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mercoledì 24 aprile 2024

Lo svolgimento del processo non piaceva all'amministratore della Divisione Garibaldi

Trovai il paracadutista in piedi accanto alla lettera che aveva scritto

Il 27 marzo [1945] vengono condotti ad Alto due prigionieri catturati ad Ortovero. Li portano in casa di Turbine [Alfredo Coppola, capo squadra, distaccamento "I. Rainis" della II^ Brigata "Nino Berio" della Divisione partigiana "Silvio Bonfante"]: quando entro li trovo rannicchiati in un angolo col viso gonfio dalle percosse. Con Boris [Gustavo Berio, vice commissario della Divisione "Silvio Bonfante"], Pantera [Luigi Massabò, vice comandante della Divisione "Silvio Bonfante"], Turbine e qualche altro facciamo passare i due in un'altra stanza ed iniziamo un rapido interrogatorio. II primo, un ex partigiano di Ramon [Raymond Rosso, capo di Stato Maggiore della Divisione "Silvio Bonfante"], sbandato al principio dell'inverno, era stato catturato dai repubblicani ed iscritto a forza nelle Brigate Nere. Dopo aver prestato servizio ad Albenga era stato inviato ad Ortovero con l'incarico di catturare una nostra informatrice. Il suo compagno affermava di essere stato paracadutatista, di aver disertato da tempo, di esser stato preso dai fascisti di Albenga e tenuto in carcere in attesa di processo per diserzione. Gli era stata proposta quella prima missione che avrebbe dimostrato il suo pentimento. Aveva accettato di uscire dalla prigione con l'intenzione non di compierla ma di venire con noi. Era difficile controllare quanto vi fosse di vero. Come era avvenuta la loro cattura? Ad Ortovero una nostra informatrice ci aveva avvertito che avrebbe attirato in paese con un appumamento un ufficiale delle Brigate Nere. Ortovero era nella terra di nessuno, così ai nostri sarebbe stato facile catturarlo. L'ufficiale fascista, al quale l'amore non aveva annebbiato il cervello, si era fermato all'ultimo posto di biocco repubblicano inviando i due uomini con l'incarico di avvertire la ragazza che il luogo dell'appuntamento era spostato.
L'imboscata tesa all'ufficiale aveva così portato alla cattura dei due che avevamo davanti. Questo era il racconto dei partigiani reduci dall'imboscata. Avrebbero condotto a termine la missione se non fossero stati catturati? Oppure sarebbero venuti con noi come affermavano? Era il problema essenziale ma non il solo. Avevano militato nelle Brigate Nere per qualche tempo? Uno lo aveva ammesso e con ciò aveva meritato la morte, ma l'altro aveva negato, ma che valore aveva? Appena presi avevano detto di esser fuggiti dalle carceri di Albenga, ma l'esser in possesso di una pistola e di una bomba a mano aveva smentito la loro affermazione. Quando, sotto le percosse, avevano raccontato di esser stati inviati da un ufficiale delle Brigate Nere che li attendeva, i nostri erano partiti di corsa, ma all'appuntaimento non c'era nessuno.
«Se aveste detto la verità lo avremmo preso e vi sareste salvati» dicevano i partigiani. «Eravate d'accordo con lui, così morirete voi al posto suo».
Li portammo fuori paese e li obbligammo a scavarsi la fossa: con un piccone ed una pala li vidi lavorare in silenzio mentre quattro o cinque partigiani li sorvegliavano da vicino incitandoli a sbrigarsi. Il terreno era duro ed argilloso, quindi, malgrado le parole, il lavoro procedeva lentamente. Quando la fossa fu fonda una trentina di centimetri li portammo di nuovo al Comando. Li interrogammo separatamente ed ambedue confermarono di aver chiesto ad un contadino se c'erano partigiani perché volevano disertare.
Chiesi loro se volevano confessarsi ed ambedue accettarono. Andai personalmente in canonica; il parroco, che stava pranzando, fece sulle prime qualche difficoltà a seguirmi, poi quando comnprese di che si trattava, prese la stola e venne subito con me. Lasciammo soli il sacerdote ed il paracadutista e ci ritirammo nell'altra stanza.
Passarono parecchi minuti: osservavo l'altro prigioniero, ma nel viso livido dai pugni era inutile cogliere un'espressione. «A che pensi?» gli chiede un partigiano. «A mia madre», rispose. «Quante madri avete fatto piangere voi delle Brigate Nere!» ribattè il partigiano.
Poi il paracadutista uscì ed il secondo andò a confessarsi.
«Se vuoi scrivere a casa fa presto», gli disse Boris. «Fuciliamo te ed il tuo compagno perché siete delle Brigate Nere».
«Io non sono delle Brigate Nere... Volevano che mi iscrivessi in carcere, ma ho sempre rifiutato», ribatté il prigioniero con voce umile ma ferma.
«Tutti dicono così... Se vuoi scrivere ci incaricheremo noi di spedirla, metti l'indirizzo».
