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giovedì 28 dicembre 2023

I partigiani proseguono la battaglia dei ponti

Ormea (CN). Foto: Mauro Marchiani

Alle tre del mattino del 2 agosto 1944 la cresta della montagna che si estende dal Pizzo d'Evigno al Pizzo della Ceresa, ancora in ombra, emerge netta sullo sfondo del cielo chiaro e stellato. Ad un tratto, un bisbiglio di pronuncia straniera giunge all'orecchi di Biga Albino della banda di Roncagli, accovacciato in un cumulo di fieno nei prati di "Scornabò". Alzata la testa ancora piena di sonno e volto lo sguardo verso la cresta, ad una ventina di metri scorge le ombre di una lunga fila di uomini sagomate contro il cielo, che gesticolano verso il fondo valle. I Tedeschi, pensa. Ma no! Non può essere, altrimenti i partigiani accampati ai "Fussai" lo saprebbero; il SIM li avrebbe informati di un probabile rastrellamento. Saranno i disertori polacchi unitisi ai partigiani, che stanno per trasferirsi in Valle Arroscia. Infatti, il giorno precedente gli uomini di "Mancen" a Borello, a Borganzo, a Roncagli, ad Arentino, ed a Evigno, avevano preso in prestito dai contadini una trentina di muli per il trasporto degli equipaggiamenti.
Albino, che nella penombra osserva ancora, ad un tratto intuisce che le ombre sono veramente soldati Tedeschi che stanno per iniziare il rastrellamento.
Con movimenti impercettibili riesce a raggiungere l'oscurità del bosco sottostante. Scivola rapido tra gli sterpi ed i cespugli di un ruscello, si avvicina, giù in basso, al casone dei "Fussai" dove sono accampati e dormono i partigiani della "Volantina"; della presenza tedesca avvisa la sentinella che attizza il fuoco sotto la marmitta del caffè e che, disgraziatamente non crede alla notizia, poi scende rapidamente le scogliere del "Negaesso" e si rifugia in inaccessibili tane insieme ad alcuni compagni. Altri contadini che, in piena fienagione, stavano dormendo per i prati, sono protagonisti dello stesso episodio, tra cui la ragazza Lucia Ardissone che, dopo una corsa di qualche chilometro per la montagna, riesce a mettere in allarme una decina di giovani di Roncagli che stavano riposando in una baita in località "Pian della Chiesa". Appena vi giunge, tutta la vallata già rimbomba di scoppi di bombe a mano, colpi di fucile, raffiche di mitragliatrice. I soldati Tedeschi giunti nella notte dalla Valle Impero, dalla Valle di Andora, dalla Valle Steria, dal Passo della Colla, dal Monte Ceresa, dal Colle del Lago e dal Monte delle Chiappe, scendono a valle. Alle sette del mattino i borghi di Evigno, Arentino, Roncagli e Borgoranzo vengono investiti e saccheggiati. Con qualche masserizia e col bestiame, gli abitanti fuggono disperati per tentare di nascondersi nei rifugi della campagna. Intanto i grandi stormi di fortezze volanti americane attraversano il cielo lasciando lunghe strisce bianche, il rumore assordante prodotto dai motori degli aerei fa vibrare il terreno, in modo insopportabile si ripercuote nelle tane costruite nelle fasce ulivate.
Ogni cespuglio del torrente Evigno viene battuto da raffiche di mitra e bombe a mano. Chi vi si trova nascosto prova momenti di indescrivibile terrore.
L'attacco del 2 agosto alla “Volantina” nella valle di Diano Marina, con il rastrellamento tra il Merula e l'Impero, e la marcia della colonna nazifascista, che pervenuta da Garessio si arresta ad Ormea, vanno intese come operazioni preliminari al vasto rastrellamento vero e proprio.
Il piano del Comando tedesco prevede le azioni su un territorio molto ampio, infatti i contingenti militari partono da direzioni notevolmente distanti l'una dall'altra: Garessio-Ormea, Albenga, colle San Bartolomeo. Sono toccate ben tre province (Cuneo, Savona, Imperia) e due regioni (Piemonte e Liguria).
L'obbiettivo è importante ma, nell'agosto, il fine si presenta più limitato rispetto al precedente mese di luglio, risultando ormai ben difficile l'eliminazione totale dei garibaldini della I Zona Liguria.
Perciò, il grande schieramento di forze è rivolto ad ottenere il controllo di alcune vie di comunicazione. I Tedeschi, dopo aver operato le marce di spostamento ed essersi assicurati il controllo della Statale n. 28 per il tratto che va dal litorale al colle San Bartolomeo, iniziano il giorno 9 o il 10 (a seconda della provenienza delle diverse colonne) le operazioni di rastrellamento.
L'epicentro dell'azione è Caprauna, paesello ubicato nel cuore del territorio  da accerchiare su cui convergono da ogni direzione, a raggiera, numerose vie di comunicazione; ma il primo obbiettivo nazista è l'occupazione di Pieve di Teco. Su questa località si dirigono le tre principali colonne accerchianti. La prima parte da Ormea, dove era giunta per mezzo di un treno che era stato attaccato dai partigiani appostati sulla riva destra del Tanaro (nel corso dell'operazione erano state divelte in parte le rotaie della strada ferrata, ma le carrozze ferroviarie non si erano rovesciate); da Ormea si avvia per la statale a Case di Nava e scende a Pieve di Teco. La seconda proviene da Albenga, percorre la carrozzabile, ed a sua volta si ramifica in due colonne: una raggiunge Nasino, Alto e punta su Caprauna; l'altra prosegue lungo la strada per Borghetto di Arroscia e si inoltra a Pieve di Teco. La terza infine, proveniente dal litorale, parte da colle San Bartolomeo e procedelentamente e molta guardinga per il timore di imboscate lungo la Statale n. 28 fino a Pieve di Teco e, verso mezzogiorno, entra nel paese, malgrado la resistenza opposta dal distaccamento di “Orano” presso villa Baraucola. Durante il percorso il grosso della truppa è preceduto da pattuglia di avanguardia che, passando, provocano vasti incendi che sprigionano alte colonne di fumo. Il Comando tedesco ha ormai racchiuso il territorio della I Brigata in una grande sacca e si appresta a sferrare l'attacco decisivo per eliminare i partigiani circondati.
Il comando garibaldino, però, essendo già stato informato dal giorno 5 del prospettato rastrellamento nazista, pur senza conoscerne la data esatta, aveva provveduto ad avvertire le formazioni dipendenti del pericolo, prendendo misure di immediata difesa, sicché era venuto a mancare ai Tedeschi il vantaggio del fattore sorpresa. La sede del comando della I Brigata, con perfetta scelta di tempo, dopo l'occultamento del materiale e dei documenti delle formazione, si era trasferita da Pieve di Teco a Moano (in Valle dei Fanchi). Anche l'ospedale civile era stato evacuato, mettendo in salvo i partigiani malati. La “Matteotti”, che da Lovegno seguiva i movimenti dei Tedeschi, invia staffette per avvisare le altri formazioni del pericolo imminente.
Nella notte tra il 9 e il 10 di agosto “Cion” [Silvio Bonfante] attacca i Tedeschi a Pieve di Teco; poi si sposta verso Madonna della Neve dove poco tempo prima si era portato “Pantera” con i suoi uomini e, sulla dominante vetta del Frascianello, aveva trovato la Matteotti. “Pantera” prima dell'arrivo di “Cion”, aveva rivelato alla “Matteotti” i suoi propositi di forzare l'accerchiamento nemico per cercare la salvezza nel bosco di Rezzo, ed a tal proposito aveva chiesto l'autorizzazione del Comando, ma gli era giunto l'ordine di non muoversi, di restare a presidio del luogo e di mandare pattuglie di sorveglianza sulla carrozzabile Pieve di Teco-Moano. Non si sa se l'ordine fosse impartito senza un'esatta cognizione della vastità del rastrellamento o se si intendesse effettuare l'attacco in un unico punto dell'accerchiamento nemico, dal quale passare tutti insieme dopo aver evitato dispersione di forze, maggiori rischi e perdite di vite umane. Successivamente per mezzo di staffette “Cion” ordina a tutti i distaccamenti di portarsi immediatamente verso Case di Nava. Oltre al Comando della I Brigata ed ai distaccamenti “Volantina” e “Matteotti”, si trovano nella zona le formazioni comandate da “Pantera”, “Orano”, “Renzo”, “Vittorio”, “Battaglia” e “Domatore”.
All'alba del 10 di agosto i Tedeschi chiudono la sacca addentrandosi nel centro del territorio. La colonna nazista dell'Alta Val Tanaro scende in direzione quasi parallela alla statale; altre due, partite da un unico punto dalla medesima strada equidistante da Ormea e da Case di Nava, si inoltrano anch'esse verso sud, nel cuore del territorio della I Brigata; una colonna da Armo punta a nord; una da Ranzo tende a Gavenola; un'altra ancora da Pieve di Teco oltrepassa Lovegno; ed infine una da Vessalico punta su Lenzari e si avvia a Madonna della Neve. Nel pomeriggio del 10 vi è tutto un dilagare di Tedeschi, in ogni direzione, in ogni paese e frazione e anche presso case sparse e sulle mulattiere.
I luoghi che poche ore prima erano stati le sedi dei garibaldini, ora sono investiti dall'ondata nemica. I partigiani per vie dirupate e sentieri da capre, attraverso boschi e crinali, devono operare complicate deviazioni per sganciarsi dal nemico. “Cion” da Madonna della Neve giunge a Case di Nava con altri distaccamenti, attacca decisamente i Tedeschi di presidio (circa una trentina), li disperde e riesce in tal modo ad aprire un varco nell'accerchiamento. La “Matteotti”, invece, dopo una lunga marcia, riuscirà ad oltrepassare il Tanaro presso Eca Nasagò. Ma non tutte le formazioni fanno in tempo a sganciarsi: quella di “Battaglia” resta ferma, o quasi, tra Gavenola e Leverone, mentre quella di “Renzo” si occulta nei boschi dell'alta Val Pennavaire. Il giorno seguente, 11 agosto, prosegue ancora il rastrellamento poi verso sera si estingue. Le perdite garibaldine non sono lievi: alcuni partigiani sono stati catturati ed uccisi, tra cui il comandante Giuseppe Arrigo (Orano). I Tedeschi non hanno conseguito risultati di grande rilievo. Hanno commesso gravi errori nel corso dell'operazione. Primo fra tutti, l'aver rinforzato eccessivamente le colonne rastrellanti a scapito di quelle d'accerchiamento. Altri gravi errori sono stati lo sgombero notturno di paesi e passi e l'aver presidiato tutti i ponti sul Tanaro il giorno 11 anziché il 10. La disposizione del presidio di Case di Nava ed il passaggio della “Matteotti” attraverso il ponte sul Tanaro rivelano infatti l'imperfetta riuscita dell'accerchiamento e la precarietà della sorveglianza notturna. Il vantaggio ottenuto è il controllo della Statale n. 28, d'altronde quasi impraticabile per i ponti distrutti dai partigiani. Questi, infatti, per la ragione opposta che ha spinto i Tedeschi alle azioni militari per il controllo delle vie di comunicazione, proseguono la battaglia dei ponti per impedire il libero transito ai nazifascisti. L'opera di ricostruzione o riparazione, lunga e non agevole, sarà continuamente ostacolata e ritardata dal sabotaggio dei partigiani. Dal resto, ormai la Resistenza è diventata esperta nella guerriglia e sa parare ogni colpo, affrontare ogni mezzo nemico, sfuggire un attimo prima, passare un attimo dopo il passaggio del nemico; i distaccamenti possono frazionarsi in squadre e nuclei ed in singoli uomini e, in seguito, ricostituirsi in breve tempo, come per magia. Il partigiano, ora, sa occultare il materiale salvandolo dalla furia dei nazifascisti, prevedere l'immediato futuro, dosarsi le forze per tutte le stragrandi difficoltà dei momenti peggiori. Egli sa tendere ad un luogo di salvezza valutando gli eventuali pericoli che potrà incontrare lungo la via, sa vegliare tutta la notte, digiunare a lungo e camminare senza posa, riposarsi due ore per riprendere il cammino; conosce la necessità del sangue freddo nelle occasioni più difficili e pericolose, sceglie il momento adatto per rispondere al fuoco dalla posizione migliore; è più veloce, agile e spedito dei Tedeschi incolonnati e timorosi dell'agguato, carichi d'armamento pesante, guidati dalle carte ma ignari dei sentieri, delle curve, della presenza partigiana. I patrioti procedono per luoghi impervi, informati dalla gente della presenza o vicinanza nemica o del viottolo che offre salvezza.
Immancabilmente, poco tempo dopo ogni grande battaglia o rastrellamento, le formazioni garibaldine ritornano nella zona occasionalmente abbandonata.
Gino Glorio "Magnesia", Alpi Marittime 1943-45. Diario di un partigiano - I parte, Genova, Nuova Editrice Genovese, 1979

