervenuta; la mancanza di nuovi ordini mi portò ad assaporare il riposo della notte, breve transito all'arrivo del nuovo giorno, che per me si preannunciava piacevole.
E giunse l'alba del 4 settembre 1944, un'alba luminosa come tante di quella splendida estate.
Riposato e ben disposto, nella notte infatti non avevo prestato alcun servizio di guardia, mi accinsi a partire per l'incarico di pattugliamento assegnatomi, prima di poter usufruire del permesso di recarmi all'appuntamento con N., prospettiva questa che mi rendeva particolarmente sereno e conciliante. Il compagno con cui dividevo l'incarico si chiamava “Turiddo”, magro ed allampanato, meridionale fuggito dalla Pubblica Sicurezza di Imperia.
[...] Si procedeva con una certa tranquillità e, pur conversando a tratti, il silenzio della valle rotto soltanto dal cinquettio degli uccelli favoriva la riflessione; risentivo ancora i commenti indirizzatici dai garibaldini anziani, e la nostra fortuna in essi espressa per il breve periodo trascorso in montagna dalla nostra fuga; era convinzione comune ormai che fra qualche giorno le nostre formazioni avrebbero occupato l'intero litorale. Con l'aumentare della distanza dalla base si proseguiva più guardinghi e a breve distanza l'uno dall'altro, il fucile con il proiettile in canna ed il pollice sulla sicura; gli occhi attenti seguivano il rapido volo degli uccelli che si allontanavano al nostro passaggio, e in questa ricerca prudente ed attenta su un possibile pericolo un lontano luccichio attirò la mia attenzione, provocando un istintivo arresto al mio procedere. Turiddo cominciò a ridere sul mio sospetto e nel suo linguaggio a metà incomprensibile mi stimolò ripetutamente ad andare avanti, ritenendo del tutto fantasiose le mie supposizioni su una minaccia incombente; certo ero ancora un ragazzo la cui esperienza di guerra doveva maturare, ma l'ottima vista e un carattere che, salvo costrizioni, mi faceva accettare una situazione solo se convinto, dissero no, dovevo appurare e convincermi.
Mi chinai a lato d'un cespuglio concentrando tutta la mia attenzione sul sentiero che dolcemente calava verso la costa e, frazioni di attimi, ebbi la conferma: un uomo carponi passò rapido da un cespuglio all'altro con un'arma in pugno. "Bisogna far presto", dissi, "è necessario tornare immediatamente e avvertire il distaccamento". Un sorriso ironico e una frase di scherno furono la risposta di Turiddo, per un attimo i nostri occhi si incontrarono ed ebbi la sensazione che il suo sguardo volesse evitare il mio. "Non importa", replicai, "regolati come credi, io ritorno", e m'incamminai veloce; lo sentii borbottare, e proiettata dal sole scorsi la sua ombra seguire la mia. Il nostro frettoloso arrivo e le discordanti versioni fornite crearono un certo scompiglio; l'arrivo immediato dei tedeschi, da me indicato, faticava ad essere accettato da buona parte dei nostri compagni per due precise motivazioni: la versione più comoda, seppure pericolosa, fornita da Turiddo che dissentiva totalmente dalla mia, e quella supposta, che presumeva prossima la fine della guerra nell'intera Liguria. Fortunatamente il buon senso di Danko [Giovanni Gatti] e di altri componenti prevalse. "E' opportuno essere prudenti", disse "appostiamoci, se nulla dovesse verificarsi, nulla perderemo". E nella provvisorietà di una situazione pericolosa afferrai pienamente l'importanza della partecipazione volontaria: un gruppo di una cinquantina di uomini, apparentamente indisciplinati, in pochi minuti prese posizione. Nel breve tratto pianeggiante su cui sorgeva il Santuario, disposto in linea lungo il dorso della montagna, il terreno, in lieve salita verso nord, era sufficientemente strutturato per dominare completamente il sentiero proveniente dal mare, oltre alla chiesetta ed il tratto antistante, mentre lo spazio retrostante al fabbricato era controllabile solo parzialmente; l'intera formazione si era disposta a semicerchio sul disuguale terreno che permetteva una buona mimetizzazione, il Majerlyng al centro del dispositivo, opportunamente coperto con ramoscelli per evitare la rifrazione sull'arma dei raggi solari, aveva il compito di centrare il grosso della formazione nemica, mentre i due S. Etienne disposti sui lati del dispositivo dovevano colpire l'avanguardia e la retroguardia; ai fucili la caccia era lasciata libera.
