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giovedì 7 marzo 2024

Dopo circa 5 ore di attesa venne avvistato un camion pieno di soldati tedeschi e fascisti

Uno scorcio di Castelvecchio di Imperia

[Durante la battaglia di Carpenosa del 30 giugno 1944] iniziò una serie di attacchi [nemici] più volte respinti e rinnovati che portarono gli uomini [32 garibaldini del 4° distaccamento] di Gino [Napolitano] ad esaurire in breve tempo le munizioni.
Per loro fortuna le sorti del combattimento furono modificate proprio quando sembravano decise a favore del nemico - dalle mitragliatrici pesanti e dal mortaio da 81 tempestivamente impiegati dagli uomini del 5° distaccamento guidato da Ivano [Giuseppe Vittorio Guglielmo] e da Erven [Bruno Luppi] che - avvertiti da una staffetta inviata a Cima Marta all'inizio degli scontri - giunsero alle 18 sorprendendo i tedeschi e costringendoli a ritirarsi.
Inseguiti dal reparto di Nettu [Ernesto Corradi] -  unitosi nel frattempo alla lotta - i tedeschi riuscirono a risalire sugli automezzi dopo aver fatto saltare un tratto di strada alle loro spalle: entrati in Carpenosa verso le 21 i partigiani calcolarono le perdite nemiche in circa 80 tra morti e feriti, su 600 attaccanti.
I positivi risultati ottenuti anche in questi scontri frontali non modificarono tuttavia la linea generale dell'offensiva partigiana che giustamente continuò a considerare come elemento principale della propria condotta di guerra l'azione di sorpresa, effettuata da piccoli nuclei ben armati in grado di spingersi all'interno dello schieramento nemico e di disimpegnarsi rapidamente dopo aver colpito gli obbiettivi.
Un esempio classico di questa tattica (comune a tutte le formazioni liguri) ci viene offerto dalla imboscata tesa il 28 giugno sulla statale 28 - a 3 Km. dal mare - da una squadra di 5 uomini del 10° distaccamento, comandati da Folgore [Umberto Cremonini] e da Nando [Fernando Bergonzo].
L'obbiettivo era stato segnalato da informatori di fondovalle i quali avevano recato a1 distaccamento la notizia che ogni giorno il generale tedesco comandante delle forze di presidio nella zona percorreva in auto la 28 per ispezionare i reparti dislocati nella vallata.
L'appostamento venne fissato in prossimità di Sgureo [Sgorreto], tra Castelvecchio e Pontedassio, su una ripida parete a strapiombo sulla strada; la marcia di avvicinamento - effettuata con molta circospezione - consentì di eludere i presidi ed i blocchi nemici che si frapponevano all'obbiettivo. Sul posto, gli uomini vennero disposti in punti ben occultati da cui fosse facile attendere senza scoprirsi e dominare un lungo tratto della carrozzabile.
Dopo circa 5 ore di attesa venne avvistato un camion pieno di soldati tedeschi e fascisti, che non ubbidendo all'intimazione dei partigiani tentò di accelerare l'andatura per portarsi fuori tiro: un nutrito lancio di bombe a mano lo centrò in pieno provocandone l'arresto e colpendo numerosi soldati nemici.
Gli uomini di Nando e Folgore ebbero appena il tempo di scendere la ripida scarpata per impadronirsi delle armi automatiche nemiche e sparare su alcuni fuggiaschi, quando sopravvenne l'automezzo del generale costringendoli a risalire rapidamente il pendio.
Per vendicare la morte di 7 soldati germanici caduti in quella azione l'alto ufficiale dispose subiro la mobilitazione di una colonna con autoblinde e mortai che invano aprì il fuoco contro la squadra partigiana in ritirata.
La rappresaglia infierì allora contro il paese di cui vennero incendiate le case e prelevati 20 ostaggi tra la popolazione. <21
A fine giugno - malgrado l'intensificarsi delle puntate offensive germaniche e fasciste - la pressione partigiana era diventata notevole: la IX Brigata occupava Triora, Molini di Triora e Badalucco liberando una vasta zona della Valle Argentina da cui i nemici si erano ritirati dopo aver fatto saltare due ponti presso Taggia e distrutto la Chiesa degli Angeli in Badalucco già adibita a deposito di armi e munizioni.
21 Unico aspetto negativo di questa operazione: la scelta della località per l'imboscata; i partigiani ignorarono - o non ne tennero conto - le precise direttive del Comando Generale: «si devono evitare i combattimenti e le imboscate nei villaggi per evitare nei limiti del possibile le rappresalie» (testuale, orig. dep.).
Giorgio Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria - Volume II, Istituto Storico della Resistenza in Liguria, 1969, pp. 255,256