mercoledì 28 giugno 2023

All'alba del 10 di agosto 1944 i tedeschi chiudono la sacca addentrandosi nel centro del territorio

La zona del Col di Nava. Foto: Mauro Marchiani

Alle tre del mattino del 2 agosto 1944 la cresta della montagna che si estende dal Pizzo d'Evigno al Pizzo della Ceresa, ancora in ombra, emerge netta sullo sfondo del cielo chiaro e stellato.
Ad un tratto, un bisbiglio di pronuncia straniera giunge all'orecchio di Albino Biga della banda di Roncagli, accovacciato in un cumulo di fieno nei prati di "Scornabò".
Alzata la testa ancora piena di sonno e volto lo sguardo verso la cresta, ad una ventina di metri scorge le ombre di una lunga fila di uomini sagomate contro il cielo, che gesticolano verso il fondo valle. I Tedeschi, pensa. Ma no! Non può essere, altrimenti i partigiani accampati ai "Fussai" lo saprebbero.
Il S.I.M. li avrebbe informati di un probabile rastrellamento. Saranno i disertori polacchi unitisi ai partigiani, che stanno per trasferirsi in Valle Arroscia. Infatti, il giorno precedente gli uomini di "Mancen" [n.d.r.: Giuseppe Gismondi, pochi mesi dopo comandante della I^ Brigata d'Assalto Garibaldi "Silvano Belgrano" della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] a Borello, a Borganzo, a Roncagli, ad Arentino, ed a Evigno, avevano preso in prestito dai contadini una trentina di muli per il trasporto degli equipaggiamento.
Albino, che nella penombra osserva ancora, ad un tratto intuisce che le ombre sono veramente soldati tedeschi che stanno per iniziare il rastrellamento.
Con movimenti impercettibili riesce a raggiungere l'oscurità del bosco sottostante. Scivola rapido tra gli sterpi ed i cespugli di un ruscello, si avvicina, giù in basso, al casone dei "Fussai" dove sono accampati e dormono i partigiani della "Volantina"; della presenza tedesca avvisa la sentinella che attizza il fuoco sotto la marmitta del caffè e che, disgraziatamente non crede alla notizia, poi scende rapidamente le scogliere del "Negaesso" e si rifugia in inaccessibili tane insieme ad alcuni compagni. Altri contadini che, in piena fienagione, stavano dormendo per i prati, sono protagonisti dello stesso episodio, tra cui la ragazza Lucia Ardissone che, dopo una corsa di qualche chilometro per la montagna, riesce a mettere in allarme una decina di giovani di Roncagli che stavano riposando in una baita in località "Pian della Chiesa". Appena vi giunge, tutta la vallata già rimbomba di scoppi di bombe a mano, colpi di fucile, raffiche di mitragliatrici.
I soldati tedeschi giunti nella notte dalla Valle Impero, dalla Valle di Andora, dalla Valle Steria, dal Passo della Colla, dal Monte Ceresa, dal Colle del Lago e dal Monte delle Chiappe, scendono a valle. Alle sette del mattino i borghi di Evigno, Arentino, Roncagli e Borganzo vengono investiti e saccheggiati. Con qualche masserizia e col bestiame, gli abitanti fuggono disperati per tentare di nascondersi nei rifugi della campagna. Intanto i grandi stormi di fortezze volanti americane attraversano il cielo, lasciando lunghe strisce bianche. Il rumore assordante prodotto dai motori degli aerei fa vibrare il terreno, in modo insopportabile si ripercuote nelle tane costruite nelle fasce ulivate.
Ogni cespuglio del torrente Evigno viene battuto da raffiche di mitra e bombe a mano. Chi vi si trova nascosto prova momenti di indescrivibile terrore.
L'attacco del 2 agosto 1944 alla “Volantina” nella valle di Diano Marina, con il rastrellamento tra il Merula e l'Impero, e la marcia della colonna nazifascista, che pervenuta da Garessio si arresta ad Ormea, vanno intese come operazioni preliminari al vasto rastrellamento vero e proprio. Il piano del Comando tedesco prevedeva azioni su un territorio molto ampio. Infatti i contingenti militari partirono da direzioni notevolmente distanti l'una dall'altra: Garessio-Ormea, Albenga, colle San Bartolomeo. Sono toccate ben tre province (Cuneo, Savona, Imperia) e due regioni (Piemonte e Liguria).
L'obiettivo è importante ma, nell'agosto, il fine si presenta più limitato rispetto al precedente mese di luglio, risultando ormai ben difficile l'eliminazione totale dei garibaldini della I^ Zona Liguria.
Perciò il grande schieramento di forze è rivolto ad ottenere il controllo di alcune vie di comunicazione.
I tedeschi, dopo aver operato le marce di spostamento ed essersi assicurati il controllo della Statale n. 28 per il tratto che va dal litorale al Colle San Bartolomeo, iniziano il giorno 9 o il 10 (a seconda della provenienza delle diverse colonne) le operazioni di rastrellamento.
L'epicentro dell'azione è Caprauna, paesello ubicato nel cuore del territorio da accerchiare su cui convergono da ogni direzione, a raggiera, numerose vie di comunicazione; ma il primo obbiettivo nazista è l'occupazione di Pieve di Teco.
Su questa località si dirigono le tre principali colonne accerchianti.
La prima parte da Ormea, dove era giunta per mezzo di un treno che era stato attaccato dai partigiani appostati sulla riva destra del Tanaro (nel corso dell'operazione erano state divelte in parte le rotaie della strada ferrata, ma le carrozze non si erano rovesciate); da Ormea si avvia per la statale a Case di Nava e scende a Pieve di Teco.
La seconda proviene da Albenga, percorre la carrozzabile, ed a sua volta si ramifica in due colonne: una raggiunge Nasino, Alto e punta su Caprauna; l'altra prosegue lungo la strada per Borghetto di Arroscia e si inoltra a Pieve di Teco.
La terza infine, proveniente dal litorale, parte da colle San Bartolomeo e procede lentamente e in maniera molta guardinga per il timore di imboscate lungo la Statale n. 28 fino a Pieve di Teco e, verso mezzogiorno, entra nel paese, malgrado la resistenza opposta dal distaccamento di “Orano” presso villa Baraucola. Durante il percorso il grosso della truppa è preceduto da pattuglia di avanguardia che, passando, provocano vasti incendi che sprigionano alte colonne di fumo. Il comando tedesco ha ormai racchiuso il territorio della I Brigata in una grande sacca e si appresta a sferrare l'attacco decisivo per eliminare i partigiani circondati.
Il comando garibaldino, però, essendo già stato informato dal giorno 5 del prospettato rastrellamento nazista, pur senza conoscerne la data esatta, aveva provveduto ad avvertire le formazioni dipendenti del pericolo, prendendo misure di immediata difesa, sicché era venuto a mancare ai tedeschi il vantaggio del fattore sorpresa. La sede del comando della I^ Brigata, con perfetta scelta di tempo, dopo l'occultamento del materiale e dei documenti delle formazione, si era trasferita da Pieve di Teco a Moano (Frazione di Pieve di Teco in Valle dei Fanchi). Anche l'ospedale civile era stato evacuato, con la messa in salvo dei partigiani malati. La “Matteotti”, che da Lovegno seguiva i movimenti dei Tedeschi, invia staffette per avvisare le altri formazioni del pericolo imminente.
Nella notte tra il 9 e il 10 di agosto Silvio Bonfante (Cion) attacca i tedeschi a Pieve di Teco; poi si sposta verso Madonna della Neve dove poco tempo prima si era portato “Pantera” [n.d.r.: Luigi Massabò, in seguito vice comandante della Divisione d'Assalto Garibaldi "Silvio Bonfante"] con i suoi uomini e, sulla dominante vetta del Frascianello, aveva trovato la Matteotti. “Pantera” prima dell'arrivo di “Cion”, aveva rivelato alla “Matteotti” i suoi propositi di forzare l'accerchiamento nemico per cercare la salvezza nel bosco di Rezzo, ed a tal proposito aveva chiesto l'autorizzazione del Comando, ma gli era giunto l'ordine di non muoversi, di restare a presidio del luogo e di mandare pattuglie di sorveglianza alla carrozzabile Pieve di Teco-Moano [Frazione di Pieve di Teco (IM)]. Non si sa se l'ordine fosse impartito senza un'esatta cognizione della vastità del rastrellamento o se si intendesse effettuare l'attacco in un unico punto dell'accerchiamento nemico, dal quale passare tutti insieme dopo aver evitato dispersione di forze, maggiori rischi e perdite di vite umane. Successivamente per mezzo di staffette “Cion” ordina a tutti i distaccamenti di portarsi immediatamente verso Case di Nava. 
Oltre al Comando della I^ Brigata ed ai distaccamenti “Volantina” e “Matteotti”, si trovano nella zona le formazioni comandate da “Pantera”, “Orano”, “Renzo” [Renzo Merlino], “Vittorio”, “Battaglia” e “Domatore” [Domenico Trincheri]. All'alba del 10 di agosto 1944 i tedeschi chiudono la sacca addentrandosi nel centro del territorio.
La colonna nazista dell'Alta Val Tanaro scende in direzione quasi parallela alla statale; altre due, partite da un unico punto dalla medesima strada equidistante da Ormea e da Case di Nava, si inoltrano anch'esse verso sud, nel cuore del territorio della I^ Brigata; una colonna da Armo punta a nord; una da Ranzo tende a Gavenola [n.d.r.: Frazione di Borghetto d'Arroscia (IM)]; un'altra ancora da Pieve di Teco oltrepassa Lovegno [Frazione di Pieve di Teco (IM)]; ed infine una da Vessalico punta su Lenzari [Vessalico (IM)] e si avvia a Madonna della Neve. Nel pomeriggio del 10 vi fu tutto un dilagare di Tedeschi, in ogni direzione, in ogni paese e frazione e anche presso case sparse e sulle mulattiere.
I luoghi, che poche ore prima erano stati le sedi dei garibaldini, ora sono investiti dall'ondata nemica.
I partigiani per vie dirupate e sentieri da capre, attraverso boschi e crinali, devono operare complicate deviazioni per sganciarsi dal nemico. “Cion” da Madonna della Neve giunse a Case di Nava [Pornassio (IM)] con altri distaccamenti, attaccò decisamente i Tedeschi di presidio (circa una trentina), li disperse e riuscì in tal modo ad aprire un varco nell'accerchiamento.
La “Matteotti”, invece, dopo una lunga marcia, riuscirà ad oltrepassare il Tanaro presso Eca Nasagò.
Ma non tutte le formazioni fanno in tempo a sganciarsi: quella di “Battaglia” resta ferma, o quasi, tra Gavenola e Leverone [Frazione di Borghetto d'Arroscia (IM)], mentre quella di “Renzo” si occulta nei boschi dell'alta Val Pennavaira.
Il giorno seguente, 11 agosto, prosegue ancora il rastrellamento, ma poi verso sera si estingue. Le perdite garibaldine non sono lievi: alcuni partigiani sono stati catturati ed uccisi, tra cui il comandante Giuseppe Arrigo (Orano).
I tedeschi non hanno conseguito risultati di grande rilievo. Hanno commesso gravi errori nel corso dell'operazione. Primo fra tutti, l'aver rinforzato eccessivamente le colonne rastrellanti a scapito di quelle d'accerchiamento. Altri gravi errori sono stati lo sgombero notturno di paesi e passi e l'aver presidiato tutti i ponti sul Tanaro il giorno 11, anziché il 10. La disposizione del presidio di Case di Nava ed il passaggio della “Matteotti” attraverso il ponte sul Tanaro rivelano infatti l'imperfetta riuscita dell'accerchiamento e la precarietà della sorveglianza notturna.
Il vantaggio ottenuto è il controllo della Statale n. 28, d'altronde quasi impraticabile per i ponti distrutti dai partigiani. Questi, infatti, per la ragione opposta che ha spinto i tedeschi alle azioni militari per il controllo delle vie di comunicazione, proseguono la battaglia dei ponti per impedire il libero transito ai nazifascisti. L'opera di ricostruzione o riparazione, lunga e non agevole, sarà continuamente ostacolata e ritardata dal sabotaggio dei partigiani. Dal resto, ormai la Resistenza è diventata esperta nella guerriglia e sa parare ogni colpo, affrontare ogni mezzo nemico, sfuggire un attimo prima, passare un attimo dopo il passaggio del nemico. I distaccamenti possono frazionarsi in squadre e nuclei ed in singoli uomini e, in seguito, ricostituirsi in breve tempo, come per magia.
Il partigiano, ora, sa occultare il materiale, salvandolo dalla furia dei nazifascisti, prevedere l'immediato futuro, dosarsi le forze per tutte le stragrandi difficoltà dei momenti peggiori. Egli sa tendere ad un luogo di salvezza valutando gli eventuali pericoli che potrà incontrare lungo la via, sa vegliare tutta la notte, digiunare a lungo e camminare senza posa, riposarsi due ore per riprendere il cammino; conosce la necessità del sangue freddo nelle occasioni più difficili e pericolose, sceglie il momento adatto per rispondere al fuoco dalla posizione migliore; è più veloce, agile e spedito dei tedeschi incolonnati e timorosi dell'agguato, carichi d'armamento pesante, guidati dalle carte, ma ignari dei sentieri, delle curve, della presenza partigiana. I patrioti procedono per luoghi impervi, informati dalla gente della presenza o vicinanza nemica o del viottolo che offre salvezza.
Immancabilmente, poco tempo dopo ogni grande battaglia o rastrellamento, le formazioni garibaldine ritornano nella zona occasionalmente abbandonata.
Gino Glorio (Magnesia), Alpi Marittime 1943/45. Diario di un partigiano - I parte, Genova, Nuova Editrice Genovese, 1979