Bruciava il sole e il tempo scorreva con una lentezza esasperante, e quando i primi dubbi sulla attendibilità dell'informazione raffiorarono, alla fine della piazzuola, dove iniziava il sentiero, due uomini, due nemici, tranquillizzati dall'apparente abbandono del tratto loro visibile, lanciarono il razzo di via libera.
E giunse l'ordinata teutonica colonna, circa duecento uomini per ucciderci; appiattiti sul terreno, quasi incorporati alle rocce nei respiri che accompagnavano i battiti d'un tempo sconosciuto, contavamo metro per metro la distanza che il tedesco doveva percorrere prima di sparare: i cacciatori che si avvicinavano non sapevano d'essere diventanti preda, e improvviso come inferno, l'assordante crepitio delle armi esplose, armi vibranti che davano la morte, urla improvvise, ordini, incitazioni, e uno sbando di corpi alla ricerca di un rifugio per sfuggire alla pena di una spietata sorpresa, e pur nel disordinato frastuono dei colpi, si avvertì subito l'arrestarsi del fuoco del nostro Majerlyng: l'arma si erta inceppata e Oddo, ottimo fuciliere ma mitragliere improvvisato, anche se coadiuvato da Danko, non riusciva a restituire funzionalità all'arma.
Istanti in cui la mente supera la più grande delle velocità e con spietata lucidità evidenzia il maturarsi di nuove realtà; la decisione che mi ero imposto di non sparare col Majerlyng, fintanto che la P.38 sequestratami all'atto della fuga non fosse rientrata in mio possesso, sparì, la presunta offesa avallata da un inutile orgoglio si cancellò; i nemici erano di fronte, afferrai con violenza l'arma, pochi e precisi movimenti, e il vibrare del mostro riesplose nelle mie mani; solo brevi istanti avevano fugato le ultime ombre, mi sentivo sicuro, in una certezza che mi teneva inchiodato sulla posizione, e l'arma vibrava, vibrava inpietosa nella valle che ingigantiva la sua terribile eco; il battesimo del fuoco, un diverso battesimo, era avvenuto.
Le munizioni purtroppo cominciarono a scarseggiare, il nostro fuoco era ormai soverchiato da quello del nemico, il quale, superata la prima mezzora di sbandamento, si era organizzato attestandosi dietro la chiesa e sui rocciosi fianchi del crinale, e soltanto la naturale posizione da noi occupata permetteva una difesa anche se operata con mezzi notevolmente inferiori; ma quando i primi colpi dei mortai, inprendibili alle nostre armi, perchè piazzati in totale copertura dietro la chiesa, caddero a poca distanza dalle nostre postazioni, venne spontaneo l'esame delle nostre possibilità e, fatto rapidamente il punto, si decise lo sgombero della posizione.
Considerata la sicurezza di poterci allontanare senza incappare in pericolose sorprese, il distaccamento iniziò il ripiegamento con molta calma e gradualità.
Danko, avvicinatosi carponi, ci invitò ad allontanarci e fungendo da battistrada con Oddo ci indicò il percorso; io seguivo con Sparafucile [Domenico Garibaldi], laureando in medicina, che operava in qualità di medico nel distaccamento, cosa che non gli aveva impedito di partecipare al battesimo con un S. Etienne. Sorrisi mentalmente osservando l'etereogeneo gruppetto che chiudeva l'evacuazione. Danko l'interprete, Oddo l'autista, Sparafucile medico ed io bancario.
La parte esaltante dell'avventura era terminata [...]
[..] Della classe di mare, venne chiamato alle armi dalla Repubblica Sociale nei primi mesi del 1944. Ritornato in Italia dalla Germania alla fine di luglio, dopo conseguito l'addestramento di guerra tedesco nella divisione italiana San Marco, fuggì con l'intero reparto di appartenenza nelle montagne imperiesi il 29 agosto dello stesso anno, scegliendo la strada della libertà. Ivi combatté fino al termine del conflitto nelle file della 2^ Divisione d'assalto Garibaldi Felice Cascione [ndr: come capo di una squadra della IV" Brigata Elsio Guarrini].
Renato Faggian (Gaston) nato a Pordenone (Udine) il 29 agosto 1924. [...] Periodo riconosciuto: dal 29 agosto 1944 al 30 aprile 1945. Dichiarazione integrativa n. 2547.
da ultima di copertina
Renato Faggian (Gaston), I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza Imperiese. Diario partigiano 1944-45, Ed. Cav. A. Dominici, Imperia, 1984, pp. 46-52

sabato 13 marzo 2021

Attacco partigiano alla postazione B7

Dintorni di Molini di Triora (IM) - Fonte: mapio.net

Il 3 o il 4 giugno [1944], qualche giorno prima dello sbarco alleato in Normandia, vi è l'attacco alla postazione «B7».
