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sabato 28 settembre 2024

Ai primi di dicembre 1944 i partigiani imperiesi si riorganizzarono

Marmoreo, frazione di Casanova Lerrone (SV). Fonte: mapcarta.com

Il giorno dopo [30 novembre 1944], verso sera, lasciammo Casanova diretti a Marmoreo [n.d.r.: frazione del comune di Casanova Lerrone (SV)]: Sandro, il dattilografo, aveva trovato una casa tra gli ulivi a qualche chilometro dal paese, forse sarà adatta per noi. Mentre seguivamo il mulo con i materassi, pareva che lassù non vi fosse fieno, una voce mi chiamò tra gli alberi. Mi voltai e vidi un giovane con la vanga: «Livorno, come mai sei qui?» gli chiesi. Mi fermai con lui per qualche minuto. Livorno, un ex San Marco, ai tempi di Piaggia era conducente di muli. Quando il clima era peggiorato mi aveva chiesto più volte come avrebbe potuto raggiungere la Toscana per passare le linee. Lo avevo consigliato di accompagnare Citrato che andava periodicamente di staffetta alla Divisione di Savona. Di banda in banda avrebbe potuto arrivare fino a La Spezia e forse più oltre, ma il coraggio del primo passo gli era mancato. Nello sbandamento di Piaggia era scomparso. Ora lo rivedevo contadino a Casanova: era riuscito a salvarsi ed ora lavorava da una famiglia che lo nutriva e gli aveva fornito un vestito borghese. Non lo vedrò più nè saprò nulla di certo di lui. Qualche tempo dopo il Comando denuncerà il tradimento di un partigiano di nome Livorno.
Dopo qualche giorno di permanenza nelia nuova base presso Marmoreo il Comando si accorse di non aver raggiunto la sicurezza cercata. Per la necessità di rifornirsi di viveri al vicino distaccamento di Domatore [Domenico Trincheri], per l'atteggiamento di Mancen [Massimo Gismondi] che conduceva in sede partigiani in ogni occasione, fu in breve noto a partigiani e borghesi che il Comando Brigata era nei dintorni di Marmoreo.
Trovare una nuova sistemazione non era semplice, sperammo così che la voce si diffondesse con una certa lentezza, che il nemico non ne venisse presto informato. Continuammo a lavorare nella stessa sede, solo verso l'alba, l'ora più pericolosa, vedevo che spesso Gigi si svegliava ed usciva: tra noi ed il nemico non c'era nessuna banda né alcuna sentinella. Gigi che, più anziano, aveva il sonno più leggero di noi e forse anche più giudizio, montava spontaneamente la guardia per i compagni che dormivano.
La nuova situazione venne esaminata a fondo da Giorgio, vicecomandante della Cascione, che giunse a Casanova in quei giorni portando la circolare 23 del 24 novembre [n.d.r.: a quella data la I^ Zona Operativa Liguria coincideva ancora con la menzionata Divisione "Felice Cascione", ma la I^ Brigata "Silvano Belgrano", alla quale appartenevano molti dei partigiani qui citati dall'autore, Gino Glorio "Magnesia", di questo diario - ed egli stesso, va da sé - si sarebbe trasformata il 19 dicembre 1944 nella Divisione "Silvio Bonfante" con comandante Giorgio, Giorgio Olivero]. Le disposizioni dei Comandi superiori erano precise: la meta non era più l'occupazione imminente della costa, con l'appoggio degli alleati avanzanti, bensì la sopravvivenza come movimento organizzato. Non più quindi aumentare il numero, l'armamento, la coesione dei reparti, ma conservare fino alla primavera un minimo di effettivi, di armni, di quadri intorno a cui ricostruire rapidamente le bande onde esser pronti quando, tornato il buon tempo, i giovani sarebbero riaccorsi sui monti. Era necessario superare i rastrellamenti, i disagi, resistere alla stanchezza, alla demoralizzazione. Era urgente adottare una nuova tattica, l'esperienza del passato inverno era stata tragica: le bande badogliane che avevano mantenuto fino a marzo l'organizzazione autunnale erano state disfatte: solo adottando nuovi metodi di guerriglia potevamo sperare di salvarci.
Il Comando doveva limitare ulteriormente gli effettivi e suddividersi in gruppi. Un gruppo: comandante e vicecomandante, commissario e vicecommissario doveva stabilirsi in una sede segreta appoggiandosi ad una famiglia sicura. Venivano eliminati cuoco e dattilografo. Due componenti del comando a turno avrebbero dovuto restare in sede, gli altri due avrebbero ispezionato i distaccamenti. In caso di rastrellamento ci si sarebbe uniti alla banda più vicina o ci si sarebbe organizzati in precedenza scavando un rifugio sotterraneo.
Altro gruppo sarebbe stato il S.I.M. [Servizio Informazioni Militare], che avrebbe dovuto spingersi il più possibile verso la costa. I due gruppi sarebbero stati collegali fra loro e con le bande per mezzo del recapito staffetta. L'amministratore [n.d.r.: nel caso della Brigata "Belgrano" l'autore del diario, Gino Glorio "Magnesia"] sarebbe stato autonomo girando per i pagamenti per i paesi ed i distaccamenti, e fissando la sua base dove gli sarebbe parso meglio l'arrivo dei fondi e i contatti col C.L.N. sarebbero stati curali dal S.I.M.
Disposizioni analoghe erano state adottate dal Comando divisionale e dal comando zona, si riteneva quindi che fossero possibili.
Per quanto riguardava le bande era necessario ridurre gli effettivi. Tutti coloro che per la stanchezza e la demoralizzazione erano ormai un elemento disgregatore per le bande venissero pure congedati; era però opportuno non perdere definitivameme i contatti con questi elementi. Le disposizioni del Comando ci parvero poco chiare su questo punto. Si parlava di costituire squadre di riserva agli ordini di un comandante di valle, persona di valore, posata, già facente parte del movimento. Il garibaldino che lasciava la banda avrebbe consegnato l'arma al comandante di valle che ne avrebbe curato la custodia, indi avrebbe potuto tornare al proprio paese o impiegarsi presso qualche famiglia locale per il raccolto delle olive.
I commissari avrebbero dovuto mettersi in contatto con le giunte comunali, che si andavano organizzando, per sapere quanta mano d'opera avrebbe potuto assorbire ogni paese. Lo scopo di tutto ciò era che i partigiani che chiedevano il congedo non si sentissero abbandonati alla loro sorte e si trattenessero nella zona da noi controllata. In caso di bisogno un capobanda in transito avrebbe potuto rivolgersi al comandante di valle per ottenere la collaborazione degli ex partigiani presenti per un servizio di guardia o un appoggio armato. Per essere in grado di appoggiare i compagni che continuavano la lotta armata il garibaldino delle squadre di riserva, con l'eventuale collaborazione delle S.A.P. locali, avrebbe dovuto scavare un rifugio per sè e per i compagni delle bande armate, impratichirsi dei sentieri e del terreno onde poter guidare in caso di bisogno i compagni in missione.
Per coloro che restavano nelle bande a continuare la lotta armata era necessario ad ogni costo rialzare il tenore di vita, fornire vitto abbondante, vestiario e tabacco. Le bande armate avrebbero avuto il distintivo di reparti d'assalto mentre, per quelli passati alla riserva, i mesi di licenza sarebbero stati calcolati come mesi di appartenenza al movimento. Come si vede il progetto era ben studiato e la collaborazione dei partigiani di riserva nei paesi avrebbe potuto riuscirci preziosa come lo era stato l'appoggio che ci avevano fornito a Carnino Rico e gli altri ex partigiani di Umberto quando avevamo recuperato i feriti da Upega.
Se un difetto si può trovare a questo progetto era che difficilmente sarebbe stato possibile applicarlo integralmente. Vi sarebbe stata una inevitabile dispersione di coloro che lasciavano le bande armate e l'autonomia riacquistata li avrebbe portati a subire influenze diverse e maggiori dell'autorità del comandante di valle. La maggior parte dei congedati sarebbe stata inevitabilmente sottratta all'ambiente partigiano. Era poi necessario un tempo abbastanza lungo per prendere contatto con le giunte, scegliere i comandanti di valle, scavare i rifugi, provvedimenti che, quasi tutti, avrebbero dovuto precedere il congedo degli uomini.
In base alle notizie recate da Giorgio questo tempo pareva mancare: il concentramento di sempre nuove forze nemiche faceva prevedere l'inizio di un nuovo rastrellamento prima di Natale.
Dopo il rastrellamento, che avrebbe coinvlto tutta la nostra zona, il nemico avrebbe tentato di riaprire al traffico la Albenga-Pieve interrotta da noi in più di nove punti. I tedeschi avrebbero posto presidi in quasi tutti i paesi per requisire tutto il raccolto dell'olio, poiché la Liguria era ormai l'ultima regione occupata dalla Germania che producesse olio d'oliva.
Per evitare che il nemico conoscesse le nostre basi avremmo dovuto attaccarlo solo a distanza da esse ed occultarci evitando la lotta, se colonne nemiche fossero passate a breve distanza dalle nostre sedi. Nei giorni immediatamente prima del rastrellamento tutte le azioni avrebbero dovuto esser sospese.
C'era il pericolo che tali misure, interpretate oltre il loro significato letterale, inducessero ad astenersi comunque dalla lotta con conseguenze morali imprevedibili.
All'inizio del rastrellainento era previsto un ripiegamento generale oltre la carrozzabile Albenga-Garessio nel territorio della divisione di Savona.
Sarebbe stata una manovra molto difficile perché tutte le carrozzabili erano perpendicolari alla direzione di marcia, pure tornare oltre il Mongioie non sarebbe staro possibile per la neve ormai alta, né ritornare nella zona di Piaggia priva di risorse alimentari.
Era necessario che la riduzione degli effettivi e l'applicazione della organizzazione invernale precedessero l'attacco nemico.
Appena partito Giorgio, le conseguenze delle nuove disposizioni furono chiare quasi subito. Mancen rifiutò in pratica di adottare la tattica cospirativa e comparve al Comando solo saltuariamente; non c'era quindi la possibilità di alternarsi. Il S.I.M. si trasferì a Poggio, a fondo valle sotto Casanova, sottraendosi così alla diretta influenza del comando. Abbandonati a loro stessi, i vari uffici, invece di riorganizzarsi, entrarono in una specie di letargo. Appena giunta la circolare i capibanda invitarono chi voleva ad andarsene immnediatamente.
A metà dicembre, giunse un contrordine: un supplemento alla circolare 23, ma in parte era tardi.
La circolare nuova rettificava ed in gran parte modificava radicalmente le disposizioni precedenti. Dallo stile e dallo spirito che l'animava era chiaramente opera di Simon.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, pp. 62-65

giovedì 7 marzo 2024

Dopo circa 5 ore di attesa venne avvistato un camion pieno di soldati tedeschi e fascisti