venerdì 9 giugno 2023

Un consistente gruppo di uomini armati in divisa rastrellava la zona del Santuario dell'Acquasanta


Verso le ore 13 del 16 agosto 1944 una staffetta avverte che una trentina di Tedeschi tenta di entrare in Badalucco per stabilirvi una consistente testa di ponte.
Immediatamente il gruppo del 9° distaccamento «Artù» della IV Brigata si sposta, si porta a breve distanza dal tratto stradale Badalucco ­Montalto, in località Poggio e Carcagnolo, ed attacca il nemico che lascia sul terreno due morti.
Successivamente la squadra partigiana prende posizione a circa due chilometri dal paese e le arrivano dei rinforzi con una mitragliatice pesante. Passa circa mezz'ora ed i nazisti rispuntano. L'attacco dei garibaldini anche questa volta è violento. I Tedeschi si difendono con grande accanimento, ma dopo due ore di sparatoria infernale si disperdono, contando numerosi feriti ed altri tre morti, tra cui un capitano ed un tenente. Inoltre, lasciano nelle mani dei partigiani due prigionieri ed un rilevante bottino: quattro machinen-pistole, un mitragliatore Majerling, cinque ta-pum, varie pistole e circa novemila colpi.
Il patriota Domenico Boeri (Menego) rimane ferito al braccio destro.
Il commissario Raffaele Amato (Elio), a fondo pagina del rapporto sull'operazione, ha posto la seguente nota: «Al nostro fianco ha pure collaborato il signor De Andreis Giobatta, babbo dell'agente investigativo «Pierò», sequestrando un mitragliatore e consegnandocelo...» (1).
Il Comando tedesco, in conseguenza dello scacco subito a Badalucco, organizza un rastrellamento per il giorno seguente. Nella prima mattinata i Tedeschi ed i soldati della divisione «San Marco» iniziano ad attaccare le forze partigiane dislocate sul monte Faudo.
Le sentinelle garibaldine si ritirano nel bosco, mentre nell'accampamento viene nascosta ogni cosa per salvarla e sottrarla agli aggressori.
Un'ora di silenzio. Oltre trecento nazifascisti avanzano, muniti di armi automatiche. Poi incominciano a sparare. Il 9° distaccamento si sgancia per l'impossibilità di accettare il combattimento in condizioni di manifesta inferiorità ed in considerazione delle disposizioni del Comando che impongono attacchi improvvisi al nemico ed improvvisi ritiri. I tedeschi non riescono ad avvistare l'accampamento, sicché ogni cosa resta salva. Ma, come al solito, al loro passaggio seminano ovunque strage e desolazione.
Nei prati tra il monte Faudo ed il monte Follia numerosi civili innocenti vengono barbaramente trucidati.
Altri civili inermi vengono inesorabilmente falciati nelle verdi campagne di Montalto Ligure e nell'abitato stesso. Nel numero degli uccisi figurano due religiosi del Santuario-Ospizio della Madonna dell'Acqua Santa: il sacerdote lituano don Stanislao Barthus ed il chierico Mario Bellino (2), accusati di aver collaborato con i patrioti.
La micidiale colonna prosegue ancora per Badalucco ove uccide altri due civili.
Come a Montalto, la popolazione assiste impotente al saccheggio ed all'incendio di alcuni fabbricati (3).
I rastrellamenti sono effettuati su segnalazione di spie, la cui azione è stata tanto meticolosa che l'ubicazione del distaccamento comandata da Arturo Secondo (Artù), è identificata con una precisione impressionante. Infatti, sopra una roccia si trova scritto con pittura rossa: "X ALT [poi, il disegno di una freccia con la punta in basso a sinistra] NON SBAGLIATE".
Sicché è necessario spostare l'accampamento e trasferirlo sul versante destro dell'Argentina in zona Tumena. (4)
Il commissario Raffaele Amato (Elio), cosi descrive la nuova sede: «Percorrere la strada Montalto-Triora. A circa un chilometro e mezzo dal ponte di Montalto Ligure chiedere informazioni della casa del dottor Rossi, una casa grande e bianca. A poca distanza c'è una mulattiera a sinistra che s'inoltra nel bosco e conduce alle vigne di fronte al nostro accampamento...».
A seguito dell'eccidio il comando garibaldino lancia il seguente proclama alla popolazione, alla quale addita, ancora una volta, la barbarie dei nazifascisti:
«Italiani! Contadini!    
Sulle pendici del monte Faudo, in un invidiabile pace agreste, lontana dal dramma che sconvolge l'umanità, pacifici ed onesti contadini, con l'autorizzazione delle autorità tedesche ed italiane, sono intenti, curve le schiene, sudata la fronte a  manovrare con le forti braccia la falce per il taglio del fieno. Ma le iene nazifasciste spiano con occhi assassini quella pacifica opera e preparano la più feroce aggressione.
Improvvisamente, a tradimento, senza alcuna provocazione piombano su quegli inermi lavoratori, li costringono ad adunarsi in un sol gruppo e contro di questo fanno scaricare le loro mitragliatrici. Quindici infelici cittadini, quindici
padri di famiglia, quindici onesti vostri compagni, lavoratori e padri di famiglia sono così barbaramente trucidati dai nazifascisti guidati ed istigati dai lanzichenecchi italiani traditori della Patria.
Italiani! Contadini! Potete voi più oltre sopportare tanta feroce tirannia? Insorgete, non soffocate più il generoso impulso del vostro cuore; attaccate il nemico fascista e tedesco, carnefice dei vostri fratelli».
[NOTE]
(1) Archivio ISRI, sezione I (cronologica), documento del 9° distaccamento datato 20 agosto 1944. Vedasi pure Relazione storica sul movimento di Resistenza a Badalucco, opuscolo edito dal comune di Badalucco nel 1965, pag. 5.
(2) I due religiosi dell'Istituto Charitas di Imperia erano sfollati a Montalto Ligure con un gruppo di convittori (vedasi documento ASR); per altre notizie relative al chierico Mario Bellino vedasi R. Amedeo, Ogni contrada è patria di ribelli, Nicola Milano, Editore Farigliano (Cn), 1964, pagg. 171, 172.
(3) Nel corso del rastrellamento, trovarono la morte i seguenti civili: nella zona monte Faudo in località Bramosa: Amoretti Giovanni di Pietrabruna; Muratorio Giobatta di Badalucco; Ricca G.B. di Civezza; Bellissimi Giacomo, Benza Gioacchino, Benza Giovanni, Benza G.B., Benza Giuseppe, Castello G.B., Giretto Giuseppe, Lupi Antonio, Orengo Bartolomeo, Piropo Clemente, tutti di Dolcedo.
Nel comune di Montalto Ligure: Ammirati G.B. fu Antonio, Ammirati G.B. fu Vincenzo, Barla Ermelindo, sacerdote don Barthus Stanislao, chierico Bellino Mario, Brea Giorgio, Galleani Angelo (segretario comunale), Montebello G.B. ed il partigiano Torre Antonio. Nel comune di Badalucco: Bianchi Antonio e Gallo Giovanni.
(4) Verso la fine di agosto il distaccamento si sposterà in regione Carmo presso Madonna della Neve (da documento ASR)

Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992, pp. 363,364,365

Elenco delle vittime decedute
Bianchi Antonio del Comune di Badalucco, civile, ucciso a Badalucco
Gallo Giovanni del Comune di Badalucco, civile, ucciso a Badalucco
Altre note sulle vittime:
Don Lanteri Giobattista - parroco di Montalto Ligure dal 1923 al 1977: come da manoscritto “Diario dei 10 mesi” conservato presso l'Archivio parrocchiale di Montalto Ligure pubblicato sul libro “I bambini no, lasciateli stare!” di Giovanni Perotto: “Era con noi anche il segretario comunale che conoscendo un po' di tedesco ci faceva da interprete... siamo messi davanti alle mitragliatrici... Col segretario siamo separati dalle altre persone che sono lasciate libere. Il segretario piange... continuando il segretario a lamentarsi quel bestione del medico tira fuori la rivoltella e comincia a tempestarci di colpi. Per vero miracolo io rimango incolume e cade solo il segretario”.
Circa 20 bambini sfollati da Imperia ospitati in un orfanatrofio a Montalto Ligure nei pressi del Santuario dell'Acquasanta come da testimonianza di Agostino Liburdi pubblicata sul libro sopracitato: “Il giorno dell'Eccidio, il 17 agosto 1944, un consistente gruppo di uomini armati in divisa rastrellava la zona del Santuario dell'Acquasanta in cui si trovava la casa ricovero dover ero rifugiato con altri bambini dell'Istituto... Gli italiani del gruppo erano più numerosi dei tedeschi... Venni quindi a sapere che gli italiani in divisa appartenevano alla brigata fascista San Marco. Alcuni di costoro ci prelevarono dalla casa ricovero dove eravamo sfollati e ci condussero - un gruppo di circa venti bambini - al vicino santuario. Sul piazzale erano presenti al nostro arrivo Don Stanislao Barthus e il seminarista Mario Bellini sorvegliati da tedeschi e fascisti armati... Noi bambini fummo portati all'interno della chiesa”.
Come da intervista con Aldo Maestro pubblicata sul libro sopracitato: “... i due preti ci spingono e ci ammucchiano tutti nell'abside... e aprono la porta, attraverso la quale si precipitano dentro i nazifascisti urlando. Agguantano subito don Stanislao e don Bellini che strattonano fuori: li vogliono fucilare! (...) Noi dopo questi avvenimenti siamo spaventati a morte, quando sentiamo distintamente i colpi delle vergate sui due sacerdoti che non possiamo vedere, ma sentiamo i loro lamenti e le loro urla (..) Ora dalla finestra della sacrestia, ammucchiati gli uni sugli altri per guadagnarci la visuale vediamo chiaramente la scena, anche se non riusciamo a capire il colloquio tra i nostri amici e i torturatori che continuano a picchiarli selvaggiamente... Intanto strattonandoli li spingano in direzione di una grande pianta di acacia: noi vediamo chiaramente la scena. Ce l'ho davanti agli occhi e non potrò mai più dimenticarla. Appoggiati i due uomini al tronco della pianta, i rastrellatori fanno una raffica di mitra nella loro direzione. Vedo chiaramente l'alta figura di don Stanislao, il breviario all'altezza del torace in mano, che si abbatte” e sempre dal libro citato l'autore Giovanni Perotto scrive: "Nel racconto di Aldo Maestro emerge drammatica la testimonianza della volontà di alcuni tedeschi di uccidere anche i bambini ospiti della casa: “qualcuno vorrebbe fucilare anche noi ragazzi! Per fortuna altri si oppongono. - Ma cosa vogliamo fare?! Siamo impazziti? Non sono che ragazzi! - Oggi ragazzi, domani banditi! - urla un tizio inferocito. Per fortuna prevale l'umanità e il buon senso!” Pare che siano stati proprio i due martiri ad impedire che i piccoli cadessero vittime della violenza nazista: “I bimbi no, lasciateli stare!” imploravano ai persecutori che volevano a tutti i costi informazioni sulla resistenza".
[...] Nel pomeriggio del 16 agosto i partigiani del 9° distaccamento “Artù” della IV brigata attaccano una trentina di Tedeschi che tentano di entrare a Badalucco: due morti. La battaglia si interrompe per poi riprendere violenta: i Tedeschi hanno numerosi feriti, perdono altri tre uomini (tra cui un capitano ed un tenente) mentre due sono fatti prigionieri ed un rilevante bottino di armi. Il patriota Domenico Boeri (Menego) rimane ferito al braccio. (da documento del 9° distac. Datato 20.08.1944 Archvio ISRECIm sez. I (cronologica)
[...] svolgimento indagini effettuato da: Procura militare della Repubblica presso il Tribunale militare di Padova (anno 2007) Procura Militare della Repubblica di Verona presso il Tribunale militare di Verona - Ufficio di coordinamento di Polizia Giudiziaria Militare in Bolzano - (procedimento penale nr. 163/09/mod. 44 (ign.) - anno 2009
Sabina Giribaldi, Episodio di Badalucco, 17.08.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

A destra il Monte Faudo (sullo sfondo il Monte Saccarello). Foto: Eraldo Bigi

Nel "Diario dei 10 mesi" dell'allora Parroco di Montalto Ligure, don G.B. Lanteri, si racconta la strage del 17 Agosto 1944:
Giornata di terribile rappresaglia sulla popolazione di Montalto Ligure. Verso le sei del mattino i tedeschi ed i fascisti sono già al passo di Vena. Dopo aver ucciso due persone a San Salvatore, uccidono una dozzina di uomini e donne di Dolcedo. Sono presi nel sonno in una casupola nei pressi del Faudo, addetti al taglio del fieno che, assicurati dal Prefetto non esservi più durante la fienagione scorrerie nei prati del Faudo, si erano recati lassù. I Tedeschi scendono nella Regione Binelle ed Evria. Uccidono certo Ammirati Giobatta, detto l'"Orso", di circa 70 anni, trovato per la strada carico di legni, così pure Ammirati Gio Batta (Bacò) di 72 anni ed un certo Brea Giorgio di 54 anni, trovato sulla porta che stava mangiando. Arrestano alcune donne che chiudono in una stalla ed alcuni uomini che poi rilasciano. Al Santuario dell'Acquasanta uccidono, dopo averli terribilmente bastonati e seviziati, i sacerdoti addetti a quell'istituto, Barthus Stanislao e Bellini Mario, e incrudeliscono sui loro cadaveri facendoli rotolare a calci giù dalla strada. Spaventano suore e bambini, gettano all'aria ogni cosa in Chiesa e nella abitazione delle suore. Nei sotterranei della chiesa si sono nascoste molte persone che non vengono scoperte. Preceduti dal fuoco dei mortai sul paese vi entrano da due parti. Uccidono il sacrestano Montebello Giobatta. Fracassano porte ed ogni cosa. Il parroco ed il podestà che non credevano avere a che fare con simili bestioni selvaggi ed ignari di quello che era accaduto nelle campagne, gli si presentano in Piazza della Chiesa. Fa parte del primo gruppo di Tedeschi un tenente medico. A Taggia si è poi vantato di avere il 17 agosto ucciso lui da solo nove persone: "Quest'oggi essere stata buona giornata."
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020

[ n.d.r.: tra le pubblicazioni di Giorgio Caudano: Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; (a cura di) Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944-8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]

Elenco delle vittime decedute
Ammirati Giobatta (Bacò), anni 66,civile, ucciso a Montalto Ligure
Ammirati Giobatta (Ursotto), anni 68,civile, ucciso a Montalto Ligure
Barla Ermelindo del Comune di Taggia, civile, ucciso a Montalto Ligure
Bartkus (o Barthus) Stanislao, fu Pietro, nato a Upyna in Lituania l'11.01.1907, anni 37, sacerdote ucciso al Santuario dell'Acquasanta
Bellino Mario, nato a Garessio (Cerisola) prov. di CN il 4.03.1916, anni 28, religioso chierico (seminarista), ucciso al Santuario dell'Acquasanta
Brea Giorgio del Comune di Montalto ligure, anni 54, civile, ucciso a Montalto Ligure
Galleano Angelo del Comune di Montalto Ligure, anni 37, segretario comunale, civile, ucciso a Montalto Ligure
Montebello Giobatta del Comune di Montalto Ligure, anni 54, sacrestano, civile, ucciso a Montalto Ligure
Torre Antonio (nome di battaglia) “Torre” fu Giobatta nato a Taggia l' 11.11.1908, anni 35, agricoltore, partigiano (II Divis. “F. Cascione” - IV brig.) dal 27.09.1943 al 17.08.1944 n° dichiaraz. Integrativa 3071, ucciso a Montalto Ligure
[...] Il giorno seguente (17 agosto 1944) l'azione partigiana si ebbe una rabbiosa reazione del Comando Tedesco il quale dopo aver richiamato rinforzi anche da Savona, iniziò nella vallata un terribile rastrellamento con epicentro Badalucco (come da “Relazione storica sul movimento di Resistenza in Badalucco 1943 -1945” pag. 5). Nella prima mattinata i tedeschi e i soldati della divisione “San Marco” iniziano ad attaccare le forze partigiane dislocate sul Monte Faudo. Come al solito al loro passaggio seminano ovunque strage e desolazione. Nei prati tra il monte Faudo e il monte Follia numerosi civili innocenti vengono barbaramente trucidati. Alla fine si conteranno tredici morti, rastrellati mentre erano, come scritto con toni enfatici nel proclama alla popolazione della Brigata Garibaldi, “intenti, curve le schiene, sudata la fronte, a manovrare con le forti braccia la falce per il taglio del fieno”. Altri civili (n. 7) inermi vengono inesorabilmente falciati nelle campagne di Montalto Ligure e nell'abitato stesso. Nel numero degli uccisi figurano i due religiosi del Santuario-Ospizio dell'Acquasanta don Stanislao Barthus e il chierico Mario Bellino accusati di aver collaborato con i patrioti.
Sabina Giribaldi, Episodio di Santuario dell’Acquasanta e altrove, Montalto Ligure, 17.08.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia 

mercoledì 24 agosto 2022

Casimiro Briozzo, partigiano, e Carlo Ferrari, ex San Marco, furono fucilati il 21 agosto 1944