Vittò [Giuseppe Vittorio Guglielmo], Erven [Bruno Luppi], Tento e Marco [Candido Queirolo], sebbene già divisi nei due distaccamenti, decidono di attaccare insieme la postazione «B7», situata nella zona di Perallo [Frazione di Molini di Triora (IM)], villaggio che è su per giù a metà strada fra Molini di Triora e Carmo Langan.
Il comando dell'azione è affidato a Moscone (Basilio Mosconi), ora con Tento [Pietro Tento] e Marco, e già scelto per comandare un nuovo eventuale distaccamento. Egli diventerà infine comandante del Battaglione «Marco Dino Rossi» (2° Battaglione della V Brigata).
Il 4° distaccamento (Marco e Tento) scende da Gerbonte; il 5° (Vittò e Erven) scende dalle alture che sono sopra Carmo Langan; s'incontrano a Loreto.
Il distaccamento di Marco e Tento partecipa al completo, tutto in un solo gruppo, all'azione contro la «B7».
Il distaccamento di Vittò e di Erven viene diviso in due gruppi: uno di questi, nel quale vi sono Vittò ed Erven, partecipa direttamente all'azione contro la «B7», mentre l'altro viene mandato in Molini.
Il comando dell'azione, come si è detto, è affidato a Mosconi, del 4° distaccamento. Mosconi, ex sergente maggiore non di carriera del disciolto esercito, precisa con particolare accuratezza il modo di condurre l'attacco: spiega il compito di ogni uomo, di ogni arma, la prudenza per evitare le mine seminate intorno alla postazione, l'ora dell'inizio dell'attacco, il segnale (inizio: ore l2 esatte; segnale: un colpo di pistola).
La postazione è vicina alla strada, proprio dove questa disegna una curva; ed è all'interno della curva stessa.
I partigiani si portano sul posto e si dispongono a semicerchio, distribuendosi sopra, sotto e lateralmente, al di là della strada; in modo che la strada resta fra essi e la postazione.
Esattamente alle ore 12, come convenuto, Mosconi dà il segnale con un colpo di pistola, e viene iniziato l'attacco col mortaio da «45», con fucili e con bombe a mano tedesche dal manico lungo; il mortaio, affidato a Milorato, era piazzato presso un castagno, a monte della postazione.
Colti di sorpresa, i militi fascisti (forse 12 o 15) si rinchiudono nella capanna che è, press'a poco, al centro della postazione e nel punto più sporgente della curva; mentre due tedeschi corrono alle due mitragliatrici collocate una a monte e una a valle, e rispondono al fuoco.
Un proiettile spezza a Mosconi la penna del cappello alpino. Il castagno, dove stava Milorato col mortaio, era crivellato di colpi. Mentre un gruppo scelto di partigiani, cautamente a causa delle mine, si stava portando vicino alla baracca per assaltarla con le bombe a mano, Mosconi riesce a colpire con una bomba del mortaio la capanna. Avviene uno scoppio, che la fa saltare in aria, uccidendo i fascisti, che vi erano dentro; tutti gli altri uomini della postazione (due tedeschi e due italiani) sono fatti prigionieri; di essi, solo un italiano non è ferito, mentre sono feriti leggermente l'altro italiano e un tedesco, e gravemente l'altro tedesco.
Il tedesco gravemente ferito è portato nel vicino paese di Molini e affidato alle cure di un sacerdote; degli altri non si è potuto accertare se rimasero con i partigiani o se furono rimandati a casa; tuttavia si sa che non furono fucilati.
Marco, da Molini, manda un telegramma al Prefetto: «Comunichiamo espugnazione da parte nostra postazione B7 alt Provvedete voi ritirare vostri morti alt Noi sprovvisti becchini alt». Firmato: «I ribelli».
Nella notte vennero i pompieri a ritirare le salme dei fascisti caduti.
Frattanto, l'altro gruppo del 5° distaccamento, mandato in Molini prima dell'attacco alla «B7», nel suddetto paese aveva preso in consegna un camion, affidato ai partigiani dal proprietario allo scopo di sottrarlo ai tedeschi, che volevano requisirlo.