Uno scorcio di Castelvecchio di Imperia

[Durante la battaglia di Carpenosa del 30 giugno 1944] iniziò una serie di attacchi [nemici] più volte respinti e rinnovati che portarono gli uomini [32 garibaldini del 4° distaccamento] di Gino [Napolitano] ad esaurire in breve tempo le munizioni.
Per loro fortuna le sorti del combattimento furono modificate proprio quando sembravano decise a favore del nemico - dalle mitragliatrici pesanti e dal mortaio da 81 tempestivamente impiegati dagli uomini del 5° distaccamento guidato da Ivano [Giuseppe Vittorio Guglielmo] e da Erven [Bruno Luppi] che - avvertiti da una staffetta inviata a Cima Marta all'inizio degli scontri - giunsero alle 18 sorprendendo i tedeschi e costringendoli a ritirarsi.
Inseguiti dal reparto di Nettu [Ernesto Corradi] -  unitosi nel frattempo alla lotta - i tedeschi riuscirono a risalire sugli automezzi dopo aver fatto saltare un tratto di strada alle loro spalle: entrati in Carpenosa verso le 21 i partigiani calcolarono le perdite nemiche in circa 80 tra morti e feriti, su 600 attaccanti.
I positivi risultati ottenuti anche in questi scontri frontali non modificarono tuttavia la linea generale dell'offensiva partigiana che giustamente continuò a considerare come elemento principale della propria condotta di guerra l'azione di sorpresa, effettuata da piccoli nuclei ben armati in grado di spingersi all'interno dello schieramento nemico e di disimpegnarsi rapidamente dopo aver colpito gli obbiettivi.
Un esempio classico di questa tattica (comune a tutte le formazioni liguri) ci viene offerto dalla imboscata tesa il 28 giugno sulla statale 28 - a 3 Km. dal mare - da una squadra di 5 uomini del 10° distaccamento, comandati da Folgore [Umberto Cremonini] e da Nando [Fernando Bergonzo].
L'obbiettivo era stato segnalato da informatori di fondovalle i quali avevano recato a1 distaccamento la notizia che ogni giorno il generale tedesco comandante delle forze di presidio nella zona percorreva in auto la 28 per ispezionare i reparti dislocati nella vallata.
L'appostamento venne fissato in prossimità di Sgureo [Sgorreto], tra Castelvecchio e Pontedassio, su una ripida parete a strapiombo sulla strada; la marcia di avvicinamento - effettuata con molta circospezione - consentì di eludere i presidi ed i blocchi nemici che si frapponevano all'obbiettivo. Sul posto, gli uomini vennero disposti in punti ben occultati da cui fosse facile attendere senza scoprirsi e dominare un lungo tratto della carrozzabile.
Dopo circa 5 ore di attesa venne avvistato un camion pieno di soldati tedeschi e fascisti, che non ubbidendo all'intimazione dei partigiani tentò di accelerare l'andatura per portarsi fuori tiro: un nutrito lancio di bombe a mano lo centrò in pieno provocandone l'arresto e colpendo numerosi soldati nemici.
Gli uomini di Nando e Folgore ebbero appena il tempo di scendere la ripida scarpata per impadronirsi delle armi automatiche nemiche e sparare su alcuni fuggiaschi, quando sopravvenne l'automezzo del generale costringendoli a risalire rapidamente il pendio.
Per vendicare la morte di 7 soldati germanici caduti in quella azione l'alto ufficiale dispose subiro la mobilitazione di una colonna con autoblinde e mortai che invano aprì il fuoco contro la squadra partigiana in ritirata.
La rappresaglia infierì allora contro il paese di cui vennero incendiate le case e prelevati 20 ostaggi tra la popolazione. <21
A fine giugno - malgrado l'intensificarsi delle puntate offensive germaniche e fasciste - la pressione partigiana era diventata notevole: la IX Brigata occupava Triora, Molini di Triora e Badalucco liberando una vasta zona della Valle Argentina da cui i nemici si erano ritirati dopo aver fatto saltare due ponti presso Taggia e distrutto la Chiesa degli Angeli in Badalucco già adibita a deposito di armi e munizioni.
21 Unico aspetto negativo di questa operazione: la scelta della località per l'imboscata; i partigiani ignorarono - o non ne tennero conto - le precise direttive del Comando Generale: «si devono evitare i combattimenti e le imboscate nei villaggi per evitare nei limiti del possibile le rappresalie» (testuale, orig. dep.).
Giorgio Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria - Volume II, Istituto Storico della Resistenza in Liguria, 1969, pp. 255,256

venerdì 24 marzo 2023

Sull'atlantino dei partigiani la mia matita annerisce giorno per giorno le regioni della Germania che sfuggono al Terzo Reich

Andora (SV): dintorni. Foto: Eleonora Maini

Il problema degli effettivi venne risolto in pratica da ogni capobanda a suo piacimento. Le disposizioni del Comando lasciarono largo margine d'interpretazione e furono solo abbastanza precise nello sconsigliare l'arruolamento di repubblicani. Quasi tutti i comandanti ingrossarono la propria banda, poiché comandare molti uomini era ambizione diffusa.
Solo pochi come Stalin [Franco Bianchi, comandante di un Distaccamento] e qualche altro preferirono un pugno d'uomini decisi anteponendo la qualità alla quantità. Quando i distaccamenti si ingrossarono eccessivamente intervennero i comandi brigata e li scissero in due.
In Val Tanaro Fra' Diavolo operava del tutto autonomo inviando notizie saltuarie della sua attività. L'attrazione del suo nome era tale che la IV Brigata «D. Arnera», che dipendeva da lui, e che era agli inizi composta del solo distaccamento «M. Longhi», ai primi di aprile 1945 conterà ben cinque bande.
La I Brigata portò anch'essa il numero dei propri distaccamenti da tre a cinque assumendo uno schieramento a parziale difesa della valle d'Andora.
A nord la II e la III  Brigata si riprendevano più lentamente, date la crisi dei comandi e la mancanza di servizi efficienti.
Il 24 marzo 1945 l'attenzione si porta nuovamente su Alto perché pare imminente un lancio di maggiore importanza. Lo schieramento di difesa è meno imponente. Pensiamo che ciò sia dovuto alla rapidità con cui si è svolta la raccolta del primo lancio e alla lentezza della reazione nemica. Un rapido abbassarsi della temperatura e una ripresa delle piogge sui monti impone un nuovo duro sacrificio alle bande di presidio sulle cime. Il morale degli uomini, già duramente colpito dalla morte di Rostida [Costante Rustida Brando], subisce una nuova prova: l'aspetto della valle è tornato ad essere invernale, l'incubo del rastrellamento si alterna alla speranza del lancio imminente.
Torno ad Alto dal 24 al 28. Vi trovo Libero [Paolo Aicardi] con i resti del «G. Maccanò» salvatisi un mese prima dal rastrellamento di Aurigo. Gli uomini sono profondamente demoralizzati, il commissario li ha piantati. «Mi ha mandato lo Sten ed i soldi e non si è fatto più vedere», diceva Libero ai compagni. «E' stato galantuomo che ti ha mandato i soldi», lo consolava Turbine. C'era poi la faccenda del manifesto di mobilitazione di Aurigo. «Mi hanno dato gli arresti per la quarta volta», diceva Turbine. «Adesso però sono innocente. Non mi sono mai mosso da Alto da un mese ed un tipo strano che passa per Aurigo fa un manifesto e lo firma Turbine. Il Comando mi manda una lettera: Turbine agli arresti. Per fortuna che sono parole» Il tipo strano che aveva avuta la geniale idea del manifesto era Libero.
Il G. Maccanò venne sciolto, gli uomini aggregati alla brigata di Fra' Diavolo ed una nuova banda G. Maccanò, formata da nuove reclute, farà parte della IV Brigata.
La banda di Trucco o distaccamento M. Agnese che, dai tempi di Upega, ridotto a dodici uomini, vivacchiava nella Val di Mendatica, invitato più volte ad unirsi al grosso della Divisione, passò la «28» il giorno 25 fermandosi presso Moano [Frazione di Pieve di Teco (IM)].
I giorni passavano lenti tra la pioggia ed il fango nell'inutile attesa. Spesso il cavo a bassa tensione che collegava Alto con la dinamo in fondo al torrente aveva dispersioni e le trasmissioni radio subivano forti abbassamenti di volume. Cambiando rapidamente la spina del trasformatore riuscivamo a riprendere l'ascolto, ma ogni volta sfuggivano intere frasi ed ogni parola poteva essere quella del lancio da noi atteso. Al pomeriggio, alle 20.30, dopo cena ad ogni trasmissione gli incaricati dal comando, circondati dai compagni ascoltano parole e parole. Coi messaggi speciali giungono le notizie delle armate del Reno: l'offensiva finale è in corso, città e città, chilometri e chilometri di Germania vengono occupati dagli alleati: sull'atlantino dei partigiani la mia matita annerisce giorno per giorno le regioni della Germania che sfuggono al Terzo Reich. La fine del nazismo non è ormai più lontana, è però sempre più per noi un'incognita l'atteggiamento che terrà l'esercito tedesco in Italia. La disfatta in Germania rende sempre meno sicura la ritirata dall'Italia. Se gli alleati non sfonderanno sull'Appennino non diverrà l'Italia del nord una grande sacca come Creta, il fronte di Curlandia, i porti francesi sull'Atlantico? Assieme alla Norvegia ed alla Boemia non sarà la nostra terra l'ultimo rifugio del nazismo morente? Comunque il momento decisivo è vicino e noi siamo ancora terribilmente impreparati.
Ricordavo lo scorso autunno... I piani per l'occupazione di Imperia... Quanto siamo mutati da allora. Il passato tornava sempre alla nostra mente, parlando con i compagni si ricordavano episodi noti, si apprendevano particolari sconosciuti.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980


22 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 234, al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" [comandante "Mancen" Massimo Gismondi] - Disponeva il passaggio di 10 Kg. di plastico con miccia e detonatore da "Ciccio" a "Marco" e di altri 10 Kg. da consegnare a "Mario".