mercoledì 30 giugno 2021

Il parroco porta le lettere al capitano Cristin

Molini di Triora (IM) - Fonte: Comune di Molini di Triora

Ricavo i dati da miei appunti del tempo e da una relazione del parroco di Molini di Triora (IM), in Valle Argentina, di cui segno tra virgolette le parole.
"Quando si ebbero i primi scontri armati tra le truppe nazifasciste e le bande partigiane a Carmo Langan, a Badalucco, a Carpenosa, a Santa Brigida, Molini fu subito sospettato dai tedeschi come centro di bande e ciò creò in essi quello stato d’animo di avversione verso i suoi abitanti".
Il martirio di Molini iniziò il 3 luglio 1944. Colonne di tedeschi puntavano sul paese da ogni parte. Presa dal panico, la popolazione, quasi in massa, abbandonò l’abitato e si diresse verso Corte o giù nei fondovalle. Ovunque i tedeschi passavano, sparavano a scopo intimidatorio o per paura.
"Fu durante questa sparatoria iniziale che caddero le prime vittime. Maiano Antonio, padre di famiglia, raggiunto dalla mitraglia in località Euscio. Fu ferito al ventre per il che si trascinò faticosamente, aiutato da Capponi detto Tulalua, fino a casa ove spirò la mattina seguente; Basso Pietro, vecchio di 78 anni e a fianco veniva atterrato Bronda Pietro di Triora, 53 enne. Sulla strada di Perallo cadeva Moraldo Giacomo ed il 73 enne Arnaldi Francesco".
Il parroco ed il Commissario Prefettizio tentarono di parlamentare con il comando tedesco senza alcun risultato.
"Agli spari si aggiunse il saccheggio. Penetrati nelle case i nazifascisti prescelsero gli oggetti di valore, vestiti, capi di biancheria; rinchiusero il tutto in valigie, in sacchi, in ceste, e I’asportarono. Nelle case bivaccarono, ruppero oggetti, insudiciarono. Urla e canti di ubriachi si alternarono tutta la notte con violente quanto inutili raffiche di mitragliatrice".
La casa Campoverde, in Via San Bernardo, dopo uno scoppio cominciò a bruciare. La scusa fu che vi si erano trovate armi.
"Fattosi giorno, la soldataglia usciva dalle case ed invadeva tutte le strade, convertendo la pirateria in un vero carnasciale stomachevole: ubriachi fradici, indossando vesti femminili, cantando sguaiatamente e continuando a tracannare vino, i soldati si spargevano un po’ dovunque, pronti ai richiami che indicassero case di maggior bottino. I capi facevano comunella con la truppa e lo stesso capitano comandante non rimaneva indietro nell’opera dei gregari".
Il parroco, che troppo si interessava alla sorte dei suoi parrocchiani, fu rinchiuso in casa sua e guardato a vista.
"Il 5 luglio si iniziò con l’incendio della casa Caldani in località Gianchette. La motivazione era che vi avevano trovato armi".
I nazifascisti si consideravano “Padroni” ed il saccheggio veniva chiamato “Premio di guerra”. In mattinata fu ritrovato il corpo di Allaria G. B. Secondo, ucciso probabilmente la sera del 4 e buttato sotto strada vicino al fossato in località Fontanelle.
"Alcuni reparti, il giorno 5 luglio 1944, si accingevano a partire. Una trentina di camion, stracarichi di masserizie, biancheria, vestiti, asportati dalle case… Purtroppo però la tragedia non era finita. La truppa ladra aveva lasciato dietro di sé il reparto guastatori e questi si erano messi subito alla loro triste opera".
Il  parroco era andato a cercare i suoi parrocchiani nascosti. Quando giunsero. presso il paese sentirono scoppi in ogni casa. Nello spazio di un’ora il paese era tutto un rogo immane.
Il giorno 6 luglio i più ardimentosi cercarono di estinguere i fuochi e salvare il salvabile.
Nel loro ritirarsi i nazisti avevano fatto un’altra vittima: Allaria G. B., novantenne, trovato sepolto sotto le macerie della propria casa.
Durante questo rastrellamento fu compiuto dai nazisti uno degli episodi più esecrandi di criminalità.
Catturarono qua e là nove persone provenienti da Gavano. Due da Sanremo, nativi di Corte, ed uno di Badalucco. Tra esse una giovinetta di 16 anni. Rinchiusi in una stalla-scantinato, torturati, furono inzuppati di liquido infiammabile e bruciati. Dopo la loro morte fu fatta crollare su di esse, mediante tritolo, la casa. Le vittime furono scoperte quando i loro corpi ormai in putrefazione, segnalarono la loro presenza.
I loro nomi sono:
Allaria Olivieri G.B. di Gavano
Faraldi Enrico di Gavano
Faraldi Livio Antonio di Gavano
Moraldo Vincenzo di Gavano
Allaria Olivieri Gerolamo di Gavano
Aliaria Olivieri Giuseppe di Ant. di Gavano
Allaria Olivieri Giacomo di Gavano
Allaria Olivieri Giuseppe fu Antonio di Gavano
Moraldo Maria Caterina di Gavano
Anfossi Virgilio di Sanremo
Pastorelli Domenico di Corte
Donzella Angelo di Corte
Boeri Antonio di Badalucco.
don Ermando Micheletto, La V^ Brigata d’Assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni” (Dal Diario di “Domino nero”  Ermando Micheletto), Edizioni Micheletto, Taggia (IM), 1975 

Molini di Triora, poco distante dal confine francese, era importante per i nazifascisti per la sua posizione strategica e l'aiuto elargito ai partigiani. Per tutti questi motivi, in occasione di un forte rastrellamento organizzato dai Tedeschi ai primi di luglio del 1944 per annientare le forze partigiane della provincia di Imperia, Molini di Triora era incluso nell'elenco dei paesi da punire e terrorizzare.
Il 3 luglio 1944 intorno a mezzogiorno si sparge la voce dell'imminente arrivo di truppe tedesche e la popolazione impaurita abbandona il paese, fuggendo precipitosamente. Gli abitanti si sparpagliano nelle zone limitrofe all'abitato, mentre il nemico investe il paese con due colonne convergenti da due direzioni (una scendendo dal Pizzo attraversando la frazione di Andagna e l'altra partita da Carmo Langan).
Verso le 17.30 le due colonne stringono il paese in una morsa. Cadono le prime vittime (Maiano, Basso, Bronda, Moraldo Giacomo).
Il parroco Don Ferdinando Novella e il Commissario prefettizio Carlo Viale cercano, a loro rischio, di trattare con il Comandante tedesco per indurlo alla clemenza sottolineando che non sono presenti formazioni partigiane e la popolazione è costituita da soli pacifici agricoltori. Malgrado le assicurazioni dell'ufficiale la sparatoria non cessa, anzi aumenta di intensità.
Occupato Molini di Triora, iniziano i saccheggi, le ruberie, le distruzioni e le gozzoviglie.
Il 4 luglio 1944 il parroco, dopo aver ottenuto il permesso dal comandante tedesco di uscire dall'abitato per andare a dar conforto agli abitanti fuggiti, per tre volte viene sempre bloccato dalle sentinelle.
Don Novella passando per il paese osserva inorridito gli effetti del saccheggio effettuato il giorno prima che non è ancora cessato, anzi inizia la distruzione e l'incendio di numerose case con la scusa di ritrovamento di armi da guerra da parte dei tedeschi.
Gravissimo il fatto avvenuto presso la Casa Campoverde in via San Bernardo (attualmente Via Nuova) - dal racconto del parroco Don Novella -: risulta che i nazifascisti avevano rastrellato dalle frazioni limitrofe 13 persone quasi tutti padri di famiglia, apolitici, laboriosi, tra i quali una ragazza di 16 anni (Moraldo Maria Caterina) rastrellata mentre portava le mucche al pascolo. Gli ostaggi furono rinchiusi in uno scantinato usato come stalla e dopo immancabili vessazioni si ipotizza che, dopo essere stati inzuppati di liquido infiammabile, furono bruciati vivi e quindi per occultare l'orribile delitto fu fatta crollare su di essi, con il tritolo, la casa. Furono ritrovati dopo quindici giorni dagli abitanti e dai parenti attirati dall'odore di cadaveri in decomposizione. Le salme furono sepolte nel Camposanto del paese.
Il 6 luglio 1944: non s'odono più scoppi e si placano gli incendi. La gente scende dalle alture e s'avvicina al paese. Molini di Triora si presenta in tutta la sua disperata desolazione: 104 case su 150 sono sinistrate ed interi gruppi di abitazioni sono crollati in blocco. La casa canonica è bruciata e con esso il suo archivio parrocchiale, il municipio è crollato sotto l'opera del tritolo, l'archivio municipale bruciato, distrutti l'oleificio, il mulino,l'ufficio postale, i due alberghi e la rimessa automobilistica Lantrua.
In questi orrendi primi giorni di luglio, gli altri piccoli centri non vivono molto più tranquilli del martoriato paese di Molini di Triora. Brucia Bregalla, spari su Andagna, su Creppo, alla Goletta, invasi Loreto, Corte, Cetta.
Ferro e fuoco anche nel Comune di Triora e le sue frazioni (2-5 luglio 1944). Reseconto finale dell'incendio: distrutte o rese inabitabili una settantina di case; cinquantadue famiglie restano senza tetto in un paese come Triora già spopolato dall'esodo. Alcune si sistemano presso i parenti; altre, che non possiedono nulla a Triora, s'allontanano per sempre.
Da “Storia della Resistenza imperiese” vol. II di Carlo Rubaudo (da pag. 177 a pag. 184 e pag. 193) e da “Il Martirio di Molini di Triora (3 luglio 1944 - 25 aprile 1945)” di Mons. Cav. Ferdinando Novella
Redazione, Episodio di Molini di Triora, 01-05.07.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia 
 