Dopo che la «B 7» fu presa, il sopra menzionato gruppo del 5° distaccamento fece passare il camion avuto in consegna, che venne quindi avviato alla montagna, e - passato il camion - fece saltare il ponte della strada fra Molini e Langan.
L'azione contro la «B7», di cui si è ora parlato, avvenne due o tre giorni prima dello barco alleato in Normandia; e quindi, come si è detto, il 3 o il 4 giugno.
Dopo l'azione contro la «B7», il 5° distaccamento (Vittò ed Erven) fa la sosta di un giorno; poi va a prendere accantonamento nelle caserme di Carmo Langan. In questa nuova sede si trasferisce il giorno dello sbarco in Normandia, quindi il 6-6-44.
I partigiani si stabiliscono anche in qualche casa, che poi verrà bruciata dai nazifascisti (casa di Lanteri Cesira). Compito del 5° distaccamento era di controllare la Val Roia e la Val Nervia, oltreché di fronteggiare la postazione tedesca di Monte Ceppo. Infatti in questa località, che in linea d'aria dista circa km.5 da Carmo Langan, i tedeschi avevano ancora ingenti forze; e d'altra parte la località stessa era di particolare importanza, perché da essa si domina la zona di Carmo Langan, che è un po' a nord ovest, e quella di Baiardo, che è un po' a sud ovest; e, in più, per Monte Ceppo passa una strada che collega le strade di Carmo Langan e di Baiardo, consentendo l'accesso alla montagna e all'interno da disparatissimi punti.
A sua volta il 4° distaccamento (Tento e Marco), subito dopo il fatto della «B7», prende posto a Triora. Carmo Langan è nodo stradale importantissimo, perché vi si incontrano le strade che vanno, fra l'altro, a Pigna, a Cima Marta, a Molini di Triora, a Baiardo.
Per dare, a questo punto, un'idea della situazione stradale in generale, giova richiamare l'attenzione sulle seguenti arterie principali:
1) strada Ventimiglia o Piani di Vallecrosia - Camporosso- Isolabona - Pigna - Carmo Langan - Molini di Triora - Passo della Teglia - Bosco di Rezzo - Rezzo - Pieve di Teco - Albenga;
2) strada  Isolabona - Apricale. Baiardo - Vignai - Badalucco;
3) strada Arma di Taggia - Badalucco - Molini di Triora;
4) strada Badalucco - Carpasio - Colle d'Oggia - San Bernardo di Conio - Bosco di Rezzo (fino alla prima delle arterie sopra elencate);
5) strada San Bernardo di Conio - Colle San Bartolomeo;
6) strada San Bernardo di Conio - Colle d'Oggia - Borgomaro - Chiusavecchia;
7) strada Colle San Bartolomeo - Caravonica - Chiusavecchia;
8) statale «28», che, partendo da Imperia, passa per Chiusavecchia, Colle San Bartolomeo, Pieve di Teco, e quindi permette di accedere da Imperia e dal Piemonte, oltre che da Albenga e da Ventimiglia, alle strade già menzionate;
9) strada che, partendo dalla statale «28» a valle di Chiusavecchia, passa per Gazzelli, Chiusanico e Torria, e si ricollega alla statale «28» a valle di Cesio;
10) strada Carmo Langan - Cima Marta - Galleria del Garezzo - San Bernardo di Mendatica - statale «28» (innesto presso Case di Nava);
11) strada Via Aurelia - Ceriana - Baiardo;
12) strada Sanremo - San Romolo - Case Morini - Baiardo;
13) strada Sanremo - San Romolo - Perinaldo;
14) strada Ospedaletti - San Romolo;
15) strada Via Aurelia - Vallecrosia - Perinaldo;
16) strada  Perinaldo - Apricale;
17) strada Camporosso - Ciaixe - Monte Baraccone -  Ponte Raggio - Ponte Barbaira - Isolabona;
18) strada Camporosso - Ciaixe - Monte Baraccone - Margheria dei boschi - Pigna;
19) strada statale n. 20 o strada statale della Val Roia;
20) strada che si stacca dalla statale n. 20, a pochi chilometri da Ventimiglia, e - per mezzo di due tronconi - si collega alla strada che, partendo da Camporosso, passa per Ciaixe;
21) strada di Bevera, che, partendo dall'Aurelia, passa per Bevera, e si im mette nella statale n. 20 a valle di Airole.
Dalla sopra descritta rete stradale appare quanto fosse facile una penetrazione nell'interno;  e risulta altresì come Carmo Langan fosse uno dei nodi più importanti per la penetrazione stessa.