23 marzo 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 238, al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" [comandante "Mancen" Massimo Gismondi] - Chiedeva di completare i preparativi per andare a ritirare il materiale in arrivo con un aviolancio alleato; di sospendere il colpo progettato contro il posto di blocco di Cervo ed ogni altra azione; di sottrarsi al nemico in caso di attacco, ma, se obbligati, di reagire.

24 marzo 1945 - Dal comando della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava l'assegnazione degli encomi solenni alla memoria a "Rustida" ed a "Remo", sottolineando che "Rustida", Costante Brando, era nato a Milano il 25 ottobre 1925, mentre di "Remo" non si conoscevano i dati biografici.

25 marzo 1945 - Da "Pantera" [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della Divisione "Silvio Bonfante" - Segnalava che il 20 marzo 1945 alle ore 7 forze nemiche, provenienti da Pornassio, San Bernardo di Garessio, Cerisola, Acquetico e Castel Bianco, avevano effettuato un rastrellamento in Val Pennavaira; che i garibaldini di Caprauna, avvisati da una sentinella appostata sul Passo dei Pali, si erano spostati sulle rocche sovrastanti Alto; che il Distaccamento "Gian Francesco De Marchi" era stato sorpreso e nella fuga aveva lasciato nel casone il mitragliatore Breda 1930 e diverso materiale di casermaggio; che i garibaldini "Rustida" [Costante Brando] e "Remo" [Francesco Pescatore] avevano aperto il fuoco, ma erano stati feriti da un colpo di mortaio; che "Rustida" dopo qualche minuto decedeva e "Remo" si suicidava per non cadere vivo in mano ai tedeschi; che i nemici avevano abbandonato la Val Pennavaira alle ore 22; che il servizio di sentinella di Alto-Caprauna aveva funzionato bene mentre quello di Nasino "pur avendo funzionato non ha preso sul serio l'allarme facendo giungere i nemici vicino ai casoni"; che stava per dare disposizione al comandante ["Gino", Giovanni Fossati] della II^ Brigata "Nino Berio" "di infliggere 12 ore di palo ai responsabili del cattivo funzionamento del servizio di guardia". Comunicava, poi, le situazioni di alcune formazioni: il Distaccamento "Giuseppe Maccanò" era privo di comandante perché "Riva" [Stefano Polini] si era rifugiato nelle Langhe ed aveva bisogno anche di un commissario; la stessa situazione si presentava al Distaccamento "Gian Francesco De Marchi" che aveva perso un mitragliatore; il comandante "Basco" [Giacomo Ardissone] aveva formato un altro Distaccamento che avrebbe preso probabilmente il nome di "Rustida" [Costante Brando]; una squadra del Distaccamento "Igino Rainis" aveva recuperato in Piemonte 1 mitragliatore pesante americano, 1 fucile inglese ed 1 Sten; il 22 marzo 1945 "Fra Diavolo" aveva compiuto un attentato sulla strada statale 28 in cui avevano trovato la morte la morte un maggiore tedesco ed altri soldati. Informava che era stato il comandante "Libero" [Paolo Aicardi] a firmare in modo arbitario a nome di "Turbine" [Alfredo Coppola] il manifesto del reclutamento non volontario di Aurigo e che i garibaldini della V^ Brigata "Luigi Nuvoloni", condannati a morte dai tedeschi a Pieve di Teco, erano riusciti a fuggire e, avendolo richiesto, erano stati inquadrati nel Distaccamento "Igino Rainis" della II^ Brigata "Nino Berio".

25 marzo 1945 - Da "Boris" [Gustavo Berio, vice commissario della Divisione "Silvio Bonfante"] a "Mario" [Carlo De Lucis, commissario della Divisione "Silvio Bonfante"] ed a "Giorgio" [Giorgio Olivero, comandante della Divisione "Silvio Bonfante"] - Comunicava che rispetto a quando "Giorgio" era stato in visita in Val Pennavaira il morale della popolazione era mutato perché il rastrellamento del 3 marzo, nonostante la buona notizia del riuscito primo aviolancio alleato, l'aveva gettata nello sconforto; che dal citato lancio i partigiani si aspettavano almeno uno Sten; che il recente rastrellamento del 20 marzo avevano addirittura terrorizzato la popolazione per la minaccia tedesca di bruciare tutte le case. Segnalava "la non esemplare combattività" dei Distaccamenti "Igino Rainis" della II^ Brigata "Nino Berio" e "Giuseppe Maccanò" e l'efficienza delle altre formazioni della II^ Brigata "Nino Berio"; la formazione del Distaccamento "Costante Brando", dedicato alla memoria di "Rustida", per il quale proponeva "Meazza" [Pietro Maggio] come comandante; che "Fra Diavolo" nonostante le difficoltà che incontrava in Val Tanaro teneva "alto l'onore dei garibaldini".

26 marzo 1945 -Dal Comando Operativo [comandante "Curto", Nino Siccardi] della I^ Zona Liguria al comando [comandante "Giorgio", Giorgio Olivero] della Divisione "Silvio  Bonfante" - Comunicava che per ordine del Comando Militare Unificato Regionale [CMURL] la Divisione veniva rinominata "VI^ Divisione d'assalto Garibaldi Silvio Bonfante" e chiedeva notizie sull'imminente riunione tra CLN e garibaldini.

27 marzo 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" all'Intendenza della I^ Brigata - Comunicava la forza effettiva dei Distaccamenti della Brigata "per regolare la distribuzione dei viveri": Distaccamento "Francesco Agnese" 36 uomini, Distaccamento "Marco Agnese" 21 uomini, Distaccamento "Giovanni Garbagnati" 37 uomini, Distaccamento "Franco Piacentini" 15 uomini, Distaccamento "Angiolino Viani" 29 uomini, Comando Brigata 8 uomini.

28 marzo 1945 - Dal comando della I^ Zona Operativa Liguria al comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - In considerazione del fatto che il campo di lancio scelto offriva maggiori possibilità di ricezione per un grande lancio diurno, si reputava positivamente il fatto di traferire per il momento parte della VI^ Divisione nella zona di lancio di Pian Rosso [Località di Viozene, Frazione di Ormea (CN)], mentre l'altra componente avrebbe dovuto attendere il lancio notturno già programmato [a Pian dell'Armetta nella zona di Caprauna (CN)]. Direttiva di effettuare sollecitamente il richiamato trasferimento, attesa l'imminenza del lancio.
28 marzo 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 254, al comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" [comandante "Mancen", Massimo Gismondi] - Comunicava che il Distaccamento "Giovanni Garbagnati" [comandato da "Stalin", Franco Bianchi] doveva trasferirsi a Testico con le sue 3 squadre; che "Zuvenotto" [Giovanni Tabbò] aveva riconsegnato lo Sten; che a partire da quel giorno le posizioni assegnate ai Distaccamenti dovevano avere postazioni coperte con feritoie per le armi ed essere anche adibite a dormitori.

28 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al capo di Stato Maggiore della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" ed ai comandi della I^ Brigata "Silvano Belgrano", della II^ Brigata "Nino Berio", della III^ Brigata "Ettore Bacigalupo", tutte della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" - Comunicava che i comandanti delle formazioni in indirizzo dovevano far sapere alla popolazione "tramite la voce dei parroci" che chiunque avesse fatto trapelare informazioni sui garibaldini sarebbe stato processato, correndo anche il rischio di essere fucilato; che chi si fosse autoproclamato capo o rappresentante di una formazione garibaldina sarebbe stato punito con un numero di ore di palo, ancora da determinare e da scontare presso un Distaccamento; che quelle dispizioni entravano in vigore il 1° aprile 1945.

28 marzo 1945 - Dalla Sezione SIM [Servizio Informazioni Militari] della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al vice comandante ed al vice commissario della VI^ Divisione - Comunicava che il comandante della VI^ Divisione "Giorgio" [Giorgio Olivero] aveva trovato con la sua visita molto efficiente la I^ Brigata "Silvano Belgrano" [comandante "Mancen", Massimo Gismondi]. Sottolineava che occorreva riunire al più presto "il Tribunale Militare per analizzare e sanzionare i fatti di Nasino". Chiedeva di sollecitare il rientro di "Trucco" [vice commissario della II^ Brigata "Nino Berio"]. Informava che "Fra Diavolo" [in Val Tanaro] chiedeva rinforzi. Proponeva di formare un nuovo Distaccamento intitolato al caduto partigiano "Rustida" [Costante Brando] con "Libero" quale comandante. Segnalava che la III^ Brigata "Ettore Bacigalupo" "non funziona come dovrebbe".

28 marzo 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava che... il 22 marzo il Distaccamento divisionale "Mario Longhi", comandato da "Fra Diavolo" aveva ucciso sulla strada statale 28 in Val Tanaro un maggiore tedesco e 3 soldati.

