lunedì 25 aprile 2022

Presso a poco è il luogo dove domenica è stato ucciso il bandito Tripodi

 

Pagina 70 del Diario del Distaccamento di Sanremo (IM) della XXXII^ Brigata Nera Padoan - cit. infra
 
17 gennaio 1945 [...] D'ordine del comandante invio quattro legionari con un soldato tedesco in Via Catalani dove questi precisa trovarsi dei fuori-legge.
Presso a poco è il luogo dove domenica è stato ucciso il bandito Tripodi.
All'ultimo momento il Caposquadra Bossolasco porta con sè Ravinale e Rubaudo affermando che gli altri li troverà in galleria per passarli al milite germanico. La scelta degli uomini avveniva durante l'allarme e il bombardamento aereo della città [n.d.r.: Sanremo (IM)].
Rientro della pattuglia ore 18 circa.
Novità n.n.
Sono state perquisite varie case.  
Il Vice Comandante, Aldo Ravina - Visto, il Comandante Angelo Mangano 
Diario (brogliaccio) del Distaccamento di Sanremo (IM) della XXXII^ Brigata Nera Padoan. Documento in Archivio di Stato di Genova, copia di Paolo Bianchi di Sanremo

Una vista sulle colline alle spalle del centro urbano di Sanremo (IM)

RAVINALE ATHOS: nato a Dogliani (Cn) il 13 luglio 1927, squadrista della Brigata Nera “Padoan”, distaccamento di Sanremo.
Rapporto della polizia giudiziaria di Sanremo dell’8.11.1945: Verso le ore 17 del 14 gennaio 1945, un gruppo di una decina di militi della brigata nera, armati di mitra, si scontrò nella via Duca degli Abruzzi, nei pressi del numero civico 100, con i partigiani Siccardi Gildo, Foti Domenico e Tripodi Antonio che percorrevano la strada in senso inverso, diretti verso Sanremo per missione. Il gruppo delle brigate nere, evidentemente informati, aprì il fuoco contro questi riuscendo a catturare il Tripodi, il quale mentre veniva accompagnato verso Sanremo tentò di porsi in salvo dandosi alla fuga ma venne raggiunto da colpi d’arma da fuoco e subito finito con il lancio di una bomba a mano. Facevano parte del gruppo di brigatisti il Ravinale Athos, il quale venne riconosciuto dalla signorina Furlan che affermò che il Ravinale fu il primo ad aprire il fuoco, Bianchi Bruno, irreperibile, Siri Mauro, Nicò Ambrogio, irreperibile, Carlevaris Salvatore, il quale venne ferito ad una gamba, Rossi Ernesto, irreperibile.
Interrogatorio di Ravinale Athos dell’8.4.1946: Mi sono arruolato volontariamente nella brigata nera sanremese il 10 novembre 1944. Fui subito incorporato ed assegnato a fare servizi di guardia alla caserma e pattuglie in città. Ho partecipato assieme ai miei compagni a diversi rastrellamenti contro i partigiani a Sanremo e dintorni. Il primo di detti rastrellamenti l’ho eseguito nel novembre 1944 in regione San Michele, nella quale vennero fermati due renitenti che vennero poi rilasciati.
[...] Il 13 gennaio ho partecipato ad un rastrellamento in regione San Bartolomeo - Gozzo - Borello, nella cui azione venne arrestato il partigiano Zunino Giobatta, detto Kim, che in seguito venne incorporato nella brigata nera. In località Borello venne effettuata una sparatoria a distanza contro due partigiani i quali non vennero colpiti. Detti rastrellamenti li ho eseguiti perché comandato dal comandante del distaccamento Mangano e dal capo squadra Bossolasco. Posso dire che durante tali azioni non feci mai male alcuno. Mi sono arruolato nella brigata nera perché disoccupato e bisognoso di guadagnare per aiutare la mia famiglia. [...]
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9, StreetLib, Milano, 2019 
 

Il 14 gennaio 1945 alcuni uomini della Cascione sono sorpresi a Sanremo dalla Brigata Nera. Alle 17.30, tra la via Duca degli Abruzzi e la via Franco Norero, viene ucciso Antonio Tripodi detto "Lupo" di Pietro e di Maria Crea, nato a Montebello Jonico il 10 dicembre 1918. È in compagnia del cognato Domenico Foti, detto "Vento", anche lui di Montebello, e di Salvatore Fazio di Bordonaro (ME). Lupo era residente a Sanremo e, dopo l'8 settembre, aveva disertato il servizio a Livorno, dove era marinaio scelto, per aggregarsi alla brigata partigiana che operava in città.
Pino Ippolito Armino, Storia della Calabria Partigiana, Pellegrini, 2020 
 
[n.d.r.: Foti e Fazio risultano - da una consultazione della banca dati Ilsrec - sopravvissuti alla guerra; il richiamato Istituto, poi, riporta, al pari di altri testi sulla Resistenza, la notizia della morte di Antonio Tripodi come avvenuta a Taggia] 
 

sabato 16 aprile 2022

Morti da partigiani nella zona di Vasia alla fine di luglio '44 un ragazzo della Carnia, due giovani calabresi, un ferroviere di Rivarolo...

Vasia (IM) - Fonte: Mapio.net

Alla fine di giugno un rapporto redatto dall’U.P.I (Ufficio Politico Investigativo) segnalava la presenza di 50 ribelli armati che trovavano rifugio nei casolari sparsi nei pressi di Pianavia. Poco prima della fine di luglio la Compagnia O.P. di Imperia programmava un rastrellamento nel comune di Vasia e a Montegrazie, Frazione di Imperia. Prima di giungere a Vasia il Capitano Ferraris divideva la compagnia in varie squadre. Durante il rastrellamento venivano catturati due partigiani da una delle squadre: erano in seguito fucilati per ordine del Ferraris (da dichiarazione resa in data 7 maggio 1946 da Carlo Valfrè, componente della Compagnia OP che partecipò al rastrellamento). Non è dato sapere chi dei cinque appartenenti al distaccamento "Antonio Terragno" della I° Brigata erano i due fucilati e chi era caduto in battaglia. Testimoni dei fatti riferirono che Igino Rainis era rimasto ferito ad un ginocchio e che, per non cadere prigioniero del nemico, si era tolto la vita.
Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I Caduti della Lotta di Liberazione nella I^ Zona Operativa Liguria, Edito dall'Autore, 2020
[ Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, Edito dall'Autore, 2016 ]

Valfrè Carlo: nato a Ventimiglia il 7 luglio 1921, milite della Compagnia OP di Imperia.
Interrogatorio di Valfrè Carlo del 7.5.1946: Dopo l’8 settembre rimasi per un po’ di tempo sbandato ma in seguito tornai a casa mia. Il 2 novembre 1943 entrai a far parte della GNR e assegnato alla Compagnia OP, comandata dal Tenente Ferraris [...] Negli ultimi giorni di giugno o nei primi di luglio 1944, unitamente alla compagnia, partimmo per un'azione di rastrellamento nei comuni di Vasia e Montegrazie. Prima di giungere a Vasia il Capitano Ferraris divise la compagnia in varie squadre. Durante il rastrellamento vennero catturati due partigiani da una delle squadre che vennero in seguito fucilati per ordine del Ferraris ma non posso precisare da chi in quanto la mia squadra si trovava più avanti [...]
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019

Igino Rainis "Lupo". Nato a Treppo Carnico (UD) il 19 giugno 1926, operaio; appartenente al Distaccamento “Antonio Terragno” della I^ Brigata [n.d.r.: Brigata "Silvano Belgrano" a quella data appena costituita ed ancora incorporata nella II^ Divisione "Felice Cascione"]. Il 25 luglio 1944 i garibaldini Stefano Danini [n.d.r.: nato a Genova Rivarolo, già ferroviere] ed Igino Rainis con i compagni Salvatore Filippone, Vincenzo Raho e Carmine Saffiotti sono diretti ad Imperia con il difficile compito di penetrare nei locali della Questura per impossessarsi di armi automatiche. Incappano in un rastrellamento nella zona di Vasia; “Lupo” è ferito ad un ginocchio e, per non cadere prigioniero del nemico, preferisce darsi la morte. Ad Igino Rainis è intitolato un Distaccamento della Brigata “Nino Berio” - Divisione d’assalto Garibaldi “Silvio Bonfante”.
Redazione, Arrivano i Partigiani, inserto "2. Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I RESISTENTI, ANPI Savona, 2011   


La zona di Imperia assume nella primavera/estate del '44 un particolare rilievo strategico. Qui si sono concentrati numerosi gruppi partigiani, decisi a ostacolare le forze naziste in prevedibile ritirata attraverso i valichi alpini. Nonostante la complicità di due soldati austriaci nella notte fra il 23 e il 24 luglio '44 a Imperia in regione Garbella fallisce il tentativo di un gruppo di partigiani della II Divisione Garibaldi "F. Cascione" di far saltare un tratto di strada precedentemente minato dai tedeschi. I sette soldati di gaurdia vengono comunque disarmati e quattro di loro passano con i partigiani.
La reazione tedesca non si fa attendere. Il 25 i nazisti risalgono la Valle del Prino e raggiungono Vasia, un piccolo centro dell'entroterra.
"Alle 17 stavo tormando a casa da Porto Maurizio. Prima di entrare in paese mi sono accorto che erano arrivati i tedeschi e mi sono nascosto dietro una siepe, dove ho trascorso la notte e da dove ho potuto distintamente udire le invocazioni e i lamenti delle donne. Circa trecento tedeschi, con l'ausilio dei fascisti, avevano occupato Vasia, che sapevano nascondiglio di partigiani, salendo dalla carrozzabile di Porto Maurizio e dalla mulattiera che viene da Molini Prelà. L'avevano chiusa in una morsa ed avevano ucciso alcuni uomini dietro la chiesa all'ingresso del paese. Gli altri erano riusciti a fuggire e i nazisti avevano occupato le loro case usando i loro letti e le loro donne. Al mattino vennero anche da Pontedassio e colsero di sorpresa alcuni partigiani che si erano appostati sul Monte Treppia. Morirono in tre, uno venne finito dopo essere stato colpito a una gamba. Quando andarono via raccogliemmo le salme e le tumulammo in una fossa comune sulla montagna. Nei giorni successivi i partigiani vennero per recuperare quei corpi". <1
Così nella drammatica testimonianza di un ragazzo dell'epoca la rievocazione dei fatti che hanno portato alla morte di due civili e di cinque partigiani impegnati, pare, a mettere a segno l'assalto alla Questura di Imperia per impossessarsi di armi automatiche.
I partigiani caduti sono Salvatore Filippone, nome di battaglia "Mariella", nato a Palmi (RC) il 24 giugno 1920, Carmine Saffioti, nome di battaglia "Carmé", nato a Palmi il primo aprile 1925, Stefano Danini di Rivarolo (GE), Igino Rainis di Treppo Carnico (UD) e Vincenzo Raho di Ruffano (LE).
Le fonti sono pressoché concordi nel collocare "Mariella", colpito alla testa e al braccio, nel gruppo dei tre che ha trovato iniziale rifugio sul Monte Treppia, mentre vi è incertezza per quanto riguarda "Carmé", che potrebbe essere tra i caduti della sera prima.
"Mariella" è un contadino con la quinta elementare, divenuto soldato dell'82° Reggimento fanteria "Torino", all'8 settembre di stanza a Gorizia. Si è sposato qualche anno prima, il 5 luglio '41, con Teresa Barbera dalla quale ha avuto un figlio, Vincenzo, nato a Palmi il 5 aprile '42. Sembra aver avuto un peso nella scelta di restare in armi al Nord la notizia, giunta dalla Calabria, che la moglie lo ha abbandonato per un altro uomo. <2
"Carmè", orfano di padre è emigrato a Imperia nel '43 insieme alla madre, Maria Squadriti, che è passata in seconde nozze con Rosario Barbera, forse fratello di Teresa. Ha la terza elemenatare e contribuisce alla magra economia familiare come giornaliero in campagna. In casa ci sono altri due figli dal secondo matrimonio di Maria, Angela di dodici anni e Maurizio di tre, e il quindicenne Pietro Oliva. "Carmé" era partigiano da pochi giorni; forse ha seguito in montagna il cognato del patrigno, che è cinque anni più vecchio di lui e milita nella 4a Brigata "E. Guarrini".
Filippone e Saffioti sono ricordati nel sacrario partigiano del cimitero di Oneglia, realizzato in occasione del venticinquesimo anniversario della Liberazione. Niente, invece, li ricorda nella nativa Palmi.
[NOTE]
1 Emilio Giuseppe Badano, classe 1928, all'autore, Vasia 5 aprile 2018.
2 Vincenzo Filippone, classe 1928, nipote di Salvatore (figlio del fratello Giuseppe) all'autore, Palmi 26 aprile 2018
Pino Ippolito Armino, Storia della Calabria Partigiana, Pellegrini, 2020


