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venerdì 28 maggio 2021

Arriviamo alle due nella valle di Inferno

Il Pizzo d'Ormea - Fonte: Wikipedia

Sascia (Ada Pilastri) racconta:

« Ultimi di novembre [1944]. La I Brigata è tornata da poco da Fontane [Frazione di Frabosa Soprana in provincia di Cuneo], dove si era spostata durante il rastrellamento di Upega. Il problema dei rifornimenti diventa sempre più difficile: saremo costretti a mandare una parte degli uomini a casa. Tentiamo un ultimo espediente: una spedizione con i muli nella zona di Fontane per poter raccogliere dei viveri. È una cosa quasi impossibile: ormai la neve è già alta in molti punti e, soprattutto, i passi più frequentati sono sotto controllo dei tedeschi, che occupano Ormea [(CN)], Nava [(IM)], Garessio [(CN)] e fanno puntate sui paesi vicini.

Infine si parte: si tenta la fortuna: un gruppo di dodici volontari e una decina di muli. Io scappo dal comando perchè non mi danno il permesso di andare e mi unisco a loro. Ho pensato che potrei essere utile e nei punti più pericolosi mettermi le gonne ed andare avanti di staffetta e poi... qualcuno ha detto che non resisterei a passare il Mongioie... e volevo provare ad ogni costo. Al “Passo della Guardia” ci dividiamo. Mulattieri e muli per lo stradone di San Bernardo di Mendatica. Io ed altri ci arrampichiamo per il “Passo di Garlenda” e scendiamo a Piaggia. C'è già parecchia neve. I muli si ricongiungono con noi a Falcone ove momentaneamente si trova il comando. Prima di entrare nell'abitato incontriamo un distaccamento di russi da Menini, un nostro eroico compagno ucciso in seguito dai nazisti. Tre russi armati vennero con noi. Andiamo avanti di pattuglia avanzata. Bisogna essere cauti e prudenti. I muli sono le nostre ultime risorse. Costeggiamo il Tanaro fino a Viozene [Frazione di Ormea (CN)]. La strada è lunga, nascosta dai noccioli, poco praticabile. Nei punti migliori ci facciamo portare sui muli. Il muletto bianco sul quale sono a cavalcioni è il più testardo di tutti; se c'è un sentiero sbagliato è il primo a prenderlo.
Ha cominciato a piovere, una pioggia sottile e gelida che batte sui nostri visi come punture di spilli. Andiamo per due ore sotto la pioggia che aumenta man mano che ci avviciniamo a Viozene. I miei sottili calzoni di tela si sono tutti appiccicati alle gambe. Sembro un pulcino uscito dal guscio; malgrado tutto, l'allegria non manca e dalla groppa dei muli ci salutiamo a gran voce con la vecchia espressione di “Bona nè!”.

A Viozene ci sono i partigiani di Martinengo [Eraldo Hanau]. Cerchiamo di mangiare qualcosa perchè in due giorni abbiamo assaggiato solo qualche mela, che è servita a provocarci un gran mal di stomaco. Sul far della notte partiremo. Ora comincia il bello: strade sconosciute, neve, freddo e buio. Bisogna assolutamente marciare di notte perchè sulla neve la nostre colonna non sfuggirà ai potenti binocoli tedeschi. Quelli di Martinengo ci sconsigliano di proseguire, ma noi tenteremo il tutto per tutto ed anche se ormai è impossibile fare il “Passo del Bocchino” cercheremo dall'altra parte, anche se sarà durissima... in fine, siamo garibaldini noi! “Pian del Fò”, “Fasce”: la gente è spaventata al nostro arrivo perchè i tre russi sono ancora vestiti alla tedesca. Ci vuole del mio meglio per rassicurarla e però nessuno vuol venire con noi a farci da guida. Infine troviamo due contadini che ci accompagneranno per un pezzo. Cominciamo ad inerpicarci per la ripida e sassosa salita che ci porterà sul Pizzo d'Ormea.

Il freddo si fa sentire e non poco, ed il buio intralcia il nostro cammino rendendolo più faticoso.