28 marzo 1945 - Dal comando della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione relativa alla proposta di assegnazione della medaglia d'oro al valor militare al caduto Roberto di Ferro.

da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo II, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998-1999

sabato 11 marzo 2023

I partigiani imperiesi, dopo la morte di Felice Cascione, tentarono subito di tornare in azione

Una vista sino ad Imperia Porto Maurizio da Villatalla, Frazione di Prelà (IM). Foto: mpvicenza/flickr

Nella mattinata del 30 gennaio 1944 [n.d.r.: tre giorni dopo l'uccisione del loro comandante, Felice Cascione] i partigiani della banda «Cascione», che si erano fermati nei pressi di Eca Nasagò, partono in direzione di Rezzo. In Rezzo la popolazione era insorta qualche giorno prima (27-1-44), contro alcuni carabinieri di Pieve di Teco, che si erano recati nel paese per arrestare quelli che, secondo i fascisti, erano «renitenti» alla leva. La popolazione, armata, aveva fatto prigioniero il maresciallo dei carabinieri, e minacciava di fucilarlo. Poi venne rilasciato, in seguito a trattative; e i «renitenti» non furono arrestati. Però, subito dopo l'accordo con i carabinieri, vennero i fascisti, che operarono un rastrellamento in massa della popolazione di Rezzo.
I partigiani di Cascione si dirigono a Rezzo, per aiutare la popolazione; ma, mentre sono in cammino, vengono informati che la lotta è cessata per l'impossibilità di resistere contro la superiorità numerica dei nazifascisti; perciò, dopo avere mandato Gustavo Berio e Silvano Alterisio in cerca di notizie più precise, tornano indietro, e si fermano ad Armo.
L'aiuto dei partigiani era stato chiesto per mezzo di due o tre uomini di Rezzo giunti appositamente in Albra la sera del 29 gennaio 1944. Mirko (Angelo Setti), con un altro partigiano, ancora la sera stessa andrà a prendere mitragliatore e fucile nascosti durante il percorso da Forti di Nava a Barchi. I partigiani di Cascione, che la mattina del 30 erano partiti alla volta di Rezzo, saputo che la lotta è cessata si fermano in Trovasta; qui pernottano fra il 30 e il 31: quindi, per Moano e Trastanello, si portano ad Armo, dove pernottano fra il 31 gennaio e il 1° febbraio. Per andare da Albra a Rezzo i partigiani erano passati sul ponte di Eca Nasagò. Fino dal giorno 29 gennaio 1944 esponenti antifascisti imperiesi operanti in città, con i quali la banda «Cascione» era più direttamente in contatto (nucleo comunista), per mezzo di Carenzo Fedele avevano messo Curto (Nino Siccardi) in collegamento con Ivan (Giacomo Sibilla) giunto appena da Alto a Barcheto [Frazione di Imperia], e lo avevano mandato in montagna affinché si incontrasse con gli uomini della banda. Curto, con Ivan, parte intorno alle ore 14 da Porto Maurizio, col treno, e si reca ad Ormea, passando per Savona e per Ceva. Nei pressi di Eca Nasagò non trova più la banda; prosegue per Alto e per Caprauna; infine trova i partigiani ad Armo, dove arriva la sera del 31 gennaio 1944. Curto dà ordini ed istruzioni; e il giorno dopo ritorna in città.
I partigiani di Cascione, ridotti a circa una ventina di uomini o poco più, partono tutti insieme da Armo, pernottano ad Aquila d'Arroscia, pranzano a Bacelega e si fermano a Pizzo d'Evigno, dove arrivano la sera stessa del giorno della loro partenza da Aquila. Ma, prima di spostarsi da Armo per la ricerca di nuove sedi, essi, durante la notte, si erano recati ad Alto, per tentare di ricuperare almeno una parte del materiale abbandonato durante la lotta; ed erano pure andati a rendere omaggio alla salma di Cascione, che, a cura di persone del posto, era stata sepolta nel cimitero locale.
Intanto, il 1° febbraio 1944 veniva ufficialmente creato il Comitato di Liberazione Nazionale Provinciale (CLNP) di Imperia.
A Pizzo d'Evigno, il giorno immediatamente successivo a quello del loro arrivo, i partigiani, che già avevano appartenuto alla banda «Cascione», si dividono in due squadre: una comandata da Vittorio Acquarone, che dapprima si stabilisce a Villatalla di Imperia (nel periodo dal 2 al 15 febbraio circa) e poi si sposta a Borgo d'Oneglia, per preparare il colpo di Garbella, che verrà disposto per il giorno 18 dello stesso mese; e una comandata da Tito (Risso Rinaldo), che si stabilisce nella valle di Diano Marina, zona di Magaietto.
Il giorno 18 febbraio i due gruppi di partigiani derivati dalla banda «Cascione», ora di nuovo aumentati in tutto di forse una diecina di uomini, si recano sulla Via Aurelia, una parte nella zona di Capo Berta e l'altra nella zona di Garbella, con l'ordine di fare saltare la strada nelle due località. L'azione dovrebbe avvenire in concomitanza con uno sciopero operaio, nonché in relazione col progetto di un eventuale sbarco alleato nella piana di Albenga, del quale si era avuta notizia.
Poi l'azione di Garbella e di Capo Berta viene sospesa, e le squadre si ritirano. Il gruppo di Garbella, che si era appostato in una casa abbandonata, poco lontano dal posto di guardia germanico, in prossimità della strada (Via Aurelia), era stato però scoperto da un tedesco, che, giunto sulla soglia di una delle due stanze nelle quali si erano nascosti i partigiani, li aveva scorti, e aveva sparato tutti i colpi della sua pistola, dando l'allarme.
I partigiani, tuttavia, si ritirano incolumi.
Subito dopo la tentata azione del 18 febbraio, otto partigiani del gruppo di Garbella, che era quello già stanziatosi prima a Villa Talla e poi a Borgo d'Oneglia, ritornano a Villa Talla; gli altri otto (fra cui Mirko, Ivan, Federico, Gianni di Bestagno e Vittorio il Biondo) si portano in una zona a monte di Borgo d'Oneglia e di Sant'Agata. Qualche giorno dopo la maggior parte di questi ultimi (fra cui ancora Setti Angelo o Mirko), essendo giunto l'ordine di portarsi alla «Maddalena» per un raduno generale, si recano a Villa Talla, allo scopo di ricollegarsi con gli altri partigiani del medesimo gruppo, e di andare alla «Maddalena» insieme con loro; ma, non avendoli trovati, proseguono da soli.
Il gruppo prima di stanza a Villa Talla e poi a Borgo d'Oneglia, che partecipa al completo all'azione del 18 febbraio, era allora composto di sedici uomini, e, fra gli altri, ne facevano parte Vittorio Acquarone, Emiliano Mercati, Trucco G.B. o «Titèn» (rientrato in banda da qualche giorno), Angelo Setti o «Mirko», Franco Salimbeni, Sibilla Federico, Sibilla Giacomo o «Ivan», Gianni di Bestagno e Vittorio il Biondo.
Il gruppo suddetto, per andare a prendere posto in Garbella, parte da Borgo d'Oneglia; passa per Cantalupo, per il ponte di Piani sul torrente Prino, prosegue a mezza costa fra Poggi e il torrente suddetto, attraversando la regione «Perrine»; per un tratto di strada, gli uomini sono accompagnati da Curto che aveva dato istruzioni sul da farsi; poi vengono guidati da altre due persone, probabilmente una di Artallo e una di Piani. Avrebbero dovuto dormire in una baracca a varie centinaia di passi dal luogo dell'azione, che era da compiersi la sera del giorno seguente, cioè del 18, anzi intorno alla mezzanotte; ma non trovata la baracca, anche a causa dell'oscurità, si sistemano in una casa tinteggiata in rosa (Villa Ludovici), situata vicino al ponte dell'Aurelia sul torrente Prino, o ponte di Garbella, e a pochissimi passi dalla strada stessa. Entrati per una porta posteriore rispetto alla strada, per una scala interna scendono al piano sottostante, dove pernottano. Il giorno dopo vedono dei tedeschi che camminano vicino alla casa; perciò risalgono al piano di soprae occupano due stanze, ciascuna accessibile con una propria porta, dal corridoio, e fra loro intercomunicabili per mezzo di una terza porta. All'improvviso, poco dopo il mezzogiorno, sopraggiungono due tedeschi, accompagnati da due ragazze; uno di essi, mentre l'altro è ancora fuori della casa, entra nella seconda stanza per la porta che dà sul corridoio, vede Gianni e Mirko, spara alla rinfusa, e si precipita alla finestra, continuando a sparare. I partigiani, scendendo per la scala interna, si ritirano in fretta; otto si portano sull'Aurelia, passano per il ponte, e infine andranno a Villa Talla; gli altri otto, fra cui Mirko, Ivan, Federico, Gianni di Bestagno e Vittorio il Biondo, girano intorno alla casa, Ivan spara al tedesco che è ancora alla finestra mentre l'altro è fuggito, poi tutti e otto ritornano nei pressi di Borgo d'Oneglia, passando su per giù per la strada percorsa nel venire, e si fermano fra Borgo d'Oneglia e Sant'Agata, a monte dei due villaggi. Qui restano per qualche giorno, e poi alcuni di essi si dirigono alla «Maddalena», passando per Villa Talla.
Dopo la tentata azione del 18 febbraio, quando una parte del gruppo, che doveva operare in Garbella, si ritira a monte di Borgo d'Oneglia e Sant'Agata, Ivan, malato di artrite, si ferma in Sant'Agata, nella casa di Mela Giuseppe («Sacchetto»), che era staffetta del gruppo. Due giorni dopo viene raggiunto da Franco Salimbeni, febbricitante.
Giovanni  Strato, Storia della Resistenza Imperiese (I^ zona Liguria) - Vol. I. La Resistenza nella provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944, Editrice Liguria, Savona, 1976, ristampa del 2005 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia 

mercoledì 28 settembre 2022

Il 28 gennaio 1944 nuclei armati di renitenti ribelli occupavano il comune di Rezzo