Andora (SV). Fonte: mapio.net

Nella terza decade di giugno, in un punto della Via Aurelia presso il borgo di Rollo, ad una squadra di dieci uomini (tra cui i partigiani Fiume, Leo, Ceno, Federico ed altri), comandata da Nino Agnese (Marco), si presenta l’occasione di catturare un camion di derrate alimentari destinate al Comando della marina militare tedesca di Loano.
I due ufficiali tedeschi che accompagnavano il carico vengono abbattuti da raffiche di mitra e le derrate comprendenti zucchero, farina, riso e sigarette, sono trasferite alla base partigiana di Cian di Bellotto.
Il 12 luglio 1944, con una magnifica azione, il Distaccamento “Volante” asporta quintali di derrate alimentari da un treno merci tedesco.
[...]
Altra perdita partigiana: Casimiro Briozzo, nato in Francia nel 1912, staffetta della 1a Brigata, catturato a Laigueglia il 20 agosto 1944, mentre per conto del Comitato di Liberazione Nazionale locale tratta con un soldato della Divisione fascista San Marco, Carlo Ferrari, al fine di organizzare la diserzione di un contingente della divisione stessa, di stanza ad Andora Marina, viene fucilato il giorno successivo sulla spiaggia della frazione Pigna, unitamente al milite contattato.
Redazione, La Resistenza, Andora nel tempo

[...] osservavo il gioco della luna sulle onde del mare, quando un indistinto rumore di motori si tramutò in breve in una flottiglia di motobarche che passavano a poca distanza dalla costa, piccoli trasporti adibiti al rifornimento delle truppe dislocate nella Francia meridionale, servizi condotti alternativamente per via mare, a causa dei continui bombardamenti cui era sottoposta la ferrovia e il suo conseguente irregolare funzionamento; l'oscurità della notte, inoltre, favoriva tali operazioni. Osservavo le figure incerte dei marinai in servizio in coperta, quando l'inaspettato scoppio di un bengala illuminò a giorno l'intero tratto di mare a noi visibile; immediato e assordante il rumore delle armi riempì l'aria, come fontane iridescenti si alzavano grosse colonne d'acqua, bersagli mancati dalle bombe sganciate dagli aerei, mentre i traccianti dei trasporti riempivano il cielo di colorate scie luminose simili a fuochi d'artificio. Pochi minuti soltanto di un carosello di fiamme e di colpi, e il piccolo convoglio, completamente indenne, scomparve oltre la costa; gli aerei avversari erano già lontani, il nostro tiepido battimani concluse il breve ed inatteso spettacolo.
Era stato un giorno piuttosto tranquillo, nessuna incursione di caccia-bombardieri inglesi e nessuna ispezione da parte del comando della San Marco, una giornata insomma da considerarsi rilassante, ma evidentemente il sole non era ancora tramontato, e verso le ore 17 un paio di ufficiali del comando di battaglione si presentarono alla postazione convocando l'immediata assemblea di tutti i componenti il gruppo, con la sola esclusione delle sentinelle. L'interesse e la curiosità da noi avvertiti furono ben presto sostituiti dall'amarezza che si manifestò nell'ascoltare la richiesta formulata dai due messaggeri, che consisteva nel contribuire a formare, per l'indomani mattina, un plotone d'esecuzione. Il motivo, giustiziare un ribelle ed un traditore: un civile era stato sorpreso a trattare con un nostro commilitone la diserzione di un nostro contingente che sarebbe entrato a far parte delle formazioni ribelli. L'immediata  fucilazione sentenziata per i due implicati dalla corte marziale doveva servire da ammonimento agli scontenti ed agli indecisi sulle inflessibili punizioni che attendevano coloro che fossero sorpresi in un tentativo di fuga. Un silenzio totale accolse la richiesta; la partecipazione volontaria, nelle parole degli ufficiali, era da considerarsi un onore, ma tale opinione evidentemente non era condivisa, nessuno infatti vi aderì.
La cerimonia doveva effettuarsi nel nostro settore particolarmente defilato e controllabile da minacce esterne, e qualora fosse stato impossibile raccogliere il numero necessario alla costituzione del plotone di esecuzione, i nominativi  mancanti sarebbero stati scelti di forza. Un malinconico tramonto concluse una giornata che terminava con la preoccupazione di essere scelti per il triste incarico, e a questa seguì una notte molto lunga per la parte di noi che non riuscì a dormire. L'alba non era ancora spuntata che l'intero contingente attendeva pienamente sveglio il nuovo giorno, e fu un'alba grigia in un incerto orizzonte di foschia che illuminò velatamente un mare quasi immobile e silenzioso. Precedeva un plotone con elmetto e fucile, seguito da un carro trainato da un cavallo, condotto per la briglia da un soldato; i condannati legati su due sedie, il viso del colore dell'alba, uno indossava una camicia bianca, l'altro una camicia grigioverde; chiudeva il corteo una squadra con ufficiali in testa. Guardavo la scena con un'intensità mai avvertita, sentivo e vedevo in essa la presenza di qualcosa che non conoscevo; per una frazione di secondo ebbi l'impressione di vedere una sequenza cinematografica, condannati che venivano condotti alla ghigliottina, un attimo soltanto però: l'alba che sorgeva, l'aria che respiravo, gli uomini che osservavo erano veri, e una parte di essi si apprestavano ad uccidere altri uomini, un dilungarsi di preparativi quasi teatrali, di una giustizia cinica di effetto. Il plotone d'esecuzione era già stato completato con elementi di altri contingenti, il nostro gruppo doveva soltanto  formare un cintura di sicurezza sull'intero perimetro. Con due compagni ricevetti l'incarico di sorvegliare la strada e allontanare i troppi curiosi; ci si dispose a breve distanza l'uno dall'altro, le armi in pugno, pronti a far fuoco; e subito, in un atteggiamento per nulla gentile, convinsi due uomini che ironizzavano sul fatto ad allontanarsi rapidamente; poi, fu più forte dell'ordine e di eventuali pericoli, mi volsi a guardare il dramma che si viveva sulla riva. Nitide, le due figure si stagliavano immobili contro il mare, la schiena rivolta contro il plotone che stava allineandosi, il sole ancora nascosto nella cortina di foschia; i fucili si alzarono, un silenzio profondo si avvertì all'intorno e nel secco rumore che lacerò l'aria, due uomini, come due burattini a cui viene allentato il filo, caddero sulla sabbia; ancora attimi di silenzio e i due colpi di grazia, che mi apparvero enormemente lontani, chiusero la tragica cerimonia*. Il carro ripartì con due corpi ammucchiati sul fondo che, ad ogni buca della strada, sobbalzavano goffamente; gli accompagnatori marciavano sempre silenziosi, ma più scomposti e nessun richiamo, nessun ordine intervenne a riprenderli. Il sole, liberatosi alla fine della grigia coltre, splendeva in una cornice di bellezza, quasi a voler far dimenticare la crudeltà appena consumata.
Qualche giorno di vuoto senza avvenimenti di rilievo e improvvisamente, come di norma, l'ordine di partire. L'apatia che cominciava a contagiarci scomparve soppiantata dall'interesse per la nuova destinazione.
*Casimiro Briozzo, partigiano, e Carlo Ferrari, ex San Marco, furono fucilati il 21 agosto 1944
Renato Faggian (Gaston), I Giorni della Primavera. Dai campi di addestramento in Germania alle formazioni della Resistenza Imperiese. Diario partigiano 1944-45, Ed. Cav. A. Dominici, Imperia, 1984, pp. 32-35

sabato 6 agosto 2022

Peletta con un gruppo di partigiani prese posizione al torrente Barbarossa

La parte occidentale del territorio comunale di Imperia, vista dalla spiaggia di San Lorenzo al Mare