La popolazione di Molini fu aiutata dai paesi vicini con invio di viveri e vestiario. In settembre 1944 la calma ritorna perché un presidio partigiano veglia sul paese e sulla Alta Valle Argentina. Quando però i partigiani si devono ritirare in Piemonte, le truppe nazifasciste si insediano in paese.
"In novembre la permanenza dei reparti fascisti si fa quasi ininterrotta. Essi si insediano nelle poche case disponibili, facendone sloggiare i paesani: si fanno consegnare letti, materassi, stoviglie e viveri. … obbligano gli uomini a lavori pesanti… organizzano balli, obbligando, a mano armata, le fanciulle del paese ad intervenirvi ed inscenano il 2 novembre, giorno dedicato al ricardo dei morti, un vero carnasciale con schiamazzi, spari, ubriacature, a beffa degli affamati e terrorizzati abitanti".
Il prelievo di ostaggi è continuo e vessatorio. [...] Verso la metà di dicembre 1944 i nazisti vengono sostituiti da Granatieri Repubblichini, comandati dal capitano Cristin che colloca il suo comando in casa Daneri.
È lui, il presuntuoso, che la vigilia di Natale manda la circolare ai parroci, esigendo la lettura in chiesa, come è citato da me in un’altra parte. Ma fu anche autore di atti veramente criminali.
Tre giovani rastrellati dagli Alpini, i quali, incuranti della guarnigione di Molini [Molini di Triora (IM)], agivano per proprio conto, furono condannati a morte dal Cristin. La scena dell’esecuzione con i suoi preparativi crudeli e disumani fu vista da una buona parte della popolazione. […] "Allora il parroco si presenta al Cristin per chiedere la commutazione della pena, essendo i tre a lui noti come persone per bene. Il capitano risponde che ciò è impossibile e se vuole fare qualche cosa per essi può solamente annunziare ai condannati la sentenza irrevocabile e prepararli alla morte. Quantunque non ci sia nulla da sperare, il sacerdote tenta una seconda volta ed una terza, ma il capitano Cristin gli fa dire che attenda al suo ufficio di parroco e basta. I giovani accolgono la sentenza con pianti, si abbracciano tra di loro, protestano la loro innocenza, esibiscono la loro giovane età. Ma, confortati dal sacerdote, a poco a poco si calmano e si preparono da forti alla tragica fine. Si confessano, ricevono l’Eucarestia, quindi scrivono una lettera alle proprie famiglie. In esse, ognuno, per conto proprio, indipendentemente l’uno dall’altro, scrivono di andare verso la morte innocenti. Consegnano i documenti personali al parroco perchè li rimetta ai rispettivi parenti. Benché veda la situazione assolutamente disperata, il parroco porta le lettere al capitano Cristin e fa a lui notare la frase comune a tutti e tre “vado alla morte innocente”. Nel leggerla, il giustiziere sosta alquanto, poi, restituite le lettere dice di consegnarle ai rispettivi famigliari. Al parroco non rimane che accompagnare i tre giovani al luogo dell’esecuzione. D’altronde erano gli stessi a pregarlo di volerli assistere: “Venga almeno lei con noi”. Sono legate le loro mani, col filo di ferro, sul dorso e incolonnati tra due file di Cacciatori, quelli stessi che avevano eseguito il rastrellamento, il tragico corteo attraversa il paese per la via Grance e si porta nei pressi del cimitero in una fascia di proprietà di Adelina Sasso. Qui giunti sono disposti con la faccia rivolta verso il mare, prima però di alliniarsi, salutano ancora una volta il parroco. Un cacciatore interviene, li stacca dal parroco e li distanzia uno dall’altro, dieci centimetri circa. Quindi, dato da un sottotenente dei cacciatori l’ordine dell’esecuzione, una raffica di mitraglia li abbatte tutti e tre. Gli spari echeggiano giù fino al paese e si propagano lugubremente per tutta la valle. In ogni casa la gente, che era in attesa degli spari, rompe in singhiozzi. Le salme raccolte, dietro istanza del parroco, sono collocate in apposite casse e, poiché i caduti avevano espresso il desiderio di essere tumulati nel camposanto del proprio paese, ciò viene eseguito". Da una testimonianza di Don Ferdinando Novella, arciprete della Parrocchia di San Lorenzo Martire in Molini di Triora [ndr: dopo la pubblicazione di Don Micheletto, Op. cit. venne edito Cav. Ferdinando Novella, Il martirio di Molini Triora (3.07.44 - 25.4.1945), Comune di Molini di Triora, 2004]. Era il 16 gennaio 1945. Erano: Alberti Antonio, Verrando Domenico Quinto, Bova Giovanni, tutt’e tre di Agaggio Superiore. “Alcuni giorni dopo la suddetta esecuzione, il comandante Cristin, sfacciatamente, affiggeva un manifesto per il reclutamento dei giovani appartenenti alle classi dal 1914 al 1926, residenti a Molini di Triora. Redatto in forma altisonante e minacciosa, il manifesto ricordava i tre morti e terminava con le parole: Non avrete più pace”. Gli successe il ten. Renzo Barbieri delle Guardie Repubblichine, dominato da una paura indicibile."Fece costruire trincee stendere reticolati, alzare palizzate un po' ovunque, riducendo Molini una gabbia per le estese, quanto ridicole fortificazioni".  Il 17 febbraio 1945 per l’azione partigiana contro i guardiafili, in cui furono presi 10 repubblichini e tre tedeschi, furono rastrellati 20 ostaggi. ll comando tedesco ordinò il raduno dei parroci del Vicariato annunciando: se i tre tedeschi catturati non fossero stati restituiti, il comando si sarebbe sentito obbligato a far fucilare 14 banditi.  
Don Micheletto, Op. cit.