Rezzo (IM): uno scorcio del centro storico. Fonte: Davide Papalini su Wikipedia

In relazione al telegramma Nr. 57351/441 si omettono per la seconda quindicina del dicembre u.s. le tre segnalazioni richieste, permanendo tuttora le condizioni di cui alle mie precedenti relazioni per la prima quindicina dello stesso mese, trasmesse con mio foglio del 18 dicembre u.s. pari numero.
Ermanno Durante, Questore di Imperia, Al capo della Polizia [n.d.r.: della Repubblica Sociale di Salò] - Roma, Imperia, 3 gennaio 1944  - XXII°. Documento <MI DGPS DAGR RSI 1943-45 busta n° 4> dell'Archivio Centrale dello Stato di Roma 
 
[...] Con sempre maggiore impulso viene combattuto il mercato nero e continuano le mie ispezioni personali ai mercati del Capoluogo e degli altri centri della Provincia.
Le recenti incursioni nemiche in questo Capoluogo ed in alcune località della Provincia, che hanno fatto vittime e danni, nonché i frequenti e ripetuti allarmi giornalieri, hanno provocato un certo sbandamento, aggravando il problema dei rifornimenti dei prodotti ortofrutticoli. A rimuovere tale inconveniente si sta procedendo con tutti i mezzi a disposizione.
Attiva sorveglianza viene esercitata sugli elementi avversi al Regime Repubblicano Fascista per seguirne gli ulteriori atteggiamenti e poter, all'occorrenza, tempestivamente intervenire per energicamente reprimere qualsiasi tentativo di turbamento dell'ordine.
Ermanno Durante, Questore di Imperia, Al capo della Polizia - Roma, Relazione settimale sulla situazione economica e politica della Provincia di Imperia, Imperia, 10 gennaio 1944 - XXII°. Documento <MI DGPS DAGR RSI 1943-45 busta n° 4> dell'Archivio Centrale dello Stato di Roma
 
Il 7 corrente in Cosio d'Arroscia elementi ribelli hanno asportato quattro fusti di carburante dall'abitazione di tale Gastaldi.
Il 9 corrente in Cosio d'Arroscia i carabinieri intervenuti per far cessare una festa da ballo che svolgeva in una abitazione privata sono stati respinti e minacciati da elementi partigiani che partecipavano alla festicciuola. Militari germanici accorsi in aiuto dei carabinieri hanno ucciso un borghese e ne hanno feriti due. Poi, hanno fermato il Commissario Prefettizio locale.
Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del 20 gennaio 1944, pagine 9-10. Fonte: Fondazione Luigi Micheletti 
 

Nella settimana testè occorsa, e precisamente il 28 gennaio u.s. [n.d.r.: il giorno dopo l'uccisione dell'eroe partigiano Felice Cascione], nuclei armati di renitenti ribelli occupavano il comune di Rezzo di questa provincia, ove prelevarono un sottufficiale e 10 militi della G.N.R. (carabinieri), i quali si erano recati sul posto, da Pieve di Teco, per arrestare alcuni renitenti.
Mi recavo subito sul posto, con Funzionari, agenti ed elementi della G.N.R., nel limitrofo comune di Pieve di Teco, donde constatavo l'impossibilità di effettuare consuete operazioni di polizia. Si riusciva però ad ottenere il rilascio del sottufficiale e dei militari prelevati.
Pertanto, l'indomani, 29 gennaio, reparti germanici e della G.N.R., al comando di un ufficiale tedesco, procedevano a perquisizioni nelle abitazioni del comune di Rezzo e venivano arrestate sei persone, di cui tre renitenti, due perché trovati in possesso di armi ed uno quale ostaggio, siccome unico congiunto trovato in luogo del principale responsabile. Venivano inoltre incendiate sette abitazioni nelle quali erano state rinvenute armi.
L'ordine pubblico nel Comune di Rezzo ritornava subito normale.
Continuandosi nell'opera di pacificazione, svolta da me, ritornato nuovamente sul posto, a nome dell'Ecc. il Capo della Provincia, si otteneva la presentazione di 17 renitenti, che sono stati fatti accompagnare al Distretto Militare, nonché il ritiro di 90 fucili, 14 baionette, due pugnali, un fucile mitragliatore, con 8 caricatori, nonché cartucce varie ed alcune bombe a mano, tutto materiale di provenienza militare e spontaneamente versato alle autorità locali, dietro mie esortazioni.
La popolazione manifestava, infine, il suo sincero pentimento per le violenze commesse.
Tale episodio va quindi ridotto di proporzioni, per cui, più che di ribellione vera e propria, deve considerarsi come una ragazzata effettuata da giovani imberbi renitenti. 
Il 28 gennaio u.s. in Aurigo di Borgomaro di questa Provincia, circa 150 persone, in prevalenza, donne aggredirono con sassi e bastoni il comandante la stazione G.N.R. (carabinieri) di Borgomaro e tre dipendenti, mentre traducevano un renitente della classe 1925 poco prima arrestato. I militari per non essere soprafatti facevano uso delle armi, colpendo all'addome una donna, che successivamente decedeva. Un militare leggermente ferito ad una gamba da una bastonata. Il fermo del renitente veniva mantenuto. L'ordine pubblico ritornava subito normale.
Ermanno Durante, Questore di Imperia, Al capo della Polizia - Roma, Relazione settimale sulla situazione economica e politica della Provincia di Imperia, Imperia, 2 febbraio 1944. Documento <MI DGPS DAGR RSI 1943-45 busta n° 4> dell'Archivio Centrale dello Stato di Roma

I primi episodi di lotta [a Rezzo] si verificano nel novembre 1943, allorché i Carabinieri di Pieve di Teco, con la costituzione della Repubblica di Salò, invitano i renitenti alle varie leve a presentarsi alle armi del costituendo regime fascista. Questo invito si reitera per tutto il mese di gennaio del 1944. Nel frattempo i giovani di Rezzo, muniti delle armi di cui si sono impadroniti l'8 settembre, si sono organizzati in una banda per montare turni di vedetta a San Bernardo di Conio.
Alla fine di gennaio giungono a Rezzo una quindicina di carabinieri, guidati da un maresciallo per prendere provvedimenti seri contro i renitenti. Ma questi, stanchi delle angherie e forti dell'appoggio della popolazione, armi alla mano circondano una dozzina di carabinieri sulla piazza del paese, li legano e li portano nel bosco di Rezzo. Per farli rilasciare intervengono le autorità fasciste ed il prete della parrocchia. Ottenuto il rilascio dei carabinieri, i fascisti compiono una ritorsione bruciando alcune case e, radunata la popolazione, la portano incolonnata in cima al paese, in località "Pilastri". Sono momenti di terrore. Siamo al 30 gennaio: il contadino Costantino Donati tenta di fuggire, ma i fascisti sparano e lo uccidono in località Crocetta.
A febbraio 1944, dopo gli avvenimenti appena narrati, nel bosco si radunano una novantina di partigiani che si organizzano in tre Distaccamenti.
Francesco Biga in Francesco Biga e Ferruccio Iebole (a cura di Vittorio Detassis), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria) - vol. V, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2016
 
Agostini Annibale: nato a Genova il 13 maggio 1911, agente in servizio presso la Squadra Antiribelli della Questura di Imperia
Interrogatorio del 10.10.1945: Fui trasferito ad Imperia nel 1940 e venni assegnato a prestare servizio presso l’ufficio di polizia di Ponte Unione di Mentone. Nel dicembre del 1943 venni inviato di rinforzo ad Imperia inizialmente nella Squadra Politica e poi siccome non mi ci trovavo bene, essendosi formata una squadra di pronto impiego, io passai a far parte di essa. Detta squadra, composta in un primo tempo di 10 elementi, venne poi aumentata a circa 30 e poi ancora a 60 uomini e cambiò la denominazione in Squadra Antiribelli. Con detta squadra presi parte all’azione svolta a Pieve di Teco allorquando i partigiani avevano assaltato la caserma dei carabinieri ed avevano prelevato il maresciallo comandante. In detta azione fu proceduto al fermo di alcune persone che vennero poi portate in questura ad Imperia.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia,  StreetLib, Milano, 2019
 
Al questore di Imperia e di Pavia Ermanno Durante, definito nelle carte giudiziarie un «fascista fervente», andò ancora meglio: imputato nell’ottobre '46 di omicidio, rastrellamento, repressione anti-partigiana, persecuzione politica, persecuzione razziale, delazione, furto, tortura e di un’altra altrettanto lunga serie di reati comuni, tra cui truffa, si vide condonare, grazie all’applicazione del D.P. 22 giugno '46, ben un terzo della pena, fissata inizialmente a venticinque anni di reclusione <163.
[...] Più simile al caso di Milano è, per certi aspetti, il caso dei due uffici di P.M. di La Spezia e Imperia, del distretto di Genova, per i quali si legge che «il lavoro ha proceduto a rilento» a causa «della esiguità del numero dei funzionari e delle difficoltà che si incontrano per il sollecito disbrigo delle istruttorie, rappresentate dalle grandi distanze», oltre che per «gravi incidenti» occorsi al presidente della Sezione di Imperia.
163 AS di Pavia, Fondo CAS Pavia, vol. 2, 133/46, 4 ottobre 1946
Laura Bordoni, La “giustizia in transizione” in Italia: l'esperienza delle Corti d'Assise Straordinarie lombarde (1945-'50), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Pavia, Anno accademico 2018-2019

venerdì 4 marzo 2022

A conoscenza che il 28 i Tedeschi avevano lasciato Ceriana, il Comando della divisione decide di effettuare un attacco contro il presidio repubblichino