Dopo lo sbarco in Normandia, il 5° Distaccamento (Vittò ed Erven) si ingrossa fino a raggiungere, entro il 15 giugno [1944], la forza di circa mezzo migliaio di uomini.
Cosa analoga avviene per il 4° Distaccamento (Tento e Marco), il quale, entro il 15 giugno, raggiunge la forza di circa 300 uomini.
Giovanni Strato, Storia della Resistenza Imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Editrice Liguria, Savona, 1976, ristampa del 2005 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp. 286-289


lunedì 31 agosto 2020

Il partigiano Lionello Menini, protagonista della battaglia di Montegrande


La croce di vetta del Monte Grande - Fonte: Monti Liguri

Nei primi giorni di settembre 1944 nella I^ Zona Liguria i comandi partigiani avevano già predisposto tutte le loro formazioni per attaccare i principali centri della costa, come supporto ad un attacco alleato proveniente dalla Francia: questo era dato già per avvenuto da Radio Londra, che il 1 settembre trasmetteva: "truppe alleate sono già a 8 Km oltre frontiera in territorio italiano. Le prime formazioni partigiane hanno preso contatto con gli alleati..." (così in Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, ed. Amministrazione Provinciale di Imperia e patrocinio IsrecIm, Milanostampa, 1977).
Purtroppo la notizia si dimostrò falsa e i partigiani dovettero lottare per altri 8 mesi.
Le formazioni tedesche e fasciste, appurata la non veridicità della notizia appena descritta, organizzarono una ennesima operazione di rastrellamento ai danni dell'estremo ponente ligure: l'obiettivo era quello di accerchiare i partigiani attaccando dalla Val Prino e dalla Valle Argentina.
I garibaldini, venuti a conoscenza del piano d'attacco tedesco, appurarono che la forza nemica era enorme: circa 8.000 unità.
L'azione a vasto raggio coinvolse la I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano" e la IV^ Brigata "Elsio Guarrini"della II^ Divisione "Felice Cascione", che aveva la propria sede comando nel bosco di Rezzo (IM).
Il giorno 4 settembre [1944] i soldati tedeschi e fascisti, avanzando da varie direttrici, "si spingono su Borgomaro, occupano la zona di Moltedo, raggiungono il paese di Carpasio e dilagano nella vale di Triora. Da Pieve di Teco si spingono su Pornassio e su San Bernardo di Mendatica" (Francesco Biga, Op. cit.).
Alle 5 del mattino del giorno successivo iniziò l'attacco nazifascista. Il passo Teglia fu il teatro dove caddero i primi garibaldini. Conquistato anche il Monte Grande, i tedeschi obbligarono i partigiani a ripiegare.
Il comando della Divisione prese allora una decisione rischiosa ma necessaria: attaccare il Monte Grande [prossimo a San Bernardo di Conio, Frazione del comune di Borgomaro (IM)].
"Mancen" Massimo Gismondi fu prescelto per questa rischiosa azione. Accompagnato da altri 12 garibaldini, riuscì a risalire il ripido pendio e prendere alle spalle i nazisti che, colti di sorpresa, fuggirono lasciando armi e munizioni sul luogo.
L'obiettivo garibaldino era stato centrato. In questo modo si poteva procedere allo sganciamento degli uomini, all'occultamento del materiale bellico e delle salmerie, in ciò anche con l'aiuto di una situazione meteorologica favorevole.
Il giorno successivo gli 8.000 tedeschi non trovarono, pertanto, i garibaldini. Questi si erano nascosti nel territorio che conoscevano bene.
Così terminò il grande rastrellamento, che aveva tuttavia causato la perdita di dieci vite tra civili e partigiani.