[...] Ed ora la seconda parte del libro il cui titolo è: Igino Rainis "Lupo" (1926-1944).
Di queste 30 pagine, le prime 20 sono dedicate alla famiglia Rainis ed in particolare al padre Gilberto la cui vita di emigrante (Africa orientale, Francia, Germania) ricalca esattamente quella di altre centinaia di emigranti carnici, divenendone quasi un perfetto paradigma, tratteggiato dall'autore con inimitabile sintesi. Gilberto morirà a Udine nel 1940 a seguito di malattia (non specificata) contratta in Africa, lasciando moglie e 4 figli. Le successive 4 pagine sono dedicate alla madre Teresa Morocutti che l'autore delinea esattamente come perfetto paradigma della donna carnica, anche se egli si lascia coinvolgere e indulge in nominalismi radicaleggianti ("...una storia di genere": pag 152). Entrambe queste figure rientrano perfettamente nell'economia del libro in quanto bene rappresentano e caratterizzano l'uomo e la donna carnici nel Ventennio fascista, con le loro angosce e la loro faticosa quotidianità.
Ed eccoci finalmente all'ultimo capitoletto ("In Liguria, la breve storia di un piccolo maestro") che presenta la figura sfumata di Igino Rainis in maniera (a mio sommesso avviso) un po' romanzata per quei troppi: ...è plausibile... non si conoscono i tempi precisi... non avendo trovato traccia... non poteva non... La storia appare davvero brevissima: Igino Rainis ha 14 anni quando muore il padre; diventa capofamiglia, come usava allora; nel 1942 la sorella Maria si sposa e va ad abitare in Liguria ad Aurigo; lì la raggiunge il fratello Igino sedicenne che trova lavoro come meccanico a Pontedassio. In questi mesi, diciassettenne, viene a contatto con i partigiani liguri che sono assai politicizzati ed attivi in zona e impegnano spesso i nazifascisti in scontri di guerriglia; si aggrega a loro presumibilmente "nel maggio 1944 entrando a far parte del distaccamento garibaldino 'Antonio Terragno'" (pag. 16); il 26 luglio 1944, assieme ad altri 4 compagni, si dirige verso Imperia per "tentare di penetrare nei locali della Questura per impossessarsi di armi automatiche" (pag. 164); il gruppo viene però intercettato dai nazifascisti a Treppia di Vasia e nello scontro muoiono subito i 4 compagni mentre Igino, "ferito al ginocchio e alla testa, non accettò di essere catturato e, presa la pistola, si tolse la vita" (pag 165). Fu sepolto nel cimitero di Oneglia nè fu mai poi traslato a Treppo Carnico dove tuttavia, di recente, gli è stata dedicata una piazzetta con targa celebrativa a Tausia.
Ancora alcune considerazioni:
- Igino Rainis non fu mai maestro non solo perchè non frequentò l'Istituto Magistrale di Tolmezzo, ma non concluse neppure (verosimilmente a causa della improvvisa morte del padre) la Scuola di Avviamento Professionale di Paluzza, tant'è che trovò occupazione come meccanico. Con questa dicitura, verosimilmente ci si vuole riferire, per assonanza letteraria [ha fatto la stessa cosa Igino Piutti con "Il partigiano Gianni"], al romanzo autobiografico di Luigi Meneghello, pubblicato nel 1964, "I piccoli maestri", che è un racconto diretto ed in prima persona dell'esperienza partigiana dell'autore, che ricorda con lucidità e semplicità gli avvenimenti senza volontà celebrative o retoriche. Ma questa singolare interpretazione non è di certo percepibile presso la stragrande maggioranza dei lettori più semplici.
[...] pertanto la vicenda del diciottenne Rainis non può assolutamente essere elevata a paradigma della lotta partigiana a Treppo (che non subì mai alcuna rappresaglia nazifascista), ma deve essere ricondotta più semplicemente a quella che è stata una storia personale di entusiasmo e impegno giovanile, certamente eroico, condizionata da tutta una serie di circostanze, spesso fortuite, peraltro ben evidenziate nelle pagine finali del libro. [...]
Redazione, Storia di un paese e di un piccolo maestro, I libri di Cjargne Online

Storia di un paese e di un «piccolo maestro». Treppo Carnico tra le due guerre attraverso la vicenda del partigiano Igino Rainis «Lupo»: Il periodo tra le due guerre mondiali e le vicende della Resistenza sono raccontati in questo volume attraverso la storia di un giovane partigiano, Igino Rainis, la cui esperienza di vita s'intreccia con quella del suo paese di origine, Treppo Carnico, e della sua gente, lasciando emergere un quadro dettagliato sulla società, l'economia e la politica di un piccolo paese che diventa emblema di un'intera epoca storica. Il saggio offre la chiave per comprendere le vicende della Carnia, e con essa di tutta l'Italia, nella transizione dal mondo liberale al totalitarismo fascista, fino agli anni della seconda guerra mondiale. In questo lungo periodo si dipanano i fili della storia del 'piccolo maestro' Igino Rainis e della sua famiglia, vero e proprio exemplum delle vite di uomini e donne della montagna friulana del ventennio.
Redazione, Storia di un paese e di un «piccolo maestro». Treppo Carnico tra le due guerre attraverso la vicenda del partigiano Igino Rainis «Lupo» di Denis Baron, edito da Forum Edizioni, 2012, unilibro

domenica 10 aprile 2022

Natale a casa per due partigiani di Imperia

Imperia (Oneglia): Via Amendola

Riportando in breve una statistica, possiamo dire che, mentre nel periodo estivo la consistenza numerica della I^ brigata ammontava a circa settecento partigiani, essa si ridusse ad un centinaio nell'inverno; gli uomini rimasti erano suddivisi in una dozzina per ogni distaccamento. Ecco perché i tedeschi si limitavano a fare delle puntate: sapevano che i partigiani potevano opporre poca resistenza.
Fu in quel periodo, durante questa pericolosa situazione, che decisi di farmi tagliare i capelli in modo normale; se mi avessero catturato con quei capelli lunghi, sarei stato immediatamente fucilato; non  mi avrebbero nemmeno chiesto: «Tu partigiano?». Invece con i capelli normali forse (dato che fin che c'è vita c'è speranza) non mi avrebbero fucilato subito, probabilmente più tardi. Aggiungo ancora che possibilmente non mi sarei lasciato catturare vivo.
A metà dicembre 1944, su ordine del comando [n.d.r.: della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"], ci trasferimmo a monte dell'abitato di Diano San Pietro, in una località denominata "Besta" e anche lì ci trovammo bene: solidarietà da parte della popolazione, la quale ci forniva viveri e tutto quanto ci poteva servire.
Fu in quei giorni che io e Germano Belgrano pensammo di trascorrere il Natale con le nostre famiglie. Però Germano aveva i genitori sfollati che non avrebbero potuto ospitarci, mentre la mia casa era più grande. Con le staffette stabilimmo che alcuni giovani della SAP di Oneglia ci avrebbero fatto strada e dalla cima di Santa Lucia ci avrebbero accompagnato e scortato con discrezione sino alla mia casa sita nell'attuale via Amendola.
Alla cima di Santa Lucia incontrammo Vittorio Aliprandi che, per ragioni di salute, era ritornato a casa ma si dava da fare. Ci disse di stare attenti alle caserme di Santa Lucia perché sulla strada c'era un commissariato di polizia, e all'inizio di via Roma, nell'ex caserma dei carabinieri, c'erano dei tedeschi. Dunque, avevamo un sapista davanti e uno dietro che ci scortavano; essendo pratici del luogo avrebbero notato subito degli sconosciuti e ci avrebbero messo in guardia. Ad ogni modo io e Germano avevamo la pistola e, all'occorrenza, ci saremmo difesi.
Quando le cose debbono andare bene, vanno bene, però si possono prendere anche delle paure: infatti, giunti davanti al commissariato di polizia, il caso volle che dei ragazzini, giocando a palla, rompessero un vetro alla porta del commissariato stesso, dal quale uscirono immediatamente due agenti in borghese chiedendo ad alta voce chi fosse stato il colpevole. Io misi la mano sulla pistola pronto ad usarla, ma Germano se ne accorse e, più freddo di me, mi disse di stare fermo, di far finta di niente e di proseguire. Per fortuna si fece avanti un ragazzino il quale, parlando con i poliziotti, ammise di essere stato l'autore del misfatto. Nel frattempo noi ci eravamo allontanati.
Ma quando giungemmo davanti alla caserma dove erano alloggiati i tedeschi, all'inizio di via Roma, scorgemmo un soldato di guardia; quando ci vide, ci guardò intensamente come se scorgesse in noi qualche cosa di strano. Anche in questa occasione misi mano alla pislola senza estrarla trovando sospetto quello sguardo insistente. Anche in questo caso Germano mi invitò ad essere normale non facendo caso alla sentinella.
Quando giungemmo in vico Santa Elisabetta (a cinquanta metri dopo la caserma) infilammo di corsa la scala che conduceva a casa mia. Ivi trovai i miei genitori, mia nonna, una zia, una cuginetta e la mia sorellina di otto anni; seguirono molti abbracci festosi per me e per Germano.
Dopo i convenevoli non potevamo non parlare della nostra situazione, della guerra, di coloro che erano morti sia in montagna che sotto i bombardamenti, dei partigiani fucilati in città e di altri argomenti simili. Intanto ci preparammo  a cenare e la cosa ci allettò alquanto perché mia madre ci aveva preparato delle cose buone, compreso un buon risotto alla seppia, cose che oramai noi avevamo dimenticato.
Ad un certo momento, mentre stavamo per iniziare a mangiare, sentimmo bussare alla porta; siccome non doveva arrivare più nessuno, rimanemmo perplessi. Allora io e Germano, guardandoci in faccia con apprensione, passammo nella stanza accanto mentre mia zia chiedeva, senza aprire la porta, chi avesse bussato. Rispose una voce gutturale, inequivocabilmente tedesca: «Sono Hans, signora, sono venuto a vedere se mi ha aggiustato la giacca della divisa». Io e Germano questa volta avevamo messo veramente mano alle pistole, ma a quella voce ci sedemmo tranquillizzati in attesa che il tedesco se ne andasse. Infatti, ritirata la giacca, si scusò per il disturbo recato nell'ora di cena; forse si sarebbe fermato volentieri a fare quattro chiacchiere, come se fosse stato con i suoi familiari, ma mia madre e mia zia gli fecero presente che a tavola vi erano due piatti in più perché dovevano giungere altri due parenti, per cui il tedesco se ne andò e noi potemmo ritornare a mangiare. Salimmo poi a dormire in un lettone e sprofondammo in morbidi materassi di lana ai quali da molto tempo avevamo rinunciato. Il giorno successivo giunse il padre di Germano a trovarci, stette un paio d'ore con noi, ci ricordò piangendo l'altro suo figlio, Silvano, caduto il 19 giugno 1944 durante il rastrellamento di Pizzo d'Evigno. Aveva paura per Germano, ma questi lo rassicurò raccontandogli qualche storia, facendo presente che la guerra sarebbe finita presto.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998