Ceriana (IM)

«Orsini» (Agostino Bramé) racconta:
"Da molti giorni era in istudio presso il Comando della V Brigata un'azione da condurre contro Ceriana, posta sulla strada Sanremo-Baiardo a 12 Km. dalla costa. Molte erano le difficoltà da superare. Infatti il presidio di Ceriana era composto da una trentina di tedeschi e da circa 80 bersaglieri, per la maggior parte volontari, gente esaltata e particolarmente accanita contro le nostre formazioni. Gli uomini del presidio di Ceriana, aspettando o, per lo meno, presumendo un attacco da parte nostra, avevano preso tutte le misure del caso, ponendo reticolati e cavalli di frisia attorno alle loro postazioni, fortificando e barricando le case ove essi alloggiavano. Ostacolo particolarmente difficile era offerto dalla galleria posta all'ingresso del paese per chi proviene da Baiardo: nell'interno di essa erano piazzati quattro fucili mitragliatori con due sentinelle fisse. Il 28 settembre 1944 ci giungeva notizia che i tedeschi si erano allontanati da Ceriana lasciandovi solo 5 o 6 uomini. I bersaglieri invece rimanevano al completo. Si decideva allora di studiare e condurre l'attacco.
Il Vice Comandante di Brigata Brescia [n.d.r.: Umberto Bonomini] si portava presso il II° Distaccamento e con il Comandante Gino [n.d.r.: Gino Napolitano] prendeva tutti gli accordi e le disposizioni necessarie per la buona riuscita dell'azione che veniva fissata per il giorno 30 Settembre alle ore sei. Contemporaneamente veniva inviato ordine all'VIII Distaccamento di Gori [n.d.r.: Domenico Simi] affinché inviasse una trentina di uomini sulla strada Sanremo-Ceriana allo scopo di impedire l'afflusso di rinforzi durante l'azione. Nella notte, mentre due uomini interrompevano le comunicazioni telefoniche fra Ceriana e Sanremo, quattro squadre del II° Distaccamento si portavano ai posti di battaglia, in precedenza fissati, con compiti specifici e ben definiti. Non appena dal campanile del paese scoccavano le sei, tutti si ponevano in movimento.
Le due sentinelle alla galleria venivano sorprese e disarmate, i quattro fucili mitragliatori prelevati, l'alloggio di una squadra di bersaglieri assalito e l'intera squadra catturata. Tutto procedeva secondo quanto previsto, senonché una pattuglia di bersaglieri, che stava eseguendo un giro esplorativo, gettava l'allarme in paese con lancio di bombe a mano e nutrito fuoco di fucileria. In un attimo tutti i bersaglieri uscivano dalle loro camerate e si trinceravano nelle case, dalle finestre delle quali aprivano un violento fuoco. Pertanto veniva dato ordine alle nostre squadre, che già erano nell'interno del paese, di arretrare e portarsi fuori tiro. Ciò veniva eseguito in perfetto ordine. Dopo pochi minuti si tentava un altro attacco che veniva respinto. Si decideva allora di mettere alla testa di una nostra squadra i bersaglieri già catturati e di avanzare dietro di loro. I bersaglieri rimasti in Ceriana, benché accortisi di  quanto stava succedendo, non esitarono a sparare sui loro stessi compagni. Si doveva quindi desistere da ogni ulteriore tentativo, tanto più che era entrato in azione un pezzo anticarro da 47/32 che batteva i dintorni del paese. Veniva allora inviato uno dei bersaglieri catturati dal Capitano comandante il presidio per chiedergli la resa. Il bersagliere tornava portando risposta negativa, mentre più violento si faceva il fuoco dei difensori, appoggiati anche da alcune  mitragliatrici pesanti. Tutti i Garibaldini che parteciparono all'azione facevano allora ritorno all'accampamento. Non si lamentò alcun ferito da parte nostra.
Risultato dell'azione:
1) Catturati: quattro fucili mitragliatori (due Saint-Etienne e due Breda), un Mitra Beretta, una pistola automatica e due cassette di munizioni per fucile mitragliatore.
2) Fatti prigionieri otto bersaglieri fra i quali un sergente.
3) Ferito mortalmente con tre colpi il Tenente Perrucchetti, tristemente famoso per la sua crudeltà e la sua faziosità, nonché un caporale maggiore e due altri bersaglieri.
4) Probabilmente colpiti da una nostra raffica altri sei o sette bersaglieri".
Mario Mascia, L'Epopea dell'Esercito Scalzo, Edizioni ALIS, Sanremo, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia
 
[...] Per mezzo degli informatori venuto a conoscenza che il 28 i Tedeschi avevano lasciato Ceriana, il Comando della divisione «F. Cascione» decide di effettuare un attacco contro il presidio repubblichino e incarica Umberto Bonomini (Brescia), vicecomandante della V brigata, di elaborare il piano d'azione e portare a compimento l'impresa.
Il distaccamento di Gino Napolitano (Gino), dislocato in località Beulla, ritenuto il più preparato come uomini e mezzi, viene scelto per l'attacco che, tuttavia, presenta paurose incognite.
Infatti sarebbe follia cercare di affrontare e piegare i nemici con la forza; ai primi colpi il campo rimarrebbe subito a loro e, per questo, non varrebbe sacrificare inutilmente gli uomini. Quindi, pensano i garibaldini, se non si può attuare una strategia campale per l'enorme disparità numerica e, soprattutto, di armamenti, si può sempre giocare secondo il sistema tattico della guerriglia: sorpresa e audacia.
Però questi due fattori non serviranno a neutralizzare i cannoni e i troppi mortai dei bersaglieri fascisti.
Questo pensano «Gino» e «Brescia», i due capi partigiani, ma conoscono bene il coraggio dei loro volontari e sanno che al momento opportuno risponderanno all'appello col fuoco del loro entusiasmo, non meno micidiale di quello delle armi.
Studiano con meticolosa cura la zona e le opere di difesa nemiche e decidono di passare senz'altro all'attuazione del piano di attacco, basato essenzialmente su tre elementi caratteristici di ogni azione partigiana: eludere la sorveglianza del nemico, illuderlo sulla vera entità delle forze operanti e sorprenderlo con azione rapida e sconcertante. Oltre quaranta garibaldini del 2° distaccamento partecipano all'azione; oltre quaranta ribelli non bene in arnese, come si suol dire, contro 150 soldati repubblichini ben riforniti, equipaggiati di tutto punto, agguerriti e guardinghi. Il bollettino che il comando fascista emetterà all'indodomani, per mascherare un nuovo scacco subito e salvare, così, almeno a parole, l'onore assai dubbio della sua bandiera, parlerà di  «... 400 fuorilegge contro quindici valorosi guerrieri combattenti sotto le insegne del Littorio ...».
Alle sei precise del mattino, scoccate dal campanile, il 30 di settembre, mentre una trentina di uomini dell'8° distaccamento «Gori» bloccano la strada San Remo-Ceriana per ostacolare l'afflusso di rinforzi e due partigiani interrompono le comunicazioni telefoniche tagliando la linea dei fascisti, quattro squadre di dieci uomini ciascuna scattano contemporaneamente all'attacco del forte presidio nemico che è ubicato al centro del paese, investendo Ceriana da quattro lati. Le sentinelle avanzate vengono sorprese, catturate e disarmate, così quelle della galleria, mentre una squadra di sei bersaglieri è catturata in un alloggio della periferia. L'azione è facilitata dal sottonente Nino De Sanctis e  dal sergente Baldo della 7^ compagnia bersaglieri, che, accordatisi in precedenza, lasciano entrare i garibaldini nell'accampamento.
Ma nonostante ciò, con lancio di bombe a mano una pattuglia nemica riesce a dare l'allarme e la lotta ha inizio. I bersaglieri e i cinque Tedeschi rimasti, adottando una tattica mai prima usata in simili casi, si sparpagliano nelle case dei civili improvvisandosi franchi tiratori e aprono un fuoco infernale  sui  garibaldini  che  avanzano  per  i  viottoli del  paese.  Da ogni lato  il  piombo  nemico  fischia  rabbioso e  contrasta il passo ai partigiani che combattono come possono. Dopo mezz'ora d'impari lotta le quattro squadre attaccanti si ritirano sulle basi di partenza alla periferia del paese.
I comandanti si concertano, si interrogano gli uomini: la volontà unanime è di continuare, di non  mollare. Durante la pausa il bersagliere prigioniero Visconti da Desenzano viene inviato dal comandante del presidio per chiedere la resa. Viene respinta. Allora le «stelle rosse» (così il nemico chiamava i partigiani) ritornano nella mischia cruenta, avanzando in ordine sparso e mirando con calma e precisione sulle divise grigioverdi dei fascisti. Anche alcuni Cerianesi partecipano alla lotta.
Lo stesso tenente Perrucchetti comandante del presidio, un caporal maggiore e due bersaglieri rimangono mortalmente feriti; sembra che la stella giustiziera guidi le schiere di «Gino» e di «Brescia», le quali catturano altri nemici, mentre una mezza dozzina rimangono colpiti in modo grave da raffiche di mitra.
Questa seconda partita si conclude in meno di un quarto d'ora con un brillante successo: i partigiani si ritirano senza aver subito perdite. Attaccano una terza volta per far cadere gli assediati e una terza ondata di guerriglieri, che sono obbligati a portare con loro i prigionieri, investe nuovamente Ceriana. I nazifascisti non esitano a sparare sui loro uomini; riusciti a piazzare due cannoni per difendersi da un pugno di armati, sparano a zero; i boati coprono le altre voci della battaglia.
Intanto camions carichi di rinforzi nemici provenienti da San Remo si dirigono a tutto motore sul luogo degli scontri.
La situazione diventa insostenibile per i garibaldini e la ritirata si rende necessaria, tanto più che un bersagliere, inviato al Comando fascista per chiedere nuovamente la resa, era ritornato con risposta negativa.
Infatti i garibaldini del 2° distaccamento si sganciano e retrocedono in buon ordine verso il loro accampamento con la preda bellica comprendente due mitragliatrici pesanti «Saint-Etienne», due mitra «Breda», un mitra «Beretta», diverse  pistole, moschetti, munizioni e undici prigionieri.
Ventun nemici messi fuori combattimento (morti e feriti), sono il lusinghiero bilancio di questa giornata di lotta che ha dato una chiara, luminosa risposta all'invito scritto sui muri di Baiardo dagli stessi bersaglieri durante un rastrellamento: « Se avete del coraggio veniteci a trovare» (1).
Una seconda volta non lo scrissero più.
(l) I bersaglieri catturati nella lotta erano del primo plotone, i medesimi che il 25 di settembre avevano saccheggiato Baiardo con particolare ferocia. Probabilmente si trattava di un plotone scelto. Fatti sfilare per il suddetto paese  prima della punizione, vennero sottratti a stento alla popolazione desiderosa di linciarli (da una relazione del Tribunale di brigata).
Francesco Biga, Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. La Resistenza nella provincia di Imperia da settembre a fine anno 1944, a cura dell'Amministrazione Provinciale di Imperia e con il patrocinio dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Milanostampa Editore, Farigliano, 1977
 
[n.d.r.: per combinazione su questi fatti di Ceriana ci sono anche delle narrazioni di nostalgici saloini, che qui sotto si riportano in stralci...]