Cessata la tempesta, il Comando Divisionale tornò nel bosco di Rezzo a riorganizzare le proprie fila.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

Il 4 settembre  del  44,  al  mattino  presto era arrivato dalla strada di Andagna un “prete“, cioè un  uomo vestito da prete, ed era stato fermato da tre partigiani della postazione di guardia e  accompagnato al Comando di Distaccamento, a Passo Teglia di Fenaglia, dove il comandante era Germano Belgrano (Giuda) e il Commissario era Bruno Brilla (Padoan), fratello maggiore di  Francesco. Poi  il  prete  veniva  trasferito  ulteriormente  al Comando di  brigata che si trovava a S. Bernardo di Conio sul piazzale. Lì sostavano Nino Siccardi (U Curtu), Carlo Farini (Simon), Silvio Bonfante (Cion) e il “prete” subiva uno stringente interrogatorio. Non essendo emerso nulla di compromettente, era rilasciato e riaccompagnato a Passo Teglia, quindi veniva considerato un vero prete. Nel pomeriggio  costui  essendo  sostato  a  Passo  Teglia, aveva parlato nuovamente con Bruno Brilla e gli altri partigiani di sorveglianza, potendo quindi osservare bene  dove  era  situato il  posto  di guardia del Comando di distaccamento. In realtà il prete era una spia; non scoperto, aveva informato dettagliatamente i tedeschi  della collocazione del posto di blocco a Passo Teglia. Occorre precisare che due giorni prima erano arrivati circa una quarantina di ex Sanmarchini (gruppo Menini) con  i  mortai  a  rimpinguare  il  raggruppamento  ed  una  ulteriore  ventina  di  partigiani  venivano  mandati a posizionarsi in questo distaccamento di Passo Teglia. Bruno Brilla per prudenza non ambiva dormire con i nuovi arrivati nel casone, preferiva  dormire  fuori,  all’aria  aperta  nonostante le incipienti notti fresche, riparato precariamente sotto un carro. Al mattino, alle ore cinque e trenta sentiva con stupore una breve raffica di machine pistole, armi simili non erano assolutamente in  dotazione  ai  partigiani. Infatti era accaduto che una pattuglia di tedeschi, conoscendo il luogo della postazione di guardia  (rivelata  dal  finto  prete)  erano  arrivati in pieno silenzio e avevano eliminato i tre partigiani di guardia. Padoan dava immediatamente l’allarme a tutti i ribelli presenti, che si mobilitavano rapidamente; inoltre mandava subito una staffetta a Conio al Comando Brigata per comunicare che la zona era infestata dai tedeschi. Sede ANPI di Imperia Oneglia, 31 Ottobre 2017, intervista a Francesco Brilla
Marina Siccardi, figlia di Nino Siccardi “U Curtu”, Comandante della I^ Zona partigiana Liguria. in ANPI Resistenti, ANNO XII N° 1 - aprile 2019, di ANPI Savona


[...] Dice Wan Stiller [Primo Cei, già commissario di squadra della I^ Brigata "Silvano Belgrano della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"]: "alla prima raffica eravamo rotolati giù, lungo il pendio, ma Cion (Silvio Bonfante) in piedi, aveva individuato sul Monte Grande i tedeschi, quindi aveva iniziato a sparare e li aveva impegnati subito con raffiche continue. Nel frattempo aveva chiamato Lionello Menini (Menini), comandante (1) dei mortaisti (erano degli ex Sanmarchini) che Cion aveva reclutato soltanto due giorni prima a Chiappa e a Molino Nuovo (Andora). Li aveva convinti a passare dalla  nostra  parte, questi ex  marò avevano due  mortai da 81 in dotazione. Cion interpellava il comandante degli ex soldati dicendo: fammi vedere cosa hai imparato durante l’addestramento in Germania! Menini aveva due  squadre, una di tre e una di  quattro militi che utilizzava per piazzare i due mortai nel declivio della collina. Sopra la collina c’era e c’è tutt’ora una chiesetta. I mortai dovevano essere piazzati in  posizione asimmetrica, uno sottostante all’altro, ma non sulla stessa verticale perché le vibrazioni del primo avrebbero disturbato la stabilità del secondo. Il terreno era scosceso, umido e scivoloso, ma Menini, da provetto esperto riusciva a creare con la zappa due  piattaforme piane, rinforzate verso valle con sassi e terra;  il bipiede del mortaio aveva una staffa con l’incastro per bloccare il mortaio quando rinculava. Venivano apprestati due gradini, uno sopra e uno sotto. Quello inferiore più avanti per non far scendere l’arma. I mortai erano privi del telemetro e si avvalevano di due bastoncini alti 1 metro, (le cosi dette paline) dipinti con anelli bianchi e rossi per traguardare l’oggetto  da  colpire. Il proiettile doveva essere sparato in linea retta tra la prima e la seconda palina. Menini per la prima prova aveva messo una carica supplementare per evitare errori e per valutare eventuali modifiche  da  apportare.  