lunedì 4 aprile 2022

I partigiani procedono immediatamente alla raccolta delle armi

Caramagna, Frazione di Imperia

Interessante e degna di rilievo è l'azione compiuta brillantemente dal 2° distaccamento della IX Brigata [n.d.r.: la IX Brigata "Felice Cascione", in effetti formalizzata come tale il giorno dopo l'evento qui narrato e destinata a trasformarsi a breve, il 4 luglio (o il 7, a seconda delle fonti) in II^ Divisione d'Assalto Garibaldi "Felice Cascione"] comandato da Risso Rinaldo (Tito), di stanza  a Villatalla.
19 giugno 1944. Ore due: partenza da Villatalla di quasi tutti i componenti la formazione. Obiettivo: la postazione di artiglieria tedesca dotata di quattro cannoni, presidiata da circa cinquanta uomini della GNR e da una aliquota di Tedeschi. Località: Caramagna, frazione di Imperia, nell'entroterra di Porto Maurizio.
L'azione è studiata nei minimi particolari e preordinata secondo la tecnica della sorpresa con l'aiuto di qualche informatore locale che si è prestato a fornire tutte le preziose e necessarie notizie, sia sulla disposizione delle forze, che sull'entità dell'armamento e sul morale della guarnigione nemica.
Alle tre, a Molini di Prelà, le macchine requisite forniscono un celere mezzo di trasporto verso la meta. Una motocicletta in perlustrazione batte la strada. Prima dell'alba, arrivo a Cima Bastera, lungo la strada che da Caramagna svolta verso Dolcedo. Alle quattro e trenta circa, i garibaldini sono in Caramagna, quivi, secondo il piano prestabilito, gli uomini sono suddivisi in tre colonne: la prima, in posizione centrale, deve percorrere il tratto di via più breve ed appostarsi in agguato nel torrente; la seconda procede sul lato destro lungo la strada per Cantalupo; l'altra, infine, percorre la via di Caramagnetta.
Alle cinque, un fischio: il segnale dell'azione. La squadra nascosta nel torrente si muove rapidamente e aggredisce di sorpresa la sentinella, che non può dare l'allarme, mentre le due formazioni operanti sui lati invadono il campo e colgono nel sonno i soldati di guarnigione. Sono fatti prigionieri anche i due marescialli tedeschi e gli ufficiali italiani che dormivano a parte, in una casetta presso l'entrata del campo.
I partigiani procedono immediatamente alla raccolta delle armi ed al sabotaggio dei pezzi d'artiglieria non trasportabili, cui vengono tolti gli otturatori.
Mentre nuclei di mitraglieri fanno buona guardia, sorvegliando le strade provenienti da Piani e da Porto Maurizio, si procede all'ispezione del magazzino. Sono caricate su di un carro, cui sono attaccati un mulo ed un cavallo rinvenuti nelle stalle presso la postazione, tutte le cose che possono tornare di utilità alla brigata. Un altro mulo viene condotto via dagli uomini.
Intanto, i repubblichini chiedono di poter seguire i partigiani sui monti; nella confusione, qualcuno, d'idea diversa, sgattaiola e fugge via.
Sulla corriera, condotta sul posto dai partigiani, sono caricati altri oggetti in dotazione, tra cui una radio, una macchina da scrivere e vestiario. Poi, ritorno verso la base di partenza.
Un nucleo, armato di mitragliatore, si presta volontariamente per proteggere la ritirata del distaccamento ed apre il fuoco su tre camion nazifascisti sopraggiunti poco dopo.
Intimoriti dal fuoco del mitragliatore, gli autisti dei camion virano di bordo senza neppure arrivare nei pressi dell'abitato del paese.
I protagonisti, che vengono citati all'ordine del giorno, quale esempio di coraggio ed intelligente iniziativa, sono l'austriaco «Erik» e l'ex repubblichino «Umberto».
l garibaldini, trasportati da automezzi, rientrano a Villatalla verso mezzogiorno. Manca solo Giuseppe Corradi che, rimasto gravemente ferito, morirà il giorno successivo.
Bilancio dell'azione: due casse di bombe a mano tedesche fumogene, sette casse di caricatori da 6,5, sei casse di caricatori per fucile mitragliatore S. Etienne, quaranta moschetti da 6,5, due mitragliatori francesi S. Etienne, cinquantasette coperte, tre sacchi di vestiario vario, quaranta zaini e tre rivoltelle che sono consegnate a coloro che più si sono distinti nell'azione.
I repubblichini, che spontaneamente hanno seguito i partigiani, sono trentadue, tra i quali due ufficiali ed un Austriaco. Uno degli ufficiali è stato ferito per errore nel corso dell'azione: essendosi affacciato alla finestra, i partigiani, pensando che volesse reagire con lancio di bombe a mano, gli hanno sparato colpendolo alla spalla sinistra. Ma la cosa non riveste carattere di gravità non essendo stato leso alcun organo vitale.
Nella stessa giornata della brillante azione, due garibaldini partiti in missione due giorni prima, rientrano all'accampamento con ventiquattro repubblichini venuti volontariamente in banda quasi totalmente armati.
Carlo Rubaudo, Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria) - Vol. II. Da giugno ad agosto 1944, edito a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, Imperia, Dominici Editore, 1992

Il 19 giugno 1944 il 2° distaccamento della IX Brigata comandato da Tito (Rinaldo Risso) di stanza a Villatalla decide di scendere a valle per rifornirsi di armi e munizioni. L’obiettivo prescelto è un postazione di artiglieria costiera tedesca a Caramagna, presidiata da una cinquantina di militi della G.N.R. e alcuni tedeschi. Giunti in prossimità della postazione, i garibaldini con un’azione fulminea riescono a disarmare le guardie e fare irruzione all’interno della palazzina che funge da dormitorio. La sorpresa e la rapidità con cui si muovono gli uomini di Tito non lascia scampo ai difensori. Inizia quindi la razzia di armi e munizioni che vengono caricati su un carro trainato da due muli, requisito in loco. Oltre alle armi i partigiani portano con sé una trentina di militi della GNR che, volontariamente decidono di unirsi alla lotta in montagna. Ben presto arrivano alcuni camion nemici carichi di uomini che cercano di ostacolare la ritirata verso i monti dei partigiani. Giuseppe Corradi viene colpito mentre trasporta sulle spalle una cassetta di munizioni. Gravemente ferito morirà il giorno seguente.        Giorgio Caudano, Gli eroi sono tutti giovani e belli. I Caduti della Lotta di Liberazione nella I^ Zona Operativa Liguria, Edito dall'Autore, 2020
 

[ n.d.r.: altri lavori di Giorgio Caudano:  Marco Cassini e Giorgio Caudano, Bordighera al tempo di Bicknell e Monet, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2021; a cura di Paolo Veziano con il contributo di Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944), Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020; Giorgio Caudano, Dal Mare alla Trincea... memorie di uomini, BB Europa, Cuneo, 2019; Silvia Alborno, Gisella Merello, Marco Farotto, Marco Cassini, Giorgio Caudano, Franck Vigliani, curatori della mostra Claude Monet, ritorno in Riviera, catalogo a cura di Aldo Herlaut, Silvana Editoriale, Milano 2019; La Magnifica Invenzione. I pionieri della fotografia in Val Nervia 1865-1925, a cura di Marco Cassini e Giorgio Caudano, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 2016; Giorgio Caudano, Pigna. Storia di un paese, Edito dall'Autore, 2016   ]

Pagina 23 del Notiziario GNR cit. infra - Fonte: Fondazione Luigi Micheletti

Il 19 corrente, alle ore 16,15, in Caramagna di Imperia, numerosi banditi armati assalirono una batteria contraerea, prelevando oltre 70 militari italiani e due germanici, sostendendo soltanto con questi ultimi un breve conflitto a fuoco.
I malviventi, dopo aver arrecato danni a pezzi d'artiglieria, asportarono tre cavalli, due muli e materiali vari dell'Organizzazione TODT, allontandosi quindi in direzione di Dolcedo.
Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del giorno 26 giugno 1944, p. 23, Fondazione Luigi Micheletti