Arriviamo al Pizzo; qui ci accoglie la neve abbondante e farinosa. Non c'è pista: dobbiamo farla noi che avanziamo per primi, cercando con le nostre malconce scarpe di aprire un piccolo passaggio per i nostri piedi; il che è molto faticoso perchè avanzando su un fianco della montagna seguiamo una discesa a strapiombo. Più di un mulo ruzzola giù nella discesa. Per trattenerlo ci va tutta la forza e la volontà dei nostri tre compagni russi. Questi poveri muli partigiani sono degli eroi. Superano certi punti difficilissimi per noi, malgrado siano stremati, imbastati e senza i chiodi necessari per la neve e il ghiaccio. Infine la neve cessa un po'; saranno le tre di notte, laggiù nel basso c'è Ormea buia, silenziosa immersa nel sonno. Prendiamo una strada tortuosa, incastrata nella roccia.
Dopo molto camminare, arriviamo in un piccolo paese. In tre armati andiamo avanti perchè non si sa se troveremo degli “amici” poco desiderati . No, i tedeschi non sono stati ancora lì. Dormiamo per qualche ora perchè siamo sfiniti, ed al mattino di buon'ora ripartiamo tentando di superare il “Passo dei Termini”, uno dei tanti passi del Mongioie. Ad un certo punto ci fermiamo per chiodare i muli con gli appositi chiodi. Spira un vento diaccio che viene dalle gole più alte. Siamo tutti ghiacciati e le folate che ci investono sono così gelide da togliere il respiro. Prima di arrivare al Passo sostiamo per mangiare un pezzo di pane ed osservare degli apparecchi che passano sotto di noi. Al Passo ci sono più di tre metri di neve e la pista è appena accennata. Parte dei muli è a terra: il risollevarli è una fatica estenuante.

Penso che giungerò per prima a Fontane e potrò trovare degli aiuti da mandare quassù. Incomincio a scendere nella neve gelata. Non cammino, volo, cado, mi rialzo, faccio del mio meglio per arrivare presto. Ho un braccio che mi si sta congelando: neve, neve, neve, e così per un tempo che mi pare infinito. A tratti mi sento mancare e penso che questa discesa non finirà più. Per due volte mi fermo e scrivo il mio nome sulla neve così se altri giungeranno sapranno che sono passata da qui. La neve a poco a poco dirada ed incomincia il ghiaccio. Cado, mi alzo, ricado; così per due ore. Ho le mani tutte sanguinanti ed i calzoni a pezzi: ad ogni costo però devo arrivare; penso che se rimango qui con questo freddo, così poco coperta come sono mi congelerò certamente. Giungo finalmente a Leuta in uno stato pietoso; debbo assolutamente camminare con le mani di dietro per trattenere i brandelli dei calzoni che lasciano intravvedere qualche cosa! Attendo: dopo qualche ora uomini e muli arrivano. Quattro giorni di sosta e poi ripartiamo. Sarà un viaggio più lungo del precedente perchè dovremo prendere strade più praticabili dato che i muli sono carichi.

Da Fontane salimmo a Prà; di lì a Val Casotto. A Casotto arriviamo che è buio. Prendiamo la famosa strada 28 che porta a Garessio (CN). Bisogna essere cauti. In sette andiamo avanti marciando staccati l'uno dall'altro e ai lati della strada. Poi ancora neve e ghiaccio e luoghi selvaggi. Arriviamo alle due nella valle di Inferno. Fischia il vento, urla la bufera. È un luogo davvero infernale. Poche case sparpagliate, o meglio, capanne con tetti di paglia. Usi primitivi. Appena giorno ripartiamo. Facciamo la curva delle rocce. Vi sono punti pericolosissimi. I muli hanno preso la strada più in basso ed arriveranno molto dopo di noi. Ci fermiamo nei pressi di Ormea; di lì ispezionando lo stradone sottostante vediamo più di 600 nazisti in bicicletta che da Garessio si dirigono su Ormea. Bisogna partire il più presto possibile se non vogliamo sentir cantare la mitraglia. Sull'imbrunire andiamo avanti in quattro. Durante la notte perdiamo la strada più di una volta. Sempre marciando, notte e giorno, arriviamo sfiniti a Viozene; mezza giornata di sosta e ripartiamo. Siamo smaniosi di raggiungere i nostri. Chissà con quale gioia accoglieranno i rifornimenti!