Lettera del capitano Pietro Borroni, dei Bersaglieri di Salò, cit. infra

Vi prego portare a conoscenza della Famiglia Gazzaniga che il Cap. Gazzaniga Attilio residente a Zinesca Via Roma II risulta disperso in zona di operazioni per azione contro bande ribelli il 30 settembre 1944. Da informazioni di testimoni oculari è certo che il disperso ha reagito coraggiosamente e combattuto meritando perciò il trattamento di "presente alle bandiere". Il Comandante di Battaglione, Cap. Pietro Borroni, Comando 2° Battaglione Bersaglieri "Maiora Viribus Audere", Al Capo della Provincia - Pavia, proto 5742 in data 22 novembre 1944, oggetto: caporale Gazzaniga Attilio [...] La situazione in Ceriana è tranquilla e apparentemente sotto controllo, nostro per l'esattezza. Sono le prime ore del pomeriggio e, da solo, mi viene voglia di fare una visitina agli amici che presidiano il posto di controllo verso Baiardo [...] Quel poveraccio, in fondo - che voleva rendersi utile ai suoi amici partigiani - è stato tratto in errore soltanto dalla varietà del nostro abbigliamento, non proprio 'uniforme' nel senso letterale della parola: nel mio caso, visto di spalle, potevano essergli fatali i miei pantaloni mimetici ed il berretto, analogo, che portavo in luogo dell'inconfondibile fez. Sicuramente quella persona non leggerà mai questa mia memoria ma, se potesse venirne a conoscenza, potrebbe per assurdo riscrivere all'anagrafe di Ceriana una nuova data di nascita, collocandola in quel giorno di ottobre del 1944 [racconto di]  Franco Leotta
[...] Una banda di ribelli travestiti da bersaglieri sorprende in piena notte gli uomini di guardia e riesce così a prelevare molti militari del primo plotone che stanno dormendo tranquillamente nei loro alloggiamenti. Per fortuna non tutto va liscio a questi gentiluomini dell'imboscata: uno dei prelevati, il bersagliere Passarella, non ci sta e tenta una disperata ribellione. Partono di conseguenza alcuni colpi di arma da fuoco che mettono in allarme l'addormentato presidio. Il coraggioso "commando" scappa velocemente, trascinando con sé gli ostaggi, al di là della ben nota galleria dove si sente più sicuro. È così che inizia il 2 ottobre 1944 in quel di Ceriana, e cioè molto male [...] E' uno dei bersaglieri appena prelevati, un certo giovanissimo Luigi Visconti che è latore di un ultimatum: i bersaglieri devono arrendersi senza condizioni, pena l'uccisione di tutti gli ostaggi e questa minaccia sarà resa operativa anche nel caso in cui Visconti medesimo non abbia fatto ritorno con la risposta. Nessuno naturalmente pensa di arrendersi e tutti sconsigliano il ragazzo dal fare ritorno presso i rapitori ché il risultato purtroppo sarà/sarebbe comunque identico, ma il Visconti non vuole sentir ragioni e ritorna là dove ci sono, prigionieri, i suoi amici, portando la risposta della settima compagnia. (In giornata, poi, dopo alcune ore, verrà assassinato con un raro ingegnoso sistema di cui parleremo in seguito, insieme a tutti gli altri bersaglieri che erano stati prelevati). Passano alcune ore, si è fatto giorno, e si decide di inviare a Taggia un volontario (la missione ha scarse probabilità di riuscita; la si potrebbe definire "disperata") con l'incarico di mettere a giorno della situazione il comando di battaglione. Chiede ed ottiene l'incarico un mio amico, il bersagliere Arrigo Dante Biasioli di Milano, studente universitario, iscritto al primo anno della facoltà di medicina. Viene messa a disposizione una vecchia scassata bicicletta con la quale, trovandosi ad essere per una volta "bersagliere ciclista", il Biasioli parte a tutta birra per quella strada che in ripida discesa va verso una località chiamata Santa Filomena. Come sanno bene tutti quelli della settima compagnia questa Santa ci era decisamente ostile e, logicamente, si dimostrò tale anche in quell'occasione. Il "bersagliere ciclista" non giunse mai a Taggia, perché i partigiani, che avevano circondato completamente Ceriana, riuscirono faticosamente a bloccarlo proprio nei pressi di una maledetta curva, nota appunto come "la curva di Santa Filomena". Si seppe in seguito che quelle brave persone, dopo di avergli fatto scavare una fossa, qualche giorno dopo lo avevano assassinato con uno sbrigativo colpo di pistola alla nuca. Nel frattempo a Ceriana ci furono un po' di fuochi d'artificio. Loro sparavano verso il paese e dal paese noi cercavamo di fare del nostro meglio [...] E' interessante il resoconto che tale Agostino Brame detto "Orsini" fa dell'attacco del 2 ottobre a Ceriana [...] Perché l'autore non ha scritto di come dove, invece, vennero torturati e uccisi i bersaglieri nel sonno a Ceriana, ché appunto di costoro si sta parlando? Certamente una certa imprecisione nel ricordare o una non voluta dimenticanza. Capita nelle migliori famiglie, figuriamoci in quell'ambiente. Io non ne faccio una questione di destra o sinistra, di sopra o di sotto, o di un determinato colore [...]
Umberto Maria Bottino, I nostri giorni cremisi. 1943-1995, Attilio Negri srl, Rozzano, 1995

domenica 29 marzo 2020

Incursione dei partigiani nella caserma Siffredi


Dove sorgeva la caserma Siffredi oggi insiste il Tribunale di Imperia
 
Nella notte dal 28 al 29 giugno u.s. una trentina di partigiani asportarono dalla caserma "Siffredi" di Oneglia, adibita a dormitorio di operai della Todt, circa 40 moschetti nonché un quantitativo imprecisato di coperte, prelevando il custode.
Ermanno Durante, Questore di Imperia, Al capo della Polizia - Maderno, Relazione settimanale sulla situazione economica e politica della Provincia di Imperia, Imperia, 3 luglio 1944 - XXII° 
 
La prima azione importante cui partecipai fu quella dell'incursione nella caserma Siffredi in Via XXV Aprile [attuale nome dell'arteria ad Imperia Oneglia], dove erano accantonati i lavoratori della TODT, e dove in un magazzino era depositata una sessantina di fucili.
Fucili che ci sarebbero serviti perché nel nostro distaccamento non tutti erano in possesso di un'arma, compresi noi, ultimi arrivati. 

Comunicai a "Merlo" [n.d.r.: Nello Bruno caduto il 25 gennaio 1945 da commissario di un Distaccamento della IV^ Brigata "Elsio Guarrini" della II^ Divisione Felice Cascione"]  la  notizia.
Egli mi disse: «Dove prenderesti questi fucili?». Risposi: «Alla caserma Siffredi».
"Merlo" fece una smorfia e mi chiese: «La caserma presso la stazione ferroviaria di Oneglia?».
Alla mia affermazione esclamò: «Ma tu sei matto?».
Io tacqui e lui si allontanò dicendomi: «Ne riparleremo». 
Il giorno successivo mi chiamò nel suo stanzino e mi disse: «Siediti e dimmi come organizzeresti questo colpo».
Gli spiegai il mio piano che per me era semplicissimo, conoscendo il luogo e la situazione.
Lui ascoltò con molta attenzione e, dopo essere rimasto qualche minuto soprappensiero, mi disse: «Prendi una decina di uomini, vai a compiere il recupero delle armi e... buona fortuna».

Il giorno successivo, forse il 28 o il 29 giugno 1944, partii con una decina di uomini comandati dal caposquadra Corradi "Battaia", che aveva qualche anno più di noi e, quindi, era più esperto.
Strada facendo, incontrammo il partigiano "Binello" il quale, vedendoci armati e provvisti di viveri, ci chiese dove eravamo diretti. Gli rispondemmo che andavamo a prendere dei fucili nella caserma Siffredi. "Binello" rimase un attimo senza parlare, poi sentenziò: «Ma dove volete andare! Sembrate una banda di profughi... date retta a me, ritornate indietro e andatevene a dormire!».