domenica 27 marzo 2022

Entrammo dunque in Ormea il 27 di aprile, pomeriggio, del 1945

Ormea (CN) - Fonte: Mapio.net

Dopo il primo lancio degli aerei alleati a Pian Rosso sopra Viozene ottenemmo due bazooka e diversi Bren e un buon numero di Sten, un discreto quantitativo di plastico con relativi detonatori, miccia di diversi tipi e l'occorrente per perfezionare le «Cipolle». Le cosiddette «cipolle» erano composte da un aggeggio che svitando un tappo gli si inseriva il detonatore: avvitando il tappo serviva anche da sicura, dall'altro lato dell'aggeggio era un pezzo di stoffa confezionato a forma di cipolla che, all'ultima estremità, era ristretto da un elastico; si riempiva questo involucro di plastico (poteva contenere anche mezzo chilo di esplosivo) e, quando si lanciava, la sua esplosione era veramente terrificante. Ottenemmo anche munizioni in abbondanza, dopodichè lasciammo Viozene. Una parte del materiale la lasciammo a un contadino di Alto che, assieme ad altri della Val Pennavaire e della Val d'Arroscia, si trovava a Viozene per caricare sui muli quanto non era possibile trasportare individualmente. Con tutto ciò eravamo notevolmente carichi e, per questo, si procedeva lentamente.
Alla sera anzichè trovarci sopra Eca Nasagò [Frazione di Ormea (CN)], eravamo ancora sopra Ormea; allora Arturo, un giovane ormeasco disse: "Se passiamo da Eca Nasagò dovremmo attraversare la statale di giorno e, con il carico che abbiamo, è da imprudenti e per questo sarà necessario aspettare la notte. Se invece scendiamo verso Ormea, transitiamo nei pressi del castello diroccato e attraversiamo il Tanaro nei pressi del paese e arriviamo al distaccamento di «Plastico» inosservati". Quest'ultimo era il Comandante del distaccamento di Ormea, che si trovava a poca distanza dalla cittadina.
Arturo conosceva bene la zona; certamente non ci avrebbe proposto quella strada se non fosse stato convinto di poter attraversare il Tanaro con facilità. Dopo esserci consultati, decidemmo di approvare la sua proposta. Era notte quando arrivammo nei pressi del castello. Guidava la piccola colonna Arturo, io subito dietro. Tutto sembrava procedere nel migliore dei modi, quando udimmo uno scoppio simile ad un colpo di pistola, subito seguito da una luce intensa come quella di un bengala. Qualcosa bruciava a poca distanza da noi. Ci acquattammo sul terreno in attesa delle prime raffiche; ma non successe nulla. Però i ragazzi che erano alla fine della colonna iniziarono a ripiegare abbastanza rumorosamente. Lasciai il mio carico ad Arturo dicendogli: "Devo raggiungerli e fermarli, non conoscono la zona!" e così feci.
Ritornammo sui nostri passi e pernottammo in un fienile di una frazione di Ormea. La sera seguente proseguimmo attraverso la statale per Eca Nasagò, senza altri incidenti. Lello Nante, con il suo solito umorismo, iniziò allora a sfottere Arturo dicendo che il motivo per il quale egli voleva guadare il Tanaro era che aveva i piedi sporchi, dato che non se li lavava mai....... Per tutta la durata della guerra Arturo restò «l'uomo dai piedi sporchi» che, per lavarseli, aveva bisogno di compagnia.
Il traffico nemico sulla statale era sempre molto intenso. Di giorno disturbavamo il transito con le mitragliatrici pesanti; di notte, con i bazooka, colpivamo la prima macchina della colonna, se di colonna si trattava. Al contrario, se era un veicolo isolato, non davamo neanche il tempo ai sopravvissuti, se ce n'erano, di reagire, perché colpivamo con numerose raffiche di sten. Poi prendevamo le armi e quant'altro c'era di utile a bordo degli automezzi e ci ritiravamo. Col bazooka il migliore era Lazzaro il redivivo: lasciava avvicinare l'automezzo a brevissima distanza e lo centrava con il suo tiro preciso. L'attività della nostra Brigata, dopo la prima decade di aprile, divenne intensa; durante il giorno era un susseguirsi continuo di vetture e autocarri che viaggiavano sempre in discreto numero, ma anche di colonne di carri trainati dai muli, cavalli e asini che il nemico aveva razziato nella zona.
Intorno al quindici di aprile, due squadre di un Distaccamento avevano attaccato una colonna di vetture tedesche, scortate da alcune autoblindo, armate da mitragliere antiaereo e da mascin-gavert. Su una vettura, occupata da ufficiali superiori nazisti, vennero trovate due grosse valigie di orologi di svariate marche e molte pezze di stoffa per vestiti da uomo e da donna, tutte in pura lana, a quanto dicevano gli intenditori.
Questo materiale fu caricato in seguito su due muli e, personalmente coadiuvato dai garibaldini Athos e Scalabrino, lo consegnai al Comando di Divisione «Silvio Bonfante». Allora non ci passò neanche per la mente di dividere questo bottino fra i componenti della Brigata che pure ce n'era bisogno: tutto quanto preso al nemico era ritenuto dovesse appartenere alla collettività, era di tutti e pertanto era sacro, più ancora delle vacche in India, come dicevamo allora.
Al mio ritorno dal Comando di Divisione, dove avevo consegnato il bottino di guerra, anzichè rientrare al Comando Brigata, allungai il mio giro nel territorio per vedere e sentire le novità nei vari Distaccamenti: tutte le notizie confermavano quelle del Comando di Divisione che prevedevano il ritiro dei nazifascisti entro il mese stesso. Il traffico sulla statale era ormai a senso unico: tutto in direzione del Colle di Nava e oltre, mentre i tedeschi di Pieve di Teco requisivano tutti i carri e tutte le bestie che riuscivano ancora a scovare.
Riferii ai vari Distaccamenti quello che avevo saputo al Comando di Divisione (il Comando Divisione era puntualmente informato degli eventi bellici in Europa dalla Missione alleata che era presso il Comando della Prima zona Liguria), raccomandai a tutti, in special modo ai comandanti la massima prudenza: era inutile rischiare più del necessario: avevamo dei fucili mitragliatori meravigliosi con abbondanti munizioni. Dovevamo usarli, ma a distanza di sicurezza, cambiando continuamente di posizione affinché il nemico non potesse localizzarli e fare uso dei mortai. Nel caso fossero stati sottoposti al tiro dei mortai, dovevano allontanarsi immediatamente. L'azione doveva essere continua, ma con una squadra in azione e le altre tre di riserva. Non dovevamo più adoperare i mitra, gli sten, se non per difenderci, oppure per occupare i paesi; dovevamo colpire i tedeschi e i loro alleati fascisti, ma niente eroismi; troppi compagni avevamo già perso, le nostre madri ormai ci aspettavano a casa da un momento all'altro. Era nostro dovere colpire il nemico in ritirata, ma era anche nostro dovere tornare alle nostre case.
Rientrai al Comando di Brigata dopo aver visitato tutti i Distaccamenti della stessa e dopo aver ripetuto a tutti le stesse cose. Quando giunsi al Comando Brigata, Osvaldo e Lello mi informarono di aver dato le stesse disposizioni che avevo dato io a voce, per lettera ai vari Distaccamenti; questo sempre a mezzo di staffette.
Chissà se un giorno qualcuno scriverà qualche cosa sulle nostre staffette; ... Alle volte ho l'impressione che il compito delle stesse sia stato sottovalutato (forse anche dagli stessi partigiani), invece era un compito di grande importanza e pericolosissimo. Andavano sempre da soli e nell'incerto, pressoché disarmati, forniti solo di rivoltelle di dubbia efficienza; dovevano recapitare ordini e istruzioni urgentissime dalle quali alle volte dipendeva la sopravvivenza di intere formazioni, le quali per i più svariati motivi nel frattempo potevano aver anche cambiato sede. Ma loro dovevano trovarle ugualmente, non potevano assolutamente cadere prigionieri del nemico con la posta e siccome in tal caso non serviva più alcuna copertura, i nazifascisti li avrebbero torturati fin tanto che non avessero parlato oppure fossero morti. L'indirizzo era sempre lo stesso: al Comando del Distaccamento oppure di Battaglione, o di Brigata, o di Divisione, sua sede, Vattelapesca. Pertanto era chiaro che questa sede bisognava saperla o cercarsela e comunque non denunciarla.
Se venivano catturati, seguiva pena la tortura e una morte atroce, il che purtroppo spesso capitava, appunto, alle nostre eroiche staffette che non tradirono mai.
Continuammo a colpire il nemico in ritirata sino al 27 aprile nel pomeriggio, quando entrammo in Ormea.
Forse qualcuno criticherà il nostro colpire il nemico in ritirata, sparare su gruppi di uomini in fuga, su carri, su camion, sui più svariati mezzi di trasporto; non è certamente da soldati agire così, si dice. Ma noi non eravamo più dei soldati, eravamo dei «Ribelli», e loro ci chiamavano addirittura banditi; come tali (e ancora peggio) ci avevano trattato. Ci chiamavano banditi e traditori, ma i veri traditori erano invece proprio loro, i fascisti che avevano tradito il 25 Luglio Mussolini, giurando fedeltà a casa Savoia e poi, all'8 settembre, dietro le baionette tedesche, avevano ripresentato giuramento di fedeltà al loro duce. I tedeschi invece facevano la guerra per il loro Führer e noi rendevamo loro quanto loro ci avevano dato in tutto quel periodo di lotta senza quartiere. Eravamo anche dei ribelli alla guerra, ma facevamo la guerra perchè avevamo capito che questo era il prezzo che si doveva pagare per quanto era successo dal 1922 al 1945 nel nostro paese.
Entrammo dunque in Ormea il 27 di aprile, pomeriggio, del 1945.
Giuseppe Garibaldi (Fra Diavolo), Dalla Russia all'Arroscia. Ricordi del tempo di guerra, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, 1994, pp. 188-192

6 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" al Comando Operativo della I^ Zona Liguria - Comunicava l'elenco del materiale ricevuto con il 3° lancio alleato, avvenuto [a Pian Rosso] nella stessa data, materiale in cui figuravano soprattutto 18 Sten con 8000 munizioni, 2 lanciagranate con 28 munizioni, diversi capi d'abbigliamento.
15 aprile 1945 - Dal commissario [Mario, Carlo De Lucis] della VI^ Divisione al comando della VI^ Divisione - Informava che: "... Cimitero [Bruno Schivo] ha attaccato il 4 aprile i tedeschi a Borghetto d'Arroscia: si parla di 4 morti e 6 feriti; Basco [Giacomo Ardissone] non è intenzionato a lasciare il Battaglione 'Turbine'"; Osvaldo [Osvaldo Contestabile, commissario della costituenda IV^ Brigata "Domenico Arnera", già Brigata "Val Tanaro"], che è guarito, probabilmente rientrerà in formazione; Fra Diavolo [Giuseppe Garibaldi, comandante della IV^ Brigata, già a capo nell'autunno 1943 di un piccolo gruppo partigiano in Cipressa (IM)] ha attaccato nei giorni scorsi una macchina tedesca ferendo un tenente colonnello: la formazione colà stanziata funziona bene e continua ad arruolare nuovi volontari...".
16 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" alla formazione garibaldina in Val Tanaro - Comunicava che "Fra Diavolo" [Giuseppe Garibaldi] era nominato comandante - commissario "Lello" [Raffaele Nante], responsabile politico "Barba" - della Brigata "Val Tanaro", dalla quale dovevano ormai dipendere il I° Distaccamento "Mario Longhi" con comandante "Franco" [Franco Bonello] e commissario "Romolo" [Romolo Gandolfo], il II° Distaccamento "Giuseppe Maccanò" con comandante "Arturo", il III° Distaccamento "Ormea", nome dato spontaneamente dai garibaldini che lo componevano, con comandante "King Kong" [Secondo Bottero] e con commissario un partigiano designato da "Lello", il IV° Distaccamento "Garessio" i cui uomini dovevano eleggere il proprio comandante ed il proprio commissario, che i 4 Distaccamenti dovevano "inviare rapportini giornalieri", che la formazione "Val Tanaro" doveva stabilire contatti con il comando della VI^ Divisione tramite la II^ Brigata "Nino Berio".
17 aprile 1945 - Dal comando della II^ Brigata "Nino Berio" della VI^ Divisione "Silvio Bonfante" alla "formazione in Val Tanaro" [non era ancora stata ufficializzata la IV^ Brigata "Domenico Arnera"] - Chiedeva la presenza del comandante "Fra Diavolo" [Giuseppe Garibaldi] ad una riunione ad Alto per discutere un piano con "Basco" [anche "Blasco", Giacomo Ardissone, vice comandante della II^ Brigata].
23 aprile 1945 - Da "Boris" [Gustavo Berio, vice commissario della VI^ Divisione "Silvio Bonfante"] al comando della VI^ Divisione - Scriveva che "Frà Diavolo ha effettivamente 150 uomini... la val Tanaro è completamente nostra politicamente, lo deve essere anche militarmente".
24 aprile 1945 - Dal comando della VI^ Divisione "Silvio Bonfante", prot. n° 340, al comando della formazione "Val Tanaro" - Comunicava la nuova denominazione della formazione, IV^ Brigata "Domenico Arnera".
da documenti IsrecIm in Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