Barbieri Renzo nato a Golese (Pr) il 22 maggio 1916, Tenente e comandante di compagnia nel Raggruppamento Cacciatori degli Appennini
Interrogatorio del 4.9.1945: L’8 settembre mi trovavo quale S. Tenente di complemento nell’isola di Corfù presso il 41° Reggimento di Fanteria [...]
Verso la fine di novembre sono rientrato con la mia compagnia a Ceva ove sono rimasto sino ai primi di gennaio epoca in cui tutto il battaglione fu trasferito in Liguria ed io assegnato con la mia compagnia a Borgomaro, dove venne istituito un presidio da me comandato. Dopo circa dieci giorni di permanenza a Borgomaro sono passato con la mia compagnia a Molini di Triora. Effettivamente il Reggimento Cacciatori degli Appennini aveva il compito di effettuare rastrellamenti ma io non vi presi parte perché la mia compagnia aveva compiti di servizi interni. Alle mie dipendenze a Borgomaro avevo il Sottotenente Sacchetti, fervente fascista ed accanito antipartigiano il quale, di sua iniziativa, raccoglieva notizie ed effettuava fermi. Egli da solo si era arrogato il compito di certe operazioni di polizia né io potevo impedirglielo poiché il predetto era appoggiato dai comandi superiori. Una notte siamo partiti da Molini di Triora con l’intenzione di renderci conto della sicurezza del nostro presidio in relazione alla presenza di eventuali bande nei dintorni. A tale scopo pensammo di camuffarci da partigiani per attingere notizie. Faceva parte della spedizione anche il Sottotenente medico Corretti Francesco, accanito antipartigiani. Giunti in località S. Faustino, notammo una casa isolata e bussammo.
Ci trovammo in presenza di un signore che dichiarava essere un generale a riposo e di chiamarsi Mario Ferraroli. Il sottotenente medico Corretti gli disse che eravamo partigiani e gli chiese notizie su eventuali bande presenti in zona alle quali volevamo aggregarci. Il generale immediatamente spifferò che era sempre stato antifascista e genericamente disse che verso un determinato versante della montagna agiva una banda partigiana. Non avendo ottenuto altre informazioni ci allontanammo ma lungo la strada il Sottotenente Corretti mi fece osservare che bisognava provvedere al fermo del Ferraroli che si era dichiarato antifascista. Ritenni opportuno seguire il suo consiglio per evitare critiche al mio riguardo e mandai due militi a fermare il predetto generale. Il predetto venne trattenuto per due giorni in mia presenza da un tenente ed un maresciallo tedeschi e poi rilasciato. Ricordo che nell’aprile us, il Tenente Lazzari, alle mie dipendenze, si recò nella zona di Verdeggia per praticare accertamenti relativi al prelevamento di una pattuglia di militi. Il Lazzari ritornò portando circa dieci giovani che rastrellò nella zona ed accompagnò inoltre una certa Lanteri Maria e la figlia di lei, Rosa, perché il rispettivo marito e padre era stato indicato come partigiano. La Lanteri fu effettivamente interrogata in mia presenza dal tenente tedesco e dal Tenente Lazzari e fu picchiata con un frustino e minacciata con una pistola ma nego di averla io stesso minacciata o di averla malmenata. La Lanteri Maria fu poi rimessa in libertà mentre la di lei figlia Rosa fu trattenuta a lavorare presso il nostro presidio. Sono estraneo all’eccidio consumato dai tedeschi di cinque partigiani in Carpenosa. Escludo che miei uomini abbiano partecipato alla cattura ed all’uccisione dei cinque.
Nego di aver dato fra il 7 ed il 9 aprile us, ordini ad alcuni miei militi, mentre sostavo sulla piazza di Molini, di recarsi a prendere quattro individui a Carmo Langan e di metterli al muro. Non sono mai stato iscritto al PFR né al PNF.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 

Il 3 marzo 1945 a Grattino, frazione di Molini di Triora, minuscolo borgo della Valle Argentina, furono catturati, perché in possesso di armi, Quinto Verrando e Livio Maggi. I due partigiani furono rinchiusi a Molini di Triora in un scantinato, insieme al parroco di Molini Don Rodini e al ragioniere Zappa, accusato di risorse economiche alle bande che però viene presto liberato. I due partigiani vennero presumibilmente torturati. Dopo otto giorni i due giovani con le mani legate sul dorso furono condotti ad Agaggio Superiore, dove i Tedeschi pensavano fossero i partigiani, perché ne indicassero l'ubicazione precisa. Rifiutatisi di parlare, giunti in Pian Carré furono freddamente giustiziati con un colpo di pistola alla nuca.
Verrando morirà subito, mentre Maggi verrà lasciato agonizzante sul terreno. Soccorso da alcuni contadini, morirà dopo due settimane.  Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I caduti della Lotta di Liberazione. I^ Zona Liguria, ed. in pr., 2020

[n.d.r.: altri lavori di Giorgio Caudano: Giorgio Caudano, L'immagine ritrovata. Ventimiglia e dintorni nei dipinti dell'Ottocento e primo Novecento, Alzani Editore, 2021;  La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944) (a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone), Comune di Pigna,  IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, ed. in pr., 2016  ]