Imperia: la Torre di Prarola vista da Località Barbarossa

I pozzi minati di Garbella, subito dopo Villa Ludovici fra Imperia e San Lorenzo [San Lorenzo al Mare (IM)] erano presidiati [luglio 1944] da un piccolo reparto tedesco, comandato da un sottufficiale. I tedeschi avevano preso in custodia i pozzi minati dopo che un intero reparto di fascisti era stato catturato dai partigiani. Era quasi impossibile attaccare in quelle condizioni; a monte della via Aurelia il terreno era minato con ogni tipo di ordigno, e difatti erano saltati in aria dei cani che si erano avventurati giù per la scarpata. Per prendere d'assalto la posizione nemica bisognava comunque transitare sull'Aurelia sbarrata da intrecci di filo spinato e da cavalli di frisia per obbligare le vetture e gli autocarri a transitare uno per volta. Luisa Barnato, una ragazza di Imperia, era transitata molte volte davanti al posto di blocco per vedere se c'era una qualche possibilità per un colpo di mano, ma la conclusione era sempre la stessa: senza un aiuto dall'interno, era impensabile attaccarli con qualche possibilità di riuscita. Non c'era altro da fare che cercare collaborazione all'interno del reparto di guardia. Dissi a Luisa di fare amicizia con tutti, ma di non scoprirsi con nessuno, tanto meno con i militari provenienti dai territori occupati dai tedeschi, che erano, secondo me, peggio dei tedeschi. Non c'era, però, nessuno di costoro; c'erano solo tedeschi e austriaci. Uno di questi si era innamorato di Luisa e lei, rischiando grosso, si era qualificata partigiana, invitandolo a disertare. Lui chiese di incontrarsi con un rappresentante della guerriglia, e fissò un appuntamento nei dintorni di Piani d'Imperia. Con Luisa ci recammo all'appuntamento; dissi all'austriaco che, per poterlo accettare nelle nostre file, era necessario un suo atto di collaborazione, che ci avrebbe garantito da un suo eventuale tradimento e l'austriaco si dichiarò disposto a qualsiasi prova. Gli dissi che era necessario al nostro Comando far saltare i pozzi minati, ai quali era di guardia; mi feci descrivere come si svolgeva il servizio, convenimmo che l'orario a noi propizio era quello dalla mezzanotte alle 4. In quel periodo la strada veniva totalmente chiusa al traffico e rimaneva un solo militare di guardia, protetto dagli sbarramenti che ho già descritto. Per transitare era necessario un permesso speciale, alla presentazione del quale veniva informato telefonicamente il sottufficiale nel Comando il quale con altri tre uomini, provvedeva alle previste misure di sicurezza.
Per aiutarci era necessario che il nostro amico fosse comandato di guardia da mezzanotte alle quattro. Lui ci disse che lo avrebbe saputo il mattino. Luisa, che ormai era conosciuta da tutti i militari e della quale nessuno sospettava anche per la giovane età, tutte le mattine sarebbe passata in bicicletta in attesa del giorno a noi favorevole; quindi avrebbe avvisato noi della «volantina», e noi avremmo provveduto ad avvisare il Comandante del distaccamento, Peletta [Giovanni Alessio], che sarebbe sceso con gli uomini necessari a bloccare la Via Aurelia in località Barbarossa e presso Villa Ludovici, appena oltre Garbella. Mi recai sopra Tavole, in alta Val Prino, per riferire a Peletta l'accordo concluso e per una sua approvazione del piano preparato. Tutto bene. L'unico inconveniente fu l'arrivo di Giulio Briganti, poi caduto a Upega. Conoscevo Giulio dal breve periodo di lotta in città, svolto quando ero nei Vigili del Fuoco. Appena mi vide, il suo volto espresse il piacere di rivedermi, ma riprese immediatamente il suo fare burbero e mi chiese: «Cosa fai qui?» «E tu cosa fai qua?» fu la mia risposta. «Io sono il commissario Politico delle formazioni Garibaldi che operano nella zona». «Ne sono proprio felice», risposi [...] Gli dissi poi dei colpi di mano ai pozzi di Garbella che stavamo preparando e di un altro alla Villa Salvo dove era prigioniera una Missione alleata. Avevo già parlato con un autista di Porto Maurizio, Ansaldi Aladino, che lavorava nell'autorimessa delle SS. Giulio mi disse: «Credo che non rimarrai molto da queste parti; comunque ti faremo avere istruzioni». Giulio tornò a fare il Commissario e io tornai a Dolcedo, in attesa che al nostro amico austriaco fosse assegnato il turno di guardia propizio alla nostra azione.
Il 25 luglio del 1944 giunse finalmente il momento. Peletta con un gruppo di partigiani prese posizione al torrente Barbarossa: doveva impedire il transito sull'Aurelia a chiunque avesse avuto intenzione di farlo proveniente da ponente. Si sarebbe ritirato solo all'arrivo di un partigiano proveniente dai pozzi con l'OK.
Banò comandava l'altro gruppo che prese posizione alla Villa Ludovica; doveva (come quello che aveva preso posizione a Barbarossa) impedire il transito verso i pozzi minati. Io con Luisa, mi recai all'appuntamento con l'austriaco. Andammo soli, nell'eventualità che l'uomo fosse stato sostituito per un qualsiasi magari sciocco motivo. Se così fosse stato, avremmo cercato di catturare la sentinella quando la stessa si fosse trovata vicino ai reticolati dalla nostra parte. Nel caso che avesse tentato di reagire l'avrei ucciso con una raffica di Sten, ma in tal caso l'operazione sarebbe comunque fallita. Non era neanche da pensare di poter riuscire da soli ad impadronirci del drappello tedesco, forte di una decina di uomini. Se, al contrario, si fosse arreso, era ancora possibile il buon esito dell'operazione. Per questo ci avvicinammo silenziosamente; era una notte chiara di luglio, e raggiungemmo lo sterrato a ridosso del muro; attendemmo l'arrivo della sentinella dalla nostra parte. Non eravamo sicuri che fosse il nostro uomo forse perchè, come dice il vecchio detto popolare, di notte tutti i gatti sono bigi; o forse perchè avevamo paura, tanta paura.
Quando la sentinella, raggiunti i reticolati, si voltò verso San Lorenzo, balzai in mezzo alla strada e gli ordinai di alzare le mani. Alzò le mani e disse: «Pensavo che non sareste più venuti»; era il nostro uomo. Luisa lo accompagnò da Banò ed arrivarono i rinforzi, io entrai nella baracca dove dormiva il sergente e altri andarono nel bunker dove dormivano i suoi soldati.
Il sergente si comportò da buon militare quale era stato e, dietro mio ordine, iniziò a vestirsi; avevo preso il suo mascin pistola e la P.38. In quel momento arrivò un partigiano che mi disse: «l tedeschi nel bunker non capiscono i nostri ordini e continuano a stare coricati nei loro castelli». Gli dissi: «Sorveglia questo mentre si veste; al primo movimento brusco sparagli senza parlare, ti mando subito qualcuno ad aiutarti, non portatelo via: deve insegnarci a far saltare i pozzi». Gettai il mascin pistola e la P.38 vicino alla porta d'uscita e presi alcune bombe a mano tedesche che erano su un tavolino. Andai verso il bunker e dissi agli occupanti: «In un minuto vi voglio tutti fuori, uscite con le mani sulla testa; se non avete capito peggio per voi, tiro il cordino di queste bombe e le mando a farvi compagnia». Per incanto avevano compreso al volo (sembra incredibile) e iniziarono a uscire: i primi con la divisa e gli stivaletti ammucchiati sul capo. Quando tornai dal Comandante del drappello, vidi che già era vestito di tutto punto, con le sue brave decorazioni sulla giubba. Non vidi più il mascin pistola nel posto dove lo avevo lasciato, ne chiesi notizie ai due guardiani del sottufficiale e mi dissero: «L'avrà preso qualcuno dei nostri». Replicai: «Prendete tutto quello che può essere utile e portatelo da Banò» ed iniziai a parlare col prigioniero, cercando di essere convincente: gli illustrai la situazione, gli promisi salva la vita se avesse collaborato per la riuscita della operazione: se cioè mi avesse insegnato a far brillare i pozzi.
Mi rispose con tutta tranquillità: «Vedi, io so di aver sbagliato in qualche cosa nel disporre il servizio di guardi, vi ho sottovalutato, e adesso è giusto che paghi il mio sbaglio; ma non chiedetemi di sbagliare ancora, non lo farò mai, tu al mio posto cosa faresti?». Capii che da lui non avrei ottenuto alcuna collaborazione. Lo feci portar via, e mandai a dire a Peletta che aspettasse ancora dieci minuti dall'arrivo del messaggero e dopo di ritirarsi: ci saremmo trovati ai Poggi.
Cercai nella baracca del sergente e nel bunker se trovavo il sistema per far brillare le mine, non trovai niente e, avendo gli addetti finito di prelevare le munizioni e le armi con tutto l'altro materiale trasportabile, pensai bene di abbandonare l'idea di far esplodere le mine. Il bottino era  stato ingente: fucili automatici, tapun, un mascingavert, materiale vario. L'unico rimpianto era il mascin pistola e la P.38. Una squadra di un altro Distaccamento aveva saputo del colpo e, quando oramai non c'era più nulla da rischiare, era arrivata ai pozzi e aveva approfittato dell'occasione per prenderseli, erano partigiani e avevano bisogno come noi di armi e munizioni. L'unico a essere scontento ero io, perché non ero riuscito ad interrompere il transito sulla Via Aurelia.
I tedeschi risposero rabbiosamente alla nostra azione, riempirono la zona di manifesti con la promessa di un milione di lire (di allora) a chi avesse dato notizie atte ad identificare e a catturare gli autori del colpo di mano.
Subito dopo, con un rastrellamento immediato in tutta la zona dell'alta Val Prino, vollero dare prova della loro potenza militare.
Ai primi di agosto del 1944 il nostro Servizio Informazioni Militare (SIM) avvisò mia madre e mio fratello di allontanarsi immediatamente dal paese perchè i nazifascisti avevano programmato la loro cattura. L'indomani mattina all'alba, dopo la loro partenza, un nutrito gruppo di nazifascisti già circondava la casa e, non trovando nè mia madre nè mio fratello, distruggevano quanto nella stessa era contenuto e non potevano asportare.
Mia madre, con le sue bestie, si rifugiò ad Andagna nella casa materna: mio fratello, anche per la conoscenza che aveva delle nostre montagne, si arruolò subito come staffetta presso il Comando Divisione. Io avevo ancora rimandato il trasferimento al Comando di Divisione per organizzare la liberazione della missione alleata, prigioniera delle SS nella Villa Salvo, dietro il palazzo della Provincia di Imperia, viale Matteotti.
Un mattino, sul finire della prima decade di agosto, ero con la «Volantina» a dormire in un casone nei pressi di Dolcedo, in compagnia di Mareri (del quale non ricordo il nome di battaglia, forse Max) di Corradi (Ninchi) di Bagascin (il cognome mi sembra Corradi), tutti di Piani di Imperia e di altri due partigiani (dei quali non ricordo il nome), quando venimmo svegliati dal rumore di autocarri che salivano verso Molini di Prelà: erano carichi di tedeschi e di fascisti. Ci recammo a Dolcedo e, dalla moglie del farmacista e dagli abitanti delle case sulla strada, fummo informati del numero di autocarri e delle vetture di scorta scoperte e armate di mitragliatrici che li seguivano. Era un numero consistente di mezzi: calcolando una trentina di uomini per autocarro, stabilimmo che le forze nemiche dovevano essere composte da circa duecento uomini. Decidemmo di attaccarli alla sera, quando sarebbero discesi, organizzando una bella imboscata. La nostra sorpresa fu grande quando, poco tempo dopo, l'autocolonna ritornò indietro con gli autocarri vuoti e con solo gli addetti alle mitragliatrici seduti sulle camionette di scorta. Questo poteva voler dire che il nemico aveva deciso di lasciare un presidio in Alta Val Prino, oppure che avrebbe fatto dimostrazione di forza transitando sulla mulattiera che da Tavole conduceva a Pietrabruna, con la speranza di trovare qualche piccolo gruppo di Partigiani lungo il cammino. Poco tempo dopo, calcolando il tempo necessario agli autocarri per raggiungere Pietrabruna, telefonai al centralino del paese ed ebbi la conferma; gli autocarri, con pochissimi uomini, erano appena arrivati a Pietrabruna. La cosa migliore da fare era quella di attendere i tedeschi sulla via del ritorno, sotto Civezza, e ci avviammo. Nei pressi di Costa di Dolcedo incontrammo una squadra comandata da Peletta; non ricordo quale obiettivo avesse, ma quando l'informai del nostro intento si unì a noi. Era una squadra più numerosa della nostra, dei componenti della quale ricordo solo il mitragliere Giacò e il partigiano Ramirez. Giacò lo ricordo perché eravamo paesani e avevamo fatto molte azioni insieme, Ramirez perché era un partigiano della «Libertas», della quale portava con fierezza il distintivo. Degli altri, escluso Peletta, non ricordo nessuno. In tutto saranno stati una ventina di uomini, con due fucili mitragliatori Saint'Etienne, e fucili da guerra di tutti i tipi: dal moschetto, al novantuno, al tapun. Io avevo uno Sten. Prendemmo posizione su uno spuntone sotto Civezza. La distanza dalla strada che i nazifascisti dovevano percorrere al ritorno era notevole, circa settecento metri. Con lo alzo graduato giusto si poteva colpire il bersaglio, ma con lo Sten era inutile sprecare munizioni. Decisi dunque che non potevo fare da spettatore, scesi a fondovalle e attraversai il fiume; mi riparai dietro un muretto di protezione della strada e iniziò l'interminabile attesa. Con Peletta e gli altri eravamo rimasti d'accordo che avrei iniziato io il fuoco.
Arrivarono a modesta velocità cantando. Cantavano la loro macabra canzone: «Camerati di una guerra, camerati di una sorte, chi divide pane e morte, no non muore sulla terra».
Lasciai passare la camionetta di scorta e scaricai tre caricatori da trenta sul primo autocarro. Che magnifica arma lo Sten! Non c'era proprio il rischio che si inceppasse. Mi allontanai e riuscii ad attraversare il torrente, prima di sentire fischiare le prime raffiche. Dopo fu dura, ma ce la feci lo stesso a raggiungere illeso i miei compagni che continuavano ad impegnare i nazifascisti. Non sapevo ancora che essi (i nazifascisti) avevano ucciso molti contadini inermi che erano nei prati di Dolcedo e di Pietrabruna a falciare il fieno, facendo una vera e propria strage. Le urla dei feriti che cominciai a sentire mi facevano star male, non mi rendevano orgoglioso dell'imboscata; ma era la guerra, la maledetta guerra che aveva coinvolto anche mia madre, allo sbaraglio, profuga sui monti con due mucche e un mulo, e mio fratello non ancora sedicenne al quale venivano affidate le lettere più rischiose che partivano dal Comando di Divisione. Per la sua giovane età egli non era affatto soggetto agli obblighi di leva e poteva recarsi ovunque senza destare eccessivi sospetti. Il lavoro rischioso ed importante, direi essenziale, di tanti di questi ragazzi e ragazze non viene oggi più considerato dagli storici del movimento partigiano, come a mio avviso invece dovrebbe essere fatto per la giusta considerazione che merita.
 
