Nei
primi giorni di settembre 1944 nella I^ Zona Liguria i comandi
partigiani avevano già predisposto tutte le loro formazioni per
attaccare i principali centri della costa, come supporto ad un attacco
alleato proveniente dalla Francia: questo era dato già per avvenuto da
Radio Londra, che il 1 settembre trasmetteva: "
truppe alleate sono
già a 8 Km oltre frontiera in territorio italiano. Le prime formazioni
partigiane hanno preso contatto con gli alleati..." (così in
Francesco Biga,
Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria), Vol. III. Da settembre a fine anno 1944, ed. Amministrazione Provinciale di Imperia e patrocinio
IsrecIm, Milanostampa, 1977).
Purtroppo la notizia si dimostrò falsa e i partigiani dovettero lottare per altri 8 mesi.
Le
formazioni tedesche e fasciste, appurata la non veridicità della
notizia appena descritta, organizzarono una ennesima operazione di
rastrellamento ai danni dell'estremo ponente ligure: l'obiettivo era
quello di accerchiare i partigiani attaccando dalla Val Prino e dalla
Valle Argentina.
I
garibaldini, venuti a conoscenza del piano d'attacco tedesco,
appurarono che la forza nemica era enorme: circa 8.000 unità.
L'azione
a
vasto raggio coinvolse la I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano
Belgrano" e la IV^ Brigata "Elsio Guarrini"della II^ Divisione "Felice
Cascione", che aveva la propria sede comando
nel bosco di Rezzo (IM).
Il giorno 4 settembre [1944] i soldati tedeschi e fascisti, avanzando da varie direttrici, "si
spingono su Borgomaro, occupano la zona di Moltedo, raggiungono il
paese di Carpasio e dilagano nella vale di Triora. Da Pieve di Teco si
spingono su Pornassio e su San Bernardo di Mendatica" (Francesco Biga, Op. cit.).
Alle
5 del mattino del giorno successivo iniziò l'attacco nazifascista. Il
passo Teglia fu il teatro dove caddero i primi garibaldini. Conquistato
anche il Monte Grande, i tedeschi obbligarono i partigiani a ripiegare.
Il comando della Divisione prese allora una decisione rischiosa ma necessaria: attaccare il Monte Grande [prossimo a San Bernardo di Conio, Frazione del comune di Borgomaro (IM)].
"Mancen" Massimo Gismondi fu prescelto per questa rischiosa azione.
Accompagnato da altri 12 garibaldini, riuscì a risalire il ripido pendio
e prendere alle spalle i nazisti che, colti di sorpresa, fuggirono
lasciando armi e munizioni sul luogo.
L'obiettivo
garibaldino era stato centrato. In questo modo si poteva procedere allo
sganciamento degli uomini, all'occultamento del materiale bellico e
delle salmerie, in ciò anche con l'aiuto di una situazione meteorologica
favorevole.
Il
giorno successivo gli 8.000 tedeschi non trovarono, pertanto, i
garibaldini. Questi si erano nascosti nel territorio che conoscevano
bene.
Così
terminò il grande rastrellamento, che aveva tuttavia causato la perdita
di dieci vite tra civili e partigiani.
Cessata la tempesta, il Comando
Divisionale tornò nel bosco di Rezzo a riorganizzare le proprie fila.
Rocco Fava di Sanremo (IM),
La
Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della
documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo
I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di
Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico
1998 - 1999
Il 4 settembre del 44, al mattino presto era arrivato dalla
strada di Andagna un “prete“, cioè un uomo vestito da prete, ed era stato fermato da tre partigiani della postazione di
guardia e accompagnato al Comando di Distaccamento, a Passo Teglia
di Fenaglia, dove il comandante era Germano Belgrano (Giuda) e il
Commissario era Bruno Brilla (Padoan), fratello maggiore di
Francesco. Poi il
prete veniva trasferito ulteriormente al
Comando di brigata che si trovava a S. Bernardo di Conio sul piazzale.
Lì sostavano Nino
Siccardi (U Curtu), Carlo Farini (Simon), Silvio
Bonfante (Cion) e il “prete” subiva uno stringente interrogatorio. Non
essendo emerso nulla di compromettente, era rilasciato e
riaccompagnato a Passo Teglia, quindi veniva considerato un vero prete.