Nel mese di marzo gli ostaggi di turno subivano torture negli scantinati di casa Daneri e di casa Fognini.
Il 10 marzo 1945 il parroco veniva arrestato perché era salito sul campanile “per dar la corda all’orologio”,  scusa per fare segnalazioni ai banditi. Inoltre il diverso colore dei paramenti della messa, cambiato ogni giorno, era un messaggio ai partigiani. Venne rinchiuso nella cantina di casa sua. Fu liberato dopo molti giorni. Nella stessa prigione vennero rinchiusi due giovani partigiani: Verando Quinto di Agaggio e Maggi Lino di Genova, fucilati poi l’11 marzo presso Agaggio Superiore.
Il 18 marzo una ventina di ostaggi, prelevati dallo scantinato di casa Fognini, vennero condotti verso Taggia. Dodici venivano poi liberati e 6 fucilati o meglio mitragliati in una grotta sotto Carpenosa. Questi ultimi erano:
Lanteri Pierino di Verdeggia
Lombardo Calogero di Ravanusa (Sicilia)
Oliva Giovanni di Badalucco
Gamboni Pietro di Montello (Avellino)
Verrando Vincenzo di Agaggio
Cassini Vincenzo di Apricale
Il Verrando era il terzo morto della famiglia per cause belliche.
"Il Cassini era un vecchio cadente di oltre 72 anni dalla lunga barba bianca, mostrava numerose e profonde cicatrici dovute a sevizie e a torture. Fu accusato di rifornire olio alle bande partigiane. Niente di vero".
Il 14 aprile 1945 vengono rastrellati cinque uomini e mandati ai Ponti di Nava per lavori.
Il 19 aprile, dopo lo scoppio delle rocche di Drego, quasi tutti gli uomini validi vengono costretti, spinti come bestiame da lavoro, fin nei pressi di Drego per ripararvi una strada fatta saltare da bande partigiane.
Gli ultimi due giorni, il 24 e il 25 aprile 1945, sono giorni di inferno. La soldataglia, in ritirata, entra nottetempo nelle case; obbliga ammalati e poveri vecchi a cedere il letto; vi consuma pasti e porta via il rubabile.”
"Improvvisamente il presidio locale dei repubblichini, la sera del 25, lascia il paese. La poco gloriosa truppa, fedele e coerente fino all’ultimo all’insegna del ladro, cerca di improvvisare un mercato di tutta la mercanzia rubata; ma non trovando avventori, ammucchia il tutto e la da alle fiamme. Appiccano il fuoco anche ai rimanenti stabili delle caserme ancora intatti".
Ognuno lascia l’orma del suo operato. I nazifascisti lasciarono impronte infamanti, che non si cancelleranno più nel tempo e verranno perpetuate nella memoria storica.
Don Micheletto, Op. cit.

[...] Il giorno 18 marzo 1945, dalla prigione di casa Fognini strapiena di innocenti detenuti sul far della sera vengono fatti uscire una decina di giovani legati, al solito, con le mani sul dorso e incolonnati tra due file di tedeschi e vengono diretti, lungo la strada provinciale, verso Taggia.
Guai ai paesani che facessero solo cenno di riconoscerli e tanto peggio se osassero indirizzare una parola agli stessi! Il fucile sarebbe stato sempre pronto con lo sparo! Lungo la strada però uno o due dei prigionieri furono rilasciati. Quando il gruppo fu nei pressi della frazione Glori, si fece una seconda scelta, sicché non rimasero che sei. Questi, legati l'uno all'altro furono sospinti, nei pressi , alla imboccatura di una caverna. Venne piazzata una mitragliatrice e senza alcuna formalità falciati. Da lontano i pochi abitanti di Carpenosa (Molini di Triora) potettero assistere all'eccidio. Nei giorni appresso si poté avvicinare i corpi delle vittime e procedere al loro riconoscimento.
Econe il triste elenco:
Lanteri Pierino di Verdeggia (Triora)
Lombardo Calogero di Revenusa (Sicilia)
Oliva Giovanni di Badalucco
Gambone Pietro di Montello (Avellino)
Verrando Vincenzo di Agaggio (Molini di Triora)
Cassini Vincenzo di Apricale
Il Verrando, fratello di Quinto, era già stato fucilato il giorno 11 Marzo 1945; con i due fucilati i morti della loro famiglia raggiungevano la terna, poiché un terzo fratello era già morto soldato.
Il “Cassini” era un vecchio cadente, di oltre 72 anni dalla lunga bianca barba, mostrava numerose e profonde cicatrici dovute a sevizie e a torture. Fu accusato di rifornire olio alle bande Partigiane. Niente di vero.
Da “I Testimoni raccontano” a cura di Don Nino Allaria Olivieri (archivista Curia) pagg. 118 e 119 [...].
Roberto Moriani, Episodio di Carpenosa, Molini di Triora, 18.03.1945, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia 