domenica 20 marzo 2022

La tragedia di Upega è costata alla Resistenza quasi una ventina di caduti

Briga Alta (CN) - Fonte: Mapio.net

Abbiamo visto come, preceduti da tre giorni di cannoneggiamenti, reparti tedeschi provenienti da Isolabona, Saorge e Briga, l'8 ottobre 1944 avessero costretto i reparti garibalbini nella zona di Pigna a ripiegare sotto la minaccia di accerchiamento.
Riassumendo: il rastrellamento continua incalzante. Il distaccamento di «Barba» arretra dal monte Vetta. Una pattuglia del 5° distaccamento, armata di due fucili mitragliatori, è inviata in direzione di Castelvittorio per accertare lo stato delle cose, i movimenti nemici e appoggiare eventuali formazioni che già combattono.
La zona che si estende dal confine francese a Pigna e che scende a Castelvittorio-Buggio-Carmo Langan, alle ore 22 non è più sotto il controllo garibaldino; della situazione viene informato con un messaggio anche il 3° battaglione della IV brigata e l'8° distaccamento di «Gori» della V brigata, ritornato nella zona di Beusi a monte di Taggia.
Dopo monte Vetta è perduto il passo Muratone; il distaccamento comando della V brigata è obbligato a indietreggiare da Carmo Langan e a ritirarsi su Triora. Il Comando brigata si prefigge, nell'eventualità di una ritirata, di seguire la direttrice Triora-Piaggia per raggiungere il Comando divisione.
Il distaccamento di «Moscone» che si trovava a Cima Marta per proteggere Pigna dal lato di Briga e che, esaurito il suo compito, attendeva ordini precisi, alle 11 del giorno 9 è messo in allarme dalle vedette; una colonna tedesca sale da Briga, il distaccamento si mette in postazione e l'attacca con raffiche di mitraglia per rallentare la marcia e permettere alla colonna dei muli diretta a Bregalla di guadagnare terreno e mettersi al riparo. Gli acquazzoni si susseguono incessanti per tutta la giornata e i garibaldini sono bagnati fino alle ossa; camminano stanchi e taciturni
[...] la I brigata pone vigilanza alla strada che da Collardente porta alla galleria del Garezzo ove sono in perlustrazione pattuglie avanzate tedesche.
Il distaccamento di Gino Napolitano (Gino) che, dopo essersi trovato in grave difficoltà, da sud-ovest del monte Ceppo si era già portato a Carmo-Langan e poi a Buggio, riesce a riordinarsi a Triora insieme agli altri reparti.
Nei giorni 10 e 11 la calma si ristabilisce. Il nemico sembra avere subito una battuta d'arresto; sembra stia ordinando le fila, preparando nuovi piani d'attacco.
Le perdite sono gravi, molti gli sbandati e le armi perdute.
Durante questa tregua il distaccamento di «Gino» ritorna a Langan con lo scopo di proteggere il ripiegamento della formazione partigiana da un eventuale pericolo di sorpresa.
[...] Il lavoro dei commissari, provvisoriamente interrotto viene riattivato a Triora; si curano i migliori elementi per poi darli affidati ai tre battaglioni della brigata in via di ricostruzione. In questo precario periodo di vita della V brigata i garibaldini hanno dimostrato grande compattezza e massimo coordinamento coi Comandi; ciò verrà confermato nei giorni successivi con l'ulteriore spostamento a Piaggia [Frazione di Briga Alta (CN)], poi a Carnino e indi a Fontane in Piemonte.
Sul ripiegamento ordinato della V brigata, il garibaldino Giulio Manasero (Lulù) racconta: « ... Con l'attacco tedesco a Pigna, non potendo resistere al nemico, i distaccamenti della V brigata riuscirono a ripiegare con ordine, ma questo avvenne anche grazie all'impianto telefonico che ero riuscito a costruire con tenacia e pazienza. Messomi al lavoro dopo l'occupazione di Pigna da parte dei partigiani, avvenuta negli ultimi giorni di agosto, mi misi a collegare con linee telefoniche tutti i distaccamenti della V brigata dislocati su un largo territorio che si prolungava fino a Langan. Con la mia esperienza, costruii un centralino, smontando e selezionando i pezzi di vari apparecchi da campo già in dotazione all'esercito, abbandonati da settembre 1943 nelle varie casematte situate in montagna, come quelle di Margheria dei Boschi, di Muratone, di Lega. Il centralino venne innestato alla ex linea pubblica già dalla "Società dei telefoni e telegrafi", così Langan, Pigna, Marta, Baiardo, Molini di Triora e Badalucco vennero collegati tramite questo ingegnoso lavoro che svolse per un mese un servizio efficiente e, come ho detto all'inizio, fu un prezioso elemento, anche per la salvezza di tutti i distaccamenti nel corso del rastrellamento. Inviati gli ultimi messaggi, con i Tedeschi nelle vicinanze, mi incaricai di distruggere tutti gli impianti...».
Intanto il distaccamento di «Franco» raggiunge Piaggia assieme ad una quindicina di garibaldini di «Leo».
Da Ventimiglia giunge notizia che i tedeschi stanno risalendo la valle del Roja in forze, lasciando sulla costa solo elementi della Marina, mentre a Oneglia pattuglie formate da nazisti e brigate nere partono per perlustrare le strade che danno accesso alle vallate.
La situazione diviene nuovamente critica.
I Tedeschi, distruggendo e incendiando case e fienili per la campagna, compaiono nei dintorni di Triora e la banda locale di Molini si sbanda.
Anche la IV brigata si prepara al peggio: il 7° distaccamento di «Veloce» si tiene pronto a partire per spostarsi sotto monte Ceppo sperando di venirsi a trovare alle spalle dello schieramento nemico, qualora questi operasse verso sud in valle Argentina; nella notte sotto il monte giungono garibaldini sbandati del distaccamento di «Gino» attaccato in mattinata a Langan. Molini è investita da colonne di nazifascisti che riprendono l'offensiva il mattino del 13.
Le prime raffiche prolungate si odono di fronte all'accampamento del distaccamento «Moscone»; colonne di fumo s'innalzano dai tetti delle case di campagna in località Goletta, il nemico dà fuoco a tutto quello che scorge, compresa la casa ove era stato il Comando della V brigata.
Il distaccamento riesce a prendere posizione sul monte Castagna e a rimanervi per quattro ore. Al tramonto, ricevuto l'ordine da «Vittò» di spostarsi, dopo una marcia notturna sotto lo scrosciare incessante della pioggia e per sentieri invisibili ed infangati, raggiunge il paese di Piaggia sul fare dell'alba. I Tedeschi avevano annunciato il loro arrivo a Triora con una breve sparatoria su Langan, dopo aver attraversato il bosco di Tenarda; come abbiamo accennato, incendiati i casoni della Goletta, scendono per i castagneti di Mauta e giunti in località La Besta non proseguono sulla via maestra ma deviano per una scorciatoia che porta alla Noce, indizio evidente che qualche conoscitore dei luoghi li stava guidando.
Giunti nel luogo detto Casin sparano al campanile del capoluogo, come avviso del loro arrivo.
Ondate di soldati tedeschi si susseguono per tutta la giornata. Si fermano nel paese occupando le case private Tamagni, Capponi, Bonfanti, Ausiello, Costa, Moraldo, ecc. L'artiglieria sosta sotto i portici dell'asilo e dell'ospedale; ivi sostano pure le cucine della truppa, mentre la sanità viene si ternata in casa di Lina Novaro (La Baracca) ed i cavalli nella scuderia del «Casermone».
Intanto tutta la V brigata è in ripiegamento verso Piaggia. Avviene in modo ordinato e con calma. Al tramonto del 13 tutti i distaccamenti sono nella zona in attesa di una sistemazione provvisoria. In due giorni la formazione viene riorganizzata con gli effettivi rimasti in efficienza comprendente 350 garibaldini. Mancano ancora i distaccamenti di «Gino» che, rimasto tagliato fuori, riuscirà in seguito a raggiungere Piaggia attraverso il passo della Mezzaluna e la galleria del Garezzo, scansando le colonne nemiche, e l'8° distaccamento di «Gori», in posizione avanzata a Beusi, a monte di Taggia, ove rimarrà per tutto il mese appoggiato a levante dal 3° battaglione di «Artù» della IV brigata
«...il Comando partigiano è sempre a Piaggia; all'intorno sui passi, nei casoni, sulle cime, ancora distaccamenti e pattuglie. Pioggia, fango, umido, nevischio; lento stillicidio dei giorni, la neve è appena sulle cime, l'inverno avanza minaccioso. Il giorno 13 mattino s'ode distinto il rombo del cannone. La V brigata è ancora attaccata; riuscirà ancora a tenere? La domanda ansiosa fa tremare il cuore.
"Osvaldo" [Osvaldo Contestabile] era stato nominato commissario della V e il 5 di ottobre aveva salutato quelli della I brigata prima di lasciarli e rivoltosi al garibaldino Gino Glorio (Magnesia) aveva detto: "Vuoi venire con me? Andiamo verso il fronte, saremo i primi ad essere liberati". "Osvaldo" era partito con la sua pesante coperta sulle spalle... sarebbe stato mai più rivisto?
"Abbiamo ricevuto dal Comando tedesco una specie di ultimatum. Se ci impegnamo a non attaccare ulteriormente i collegamenti tra il fronte e le retrovie, se lasciamo libere le strade, il nemico s'impegna a non molestarci, in caso contrario comincerà il rastrellamento (vedi precedente capitolo: "La battaglia di Pigna")": così il commissario "Osvaldo" scriveva al Comando della "Cascione". La risposta dei garibaldini è netta e decisa: se i Tedeschi sono disposti a lasciare la Liguria, le azioni di disturbo cesseranno, finchè rimarranno sulla nostra terra sarà nostro diritto e dovere attaccarli ad oltranza. Le formazioni partigiane sono cosapevoli di essere più deboli, che il nemico non minaccia invano, può sgominarle, forse per sempre, ma nulla le piegherà a trattare; la sfida sanguinosa è lanciata, se ne sopporteranno le estreme conseguenze.
Il nemico attacca, ritira le truppe dal fronte e le lancia contro di noi, ritira gli alpini scelti, le artiglierie da montagna e rovescia una valanga di fuoco sulle posizioni della V. I nostri ripiegano, attendono che il bombardamento si plachi, più veloci tornano in linea e attendono a piè fermo il nemico che sale all'attacco. Più volte il tedesco è respinto; poi riesce a infiltrarsi, la prima linea cede, Pigna è perduta. La V ripiega su monte Ceppo, Langan, Cima Marta a copertura di Triora.
L'attacco nemico prosegue; ancora artiglierie, bombardamenti, assalti, ancora i nostri senza cannoni e trincee lasciano le posizioni durante il fuoco per tornarvi subito dopo; ancora tre volte il nemico è ributtato con perdite sanguinose; ora, però, il rombo del cannone è troppo vicino e frequente.
A sera giungono i primi sbandati sotto la pioggia che cade insistentemente. Chi ha una coperta, con quella si ripara dall'acqua, alcuni hanno anche lo zaino, altri hanno tutto perduto, scendono dal Frontè, camminano da ore tra la neve ed il fango. Nella notte il Comando divisionale è pieno di garibaldini della V; sono infangati, bagnati, sfiniti, il morale però è alto, forse più alto di quello dei partigiani della I; già, si è sempre sollevati quando si esce da un rastrellamento, si sfugge da un pericolo, si arriva in una zona controllata dai nostri.
"Ciao, 'Magnesia', come vedi sono tornato... però è andata male". Era 'Osvaldo', il commissario della V con la coperta a tracolla. "Petroni", un uomo di "Umberto" racconta le ultime fasi di vita di una banda: il rastrellamento di San Romolo, la scomparsa del capitano "Umberto": "Ora sono con la V, ce ne sono anche altri... No, 'Marcello' non è con noi, è andato in missione verso San Remo ed è scomparso".
Nella stanza c'è un brusio continuo, partigiani arrivano e ripartono, vengono a cercare un compagno, una banda perduta, chiedono notizie, informazioni, si fermano un po' e poi escono a cercare un fienile. Raccontano i particolari della lotta: il nemico molto superiore aveva attaccato di sorpresa approfittando della nebbia.
Cima di Marta era andata perduta e poi, dopo breve e violenta lotta, la disfatta. Certi distaccamenti sono stati tagliati fuori e si ignora la loro sorte, altri hanno perduto i capi, altri si sono sfasciati.
Alcuni, i più, hanno conservato le armi, la compattezza e ripiegano ordinati; hanno ricevuto l'ordine di fermarsi perchè Pigna si va congestionando. Sono indicati loro i luoghi dove accamparsi.
Rapidi e febbrili fervono a Piaggia i preparativi; gli sbandati vengono nutriti, riequipaggiati secondo le possibilità, inquadrati nuovamente; i distaccamenti meno provati sono nuovamente in postazione per rinforzare lo schieramento della I che protegge l'alta val Tanaro dal lato est contro minacce provenienti da Pieve e da Garessio; la V terrà il fronte sud-ovest: Tanarello-Frontè.
Pattuglie partono in tutte le direzioni per segnalare il nemico e prevenire sorprese. Triora, Langan, Molini sono di nuovo occupati dal tedesco che chiedeva con insistenza: "Dov'è Piaggia? Dov'è il Comando?".
La minaccia si aggrava, i documenti vengono nascosti, l'ospedale di Valcona è sciolto; tutti quelli in grado di camminare vengono rimandati in formazione.
Verrà tentata una resistenza ad oltranza. Ogni ora giungono staffette, notizie, comandanti per discutere; si organizza una riserva al centro, si destinano i comandi; il comandante, il commissario e il capo di Stato maggiore della brigata assumeranno la guida dei tre battaglioni, si fanno previsioni sulle direttive di attacco, tutto pare calcolato; c'è però una cosa che si saprà in seguito e che i comandanti sanno: che mancano le munizioni.
Il punto debole della guerra partigiana sono ancora e sempre le munizioni. Per la guerriglia e l'imboscata necessitano pochi colpi: una raffica e tutto è fatto. Per la resistenza, invece no, per tenere una posizione oltre alle armi occorrono i colpi e le armi della I brigata hanno già sparato a Cesio e a Vessalico ... Piaggia è l'ultimo tentativo di apporre al nemico uno schieramento, di tenere una posizione.
I garibaldini non conoscono la reale situazione, il Comando sa e medita. Le possibilità sono varie: sgombrare subito e portarsi in un'altra zona; ma quale? Nessuna presenta garanzie di sicurezza e il nemico avrebbe attaccato ugualmente dirigendo nella nuova direzione le forze ammassate.
In tal caso, la zona di Piaggia, data la scarsità di carrozzabili, sembra la migliore.
Resistere od evacuare durante il rastellamento? L'ultima ipotesi sottrarrebbe le forze partigiane all'attacco nemico, obbligherebbe quest'ultimo a ricominciare da capo tutti i preparativi concedendo così una sosta valutabile a circa un mese.
La difficoltà sta nella scelta della direzione di marcia, nella impossibilità di aver notizie recenti e precise sui movimenti nemici, nella difficoltà di mantenere rapidi collegamenti con i distaccamenti durante la marcia.
Per evitare un sicuro sbandamento che potrebbe, dato l'avvicinarsi dell'inverno e la conseguente demoralizzazione, avere conseguenze più gravi del solito, si decide per la resistenza. Sabato 14 di ottobre: una colonna tedesca di forza imprecisata raggiunge Ormea, è l'inizio; i feriti di Piaggia vengono in fretta evacuati verso Upega, il piano di resistenza contro l'attacco da due direzioni entra in azione, due distaccamenti partono per intercettare il nemico a Ponte di Nava.
L'ansia è nel cuore di tutti.
La giornata di domenica 15, dopo tanta pioggia, è finalmente serena; tutto è tranquillo, silenzioso; si stenta a credere che il rastrellamento sia già iniziato; il cuore, inconsciamente, si apre di speranza ...
Purtroppo la speranza dura poco tempo. Il nemico prosegue il grande rastrellamento iniziato a Pigna il 5 di ottobre. Il giorno 17 a Upega [Frazione di Briga Alta (CN)] sorprende il Comando della II divisione "Felice Cascione".
Cadono valorosi comandanti partigiani. La V brigata "L. Nuvoloni", con la I "S. Belgrano", attraverso il passo del Bocchin d'Aseo (Mongioje) si ritira a Fontane (CN), in Piemonte.
Rientrerà nei primi giorni di novembre in Liguria per riprendere la lotta, che condurrà dura e ininterotta fino alla Liberazione.
Osvaldo Contestabile, La Libera Repubblica di Pigna, ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 1985
 