Lo svolgimento del processo non mi piaceva. Non avendo prove né a favore né a carico non potevamo respingere a priori il racconto degli imputati. Il primo aveva ammesso di essersi iscritto alla Brigata Nera di Albenga, magari costrettovi, ma poi vi era rimasto, e per noi questo era sufficiente per condannarlo. Ma l'altro negava accanitamente... e se avesse detto il vero? L'armamento che avevano al momento della cattura era talmente modesto che non comprendevo come l'ufficiale fascista avesse rischiato due dei suoi uomini in quel modo. La risposta ovvia era che erano due della cui vita non gli importava niente e che temeva portassero a noi le armi che avesse loro affidato.
Uscì il parroco solo: «Mi ha detto che va al gabinetto, ma non è più uscito...».
Un grido di tutti: «E' scappato!».
Un istante di trambusto e sciamiamo tutti per il paese. La popolazione ci incita a prenderlo: «Se si salva e racconta che siete ad Alto siamo tutti perduti».
Il fuggiasco è avvistato tra i castani: una raffica di Sten, il prigioniero si getta a terra, viene raggiunto, trascinato presso la fossa poi spinto giù sul pendio erboso. Due colpi di fucile e il condannato cade supino. Osservo per qualche istante una macchia rossa che si allarga sul maglione del ferito: una palla lo ha colpito al torace ed il sangue esce a fiotti sospinto dal respiro affannoso, l'altra gli ha squarciato una guancia: le labbra sono contratte sui denti bianchi in una espressione di dolore e di angoscia, gli occhi socchiusi ci fissano intensamente.
«Ha da patire prima di morire...» mormora un partigiano. Qualcuno rimane ad osservare l'agonia del nemico, mentre io con gli altri mi avvio per tornare in paese. Due contadini mi raggiungono mentre sono ancora presso il ferito: «Non seppellittelo lì perché sotto c'è la fontana». «Allora incaricatevene voi, noi un'altra fossa non la facciamo». Quando giunsi in paese un colpo di moschetto mi avvertì che l'agonia del ferito era finita.
Trovai il paracadutista in piedi accanto alla lettera che aveva scritto. Presso di lui era Boris: « Avrebbe potuto scappare anche lui!», mi disse, poi fa un gesto ai compagni ed il condannato è condotto fuori al suo destino.
Boris non aveva chiesto il parere di nessuno. Era regolare quella procedura?
Aveva detto di volerli fucilare ambedue. Era quella la sentenza?
Aveva cambiato idea dopo la fuga di uno? Decisi di intervenire, l'esecuzione poteva aver luogo da un istante all'altro. Presi la lettera e mi rivolsi al commissario: «Boris, non si potrebbe aspettare? Se effettivamente avesse voluto disertare? Non ha ammesso di essere stata una Brigata Nera e forse esiste quel contadino cui ha chiesto dove fossero i partigiani e come potesse raggiungerli. Cerchiamolo e vediamo se quel che ha detto è vero. Ognuno di noi avrebbe fatto come lui se, arrestato, non avesse avuto altro mezzo per tornare libero».
Boris non rispese, rimase qualche istante sopra pensiero poi uscì.
«Anche a me secca fucilarlo specie quando ho visto che non è scappato quando, per prendere l'altro, lo abbiamo lasciato solo». Disse Turbine.
Uscimmo tutti per andare a pranzare in trattoria, la giornata movimentata ci aveva messo appetito. «Fortuna che quello che era scappato l'avete preso!» ci disse un contadino quando entrammo. «Cercate di sistemare presto l'altro prima che vi scappi». Poi visto che guardavamo tutti una porta dietro di lui tacque e si volse: era entrato Boris col prigioniero: «E' stato graziato, d'ora in avanti sarà partigiano come noi: lo chiameremo Lazzaro perché era morto e adesso è vivo!».
«Se però ne combina qualcuna la responsabilità è tua!» disse Turbine rivolto a me.
Lazzaro fu accolto fraternamente, lo facemmo sedere accanto a noi, dividemmo con lui il pranzo. Libero [Libero Nante della II^ Brigata "Nino Berio" della Divisione "Silvio Bonfante"], il dottore di brigata, gli medicò le ammaccature. Finito il pasto Fra' Diavolo [Giuseppe Garibaldi, comandante della Brigata d'Assalto Garibaldi "Val Tanaro" della Divisione "Silvio Bonfante"] lo arruolò nella sua banda rivolgendogli alcune parole di circostanza: «Devi dimenticare il passato comprese le botte che hai preso. Da oggi sei uno dei miei e sarai trattato come gli altri compagni. Se farai il tuo dovere non avrai da lamentarti, altrimenti pagherai come pagano tutti i partigiani quando mancano».
Il brusco cambiamento mi impressionò. Come era possibile che un uomo, che pochi istanti prima era odiato a morte, potesse ad un tratto esser considerato un compagno, un fratello, pure quello era l'animo partigiano: non odiavamo l'uomo ma la divisa che indossava, la parte per la quale combatteva. Se l'uomo non era stato fascista, ed anzi diventava partigiano, ogni motivo di rancore spariva. La teoria era facile, ma la pratica non cessava di meravigliarmi. E le parole di Turbine, che peso avevano? Il tono era scherzoso, ma la realtà poteva esserlo meno. Avrei voluto obiettare che io non avevo detto arruolatelo con noi, ma sospendete l'esecuzione e fate altri accertamenti. Ma compresi che non era il caso. Sarebbero stati capaci di dirmi: «Insomma decidi tu o lo teniamo con noi o lo fuciliamo...».
Non ebbi più notizie di Lazzaro fino al 15 maggio.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - II parte, Nuova Editrice Genovese, 1980, p. 216-220