lunedì 8 marzo 2021

La granata ha colpito il capannone

Carpenosa, Frazione di Molini di Triora (IM) - Fonte: Google

Carpenosa: gruppo di case sparse, adagiate sulla strada che da Badalucco e Montalto Ligure porta a Molini di Triora e Triora. Al suo fianco scorre l'Argentina, quel torrente che dà il nome alla vallata e che tanta parte ha avuto nel corso della lotta resistenziale.
La valle Argentina è la zona della V^ Brigata di «Vittò» [Ivano, Giuseppe Vittorio Guglielmo], una formazione ed un comandante dal prestigio indiscutibili; un binomio legato ad una corona di successi popolari, di sacrifici, di somma determinazione e di umanità senza limiti.
L'Argentina ha conosciuto dei giovani indimenticabili, parte dei quali passati come splendide meteore dopo avere esaurito, in qualche mese, tulle le energie vitali di un'esistenza. Ma, molti di essi, sono sopravvissuti ad un'epopea irripetibile, passati sull'orlo degli abissi mortali presso cui hanno vissuto sempre, fino a quel 25 aprile conquistato con una determinazione inarrestabile.
Carpenosa è un piccolo punto e pochi fumaioli, quasi nascosti e timidi. Ma intorno a quelle poche case, più di una volta si intrecciano e si alternano le raffiche delle schiere nemiche e gli attacchi partigiani che, partendo come aquile dai punti più alti di Langan, Cima Marta, Triora, ogni tanto lasciano il segno sulla postazione nazifascista. Oltre che dai distaccamenti 4° e 5°, il presidio è frequentemente molestato anche dalla formazione di Gino Napolitano (Gino) che conta una cinquantina di uomini. Verso la metà di giugno «Gino» è pronto per uno scontro più impor­tante del solito. La presa della casermetta di Carpenosa gli permetterà di dare un'adeguata sede al suo distaccamento. «Gino» già da tempo esercita pressione sulla guarnigione di Carpenosa, affinché si arrenda. Ma la trattativa diventa lunga, sicché, spazientito il Comandante partigiano manda l'ultimatum al presidio: «Arrendersi entro la domenica successiva. In caso contrario i garibaldini passeranno all'attacco».
Domenica, diciotto giugno 1944, giornata splendida: il distaccamento di «Gino», della IX^ Brigata, è sul campo per sostenere la prima prova veramente dura, dopo le precedenti azioni ed i colpi di mano di minore entità. Ore 11 e 30: ora è alto il sole della morente primavera. Trentadue partigiani partecipano all'azione e preparano l'attacco alla postazione tedesca di Carpenosa.
Ore 12, ecco la notizia: sale un camion pieno zeppo di nazisti accorrenti in aiuto del presidio. La tensione è al massimo ed i garibaldini fremono, piazzati sul costone di un'altura donde è agevole dominare la strada ed il nemico.
Ma il camion non è isolato: è il primo di un'intera colonna composta di sette camion gremiti di soldati. Inoltre, ci sono due autoblinde ed altre truppe armatissime, appoggiate dal tiro di un cannone da 75 mm.
È proprio giunto per il distaccamento di «Gino» il battesimo del fuoco.
Anche gli uomini di «Marco» [Candido Queirolo] partecipano all'attacco e si battono bene sul campo di battaglia.
I garibaldini si dispongono a difesa in ordine sparso dietro i cespugli, mentre la staffetta Aldo Barbieri si reca in motocicletta verso Carmo Langan per chiedere rinforzi al 5° distaccamento. Ma il comandante «Vittò» non è presente, essendo già partito in missione per Pigna e Passo Muratone. Non sono rimasti all'accampamento che un centinaio di uomini.
«Erven» [Bruno Luppi] non esita un istante ed assume il comando dei garibaldini presenti anche perché, da tempo, sta ascoltando i colpi delle armi da fuoco di cui non conosce la località di provenienza. Ora è avvisato ed è giunto il momento dell'azione.
A Langan è in dotazione un mortaio da 81 mm giunto dal Piemonte privo del congegno di puntamento e della piastra di basamento. Ciò, nei giorni precedenti, aveva costretto «Erven» a complicate manovre per rendere l'arma funzionante. La formazione è dotata pure di un mortaio da 45mm, due mitragliatrici pesanti e vari mitragliatori.
Tutte le armi ed un certo numero di garibaldini sono ora sul camion che «Vittò» aveva sottratto ai Tedeschi in Val Gavano il 9 di giugno. L'automezzo si avvia veloce verso il luogo dello scontro. Agli altri, «Erven» dà l'ordine di raggiungerlo a piedi, il più rapidamente possibile.
Nel frattempo, la posizione dei partigiani impegnati nella battaglia si aggrava.
Attesa: i nazisti avanzano, piazzano il cannone e le autoblinde. Iniziano il fuoco con fracasso enorme. Bombardano anche case e casoni, né risparmiano San Faustino.
Il silenzio secolare di quei luoghi è interrotto dallo schianto delle bombe che, come sempre, incute terrore e causa distruzione e morte, mentre l'eco lugubre rimbalza tra le valli.
Agostino Moraldo, meglio conosciuto come «Luigi» o «Petrin di Creppo», giace sul campo di battaglia, ferito gravemente al ventre da una scheggia di mortaio.
Trascorre lento il tempo: un po' di tregua, un po' di quella musica dei cannoni. I reparti tedeschi avanzano lentamente e giungono vicini: ora le armi automatiche partigiane sono efficaci. Fuoco nutrito ed i Tedeschi arretrano, per poi avvicinarsi ancora. I partigiani riaprono il fuoco, ed i Tedeschi arretrano nuovamente. Poi, come un'altalena, ancora per varie volte.
Nel campo garibaldino c'è entusiasmo e decisione anche se la superiorità numerica e di mezzi dei nazisti è notevole, aggirandosi approssimativamente sulle quattrocento unità.
Il pomeriggio è già inoltrato. Il tempo passa lento. Le munizioni incominciano a mancare. Le armi automatiche dei garibaldini ora tacciono. Solamente la mitragliatrice di Nuvoloni e dei suoi aiutanti risponde ancora al nemico come il canto dell'ultima cicala. Un'ultima raffica ferma alcuni nazisti. Poi tace.
Ad un certo momento gli uomini di «Marco» e di «Gino» si trovano semiaccerchiati dai Tedeschi, i quali attendono l'occasione per schiacciarli. Sui partigiani incombe il pericolo della strage e della morte.
All'improvviso si scorge, ancora molto lontana, una fila di uomini armati. Interminabili momenti di incertezza. Poi giunge il camion con i rinforzi partigiani. Non tutti gli stati d'animo si possono descrivere. Certi fatti restano soltanto impressi negli occhi per tutta una vita e nella gola par quasi s'incrocino groppi che impediscono pianto, riso, pazzia di gioia e d'amore nel contempo. Tale è il momento dell'incontro. «Erven» rincuora «Marco» già stanco e demoralizzato. «Moscone» [Basilio Mosconi] e «Guido di Cetta» appena scesi dal camion si portano avanti e mettono in funzione le mitragliatrici ed i mitragliatori. È fermata l'avanzata dei Tedeschi, sorpresi dalla ripresa della lotta. Le perdite naziste aumentano.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) Vol. II: Da giugno ad agosto 1944, volume edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992, pp. 80-82