Nel pomeriggio costui essendo sostato a Passo Teglia, aveva
parlato nuovamente con Bruno Brilla e gli altri partigiani di
sorveglianza, potendo quindi osservare bene dove era situato il
posto di guardia del Comando di distaccamento. In realtà il prete era
una spia; non scoperto, aveva informato dettagliatamente i tedeschi della collocazione del posto di blocco a Passo Teglia. Occorre
precisare che due giorni prima erano arrivati circa una quarantina di
ex Sanmarchini (gruppo
Menini) con i mortai a rimpinguare il
raggruppamento ed una ulteriore ventina di partigiani venivano
mandati a posizionarsi in questo distaccamento di Passo Teglia. Bruno
Brilla per prudenza non ambiva dormire con i nuovi arrivati nel casone,
preferiva dormire fuori, all’aria aperta nonostante le incipienti
notti fresche, riparato precariamente sotto un carro. Al mattino, alle
ore cinque e trenta sentiva con stupore una breve raffica di machine
pistole, armi simili non erano assolutamente in dotazione ai
partigiani. Infatti era accaduto che una pattuglia di tedeschi,
conoscendo il luogo della postazione di guardia (rivelata dal
finto prete) erano arrivati in pieno silenzio e avevano eliminato i
tre partigiani di guardia. Padoan dava immediatamente l’allarme a tutti i
ribelli presenti, che si mobilitavano rapidamente; inoltre mandava
subito una staffetta a Conio al Comando Brigata per comunicare che la
zona era infestata dai tedeschi.
Sede ANPI di Imperia Oneglia, 31
Ottobre 2017, intervista a Francesco Brilla
Marina Siccardi, figlia di Nino
Siccardi “U Curtu”, Comandante
della I^ Zona partigiana Liguria. in
ANPI Resistenti, ANNO XII N° 1 - aprile 2019, di
ANPI Savona
[...]
Dice Wan Stiller [Primo Cei, già commissario di squadra della I^ Brigata "Silvano Belgrano della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"]: "alla prima raffica eravamo rotolati giù, lungo il pendio, ma Cion (Silvio
Bonfante) in piedi, aveva individuato sul Monte Grande i tedeschi, quindi aveva iniziato a sparare e li aveva impegnati subito con raffiche continue. Nel frattempo aveva chiamato Lionello
Menini (Menini), comandante
(1) dei mortaisti (erano degli ex Sanmarchini) che Cion aveva reclutato soltanto due giorni prima a Chiappa e a Molino Nuovo (Andora). Li aveva convinti a passare dalla nostra parte, questi ex marò avevano due mortai da 81 in dotazione. Cion interpellava il comandante degli ex soldati dicendo: fammi vedere cosa hai imparato durante l’addestramento in Germania!
Menini aveva due squadre, una di tre e una di quattro militi che utilizzava per piazzare i due mortai nel declivio della collina. Sopra la collina c’era e c’è tutt’ora una chiesetta. I mortai dovevano essere piazzati in posizione asimmetrica, uno sottostante all’altro, ma non sulla stessa verticale perché le vibrazioni del primo avrebbero disturbato la stabilità del secondo. Il terreno era scosceso, umido e scivoloso, ma Menini, da provetto esperto riusciva a creare con la zappa due piattaforme piane, rinforzate verso valle con sassi e terra; il bipiede del mortaio aveva una staffa con l’incastro per bloccare il mortaio quando rinculava. Venivano apprestati due gradini, uno sopra e uno sotto. Quello inferiore più avanti per non far scendere l’arma. I mortai erano privi del telemetro e si avvalevano di due bastoncini alti 1 metro, (le cosi dette paline) dipinti con anelli bianchi e rossi per traguardare l’oggetto da colpire. Il proiettile doveva essere sparato in linea retta tra la prima e la seconda palina.
Menini per la prima prova aveva messo una carica supplementare per evitare errori e per valutare eventuali modifiche da apportare. Eseguivauna prova supplementare per i due mortai e iniziava a sparare sul nemico contemporaneamente al fuoco di Cion. Quattro partigiani erano dedicati ad un mortaio e quattro all’altro.