Ai primi di settembre del 1944 sembrò per qualche tempo che la liberazione potesse essere vicina. Gli Alleati erano sbarcati in Provenza il 15 agosto, provocando un rapido crollo delle posizioni tedesche in tutta la Francia meridionale. Sembrava ora ragionevole attendersi un’offensiva generale degli americani attraverso i passi alpini, approfittando della stagione ancora clemente e dell’appoggio delle forti formazioni partigiane piemontesi e liguri, che certo non sarebbe mancato. Ma gli strateghi angloamericani avevano altri progetti: ritenendo prioritario l’attacco allo schieramento nemico tra i Vosgi e i Paesi Bassi, fermarono le loro truppe su una linea che lasciava il confine franco - italiano e l’intera valle del Roia saldamente in mani tedesche. Siffatta scelta, forse opportuna dal punto di vista militare, condannò tutto il Nord Italia ad un nuovo inverno di occupazione, ma, probabilmente, gli evitò le immani distruzioni causate dai combattimenti nel resto del Paese. Nel clima di fibrillazione di quei giorni, alimentato ad arte dalla trionfalistica propaganda di Radio Londra, i partigiani imperiesi della Prima Zona ligure, credendo fosse giunta l’”ora x”, abbozzarono una calata insurrezionale sui centri della costa che venne stroncata sul nascere da un vasto rastrellamento tedesco talmente tempista da risultare sospetto <1.
I savonesi, meno numerosi ed organizzati oltre che più distanti dal fronte, continuarono la loro attività di guerriglia con il consueto vigore, ma senza esporsi in arrischiate azioni su grande scala. Dopotutto, lo stesso Comando Generale delle Brigate Garibaldi avrebbe rammentato pochi giorni dopo che “L’ora x è già suonata” <2 e che pertanto l’obiettivo principale dei partigiani non doveva consistere solo nel prepararsi ad una futura insurrezione, bensì nell’attaccare giorno per giorno il nemico senza mai concedergli tregua <3. A Savona come altrove, questa direttiva giunse a conforto di una linea d’azione ormai perseguita da mesi.
[NOTE]
1 Per questa vicenda, tuttora piena di lati oscuri, vedi G. Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Genova, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia - La Stampa, 1985 (3 voll.), vol. II, pp. 10 - 22.
2 AA. VV., Le brigate Garibaldi nella Resistenza, Milano, INSMLI - Istituto Gramsci - Feltrinelli, 1979 (3 voll.), vol. II, p. 334.
3 Ibidem, vol. II, p. 334.
Stefano d’Adamo, “Savona Bandengebiet. La rivolta di una provincia ligure (’43-’45)”, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000
 
Finalmente anche il 6 di settembre [1944] finisce: il nemico riunisce i reparti rastrellatori, riforma le colonne, si concentra a fondo valle.
Il pugno di ferro si era stretto: che aveva preso?
Nulla, quasi nulla. Su più di un migliaio di partigiani, solo una decina erano caduti nella rete.
Alle ultime luci del tramonto, i tedeschi lasciano il bosco, le macerie fumanti di S. Bernardo di Conio, di Case Rosse, di Case dell’Erba, delle cascine e dei fienili distrutti, indicano che anche lì, come a Triora, a Molini, a Pornassio, a Villa Talla, erano passate le truppe di Hitler. Non note le perdite nemiche: la popolazione aveva visto scendere per la rotabile di Rezzo alcuni carri chiusi e sanguinanti.
Terminato il rastrellamento, il Comando Divisionale, su consiglio di Curto [Nino Siccardi], nuovamente dispone la sua dislocazione nel bosco di Rezzo, riuscendo a riorganizzare in brevissimo tempo tutta la Divisione, dai comandi ai distaccamenti, per prepararla alle previste battaglie autunnali.
In conformità alla critica storica, non si chiarì mai lo scopo degli annunci radio alleati della loro offensiva sulla costa ligure, poi mancata, con la conseguenza di determinare per alcuni giorni una situazione gravissima per le formazioni partigiane.
Il paese di Upega è posto a fondovalle.
Sotto il paese scorre il torrente Negrone, a monte un ripido pendio dirupato, di fronte è il Bosco Nero.
Il nemico che giunge dal bosco può piazzarsi senza essere visto, di fronte al paese, e di là battere col fuoco delle mitragliatrici, precludendo ogni via di scampo.
Il nemico era stato informato sul movimento partigiano: come prima sapeva che il Comando Partigiano era a Piaggia ed in quella direzione aveva puntato tutte le sue forze, presto venne a conoscenza che tale Comando si era trasferito a Upega, contro cui preparò un’azione condotta da un commando formato da circa duecento soldati SS e alpini austriaci.
La spia nel comando della Cascione aveva funzionato con efficacia.

L’attacco a Upega giunse dal Tanarello, da Limone o da Briga, e la sorpresa fu completa.

[17 ottobre 1944]

Il nemico si avvicina silenzioso, coperto dalla fitta boscaglia.
Al limite del paese, verso le Fascette, in una casa a destra, è il Comando divisionale.
A sinistra, in un altro locale, giacciono i feriti, tra cui Cion [Silvio Bonfante], che sonnecchia e a cui il Curto ha preso il mitragliatore per andare a compiere un giro di ispezione.
I tedeschi riescono ad eliminare i posti di guardia partigiani e giungono alla periferia del paese senza essere segnalati.
Sono udite alcune raffiche, cadono alcuni partigiani di Porto Maurizio. Con il nemico a due passi e con gli spari che rimbombano vicinissimi, molti rimangono confusi e cercano di allontanarsi.
Chi conserva la calma è Curto: impassibile come sempre, cerca di raggiungere chi si allontana, di ispirare loro fiducia, ma invano.
Fallito il tentativo di raggruppare i partigiani a scopo difensivo e strappare al nemico il tempo necessario per trasportare i feriti nella cappella del cimitero del paese o nel Bosco Nero, come era stato precedentemente convenuto, Curto raggiunge al Comando il commissario Giulio [Libero Briganti], ed i due attuano il disperato tentativo di arrestare da soli l’avanzata del drappello tedesco. Sanno che è impossibile in due fermare la valanga, ma forse guadagneranno i pochi minuti necessari per mettere in salvo i feriti, per poi morire.
Giunti fuori dal paese scorgono, in alto a sinistra, i tedeschi che avanzano su due colonne distanziate. Giulio e Curto salgono rapidamente una mulattiera e, portatisi in cima algo, all’altezza dei tedeschi, si appostano dietro una casa. Da lì possono sparare a trecento metri con il mitragliatore contro il nemico quando sarà giunto a tiro.

Mentre Curto prepara la propria arma semi inceppata, Giulio scorge i tedeschi, si sposta fuori dal muro che lo ripara e li raffica.

Poi, rivolgendosi a Curto, col viso pallido e lo sguardo stupito, mormora: “sono ferito”.
Compie qualche passo indietro, a ridosso della casa, e consegna l’arma al compagno al quale si appoggia.
Arretrano entrambi qualche centinaio di metri, non visti dai tedeschi che tardano ad avanzare.
Le forze di Giulio gradatamente cedono, non riesce più a camminare mentre Curto lo aiuta in tutti i modi ad andare avanti per raggiungere almeno una località sicura, tra le rocce, sopra il passo delle Fascette.

Dal basso giungono gli urli laceranti della mitraglia, l’eroico destino di Cion e dei suoi compagni sta compiendosi.
Giulio si trascina ancora avanti: non desidera riposare in un grande cespuglio, ma alle rocce delle Fascette, da cui più in là non si può andare.
Un luogo nascosto ripara i due uomini: il ferito, disteso sul dorso e con il respiro ansante, ogni tanto a stento alza la testa per osservare i movimenti dei nemici sottostanti.
Preparate vicino a sé le armi automatiche per un’estrema difesa, e aperta la camicia piena di sangue, Curto scruta la gravità della ferita del compagno: una pallottola, entrata a sinistra, è uscita alla destra del ventre, e anche i visceri sporgono fuori.

Capisce che per Giulio è la fine, ma non gli dice niente e decide di attendere lì, a fianco, la sua morte.
Non gli rivolge domande su cosa dire ai parenti, affinché il morente non si accorga della sua fine.
Poi, il ferito entra in coma, respira affannosamente, chiede disperatamente acqua che Curto non gli può dare: ha una gran sete, l’emorragia interna sussulto, Giulio rimane esanime.
Coperto pietosamente il corpo con la giacca, raccolte le armi e incamminatosi oltre il passo delle Fascette, alle otto di sera Curto giunge a Carnino, ove reca la dolorosa notizia.

Anche Cion (che è nipote di Curto), ai primi spari, viene portato fuori dal ricovero, adagiato sulla barella dai partigiani e dai congiunti che si trovavano con lui: per non cadere vivo in mano ai tedeschi si uccide con un colpo di pistola, sul sentiero che porta al cimitero.

La tragedia si conclude, il comandante della Volante muore da partigiano.
I tedeschi domandano chi era il ribelle suicidatosi, e viene loro riferito che si trattava di Cion.
Non avevano potuto averlo vivo, ma la radio tedesca in Italia diede la notizia della morte di Cion come un successo delle sue armi.
Questo fu certamente l’omaggio più grande alla sua memoria ed il riconoscimento di quanto egli valesse e di quanto avesse perduto la Resistenza con la sua morte.

I tedeschi, occupato il paese, bruciano armi, documenti, zaini e tutto quello che di partigiano viene trovato.
Rinchiudono gli uomini del paese nella canonica.
Fanno scavare una fossa comune dagli abitanti locali e vi gettano alla rinfusa i cadaveri dei caduti.
Battono il bosco, uccidendo altri partigiani.
La tragedia di Upega è costata alla Resistenza quasi una ventina di caduti.
Nei boschi, dispersi, sono nuclei di partigiani, sono intere bande.

C’è Simon [Carlo Farini] su una barella.
Ci troviamo a Piaggia di Briga Marittima”, scrive il cappellano partigiano Don Nino Martini nella prima metà del mese di ottobre, “Simon ha una temperatura variabile tra i 39 e i 40 gradi di febbre. Intanto le notizie che giungono sono sconcertanti. Gli Alleati, fissandosi sulla frontiera italo-francese secondo i piani prestabiliti, danno libertà e agibilità alla ferocia di qualche migliaio di nazifascisti e delle SS tedesche contro i partigiani. Noi, riuscendo a uscire fuori dal rastrellamento, troviamo rifugio e salvezza in Valle Scura, dove Simon riuscirà a guarire”.