Agaggio Inferiore, Frazione di Molini di Triora (IM) - Fonte: Mapio.net

Episodio raccontato da «Gino» (Gino Napolitano)
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Nel mese di giugno del ’44 m’ero portato ad Agaggio inferiore col mio distaccamento composto da cinque uomini. Eravamo poco armati, ma pieni di entusiasmo: numerose piccole azioni, agguati e colpi di mano ci erano riusciti benissimo e avevano messo in noi la smania di affrontare il nemico in forze, certi di poterlo battere. In verità sino a quel momento lo avevamo sempre vinto: numerose piccole stazioni di tedeschi e di fascisti erano state eliminate e ovunque incontravamo le pattuglie nemiche le volgevamo in fuga, tant’era l’ardore che i miei uomini ponevano nella lotta. Si mangiava poco, ma si faceva il proprio dovere “senza mugugni”. E se si riusciva a catturare un moschetto da carabiniere, di quelli con la cinghia bianca, era per noi una festa. Ero dunque ad Agaggio. Avevo intavolato trattative col presidio nemico di Carpenosa composto di sette guastatori e di due tedeschi per convincerli ad arrendersi: avevo bisogno di far riposare i miei uomini in un luogo decente e Carpenosa faceva al caso mio. Il nemico tergiversava. Io cominciavo a diventar furioso. Un venerdì inviai un mio garibaldino a Carpenosa con l’incarico di riferire al Presidio che se entro la domenica successiva non avesse capitolato avrei sferrato l’attacco. Ci risposero che avrebbero meditato sull’ultimatum. La notte fra il sabato e la domenica feci i preparativi e la domenica mattina alle 11,30 ero in posizione. Si trattava del mio primo attacco in forze e volevo vincere ad ogni costo. Avevamo con noi un mortaio da 45 che Minorato mi assicurava di saper manovrare molto bene, il che si dimostrò vero durante l’azione. Piazzai il mortaio su un’altura dove scaglionai i miei uomini in modo da dominare il nemico e la rotabile. Temevo una sorpresa e, infatti, la sorpresa venne. Alle 11,50 sulla strada sotto di noi apparve un camion pieno di tedeschi che veniva su arrancando. Evidentemente il presidio di Carpenosa, invece di arrendersi, aveva chiesto rinforzi per tentare di eliminarci. Decisi di rimanere sul posto anche se tutta la forza nemica della provincia fosse venuta su: il pensiero di dare una lezione memorabile ai nazifascisti sommergeva ogni prudenza: ne ero ossessionato e i miei uomini mostravano la stessa volontà. Ordinai a Minorato di aprire il fuoco. Fu un colpo magnifico: al primo sparo il camion venne preso in pieno. Scorgemmo il proiettile scoppiare con un gran rombo sul cofano e i tedeschi saltar giù in preda al panico. Urlammo di entusiasmo mentre il nemico si buttava in un tombino della strada. Lanciai un gruppo di uomini innanzi. I miei ragazzi scesero di corsa come se andassero a una festa: pugnale fra i denti, le bombe a mano pronte. S’arrestarono a pochi metri dalla strada e lasciarono cadere una pioggia di bombe sul nemico che non tentò alcuna reazione. Scorsi però in distanza altri camion nemici che risalivano la strada. Li contai: erano nove e tutti fortemente carichi e, fra l’altro, uno di essi trasportava un cannoncino da 75. L’affare cominciava a diventar grosso. La mia sola forza non sarebbe bastata a tenere testa a tre o quattrocento uomini armati di artiglieria. Disposi la mia truppa in posizione di resistenza, scaglionandola tra gli alberi, al coperto delle rupi e inviai una staffetta veloce al comandante Vittò perché mi inviasse rinforzi. Ed attesi. Il nemico non osava avanzare. Aveva arrestato i suoi veicoli a qualche chilometro da noi spostando lentamente le sue truppe avanti, fuori dal tiro delle nostre armi ponendo il cannone in postazione. Poco dopo cominciò il tiro. I colpi scoppiavano tra gli alberi con un rumore che gli echi della valle centuplicavano. Noi tirammo due o tre volte col mortaio, ma le munizioni erano scarse ed il nemico troppo lontano perché il nostro tiro potesse essere efficace e perciò ordinai di cessare il fuoco. Le ore passavano: i tedeschi continuavano a bombardarci ad intervalli. Essi avanzarono ancora fino a giungere a tiro delle nostre armi automatiche. Le impugnammo immediatamente ed il nemico si ritirò. La manovra venne ripetuta parecchie volte, ma, ogni volta, il tedesco fu costretto a ripiegare subendo perdite. Le nostre erano leggere: Petrino era stato ucciso e qualche ferito giaceva al suolo.
Il nostro morale era altissimo. Balzavamo di riparo in riparo come dannati, noncuranti dello scoppio dei proiettili avversari e freschi malgrado l’azione continuasse per ore ed ore. Nel tardo pomeriggio vedemmo spuntare su una cresta al di sopra di noi un gruppo di uomini: erano i rinforzi di Vittò che giungevano. E giungevano portandoci un aiuto prezioso: un mortaio da 81!
Credo ballassi dalla gioia! Ero esultante. Ponemmo il mortaio in postazione ed iniziammo un tiro accelerato. Nello stesso tempo mandai avanti gruppi di garibaldini per impegnare il nemico in combattimento ravvicinato. Scendevo con loro allo scoperto, tra le palle che sibilavano: l’ebbrezza della lotta ci aveva fatto perdere il senso della realtà. Si andava incontro alla morte con passo franco e cuor leggero e la vita, pur sotto la minaccia fatale, ci sembrava una bella e magnifica avventura. Il nemico non ci attese. Lo vedemmo sbandarsi, abbandonare le sue posizioni, correre disordinatamente verso le macchine ferme, montarvi sopra, abbandonando il cannone che recuperammo, sebbene inservibile, e fuggire a tutta velocità inseguito dai nostri colpi. Alle 9 occupammo Carpenosa completamente abbandonata. Il nemico ebbe numerose perdite: trovammo tutto l’equipaggio del primo camion ucciso sulla strada. I resti del camion stesso sono ancora abbandonati sulla scarpata. Nel complesso i tedeschi perdettero oltre 80 uomini fra morti e feriti: un quarto almeno delle forze impegnate nel combattimento.
Mario Mascia, L'epopea dell'esercito scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, pp. 119-121