Dolcedo (IM): uno scorcio del centro abitato

Giuseppe Garibaldi
(Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 84-91

martedì 31 maggio 2022

Ventisei ore dopo, con una traversata tremenda, raggiungevamo il porto di Livorno


Sanremo (IM): il porto vecchio

Sanremo (IM): Capo Verde, il Porto Vecchio, uno scorcio del centro urbano

Nella notte tra il 27 ed il 28 agosto 1944, la motovela San Marco, adibita dai Tedeschi al trasporto di rifornimenti, lascia il porto di Sanremo e, dopo una fuga di ventisei ore in mare aperto, raggiunge il porto di Livorno portando in salvo tre garibaldini scesi dalla montagna. Il colpo è riuscito grazie alla perizia del capitano Stefano Zolezzi e del motorista Armando Odemondo (2).
(2) Cfr. M. Mascia, op. cit., pag. 59 e segg.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992
 

Nello Cella racconta
:
Dopo lo sbarco degli anglo-americani in Provenza e l'intensificarsi dei bombardamenti alleati sul nostro litorale, le comunicazioni ferroviarie nella Riviera vennero a cessare completamente e quelle stradali si fecero estremamente difficili. Il nemico aveva perciò organizzato un servizio notturno di piccoli convogli composti di chiatte, motobarche e motovele - alcune delle quali sequestrate alla mia ditta - che, scortate da una o due moto vedette, eseguivano i rifornimenti fra Genova e Savona e le linee del fronte.
Avevamo, in quell'epoca, installato sopra Capo Nero un posto di segnalazioni che era in collegamento coi centri della Riviera francese e più di una volta i galleggianti tedeschi dovettero incassare duri colpi da parte dell'azione dei caccia notturni alleati.
Ma noi avevamo progettato qualcosa di più grosso: addirittura la fuga d'una nave con tutto il suo carico. E ci ponemmo all'opera per attuarla.
Dopo aver passato in rivista le imbarcazioni adibite ai rifornimenti, decidemmo di tentare l'attuazione del progetto col San Marco, una mia piccola motovela, di cui conoscevo molto bene l'ottimo stato dei motori e le possibilità di  tenere a lungo il mare, qualità essenziali perché la fuga riuscisse. Inoltre, e quest'era senza dubbio il punto più importante, potevo contare ciecamente sull'equipaggio della nave, il capitano Zolezzi Stefano ed il motorista Odemondo Armando, ambedue antifasciti accaniti ed uomini di mare nel senso completo della parola.
Preparammo i piani accuratamente: negli ultimi giorni il SIM ci informò che tre patrioti, scesi dalla montagna, avrebbero tentato l'avventura col San Marco. Ci ponemmo in contatto con essi ed attendemmo.
Nel pomeriggio del giorno stabilito giunge al nostro ufficio il «Feldgendarme» ad avvertirci che per le 21 tutto l'equipaggio dev'essere a bordo.
Consumammo la cena discutendo ancora il nostro piano in attesa dei tre patrioti. Alle 20 essi giungono e tutti insieme, dopo aver definito gli ultimi dettagli ci avviammo al porto.
La notte era fredda e scura: piovigginava e un vento diaccio spazzava le strade e il molo. Contavamo appunto sull'oscurità e sull'inclemenza del tempo per far passare inosservati i tre fuggitivi. E vi riuscimmo. Pochi minuti prima delle nove eravamo all'entrata del porto; poi, di corsa, tutti noi provvisti del permesso di entrata, ci affolliamo innanzi alla garitta ove stava la guaordia per ripararsi dal vento, mentre i nostri patrioti, approfittando della confusione, scìvolavano attraverso il varco sperdendosi nell'oscurità. Li raggiungemmo qualche minuto più tardi e in breve fummo sul San Marco: essi s'arrampicano a bordo e spariscono nella stiva, attraverso il passaggio lasciato aperto fra il  materiale che ingombra il fondo. La prima parte dell'operazione era riuscita in pieno ed era per noi di buon augurio per il compimento del progetto. Attendemmo una mezz'ora: un sott'ufficiale della Kriegsmarine ci raggiunge con l'ordine «nessuno può più uscire. Preparatevi a partire. Seguite il capo convoglio che vi segnalerà le istruzioni».
Il momento è  giunto. Mi sento commosso: penso ai miei uomini che stanotte si giocheranno la vita, ma conosco a fondo il carattere e la volontà di Zolezzi ed Odemondo e son certo che se la caveranno. Faccio le ultime raccomandazioni e attendo: veggo i razzi segnalatori illuminare il cielo, il porto e le imbarcazioni; sento il rombo dei motori che si mettono in moto: discerno nettamente il caratteristico ritmo delle macchine del San Marco e  mi sforzo di isolarlo dagli altri per poterlo seguire.
Passano cinque, dieci minuti, un quarto d'ora: il convoglio si snoda lentissimo nel mare agitato. Poi non sento più il rombo del motore del San Marco: il piano funziona. Passano ancora dieci minuti; ed il ritmo inconfondibile delle  macchine della mia nave riprende. Vi è qualcosa di diverso, però, è più cupo e distante: capisco che il San Marco ha cambiato rotta e che si è messo controvento, come d'accordo. La fuga si è iniziata, ma potrà svolgersi indisturbata? Mi domando e, malgrado il freddo, sento che la fronte e il palmo delle mani si fanno umide di sudore. Scandisco i minuti. Poi veggo la luce dei riflettori sciabolare il mare: un razzo, due razzi accecanti si alzano verso il cielo: al largo si sgrana il crepitio di una mitragliatrice: poi ancora, uno, due, tre colpi di cannone partono dalla punta del molo.
E' tutto finito? Non so. Resto ancora a lungo e non odo che il brontolio dei motori che si fa sempre più indistinto; poi decido di lasciare il porto per non destar sospetti. Ritorno a casa, affranto, inzuppato e attendo che ritorni il  giorno.
La mattina dopo, in ufficio, un ufficiale della Kriegsmarine mi informò della fuga. Dovetti lottare con le unghie e coi denti per convincerlo della mia innocenza.
E fu solo a liberazione avvenuta che Zolezzi ed Odemondo mi fecero il racconto della loro avventura.
«Lasciammo il porto insieme alla moto-vela Leo - il cui equipaggio doveva assecondare la nostra fuga - e due o tre altri galleggianti. Fuori della diga cominciammo a ballare: il mare era agitato e grossi cavalloni, bianchi di spuma, ribollivano intorno a noi, rompendosi con rumore di tuono sui frangiflutti.
Demmo fondo ed attendemmo che tutto il convoglio fosse fuori: sentivamo, nel frastuono delle onde, il rumore delle motozattere che accostavano. Una rapida imbarcazione si avvicinò a noi, un riflettore, con una rapidissima sciabolata nel  buio, sembrò contarci, poi l'oscurità ricadde, fonda ed ostile.
Il capo convoglio urlò, attraverso il megafono, in cattivo italiano, l'ordine di accodarsi al convoglio. Poi ripartì immediatamente per portarsi in testa. Andammo avanti adagio perché il resto del convoglio potesse allontanarsi sempre più e per accertarci della entità della scorta di retroguardia.
Nel buio intravedevamo il Leo che navigava di conserva con noi e faticava enormemente sotto i colpi di mare.
Non appena fummo in rotta una moto-vedetta sbucò dal buio e impennandosi venne lungo il nostro bordo. Una voce rauca ci ingiunse di far presto poiché il convoglio era già lontano.
Rispondemmo che i motori ci davano delle noie, ma che saremmo presto stati in grado di aumentare la velocità. La moto-vedetta non accennava a lasciarci: pareva avesse intenzione di attenderci: se così fosse stato tutto il nostro progetto sarebbe andato in fumo.
Allora il Leo, per ingannare il nemico, si staccò da noi e riprese la rotta del convoglio.
Gridammo alla moto-vedetta che anche il San Marco era pronto e, con nostro sollievo, la vedemmo accostare sulla sua dritta e partire.
Immediatamente invertimmo la rotta puntando verso l'alto mare, verso la libertà!
Non appena accostammo il mare ci investì in pieno, di prua, con furia tremenda. Ondate dopo ondate si frangevano contro il tagliamare, rompendosi con violenza selvaggia spazzando il ponte. Eravamo nell'acqua, inzuppati sino all'osso, schiaffeggiati dal vento freddo su una nave che sembrava impazzita. Ma si andava! Il motore era in pieno: sembrava non avesse mai girato così vorticosamente come in quella notte. I minuti passavano e tutto proseguiva bene: sembrava che il convoglio non si fosse accorto di nulla. Poi, subitamente, alcuni razzi ruppero il buio e noi scorgemmo segnalazioni ottiche partire da terra. Dal convoglio si rispose: sentivamo che la nostra fuga era stata scoperta e ci attendevamo la reazione.
Infatti, subito dopo il fascio di luce di un riflettore ci inquadrò in pieno. Al di sopra del rumore del vento e del mare udimmo le scariche delle grosse mitragliere. Il cielo sembrava essere fantasticamente illuminato da una festa di fuochi artificiali: ma noi sapevamo di essere fuori tiro e si teneva la nave contro il vento diritti verso la meta. Sapevamo che le moto tedesche non avrebbero potuto, col mare grosso, mantenere la nostra velocità e sapevamo di aver ormai vinto la partita.
Stavamo accostando per rettificare la rotta, quando dal porto tuonò il cannone. I primi colpi passarono su di noi, fischiando; l'ultimo scoppiò al di sopra del ponte crivellandolo di scheggie. Poi la lotta ebbe termine.
Ventisei ore dopo, con una traversata tremenda, raggiungevamo il porto di Livorno: portavamo in salvo i tre patrioti e il nostro carico e ci ponevamo al servizio degli alleati».
Naturalmente i miei due valorosi collaboratori dimenticarono di aggiungere che entrambi furono feriti dallo scoppio dell'ultimo proiettile, e che, malgrado le sofferenze, essi restarono al loro posto ventisei terribili ore, finché la  nave non fu in acque amiche.
La loro impresa fu una delle più audaci di tutta la nostra guerra e merita di essere ricordata ad onorare gli uomini del mare d'Italia i quali non furono secondi ad alcuno nella lotta per il riscatto nazionale.
Mario Mascia, L'Epopea dell'Esercito Scalzo, Edizioni ALIS, Sanremo, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia 
 