Francesco Biga, U Curtu - Vita e battaglie del partigiano Mario Baldo Nino Siccardi, Comandante della I^ Zona Operativa Liguria, Dominici editore, Imperia, 2001

 

Francesco Agnese. Nato a Diano Marina il 29 luglio 1923. Il 25 marzo 1944 di ritorno da Genova viene arrestato alla stazione di Diano Marina da un reparto di fascisti della famigerata compagnia O.P. del capitano Ferraris; prima dell’arresto riesce a consegnare al fratello Mario un rotolo di volantini “Stella Rossa”. Trascinato al comando fascista di Diano Marina, quindi alla caserma Muti di Porto Maurizio, infine intorno al 4 aprile è rinchiuso nelle carceri di Oneglia subendo numerosi interrogatori e bastonature. Avendo lui ed altri prigionieri la possibilità di evadere, grazie all’azione di un tenente fascista (in contatto con i partigiani), non approfitta dell’occasione, per timore di rappresaglie nei confronti dei parenti. Uscirà dal carcere a fine maggio. Nel luglio 1944 prende contatto con Giuseppe Saguato “Bill” e concorre a formare uno dei primi distaccamenti garibaldini nella vallata di Diano Marina che, raggiunto il numero di ottanta unità, andrà a costituire la “Volantina” di “Mancen”. “Socrate” è molto intraprendente: con Saguato disarma due carabinieri e partecipa agli assalti alle caserme per il recupero di armi; con il suo distaccamento partecipa alle battaglie di Cesio (mettendo in fuga i tedeschi); di Rezzo, combattendo per sei ore e conquistando Monte Alto. E’ in missione a Diano Marina, liberando la città dalla presenza del brigatista nero Enrico Papone. Rientrato al comando è promosso Commissario di battaglione e passa con Germano Tronville “Germano” presso Upega, in Val Tanaro. Il 17 ottobre è tra coloro che tentano di sottrarre “Cion”, (immobilizzato perché ferito a Vessalico l’8 ottobre) al fuoco tedesco, trasportandolo in barella. E’ colpito da una raffica, cade, e muore dissanguato nel bosco.
A Francesco Agnese è intitolato un Distaccamento della Brigata “Silvano Belgrano” - Divisione d’assalto Garibaldi “Silvio Bonfante”.
Redazione, Arrivano i Partigiani - inserto - "2. Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona", I RESISTENTI, ANPI Savona, 2011  

A Upega durante la ritirata si erano radunate gran parte delle forze partigiane contro cui era iniziato il rastrellamento di oltre 5000 militari tedeschi. I patrioti avevano portato lì anche i feriti. Pensavano di essere al sicuro avendo il Mongioie alle spalle. Era il 17 ottobre del 1944. I partigiani che erano arrivati a Upega dopo giorni di cammino, col freddo e la fame, erano stremati. Non sapevano che la spia, che avevano tra loro aveva già segnalato la loro posizione, ai nazisti i quali poterono così sorprenderli, uccidendo le sentinelle che non poterono dare l’allarme. Due comandanti partigiani cercarono di contrastare il più possibile l’avanzata, soprattutto per permettere ai feriti di mettersi in salvo. Caddero in questo impari compito il comandante Silvio Cion Bonfante ed il comandante Libero Giulio Briganti. Cadde anche il medico De Marchi. I garibaldini nel complesso subirono ingenti perdite. I tedeschi devastarono le case e rastrellarono la zona. Alcuni dei patrioti allo sbando furono catturati da militari tedeschi tra il 17 ed il 18 ottobre sul territorio di Briga Marittima e furono trascinati nella vicina Saorge. Torturati per più giorni, vennero fucilati in zona Pont d'Ambo, dominante il letto del fiume Roia, al limite con il comune di Fontan. Saorge era sede del tribunale militare della 34^ Divisione di fanteria tedesca, che occupava il territorio da Imperia al Col di Tenda. Subito dopo la tragica farsa del tribunale, avvenuta il 24 ottobre 1944, lo stesso giorno i garibaldini, legati l'uno all'altro, furono trascinati attraverso il villaggio davanti agli abitanti atterriti fino al luogo dell'esecuzione, dove furono costretti a scavare le loro fosse.  I partigiani fucilati a Saorge il 24 ottobre 1944 furono Lorenzo Alberti “Renzo”, catturato sul territorio di La Brigue il 18 ottobre, Michele  Bentivoglio “Miché”, Francesco Caselli “Pancho” o “Guido”, catturato sul territorio di La Brigue il 17 ottobre, Giovanni Giribaldi “Gianni”, Domenico Moriani “Pastissu”, comandante di Squadra, Carlo Pagliari “Parma”, catturato sul territorio di La Brigue il 17 ottobre [...]  Igor Pizzirusso, Saorge..., Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana

Pagina 15 del Notiziario GNR cit. infra - Fonte: Fondazione Luigi Micheletti

Da informazioni giunte risulta che nel corso delle recenti azioni di rastrellamento, eseguite dalla G.N.R. e da militari tedeschi, sono rimasti uccisi certi Francesco Castagno, padre del commissario della banda "stella rossa"; Silvio Bonfante, detto "Cion" vice comandante della 2^ divisione d'assalto, "Felice Cascione"; Simone [n.d.r.: probabile riferimento - storpiato - a "Simon", nome di copertura di Carlo Farini, a quella data responsabile sia della I^ che della II^ Zona Liguria, poi ispettore della I^, in seguito ancora assurto a responsabilità regionali in seno alla Resistenza], noto capo banda della stessa divisione e certo Lupi, capo banda nella zona di Savona.
E' rimasto gravemente ferito certo Vittorio Acquarone, comandante della divisione medesima, nonché la madre del commissario Castagna.
Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del giorno 8 novembre 1944, p. 15, Fondazione Luigi Micheletti

sabato 12 marzo 2022

Il 3 luglio 1944 si sparse in Triora la notizia che i tedeschi si stavano preparando per compiere un rastrellamento in grande stile

Triora (IM) - Fonte: Comune di Triora

Territorio di Triora (IM) - Fonte: Comune di Triora

[...] Il 10 giugno 1940 l'Italia dichiarò guerra alla Francia e Triora, che si trovava nelle immediate vicinanze del fronte, dovette essere evacuata. Tutti gli abitanti, compresi anche i malati, lasciarono il paese il giorno 13 e furono trasportati via ferrovia in alcune località del Piemonte e della Lombardia, dove rimasero fino al 30 giugno. Nello stesso mese di giugno il governo diede disposizioni per l'inizio dei lavori di costruzione di una grande caserma in regione Ciantà, nei pressi di piazza d'Armi. L'anno successivo il ministero della Guerra fece invece costruire in località Maddalena dall'impresa Visetti di Genova un grande serbatoio d'acqua per il rifornimento idrico del cosiddetto "casermone"; l'acqua vi venne condottata da due sorgenti della regione Gorda Sottana.
Nell'aprile del 1943 venne inaugurata la grande caserma (a quattro piani), ribattezzata dai trioresi il "casermone", intitolata al tenente colonnello Giuseppe Tamagni e destinata ad ospitare una compagnia della milizia confinaria, la GAF.
La caduta del fascismo, avvenuta il 25 luglio 1943, non ebbe particolare risonanza fra i trioresi, che rimasero quasi indifferenti di fronte al crollo del regime; maggiore eco destò invece la notizia dell'annuncio dell'armistizio con gli angloamericani il successivo 8 settembre. Durante quella stessa notte i reparti della GAF di stanza a Triora abbandonarono in fretta e furia tutte le caserme della zona e lasciarono il paese vestiti con abiti civili forniti dagli abitanti.