Eseguivauna  prova  supplementare  per i due mortai e iniziava a sparare sul nemico contemporaneamente al fuoco di Cion. Quattro partigiani erano dedicati ad un mortaio e quattro all’altro. Menini aveva magistralmente stabilito l’esatta in-clinazione della canna del mortaio,  poi ordinava: Spara!  Spara!  Si  avvertiva  così  uno  sparo  dopo  l’altro, sia del primo che del secondo mortaio in sequenza.  Quindi  nell’aria  potevano  esserci  contemporaneamente anche due o tre proiettili a seconda dell’aumento della carica. I tedeschi sorpresi  dagli scoppi  arretravano subito,  quindi bisognava aumentare potenza e gettata per allungare il tiro. Menini controllava sempre con i binocoli  la  lunghezza  e  le conseguenze del  tiro.  I tedeschi erano sconcertati, sbigottiti perché non immaginavano che  i  partigiani  potessero avere due mortai in dotazione e che fossero così precisi nei colpi sparati. Tutto avveniva in brevissimo tempo, e vista la situazione favorevole Cion pro-nunciava risolutamente la frase: ragazzi bisogna andare lassù... [...] Gli impavidi componenti delle squadre erano: Giobatta Acquarone (Fulmine), Attilio Alquati (Alquati),  Giuseppe Bergamelli (Gnek), Mario Longhi (Brescia), Primo Cei (Wan Stiller), Carlo Cerrina (Cigrè), Felice Ciccione (Felì), Bartolomeo Dulbecco (Cristo), Alfredo Giovagnoli (Alfredo il toscano), Calogero Madonia (Carlo siciliano) e Silvio Paloni Ruman). Non dovevano intralciarsi o rischiare di spararsi addosso pur essendo oggetto di tiro nemico dall’alto: se si saliva troppo velocemente c’era anche il rischio di essere colpiti dalla mitragliatrice e dai  mortai,  che  a  loro  volta  sparavano  sulla  cima. Quindi le due squadre di assalitori potevano in caso di sfortuna essere colpite dal basso (fuoco amico), ma Cion e Menini calcolavano bene e prudentemente il dislivello tra i partigiani in basso e il nemico in alto. Tenevano anche conto dei rapidi spostamenti partigiani che balzavano verso l’alto, inoltre le due squadre di 6 e 7 uomini si alternavano nella corsa anche di traverso. Quindi si incrociavano, anche se in tempi diversi, sulla  stessa  porzione  di monte: avevano perciò un occhio rivolto verso il nemico e contemporaneamente un occhio all’amico. I tedeschi sparavano verso il basso e solo verso i partigiani arrembanti. Conta delle armi dei partigiani nell’episodio: due mortai di Menini, Machine Gaver di Alquati, Machine Gaver di Brescia (che morirà a Ginestro vicino a Testico nel gennaio 1945). Presente alla lotta partigiana in un altro distaccamento, vi era anche il comandante Umberto Bonomini  (Brescia), che non va confuso con questo Brescia, cioè Mario Longhi. La battaglia durava più di due ore, con il risultato positivo di nessun ferito fra i partigiani. Menini con i mortai aveva fatto una sola prova, poi col binocolo vedeva i tedeschi che si allontanavano terrorizzati, allora aumentava la carica supplementare per il prolungamento del tiro. Forse aumentava anche il peso della carica. Tutto avveniva molto velocemente, come arma ulteriore Alfredo il toscano utilizzava un mitragliatore Saint Etienne. I partigiani salivano a zig-zag contro il sole. Gli ufficiali tedeschi venivano dalla scuola militare e  comandavano dei soldati ben addestrati. I partigiani si capivano con gli sguardi; Franco Bianchi (Stalin) e Massimo Gismondi (Mancen) avevano due mitra, fucili semiautomatici catturati ai tedeschi. Silvio Bonfante (Cion) era stato un seminarista ad Albenga, Stalin [Franco Bianchi] infermiere marinaio, Brescia soldato, Alquati soldato, Wan Stiller studente, Mancen camallo ad Oneglia. Anche un partigiano, forse Giuseppe Cortellucci (Carabinè), girava a Ruggiu, al passo della  Mezzaluna vestito da carabiniere; se lo prendevano lo uccidevano subito. La grande vittoria con la fuga dei tedeschi era maturata per la notevole bravura di Menini e dei suoi uomini; altresì grande era stata la fiducia, non gli  ordini  di Cion,  ma complici risolutivi solo gli sguardi. [...]
Questa è stata la testimonianza di Wan Stiller che io ho avuto l’occasione di raccogliere. Diano Marina 30 Ottobre 2017.