[...] in serata giungemmo presso il frantoio del "Bisciallo" [...] mi diressi verso Oneglia.
Ero abbastanza tranquillo poiché in tasca avevo ancora il tesserino bilingue della TODT.
Giunto a casa mia [...] mi recai nella caserma Siffredi per constatare se il guardiano del deposito era sempre il mio vecchio amico "Cassina", il milanese, e, soprattutto, se nel deposito vi erano ancora i fucili [...]
Il "Cassina", che era un gran brav'uomo [...]: «Sono quindici giorni che non ti vedo... come mai?».
[...]
Verso la mezzanotte mi recai al luogo dell'appuntamento presso la chiesetta delle Cascine (intitolata a San Luca), dove mi attendeva la squadra di "Battaia".
Fatti i segnali convenuti e ricevuta la risposta, io e tutta la squadra, attraverso scorciatoie, ci avviammo verso la caserma.

Una vecchia immagine della Caserma Siffredi

Quando giungemmo nell'attuale via XXV Aprile, dissi alla mezza dozzina di partigiani che mi erano vicini di stare attenti perché ad una cinquantina di metri (appena sopra all'allora ditta Isnardi) si trovava una scuderia dove i tedeschi tenevano sei cavalli e materiale bellico, e presso la quale sia di giorno che di notte vi erano sentinelle di guardia.
Per entrare nella caserma dovevamo attraversare la strada uno o due per volta, cercando di non farci scorgere dalle sentinelle.
Io, che ero il primo, mentre mi accingevo ad attraversare la strada, sentii delle voci vicinissime; mi schiacciai contro il muro di una rampa, sperando di non essere visto.
Un pensiero mi assalì: per essere in giro a quest'ora con il coprifuoco, questi debbono essere soldati o poliziotti, e allora fuggire indietro su per una piccola salita (eravamo in un sentiero vicino all'oleificio fratelli Calvi, che da anni non esiste più) voleva dire farsi sparare nella schiena.
Non andò come speravo perché le due persone che passavano ci videro (seppi poi che erano due guardie notturne in borghese, forse allora non usavano ancora le divise) e ci chiesero chi eravamo e che cosa facevamo in quel luogo a quell'ora.
Non risposi e non diedi loro il tempo di aggiungere altre parole, li tirai con forza in un vicoletto lì vicino e a voce bassa dissi: «State zitti o siete morti!».
Li perquisii: uno dei due, il capo, aveva una piccola pistola a tamburo che sembrava un giocattolo, l'altro non aveva alcuna arma.
Li mandai accompagnati da un partigiano in cima al viottolo per farli consegnare agli altri partigiani che erano in attesa che si compisse la nostra azione.

Due alla volta attraversammo la strada e ci portammo dentro la caserma.
[...]
Bussai alla porta dove all'interno dormiva il "Cassina".
Dovetti bussare una decina di volte, e sempre più forte, il guardiano aveva il sonno duro.
Presso la porta destra del deposito c'era un dormitorio, un lungo camerone nel quale dormiva un centinaio di lavoratori, ed alcuni di loro vennero sulla porta per vedere cosa stava succedendo.
Rimasero sorpresi di vedere sei uomini in borghese ed armati.
Mi rivolsi a loro invitandoli perentoriamente ad andare a dormire perché non c'era niente che potesse interessarli.
Intanto mi venne in mente che in fondo alla camerata vi erano i servizi igienici, compresa un'uscita che dava sul piazzale.
Pensai che, se qualcuno avesse voluto denunciarci, poteva uscire da quella porta.
Mandai un partigiano a controllare quella uscita. Dato un calcio alla porta, finalmente il guardiano si svegliò e chiese chi lo stava cercando.
Risposi: «Sono Badellino, vengo a ritirare la coperta».
Il pover'uomo venne subito, ma, quando aprì la porta rimase di stucco poiché si trovò davanti cinque giannizzeri armati e male in arnese (il partigiano "Olimpio" aveva per copricapo la fodera interna, in pelle, di un elmetto per cui sembrava un guerriero delle crociate).

Il "Cassina", tremante, mi guardò con uno sguardo interrogativo.
Gli dissi di non avere paura, che lo avremmo lasciato tranquillo e avremmo preso solamente i fucili accatastati che gli indicai con la mano.
Allargò le braccia, rassegnato.
Gli chiesi una decina di coperte e del filo di ferro per legare i fucili a mazzi. 
Il "Cassina" ubbidì immediatamente.
In ogni coperta, avvolgendoli, sistemammo sette od otto fucili, legandoli insieme.
In questo modo confezionammo sette od fasci, e ci preparammo ad uscire con i carichi sulle spalle.
Il "Cassina", pensando al poi, impaurito mi chiese: «Cosa faccio adesso, cosa dirò al lagerfuhrer (capocampo)?».
Pensai un attimo, quindi gli dissi di darmi un pezzo di corda per legarlo stretto alla branda. Così facemmo.
Lo imbavagliai con un asciugamano invitandolo a stare tranquillo almeno per un'ora.
Lo avvisai che, se non avesse rispettato il mio ordine, sarebbe stato ucciso da un partigiano che io avrei lasciato di guardia, facendogli presente che ciò mi avrebbe rattristato perché lo consideravo un amico.
Mi assicurò che così avrebbe fatto.

Noi uscimmo. Siccome di quell'uomo mi fidavo e gli involti delle coperte con i fucili pesavano, non lasciai l'uomo di guardia ed uscimmo sul piazzale diretti fuori della caserma.
Ma nel casamento a fianco si accese una luce ad una finestra ed io, sapendo che era proprio la stanza del capocampo, raccomandai ai miei compagni di camminare in silenzio.
"Olimpio" mi disse: "Se è la stanza del capocampo perché non andiamo ad ucciderlo?".
Risposi: «Guarda che al piano di sopra ci sono altri dieci o o quindici soldati tedeschi bene armati...».
Riattraversammo Via XXV Aprile, raggiungemmo alcuni uomini che avevo lasciato di guardia nel vicoletto, nel caso avessero dovuto coprirci la ritirata.
Ci aiutarono a portare le armi fino in cima allo stesso, dove sostavano altri uomini in attesa del nostro arrivo.
Dopo aver ridistribuito a più uomini (compresi i due prigionieri) i carichi dei fucili ci incamminammo verso Oliveto.
Da questa località volevamo raggiungere, attraverso il torrente Impero, il paese di Borgo d'Oneglia dove eravamo sicuri di trovare qualche mezzo per trasportare i fucili.
Appena sopra Oliveto, scorgemmo in basso, nei pressi della chiesetta delle Cascine, alcuni razzi illuminanti e sentimmo alcune raffiche di mitra lontane.
Cercammo di camminare in fretta, ma ci accorgemmo di girare a vuoto: nessuno di noi conosceva la strada e di notte era molto difficile rintracciarla.
In accordo con il caposquadra "Battaia" decidemmo di attendere l'alba in modo da orientarci meglio. Così facemmo.
All'alba ci portammo sulla stradina che da Costa d'Oneglia conduce sulla strada statale 28 e, facendo attenzione a non incappare in qualche mezzo in transito, attraversammo strada e torrente Impero due o tre per volta (mentre transitava un autocarro di tedeschi i quali, probabilmente, ci scambiarono per contadini al lavoro) e raggiungemmo Borgo d'Oneglia dopo una mezz'ora di marcia.
In questo paese la banda locale, che era efficientissima, dopo averci dato da bere del latte, mise a nostra disposizione un paio di muli su cui caricammo i fucili e dei viveri, incamminandoci poi verso Pianavia.
Preciso che nella caserma Siffredi, dove era alloggiato il capocampo, soggiornava anche un centinaio di tedeschi che dovevano, il giorno dopo, portarsi sopra un altro treno, oltre il ponte della ferrovia, interrotto da un bombardamento aereo, per cui, se avessimo attuato il consiglio di "Olimpio", è facile immaginare come sarebbe andata a finire.
Quando con "Battaia" decidemmo di lasciare liberi i due prigionieri, che non erano più ventenni, "Olimpio" ci rimproverò dicendo che, se avessero individuato qualcuno e noi, certamente lo avrebbero denunciato ai fascisti; secondo lui, sarebbe stato meglio farli fuori. Ma io non mi sbagliai: si comportarono bene, non fecero la spia, uno di loro continuò a salutarmi con simpatia dopo la liberazione, and negli anni nei quali divampò l'ostracismo contro i partigiani.
Forse "Olimpio" non era crudele come voleva apparire: probabilmente era solo un poco spavaldo. Che fosse coraggioso lo dimostrò quando in piazza del Duomo a Porto Maurizio sparò contro i brigatisti neri che avevano la caserma nelle vicinanze.
A proposito del partigiano "Binello", probabilmente fu armato anche lui con uno dei fucili che prelevammo nella caserma. [...]

Sandro Badellino *, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

* Sandro Sandro Badellino. Entrò a far parte della Resistenza il 10 Maggio 1944, nella squadra comandata da Angelo Setti "Mirko", che operava nella zona del Monte Acquarone, tra la Valle Impero e la Val Caramagna. Quasi subito partecipò ad una prima fortunata azione alla Caserma "Siffredi" di Oneglia, che comportò un buon bottino di armi. In seguito passò nella formazione "Volante" di Silvio Bonfante "Cion" che agiva nella Val Steria (Testico, Rossi, Stellanello), e nella "Volantina" del Comandante "Mancen" Massimo Gismondi [in seguito comandante della I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"]. Ai primi di agosto 1944, durante uno scontro, Badellino subì varie ferite che lo costrinsero convalescente per un mese dopo essere sfuggito alla cattura. Costretto nuovamente alla fuga dal suo rifugio in seguito ad una spiata, raggiunse il Bosco di Rezzo nella circostanza del famoso rastrellamento che si concluderà con la Battaglia di Monte Grande. Sebbene ferito, vi partecipò affiancando la squadra di mortaisti che, colpendo le postazioni tedesche da San Bernardo di Conio [Borgomaro (IM)], ebbe un ruolo determinante nella riuscita dell’operazione. In seguito ricoprì l'incarico di intendente presso il Distaccamento "Comando" di Mancen. Il 25 Aprile 1945 scese ad Andora (SV) in qualità di Commissario di Brigata.
 Vittorio Detassis