Sanremo (IM): molo lungo del porto vecchio

Carlo Unger di Löwenberg, trentottenne lucchese di nascita a dispetto del patronimico tutto teutonico, e il suo vice Silvio Fellner, triestino cinquantatreenne, erano stati giustiziati alle una del mattino di sabato 19 agosto 1944 con una scarica di machinen pistole nel cortile della stamperia del forte San Giorgio, sede genovese del Comando germanico della Kriegsmarine. Quivi era stata allestita in tutta fretta una corte marziale presieduta dal comandante Berlinghaus e composta da soli ufficiali tedeschi compreso il difensore d’ufficio. Prima dell’esecuzione ai due condannati era stata negata l’assistenza religiosa e, a Löwenberg, un ultimo incontro con i familiari, col pretesto che “non c’era tempo”. La motivazione della sentenza giunta sino a noi recita testualmente: “per alto tradimento in tempo di guerra e di fronte al nemico”. Formalmente venne imputato ai due alti ufficiali di aver ordinato, senza averne facoltà, il ripiegamento delle forze di mare distaccate nella Liguria di ponente traducibile, in pratica, nell’imputazione appunto di “alto tradimento”. Ma la realtà consacrata da una documentazione inoppugnabile non sembra poter accreditare tale impostazione accusatoria né riconoscere alla sentenza una corretta e convincente proporzionalità tra l’esiguità della presunta colpa e l’abnormità della pena comminata e subito eseguita. Infatti la prima si fonda esclusivamente sui telegrammi inviati dal comandante Löwenberg il 14 agosto 1944 alla stazione segnali di Bordighera, al posto radio di Arma di Taggia e agli uffici di porto di Sanremo e Imperia per disporre il ripiegamento su Genova del personale (peraltro non necessario alla difesa in quanto prevalentemente civile e difatti ritirato più tardi dalle stesse autorità germaniche), mentre la seconda è in aperto evidente contrasto con quanto disposto dall’articolo 5 del regolamento, sulla posizione del personale della Marina italiana che collabora con la Marina germanica, che imponeva dover essere i due ufficiali eventualmente giudicati da un tribunale italiano.
Vittorio Civitella *, Zolesio e l’opera di intelligence di Fellner e Unger di Löwenberg in Storia e Memoria, Ilsrec, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, anno XXV, n. 2/2016 - * Testo dell'intervento tenuto al convegno "Momenti e figure della Resistenza nel Tigullio. Una storia che non può essere travisata", organizzato dall’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (Chiavari, Civico auditorium San Francesco, 23 aprile 2016)

martedì 12 ottobre 2021

La donna vuole accompagnare il gruppo nell'azione contro i tedeschi

Baiardo (IM)

La mattina del 14 agosto 1944 il distaccamento di Candido Queirolo (Marco) si era da poco accampato nei pressi di “Berzi”, frazione di Baiardo (IM), per essere più vicino ad Apricale dove era di stanza un reparto tedesco. All’accampamento giunse trafelato Luigi Laura (Miccia), che si era trattenuto a Baiardo per rifornimenti avvisando i compagni che quattordici tedeschi, provenienti da Apricale, si erano recati in paese. Candido Queirolo decise di partire per attaccarli. Scelse una decina di partigiani. Facevano parte del gruppo: Gino Amici (Alfredo), Alfredo Blengino (Spartaco), Giuseppe Gaminera (Garibaldi), Luigi Laura (Miccia), Mario Laura (Picun), Albanese, Noce ed altri due. Giunti nel paese il gruppo si piazzò in via Roma in un luogo soprastante la strada Sanremo-Baiardo, nel punto dove è ora l'albergo Bellavista. Noce” e “Spartaco” si appostarono dietro un muretto con un mitragliatore, gli altri sopra il giardino della Villa Balestra. I tedeschi stavano pranzando all'albergo Miramonti: i partigiani attesero per verificarne il numero ed attaccarli all'improvviso. Da un uomo che transitava in bicicletta i partigiani vennero informati che i Tedeschi, usciti dall'albergo, si stavano avviando verso la mulattiera che conduce ad Apricale. Quando i partigiani giunsero all'altezza dell'asilo infantile si udirono raffiche di mitra. Nessuno venne colpito e risposero al fuoco; i tedeschi tornarono indietro imboccando via Podestà e quindi si piazzarono dietro la chiesa di San Giovanni, all'inizio della mulattiera per Castelvittorio. Queirolo che si era appostato verso la mulattiera che conduce ad Apricale, rendendosi conto che i tedeschi erano indietreggiati, ritornò anch’esso sui propri passi insieme agli uomini che erano con lui e appena giunto in prossimità della chiesa venne colpito da una raffica. Ferito, si accasciò a terra. Gino Amici (Alfredo) e Alfredo Blengino (Spartaco), pure colpiti, morirono all’istante. Mario Laura (Picun) fu ferito alle gambe, ma continuò a sparare e gli altri uomini, coperti dal fuoco di Picun, cercarono di avvicinarsi ai compagni feriti per soccorrerli. “Marco” aveva una coscia sfracellata e una ferita alla spalla. Dopo le prime cure praticategli dal dott. Carlo Bissolotti, venne portato in un capanno nei pressi di Baiardo, dove poco dopo morì. L’episodio è raccontato da Giuseppe Gaminera (Garibaldi) anch’egli protagonista dei fatti che portarono alla scomparsa di Queirolo, Blengino e Amici.
Tra le numerose azioni belliche portate a compimento con successo da Candido Queirolo e dai suoi uomini, si ricordano in particolare il disarmo dei repubblichini di stanza a Briga Marittima e la presa della postazione nazifascista di Santa Brigida. Nel giugno del 1944 Queirolo fu tra i comandanti che guidarono i garibaldini nello scontro di Carpenosa. I suoi uomini sotto il suo comando parteciparono alla presa di Molini di Triora e di Triora, agli attacchi alle postazioni nemiche di Valgavano ed alla resistenza, ai primi di luglio, contro forti reparti tedeschi a Carmo Langan. Anche Alfredo Blengino fu uomo di punta della Brigata, un uomo di esperienza che aveva precedentemente comandato il distaccamento di Bajardo e impegnato a più riprese il nemico.  
Giorgio Caudano Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020

[ Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021; La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944) (a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]

Il garibaldino Giuseppe Gaminera (Garibaldi) di Baiardo racconta:
"Ci eravamo accampati nei pressi di Berzi, frazione di Baiardo per essere più vicini ad Apricale dove erano di stanza circa cento Tedeschi. Poco dopo il nostro arrivo nel luogo che diventerà sede del nostro distaccamento, giunge trafelato Luigi Laura (Miccia), che si era trattenuto a Baiardo per rifornimenti, avvisandoci che quattordici Tedeschi, provenienti da Apricale, si erano recati in paese.
Candido Queirolo (Marco) decide di partire per attaccarli. Sceglie una decina di partigiani ed io sono tra questi.
Nel distaccamento c'è Olga, una ragazza slava, che avevo trovato in giro alcuni mesi prima quando, avendo perduto i contatti con «Vittò» a causa di uno sbandamento, mi ero aggregato alla formazione di Marco. Olga canta canzoni, sia in italiano che nella sua lingua; è sempre al fianco di «Marco». La donna vuole accompagnare il gruppo nell'azione contro i Tedeschi, ma Candido Queirolo non le permette di seguirci: insiste ripetutamente, ed all'ennesimo rifiuto si getta a terra piangendo.
Partiamo. Sono pratico dei luoghi e conosco tutti i sentieri, procedo in testa al gruppo assieme a «Marco».
[...] Sono orgoglioso e felice per l'incarico che mi è stato affidato essendo io il più giovane del gruppo.
Candido Queirolo si dirige verso via XX Settembre, nel punto dove inizia il bivio per Apricale. «Marco» pensa che se i Tedeschi, dopo il pranzo, non hanno proseguito il cammino verso il luogo dove i partigiani si erano appostati presumibilmente intendono ritornare ad Apricale passando per la mulattiera. Perciò «Marco» si reca colà con gli uomini migliori per sferrare un attacco efficace.
Giunti all'altezza dell'asilo infantile, nel luogo dove tempo addietro i partigiani avevano bruciato le baracche tedesche, si odono raffiche di mitra. Fortunatamente nessuno di noi viene colpito. Rispondiamo al fuoco ed i Tedeschi tornano indietro imboccando via Podestà, e quindi si piazzano dietro la chiesa San Giovanni, all'inizio della mulattiera per Castelvittorio. Noi li inseguiamo, ma non riusciamo a raggiungerli.
Intanto, «Marco», visto che il nemico non si era diretto ad Apricale ed avendo udito le raffiche delle armi automatiche, accorre immediatamente verso la sopracitata chiesa. Effettuando un percorso di una ventina di minuti egli potrebbe arrivare sul luogo senza uscire allo scoperto. Invece, appena giuntovi è colpito da una lunga raffica. Ferito, si accascia a terra.
Amici Gino (Alfredo) e Alfredo Blengino (Spartaco), pure colpiti, muoiono istantaneamente. Mario Laura (Picun) è ferito alle gambe, ma continua a sparare cercando con gli altri di avvicinarsi ai compagni feriti per soccorrerli.
«Marco» ha una coscia sfracellata ed una ferita alla spalla. Dopo le prime cure praticategli dal dottor Carlo Bissolotti, lo portiamo in un capanno nei pressi di Baiardo, dove poco dopo muore.
Olga giunge sul luogo e si mette ad urlare come impazzita; estrae la pistola per uccidermi, poiché mi accusa di essere stato la causa della morte del Commissario. Gli altri partigiani presenti spiegano alla donna quanto si è verificato, assicurandole l'assoluta mancanza di mie responsabilità.
Dopo questo fatto non vedrò più Olga. Ma, nel successivo inverno otto partigiani verranno sorpresi nel sonno ed uccisi nei pressi di Vignai Argallo. Olga, nella triste occasione, si trovava proprio in quella zona: sospettata e pedinata, venne appurato che era una spia dei Tedeschi e fu condannata e giustiziata...".
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992