Menini aveva magistralmente stabilito l’esatta in-clinazione della canna del mortaio, poi ordinava:
Spara! Spara! Si avvertiva così uno sparo dopo l’altro, sia del primo che del secondo mortaio in sequenza. Quindi nell’aria potevano esserci contemporaneamente anche due o tre proiettili a seconda dell’aumento della carica. I tedeschi sorpresi dagli scoppi arretravano subito, quindi bisognava aumentare potenza e gettata per allungare il tiro. Menini controllava sempre con i binocoli la lunghezza e le conseguenze del tiro. I tedeschi erano sconcertati, sbigottiti perché non immaginavano che i partigiani potessero avere due mortai in dotazione e che fossero così precisi nei colpi sparati. Tutto avveniva in brevissimo tempo, e vista la situazione favorevole Cion pro-nunciava risolutamente la frase: ragazzi bisogna andare lassù... [...] Gli impavidi componenti delle squadre erano: Giobatta Acquarone (Fulmine), Attilio Alquati (Alquati), Giuseppe Bergamelli (Gnek), Mario Longhi (Brescia), Primo Cei (Wan Stiller), Carlo Cerrina (Cigrè), Felice Ciccione (Felì), Bartolomeo Dulbecco (Cristo), Alfredo Giovagnoli (Alfredo il toscano), Calogero Madonia (Carlo siciliano) e Silvio Paloni Ruman). Non dovevano intralciarsi o rischiare di spararsi addosso pur essendo oggetto di tiro nemico dall’alto: se si saliva troppo velocemente c’era anche il rischio di essere colpiti dalla mitragliatrice e dai mortai, che a loro volta sparavano sulla cima. Quindi le due squadre di assalitori potevano in caso di sfortuna essere colpite dal basso (fuoco amico), ma Cion e Menini calcolavano bene e prudentemente il dislivello tra i partigiani in basso e il nemico in alto. Tenevano anche conto dei rapidi spostamenti partigiani che balzavano verso l’alto, inoltre le due squadre di 6 e 7 uomini si alternavano nella corsa anche di traverso. Quindi si incrociavano, anche se in tempi diversi, sulla stessa porzione di monte: avevano perciò un occhio rivolto verso il nemico e contemporaneamente un occhio all’amico. I tedeschi sparavano verso il basso e solo verso i partigiani arrembanti. Conta delle armi dei partigiani nell’episodio: due mortai di
Menini, Machine Gaver di Alquati, Machine Gaver di Brescia (che morirà a Ginestro vicino a Testico nel gennaio 1945). Presente alla lotta partigiana in un altro distaccamento, vi era anche il comandante Umberto Bonomini (Brescia), che non va confuso con questo
Brescia, cioè Mario Longhi. La battaglia durava più di due ore, con il risultato positivo di nessun ferito fra i partigiani.
Menini con i mortai aveva fatto una sola prova, poi col binocolo vedeva i tedeschi che si allontanavano terrorizzati, allora aumentava la carica supplementare per il prolungamento del tiro. Forse aumentava anche il peso della carica. Tutto avveniva molto velocemente, come arma ulteriore Alfredo il toscano utilizzava un mitragliatore Saint Etienne. I partigiani salivano a zig-zag contro il sole. Gli ufficiali tedeschi venivano dalla scuola militare e comandavano dei soldati ben addestrati. I partigiani si capivano con gli sguardi; Franco Bianchi (Stalin) e Massimo Gismondi (Mancen) avevano due mitra, fucili semiautomatici catturati ai tedeschi. Silvio Bonfante (Cion) era stato un seminarista ad Albenga,
Stalin [Franco Bianchi] infermiere marinaio,
Brescia soldato, Alquati soldato,
Wan Stiller studente,
Mancen camallo ad Oneglia. Anche un partigiano, forse Giuseppe Cortellucci (Carabinè), girava a Ruggiu, al passo della Mezzaluna vestito da carabiniere; se lo prendevano lo uccidevano subito. La grande vittoria con la fuga dei tedeschi era maturata per la notevole bravura di
Menini e dei suoi uomini; altresì grande era stata la fiducia, non gli ordini di
Cion, ma complici risolutivi solo gli sguardi. [...]
Questa è stata la testimonianza di Wan Stiller che io ho avuto l’occasione di raccogliere.
Diano Marina 30 Ottobre 2017.
Marina Siccardi, figlia di Nino
Siccardi “U Curtu”, Comandante della I^ Zona partigiana Liguria, in
ANPI i resistenti, ANNO XII N° 1 - aprile 2019, di
ANPI Savona
3 gennaio 1945 - Dal comando della Divisione "Silvio Bonfante" al
Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Relazione sul rastrellamento
effettuato ad Armo e a Pieve di Teco il 30 dicembre 1944, durante il
quale era avvenuto l'arresto di Lionello
Menini (1).