Marina Siccardi, figlia di Nino Siccardi “U Curtu”, Comandante della I^ Zona partigiana Liguria, in ANPI i resistenti, ANNO XII N° 1 - aprile 2019, di ANPI Savona
 
3 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione sul rastrellamento effettuato ad Armo e a Pieve di Teco il 30 dicembre 1944, durante il quale era avvenuto l'arresto di Lionello Menini (1).
3 gennaio 1945 - Tribunale Militare tedesco - Copia della sentenza di condanna a morte (1) per i garibaldini Lionello Menini, Ezio Badano, G.B. Valdora e Lorenzo Gracco.
da documenti Isrecim in Rocco Fava, Op. cit., Tomo II 

(1) Lionello Menini, nato a Chatillon (AO) il 25 ottobre 1922 (nella sentenza di morte del comando tedesco Lionello Menini risulterebbe essere nato a Siena il 25 ottobre 1919), figlio di un capostazione di Torino; è arruolato e mandato in Germania per l’addestramento. Terminato il periodo, è destinato con i suoi commilitoni in Liguria, a Laigueglia. In terra tedesca aveva appreso il vero volto del fascismo; appena rientra in Italia, come molte altre giovani reclute, ipotizza di unirsi alle formazioni partigiane. Ai primi di giugno è avvicinato dai fratelli Scarati, già attivi nella Resistenza, collegati alla “Volante” di Massimo Gismondi “Mancen” e di Silvio Bonfante “Cion”. Intravvista la possibilità di abbandonare le forze fasciste, abbraccia la lotta resistenziale. A luglio 1944 è nella squadra d’assalto del Distaccamento “Viani”, e, dopo aver partecipato a numerose azioni, tra cui la battaglia di Pievetta (CN), viene promosso capo distaccamento.
Il 17 agosto 1944 è protagonista di un conflitto a fuoco ad Ormea contro i blindati tedeschi; il 5 settembre è a Montegrande nel distaccamento “Bacigalupo”, laddove l’azione dei mortaisti di cui è a capo, è determinante per aprire un varco tra le file nazifasciste, da cui defluiscono i partigiani. A fine dicembre Menini, ammalato, è ad Armo, in Alta Valle Arroscia, dove è dislocato un nucleo partigiano dell’Intendenza Divisionale.
Su indicazione di una spia il mattino del 31 dicembre un centinaio di tedeschi provenienti da Pieve di Teco investono la zona. Alcuni garibaldini sfuggono al rastrellamento, altri (tra cui tre austriaci disertori) cadono prigionieri. Menini riesce a far fuggire due suoi uomini, esponendosi all’arresto. Portato al comando di Pieve di Teco è riconosciuto come capo partigiano. Dopo tre giorni di percosse e un processo farsa in cui confessa di essere partigiano, è emessa per lui e per altri tre partigiani della II^ Brigata d’assalto “Sambolino” Divisione Garibaldi “Gin Bevilacqua” operante nella II^ Zona ligure (due savonesi: G.B. Valdora “Ferroviere” e Ezio Badano “Zio”, e un veneto Lorenzo Gracco) la sentenza di morte. Prima di morire riesce ad inviare un biglietto al suo Commissario, Giuseppe Cognein, per informarlo che gli austriaci avevano parlato e che non era dispiaciuto di morire per una causa giusta. L’esecuzione ha luogo il 3 gennaio 1945 al Prato San Giovanni.
Lionello Menini va incontro alla fucilazione cantando la canzone “La guardia rossa”. A lui viene intitolato un Battaglione della Brigata “Nino Berio” - Divisione d’assalto Garibaldi “Silvio Bonfante”.
Proposta alla memoria di Lionello Menini  la medaglia di bronzo con la seguente motivazione: “Fatto prigioniero dai Tedeschi durante un colpo di mano contro l’Intendenza Divisionale, essendosi attardato sino all’ultimo a dare ordini, si comportava sino alla sua ultima ora con la serenità dei forti, non smentendo la sua condotta da partigiano che lo aveva elevato a stima di tutti. Oltraggiato e seviziato, non mancò mai di incoraggiare i suoi compagni di sventura. Portato al luogo dell’estremo supplizio, attraversava la via di Pieve di Teco con la testa fieramente eretta, cantando le nostre canzoni. Avvicinato nella prigionia da elementi fidati, inviava informazioni utilissime. Lo stesso nemico ne elogiò la condotta. Pieve di Teco (Imperia) 30-12-1945"
Redazione, Arrivano i Partigiani. Inserto 2. "Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I Resistenti, ANPI Savona, numero speciale, 2011