Arriviamo a Piaggia [Frazione di Briga Alta (CN)] che i muli sono sfiniti.

Qualcuna delle povere bestie è caduta più di una volta per la stanchezza e fame. Al distaccamento prima di Piaggia abbiamo lasciato i nostri amici russi che tanto ci hanno aiutati. Siamo costretti a dormire a Piaggia. I muli non possono proseguire e gli uomini sono esausti.

Al mattino alle 6 siamo attaccati da più di 100 SS tedesche. Nel paese succede un inferno. Una sparatoria fitta di ta-pum e sputafuoco. Due dei nostri sono feriti e un terzo preso prigioniero.
Io mi salvo in una casa: striscio per terra e le raffiche non mi raggiungono. Faccio appena in tempo a gettare lo zaino sotto il mobile e togliermi i calzoni che nascondo sotto le fascine del focolare. La gente, avendo me in casa, trema di paura. Io sono disperata. Penso alla nostra roba perduta e ai due ragazzi feriti; degli altri non ne so più nulla.

Durante la notte i tedeschi partono per Upega portandosi il prigioniero che poi impiccheranno, lasciando i due feriti il cui stato è troppo grave. Nel frattempo cerco un carretto ed un mulo, carico i due feriti che porto a Mendatica. Appena giunti qui, ritornano i tedeschi che ci stanno cercando e noi dobbiamo rimanere due giorni nascosti in una chiesa diroccata fuori dall'abitato. I feriti soffrono molto. Ho potuto procurar loro un poco di paglia e un po' di cibo. Nessuno vuol saperne di noi, hanno tutti troppo paura escluso il Dott. Natta di Imperia che cura i feriti.
Per mezzo di barelle, con gli uomini della V^  Brigata “Ospedaletto da Campo”, si portano i feriti nella zona di Bregalla. Si riesce a trovare il gesso per l'ingessatura e i ragazzi furono salvati. Gli altri sbandati riuscirono dopo qualche tempo a fare ritorno.
E così ebbe termine la nostra avventura: marce, fatiche, sofferenze, l'insuccesso, la morte; vita da partigiano che, malgrado tutto, ho spesso rimpianto, come si rimpiangono le cose belle e magnifiche.  »

Mario Mascia, L'Epopea dell'Esercito Scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp. 181-184
 
È doveroso  ricordare le tante donne della Resistenza, protagoniste dell’interessante ricerca e raccolta di testimonianze di Gabriella Badano, affidate sia alla storiografia locale e a documenti reperiti presso l’ANPI, l’Istituto Storico della Resistenza  e i Comuni, oltre che alla narrazione di alcuni partigiani e delle donne della zona (“Ribelli per la libertà-Storie di donne della Resistenza nell’estremo Ponente ligure” e “In montagna libere come l’aria… le partigiane combattenti dell’estremo Ponente ligure”)
[...] “Sono sempre stata un tipo un po’ ribelle, mio padre è morto quando avevo sei anni, quindi non ho potuto avere un’eredità politica da lui, che pure era socialista, ma l’ho saputo dopo il 25 aprile. I miei genitori, soprattutto mia madre, erano severissimi, sono stata allevata in un ambiente ottocentesco. Ho frequentato l’Istituto Magistrale da Maria Ausiliatrice… cosa non abbiamo fatto passare alle suore! Nel mio ambiente c’erano molti tabù. Io ero abituata in una casa in cui non si poteva parlare di niente, ma certe cose mi venivano spontanee. Sentivo di dovermi ribellare.” (Sascia)
[...]
“Uscita di galera, in quei momenti in cui ognuno cercava di fare la forca all’altro per non rimetterci la pelle, trovarsi lì con loro, libera come l’aria, dopo che si è stati chiusi è una cosa bellissima.” (Sascia)
[...]
“La nostra vita era fatta di paura e di tragedia, ma avevamo anche momenti di scherzi… anche perché eravamo tutti ragazzi… Mi trattavano un po’ come la loro mascotte. Ho sempre dormito vicino ai ragazzi e non ho mai trovato nessuno che mi desse fastidio, mai sinceramente…” (Sascia)
maria, Le donne della Resistenza nel Ponente ligure, Skip Blog, 25 aprile 2017