La cava di Carpenosa. Foto: Eraldo Bigi

Ormai è chiaro: la Resistenza non sarà battuta malgrado la sua solita inferiorità in numero e mezzi.
Ora i garibaldini sviluppano un fuoco nutrito che provoca scompiglio tra le fila naziste. «Erven», intanto, non perde tempo e piazza da posizione arretrata il suo mortaio da 81. È vicino alla Fereira. Pepin Lantrua, da un rifugio del sottostrada, lo avvisa che c'è un gruppo di partigiani circondati. Il Lantrua, padre di due garibaldini, indica anche ad «Erven» la posizione in cui si trovano i Tedeschi (che, a loro volta, tentano di colpire il mortaio con colpi di cannone) e lo invita a puntare l'arma in direzione di un olmo distante circa trecento metri.
Inizia il tiro dei mortai ed una vedetta segnala ad «Erven» di allungare la traiettoria di una cinquantina di metri. Il colpo successivo centra un camion di truppa. È il primo sostanzioso successo.
Ma i colpi del cannone nemico si avvicinano ed il mortaio è continuamente spostato per non essere colpito.
Quello che accade poco dopo ha dell'incredibile. Un altro colpo e poi si ode un fragore immenso e dal luogo dove sono i Tedeschi si leva una grande colonna di fumo. La granata ha colpito il capannone in cui era situato il dispositivo per il brillamento del campo presso la casermetta di Carpenosa, precedentemente minato dai nazifascisti. Gli effetti sono terribili. Salta pure un tratto di strada.
Intanto, dopo un altro paio di colpi sparati con bombe a grande capacità, il mortaio perde la sua stabilità e diventa inservibile. In mezzo all'immane scoppio, incalzati dal fuoco delle mitraglie, ai Tedeschi non resta che abbandonare il campo dopo aver caricato sugli automezzi tutto il possibile. «Erven» scende verso il basso, con «Marco» attraversa la passerella sull'Argentina e sale a San Faustino per avere una visione del campo di battaglia. I due, affamati, chiedono del pane di cui sentono un fragrante profumo. Un vecchio gliene offre uno grosso, invitandoli a desistere dalla lotta per il timore che i Tedeschi li uccidano tutti. Poi, da una posizione elevata si recano ad osservare la zona. Ai loro occhi si presenta un vero e proprio paesaggio bellico: sul terreno, sconvolto dalle bombe di mortaio, giacciono sparsi corpi umani. I Tedeschi in quel giorno non nuocera nno alle popolazioni dei nostri paesi. Sono fuggiti tutti precipitosamente con il ricordo di una sconfitta vera e propria.
Ore 21: la Resistenza entra in Carpenosa tra l'incredulità degli abitanti dei paeselli all'intorno che temevano veramente per la vita di quei giovani. Ma il miracolo è accaduto e c'è il ritorno agli accampamenti, nella notte, accompagnati dalle canzoni dei «ribelli». (5)
Il 20 di giugno nell'ospedale di Triora cessa di vivere Agostino Moraldo, rimasto gravemente ferito nella battaglia. Il democratico e libero Comune di Triora sostiene le spese del funerale in segno di perenne riconoscenza verso colui che, vittima di una nobile scelta di vita, onorando i suoi concittacUni, tutto ha dato senza nulla chiedere per la causa della libertà. Quando la salma esce dalla chiesa rintoccano le campane e  portano tanta tristezza nel cuore di  tutti.
Il distaccamento di «Gino» si trasferisce a Carpenosa.
Un altro importante punto strategico dell'Argentina è liberato in quell'esaltante mese di giugno per le forze della Resistenza.
Le perdite dei Tedeschi nello scacco subito a Carpenosa sono state variamente segnalate: Gino Napolitano afferma che il nemico ha lasciato sul terreno oltre 80 uomini tra morti e feriti. Da un racconto di Italo Calvino i morti risultano 72. Da una relazione scritta e non firmata le perdite naziste ammontano a 173 uomini, un camion, cinquanta litri di benzina e materiale vario. Gino Glorio (Magnesia) nel suo diario fa risalire ad alcune decine il numero dei Tedeschi messi fuori combattimento. A noi, sinceramente, alcune cifre appaiono un po' gonfiate. Ma diciamo che le perdite tedesche a Carpenosa non furono poche.
(5) A detta di Ernesto Corradi (Nettù) *, anche il 7° distaccamento ha preso parte alla battaglia, in forma autonoma dalle altre formazioni partigiane.
Riviviamone le vicende attraverso una relazione scritta dal Comandante stesso: "Due giorni prima la banda «Nettù» era partita da Carmo Langan per una missione a Baiardo. Il giorno dopo, sulla via del ritorno, a causa di un violento temporale, gli uomini, inzuppati e fradici per l'acquazzone sopravvenuto, sono costretti a pernottare in un casone semidistrutto. All'alba, confortati dal tempo rimesso al bello, si rimettono in marcia. Arrivati all'accampamento chi ha la possibilità di farlo si cambia gli abiti. All'improvviso giunge una staffetta per chiedere urgenti rinforzi. «Nettù» raduna i partigiani disponibili, i quali, alla svelta, si incammminano per una destinazione non ancora ben precisata a sud di Molini di Triora. «Nettù» si presenta a «Erven» ed a «Marco» e riceve l'ordine di portarsi su San Faustino con l'aiuto di una guida. Questa conduce i garibaldini nei pressi del luogo destinato e si allontana. Il Comandante si inoltra nella borgata e vede alcuni Tedeschi scendere precipitosamente verso il fondovalle. Con i suoi uomini cerca di inseguirli. Ad un tratto scorge, sull'altra riva del torrente, dei nazisti che stavano sparando da un bosco di castagni. Il distaccamento «Nettù» apre il fuoco con la mitragliatrice ed avanza verso i nemici. Mentre attraversa il ponticello vicino alla caserma di Carpenosa s'ode uno spaventoso fragore di esplosione. Un lungo tratto di strada è distrutto. Gli uomini entrano poi nel boschetto e trovano un gran disordine, zaini, elmetti forati, chiazze di sangue. Sulla carrozzabile, dietro la curva, un camion inservibile ma con un serbatoio di scorta pieno di benzina (che in seguito si recupererà). La sera la banda «Nettù» è invitata dalla popolazione a Molini di Triora ed il mattino seguente ritorna a Carmo Langan..."
Carlo Rubaudo, Op. cit., pp. 82-84  

* [Sulla controversa figura di Ernesto Netu/Netù Corradi si possono leggere alcuni significativi passi in La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944) (a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020]

Dintorni di Carpenosa, Frazione di Molini di Triora (IM) - Fonte: Google

Gli uomini di Vittò si preparano velocemente le armi per l’azione. Il distaccamento possedeva allora un mortaio da 81 […] le squadre mortai e mitraglieri, al comando di Erven, scendono in camion […] Cosa succede intanto a Carpenosa? I tedeschi, con quattro o cinque cannoni e lanciabombe, tirano sulla parte superiore del costone […].
Fu allora che cadde, ferito dalle scheggie, il garibaldino Petrin di Creppo. Le sorti della battaglia arridono ai nazisti […]. Alle nostre mitraglie non resta che ritirarsi. Solo una, la più avanzata, […] tra i cespugli rimane isolata: era la mitragliatrice del futuro eroe garibaldino Luigi Nuvoloni [Grosso] […] i tedeschi riguadagnano i camions e stanno per prendere la via del ritorno, quando, a un dato momento, il mortaio tace.
Cosa era successo?
Facciamo un passo indietro e torniamo ad Erven […].
Che cosa è successo? […] Una fila di uomini stracciati, vestiti delle divise più disparate, i partigiani insomma che scendono verso Carpenosa. Marco e Erven si precipitano per unirsi a loro e avanzare insieme. Sulla strada si imbattono in un camion sfasciato in mezzo a pozze di sangue, brandelli di carne umana, scheggie di mortai, mitragliatori, elmetti, fucili […] La grande esplosione era dovuta alla strada saltata in aria […]
La sera vede il trionfo dei garibaldini vincitori tributato loro dalla popolazione d’Agaggio. Suggestivo è il ritorno: nella notte la fila dei partigiani si snoda verso gli accampamenti al canto dei loro inni.
Fu questa una delle più cruenti sconfitte tedesche nella nostra zona. Settantadue morti ed un numero imprecisato di feriti ne segnano il sanguinoso bilancio.
Mario Mascia, Op. cit., pp. 236-238