3 gennaio 1945 - Tribunale Militare tedesco - Copia della sentenza di condanna a morte
(1) per i garibaldini Lionello
Menini, Ezio Badano, G.B. Valdora e Lorenzo Gracco.
da documenti Isrecim in
Rocco Fava,
Op. cit., Tomo
II
(1) Lionello
Menini, nato a Chatillon (AO) il 25 ottobre 1922 (nella sentenza di morte del comando tedesco Lionello
Menini
risulterebbe essere nato a Siena il 25 ottobre 1919), figlio di un
capostazione di Torino; è arruolato e mandato in Germania per
l’addestramento. Terminato il periodo, è destinato con i suoi
commilitoni in Liguria, a Laigueglia. In terra tedesca aveva appreso il
vero volto del fascismo; appena rientra in Italia, come molte altre
giovani reclute, ipotizza di unirsi alle formazioni partigiane. Ai primi
di giugno è avvicinato dai fratelli Scarati, già attivi nella
Resistenza, collegati alla “Volante” di Massimo Gismondi “Mancen” e di
Silvio Bonfante “Cion”. Intravvista la possibilità di abbandonare le
forze fasciste, abbraccia la lotta resistenziale. A luglio 1944 è nella
squadra d’assalto del Distaccamento “Viani”, e, dopo aver partecipato a
numerose azioni, tra cui la battaglia di Pievetta (CN), viene promosso
capo distaccamento.
Il 17 agosto 1944 è protagonista di un conflitto a fuoco ad Ormea contro
i blindati tedeschi; il 5 settembre è a Montegrande nel distaccamento
“Bacigalupo”, laddove l’azione dei mortaisti di cui è a capo, è
determinante per aprire un varco tra le file nazifasciste, da cui
defluiscono i partigiani. A fine dicembre Menini, ammalato, è ad Armo, in Alta Valle Arroscia, dove è dislocato un nucleo partigiano dell’Intendenza Divisionale.
Su indicazione di una spia il mattino del 31 dicembre un centinaio di tedeschi provenienti da Pieve di Teco investono la zona. Alcuni garibaldini sfuggono al rastrellamento, altri (tra cui tre austriaci disertori) cadono prigionieri. Menini riesce a far fuggire due suoi uomini, esponendosi all’arresto. Portato al comando di Pieve di Teco è riconosciuto come capo partigiano. Dopo tre giorni di percosse e un processo farsa in cui confessa di essere partigiano, è emessa per lui e per altri tre partigiani della II^ Brigata d’assalto “Sambolino” Divisione Garibaldi “Gin Bevilacqua” operante nella II^ Zona ligure (due savonesi: G.B. Valdora “Ferroviere” e Ezio Badano “Zio”, e un veneto Lorenzo Gracco) la sentenza di morte. Prima di morire riesce ad inviare un biglietto al suo Commissario, Giuseppe Cognein, per informarlo che gli austriaci avevano parlato e che non era dispiaciuto di morire per una causa giusta. L’esecuzione ha luogo il 3 gennaio 1945 al Prato San Giovanni.
Lionello Menini va incontro alla fucilazione cantando la canzone “La guardia rossa”. A lui viene intitolato un Battaglione della Brigata “Nino Berio” - Divisione d’assalto Garibaldi “Silvio Bonfante”.
Proposta alla memoria di Lionello
Menini la medaglia di bronzo con la seguente motivazione: “
Fatto prigioniero dai Tedeschi durante un colpo di mano contro l’Intendenza Divisionale, essendosi attardato sino all’ultimo a dare ordini, si comportava sino alla sua ultima ora con la serenità dei forti, non smentendo la sua condotta da partigiano che lo aveva elevato a stima di tutti. Oltraggiato e seviziato, non mancò mai di incoraggiare i suoi compagni di sventura. Portato al luogo dell’estremo supplizio, attraversava la via di Pieve di Teco con la testa fieramente eretta, cantando le nostre canzoni. Avvicinato nella prigionia da elementi fidati, inviava informazioni utilissime. Lo stesso nemico ne elogiò la condotta. Pieve di Teco (Imperia) 30-12-1945"
Redazione, Arrivano i Partigiani. Inserto 2. "Le formazioni di montagna
della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia
di Savona", I Resistenti,
ANPI Savona
, numero speciale, 2011