Il Monte Saccarello - Fonte: Comune di Triora

Il 9 e 10 settembre 1943 i trioresi, approfittando della fuga dei soldati della GAF, saccheggiarono il casermone portandosi via tutto quello che vi si trovava, compresi gli infissi, l'impianto elettrico, le tubature, le mattonelle e i marmi dei pavimenti. L'operazione venne ripetuta il 13 ottobre, quando, con il consenso delle autorità civili e militari del luogo, i trioresi saccheggiarono anche le caserme "Saccarello" e "Cima di Marta".
Il 22 ottobre giunse a Triora il tenente tedesco Halber, che, accompagnato da due fascisti, si rifornì di benzina e viveri. Nello stesso periodo soldati tedeschi collocarono delle mine lungo la strada di valle Argentina e nei ponti che ne attraversavano il torrente. Il giorno seguente il capitano maggiore tedesco Edgard fece arrestare l'ex capitano della Compagnia della GAF di stanza a Triora Eugenio Danovaro, e il podestà del paese Carlo Pesce, che venne però rilasciato. Danovaro fu invece condotto a Bordighera e sottoposto a stringente interrogatorio per sapere se sulle montagne trioresi vi fossero bande di partigiani e disertori.
Il capitano Edgard fece quindi perlustrare a dorso di muli e cavalli le montagne vicine a Triora alla ricerca di eventuali sbandati e disertori, e pare anche del genero del generale Badoglio, che si diceva potesse trovarsi in quelle zone, senza tuttavia pervenire ad alcun risultato positivo.
Come in altri paesi della valle Argentina, anche a Triora e nei suoi dintorni iniziarono ad operare dalla fine del 1943 delle bande di partigiani, che si diedero alla macchia nelle montagne prospicienti il paese. Il 25 marzo 1944 alcuni partigiani, che già da qualche mese si trovavano sulle alture nei pressi di Triora, scesero in paese e operarono il disarmo dei carabinieri di stanza a Triora saccheggiandone la caserma. Nell'aprile successivo altri partigiani iniziarono a prelevare viveri e generi di prima necessità nei negozi di Triora, Cetta, Creppo e Verdeggia. I partigiani, di solito, scendevano nei paesi durante le ore notturne e si recavano dai bottegai e dal podestà portandosi via la farina e i medicinali appena giunti alla popolazione.
Nello stesso lasso di tempo individui armati si presentarono dal podestà Pesce per avere le chiavi del palazzo comunale, ma, di fronte al rifiuto del podestà, si allontanarono lasciando le chiavi del Comune nella porta del palazzo municipale senza che questa venisse manomessa. Verso la fine di maggio, altri gruppi di partigiani si stanziarono sulle montagne trioresi, provocando la decisione delle autorità provinciali di non fornire più di viveri la popolazione di Triora. I principali responsabili delle formazioni partigiane che operavano a Triora, facenti capo alla 2ª Divisione garibaldina "Felice Cascione", erano Nino Siccardi di Imperia, detto Curto, Armando Izzo di Afragola (Napoli), detto Fragola, e Vittorio Guglielmo di Loreto, detto Vittò, che assunse la direzione operativa della Divisione partigiana operante nel territorio triorese.
Il 4 giugno i partigiani fecero saltare il presidio tedesco di Andagna, impossessandosi del materiale che vi si trovava e mettendo in fuga i cinque soldati tedeschi a guardia della baracca. Tre giorni dopo circa trecento partigiani scesero a Triora e occuparono il paese. Il podestà acconsentì alle loro richieste e mise in salvo alcuni impiegati del Comune che i partigiani sospettavano fossero delle spie fasciste. Il 10 giugno alcuni partigiani del gruppo di Triora distrussero la baracca che i tedeschi avevano costruito sulla strada militare della regione Stornina liberando così la strada Triora-Langan.
Il 20 giugno i tedeschi decisero di puntare su Triora con tre camion armati provenienti dalla bassa valle Argentina per compiere una rappresaglia contro le forze partigiane, che si erano già rese responsabili di parecchie azioni di disturbo contro le truppe tedesche. Nei pressi di Carpenosa però la colonna tedesca venne attaccata da un gruppo di partigiani, che ingaggiarono una lotta durissima con i tedeschi utilizzando anche dei mortai. Alla fine della battaglia si lamentarono due morti, uno per parte, e diversi feriti, che furono ricoverati nell'ospedale di Triora.
Dal 26 al 29 giugno alcuni trioresi, armati di moschetto, per prevenire possibili attacchi tedeschi, si misero a presidiare alcune delle principali vie di accesso al paese, mentre la tensione nel paese aumentava sempre di più e i contadini, per precauzione, sospendevano i lavori campestri. Il 30 giugno i partigiani piazzarono dei cannoni sulla piazza Elena e iniziarono a sparare contro il distaccamento tedesco stanziato a monte Ceppo. Due giorni dopo altri cannoni, trasportati a Langan dai partigiani, cominciarono a fare fuoco contro le postazioni tedesche di monte Ceppo.
Il 3 luglio si sparse nel paese la notizia che i tedeschi si stavano preparando per compiere un rastrellamento in grande stile. I partigiani decisero allora di sgomberare Triora per non compromettere la popolazione e si ritirarono portandosi via i feriti e due medici. Nella stessa mattinata iniziarono a convergere su Triora le prime colonne di automezzi tedeschi, inducendo la popolazione triorese, terrorizzata per l'arrivo dei tedeschi, ad evacuare il paese e a mettersi al riparo nelle campagne. Sul campanile il parroco di Triora don Barla, d'accordo con il podestà, fece issare un grande drappo bianco, visibile dall'opposto versante, per scongiurare il bombardamento del paese.
Verso le cinque del pomeriggio una colonna di quattrocento tedeschi, provenienti da Pigna, giunsero a Triora, mentre altri seicento perlustrarono Andagna e Molini, dove uccisero il partigiano triorese Pietro Bronda. Ad Andagna furono anche uccisi sei uomini presi a caso e scambiati per partigiani. Nella stessa giornata i tedeschi rastrellarono tredici persone nei pressi di Carpenosa, che non avevano avuto alcuna parte nell'attacco alla colonna tedesca, le portarono a Molini e le rinchiusero in un casa guardata a vista da alcune sentinelle armate.
Il giorno dopo i tedeschi appiccarono il fuoco alla casa bruciando vivi tutti coloro che vi si trovavano. Intanto i tedeschi giunti a Triora furono accolti dalla popolazione che offrì loro vino e frutta. I soldati presero quindi alloggio nelle caserme del paese e in abitazioni private. La sera il podestà Pesce diede un ricevimento a cui parteciparono alcuni ufficiali tedeschi. Alle prime ore del mattino del 4 luglio il comune provvide di carne, riso e vino le truppe tedesche occupanti il paese. Nel pomeriggio alcune pattuglie tedesche lasciarono Triora e si diressero verso Gorda, Verdeggia, Gerbonte e Realdo, dove bruciarono diverse case e spararono dei colpi di mortaio verso i partigiani.
Alle 16 dello stesso giorno il podestà Pesce venne condotto a Molini per essere interrogato dal comando tedesco, che lo avvertì che, dato il contegno della popolazione, il paese sarebbe stato risparmiato, ma non le tre carserme che sarebbero state danneggiate e rese inabitabili, come infatti avvenne il giorno seguente alle sei di mattina. Dopo la parziale distruzione delle tre caserme trioresi e di una delle due palazzine per ufficiali e sottufficiali, la popolazione, avvertita dal podestà che il paese non sarebbe stato incendiato, rientrarono sul far della sera a Triora dalle campagne circostanti. Verso le 12 del 5 luglio però tre grossi camion di truppe tedesche, di cui uno carico di materiale esplosivo, giunsero a Triora.
Un maresciallo che comandava la spedizione fece chiamare il podestà e gli disse di avvertire la popolazione di lasciare l'abitato perché tra due ore il paese sarebbe stato incendiato. Il podestà protestò vibratamente per la decisione di incendiare il paese che andava contro quanto stabilito in precedenza, ma le sue proteste caddero nel vuoto. Due messi comunali avvertirono in tutta fretta la popolazione dell'imminente pericolo invitandola ad evacuare immediatamente il paese. Nello spazio di un'ora e mezza oltre la metà degli abitanti riuscì a trasportare nelle vicine fasce tutta la roba che era possibile portare via, comprese le bestie e gli animali domestici, quali capre, conigli e galline.
Non tutte le famiglie furono però avvertite in tempo e molte non riuscirono quindi a mettere in salvo i loro averi. Un'ora dopo l'avviso del comando tedesco il paese era quasi completamente evacuato. I tedeschi si diedero allora ad un vandalico saccheggio dei negozi, degli uffici del comune e delle abitazioni private, asportando tutto ciò che li interessasse e scardinando le porte delle case.
Alle 14 i tedeschi iniziarono a pennellare con liquidi neri incendiari le porte delle abitazioni e a porre cassette di tritolo all'ingresso e alle fondamenta degli edifici principali. Le squadre tedesche impegnate nell'opera di distruzione del paese furono tre: la prima si diresse verso via Cima, la seconda verso il quartiere Poggio e la terza imboccò la via Dietro la Stretta. Nel quartiere Poggio, dove non fu utilizzato il tritolo, vennero incendiate cinque case. La squadra, operante nella zona di via Cima, fece invece ampio uso di tritolo e bombe incendiarie. Tutte le case collocate in vicolo Rizetto, posto fra via Cima e regione Ciappe, furono letteralmente rase al suolo.
Dopo la distruzione del Rizetto i tedeschi fecero saltare in aria la palazzina detta della "Scia Marì", cioè Signora Maria, ricca di pregevoli opere d'arte. Fu poi la volta del palazzo dell'ingegner Antonio Capponi, anch'esso contenente numerose opere d'arte. Venne anche distrutta l'attigua caserma dei carabinieri, mentre la soprastante chiesa di San Dalmazzo fu risparmiata. Furono poi fatti saltare in aria o incendiati diversi edifici siti nella piazza della Collegiata, tra cui il locale delle poste e telegrafi e l'albergo dei Cacciatori attiguo all'oratorio di San Giovanni Battista.
I tedeschi passarono quindi in via Roma, dove distrussero parzialmente il palazzo Stella, in cui si trovavano diversi importanti quadri. Furono poi demolite le case site in via della Carriera e posta una notevole quantità di tritolo presso Porta Peirana, che distrusse radicalmente tutto il quartiere circostante. In seguito i tedeschi rasero al suolo il palazzo comunale, distruggendo così il ricco archivio e le preziose suppellettili che vi si trovavano. Venne anche parzialmente danneggiato l'edificio ospitante l'ospedale civico. Al termine dell'immane devastazione, dei sei quartieri di Triora, ne furono distrutti o danneggiati tre: Poggio, Cima e Carriera, mentre gli altri tre, Castello, Camurata e Sambughea, furono risparmiati.
Pare però che i tedeschi avrebbero voluto distruggere anche il quartiere della Sambughea, in quanto, dopo la loro partenza, gli abitanti, tornati nel paese, trovarono 50 chilogrammi di tritolo presso l'ingresso della casa Faraldi in via Cava, la cui esplosione avrebbe senz'altro provocato la distruzione delle case contigue che sarebbero franate su quelle della Sambughea schiacciandole completamente.
Terminata l'opera di distruzione, i militari tedeschi salirono su tre camion e lasciarono il paese. Verso le 19 i primi trioresi rientrarono in paese e iniziarono a spegnere gli ultimi focolai dell'immane incendio, ma quando si sparse la voce che quattro tedeschi, armati di mitra, si stavano dirigendo a Triora da Molini, quelli che erano ritornati fuggirono di nuovo terrorizzati, mentre l'enorme rogo continuava la devastazione delle case. Solo la mattina del 6 luglio furono domati gli ultimi focolai dell'incendio.
Il disastro aveva provocato la distruzione totale o parziale di una settantina di case. Le famiglia rimaste senza casa ammontavano a cinquantadue. In piazza della Collegiata vennero distribuiti viveri alla popolazione sinistrata, mentre, nella stessa giornata, il podestà Pesce istituì tre commissioni: una, per lo sgombero delle macerie, era presieduta da Antonio Asplanato; l'altra per l'alloggio ai sinistrati da Giovanni Viale; la terza, per la fornitura dei viveri, da Adolfo Faraldi. Aiuti ai sinistrati giunsero anche da altre località per un totale di trentamila lire tra denaro e indumenti. Ma il disagio durò ancora diverso tempo, mancando i generi essenziali come il sale e non funzionando nemmeno il servizio postale, fino a quando giunsero viveri da Pigna e da Rezzo. Gli uffici del comune furono sistemati provvisoriamente nell'oratorio di San Giovanni Battista, dove fu anche celebrata una messa la domenica successiva l'incendio del paese. Per oltre due mesi, molti abitanti continuarono a dormire ancora nelle campagne, dove era rimasta anche la roba portata dal paese prima dell'incendio.
L'11 ottobre successivo reparti tedeschi si stanziarono a Triora fermandovisi per circa 40 giorni. Il giorno dopo i tedeschi cominciarono a requisire viveri, vino, fieno, legna e grano. I civili furono obbligati a trasportare le derrate alimentare con i loro muli o, in mancanza di questi, anche di persona, e l'obbligo venne esteso anche alle donne. Gli uomini dovevano anche strigliare muli e cavalli, pulire le stalle e spaccare la legna. Le persone che portavano del cibo ai loro familiari nelle campagne erano poi obbligate a munirsi di uno speciale permesso per evitare di essere sospettate di aver portato alimenti ai partigiani.
Il 21 ottobre i tedeschi prelevarono una ventina di uomini di Triora come ostaggi portandoli a Dolceacqua ma rilasciandoli dopo due giorni. Nel mese di ottobre soldati tedeschi fecero anche incursioni a Creppo e Gerbonte, dove incendiarono diverse case e asportarono capi di bestiame. Il 9 novembre, in occasione dell'anniversario delle vittime naziste del putsch di Monaco di Baviera del 1923, le truppe tedesche di stanza a Triora, Molini e Andagna si riunirono a Triora presso l'oratorio di San Giovanni Battista, dove commemorarono i caduti del putsch con un pranzo e canti popolari.
Il 18 novembre i tedeschi lasciarono Triora, mentre, nello stesso giorno, aerei alleati sganciavano delle bombe presso il torrente Capriolo senza tuttavia fare danni e vittime. Il 3 dicembre successivo tutti gli uomini di Triora vennero condotti nella piazza della Collegiata. I militi repubblichini dissero che avevano bisogno di uomini per riparare la strada militare interrotta dai partigiani. Di questi uomini ne furono presi una ventina e portati a Pigna, dove una parte venne rilasciata, mentre altri tredici furono trasferiti a Sanremo come ostaggi, e poi rilasciati dopo sei giorni grazie all'intervento del podestà di Triora.
Il 10 dicembre alcuni partigiani lanciarono una bomba anticarro contro due automobili tedesche sulla strada militare Molini-Rezzo facendo diverse vittime tra i tedeschi. In seguito a questo grave episodio, a Triora la gente ripiombò nella paura temendo un'altra terribile rappresaglia. Due giorni dopo i fascisti "Cacciatori degli Appennini" occuparono Triora e la zona circostante ordinando la chiamata alle armi ai giovani trioresi soggetti al servizio militare. Il 23 gennaio 1945 i fascisti effettuarono un primo rastrellamento dei giovani inclusi nelle classi chiamate alle armi. Il 14 febbraio i partigiani assalirono una colonna di fascisti e tedeschi a Langan, uccidendo cinque fascisti e ferendo gravemente un tedesco, mentre un altro tedesco, salvatosi, raggiunse Briga, dove aveva sede il comando tedesco, per avvertire i superiori dell'eccidio. A Triora la popolazione tornò nel più totale sgomento e temette seriamente una nuova rappresaglia tedesca.
Verso il 20 febbraio i "Cacciatori degli Appennini" lasciarono Triora e furono rimpiazzati dai militi repubblicani, detti Bande Nere, facenti parte della Guardia Nazionale Repubblicana. Il 28 febbraio i tedeschi riuscirono ad impossessarsi di un cifrario indicante i segnali da fare agli aerei alleati per avere soccorsi. Fu quindi ordinato agli aerei alleati di sganciare viveri e altro materiale sulla cima del monte Marta, come infatti avvenne poco dopo. I tedeschi, nascostisi con i loro muli nelle stalle e sotto gli alberi, si impossessarono quindi dell'ingente materiale lanciato dagli aerei alleati e lo fecero trasportare da uomini e donne di Pigna e Briga nella vicina Briga. Parte di questo materiale sarebbe poi stato consumato o distrutto a Briga, e il restante trasportato a Ivrea. L'11 marzo si verificò un altro rastrellamento di giovani chiamati alle armi, mentre la zona Bregalla-Creppo-Gerbonte veniva perquisita casa per casa. Verso la fine del mese vari partigiani ed un civile di Gerbonte vennero uccisi dai tedeschi. In totale i caduti nelle azioni partigiane svoltesi a Triora e dintorni tra la fine del 1944 e i primi mesi del '45 furono parecchi da entrambe le parti.
Tra il 23 e il 24 aprile 1945 iniziò la ritirata dei tedeschi, che, con carriaggi e cannoni, scesero a valle tra i castagneti di Stornina. I mulattieri trioresi furono obbligati a trasportare materiale tedesco dai militi repubblichini. Durante la ritirata un soldato repubblichino sparò un colpo di cannone che arrestò momentaneamente la marcia della colonna tedesca, che, però, dopo venti minuti, riprese il viaggio verso valle. [...]
Redazione, La Storia di Triora, Comune di Triora

Triora (IM) - Fonte: Comune di Triora

Anche a Triora i tedeschi arrivarono il 3 luglio 1944, accolti dalla popolazione che offrì loro vino e frutta.
Il comando tedesco assicurò il podestà che "non sarà usata rappresaglia contro Triora in considerazione del buon comportamento della popolazione locale. Saranno però rese inservibili le 3 caserme già occupate dai partigiani".
Il giorno seguente, invece, i nazisti, oltre agli obiettivi militari sopradetti, bruciarono con le stesse tecniche impiegate a Molini di Triora ben metà delle case del centro abitato.
Sul far della sera del 5 luglio 1944 i tedeschi lasciarono quei luoghi, lasciando dietro di sé distruzione e disperazione.
A Triora come a Molini fu tuttavia viva la solidarietà degli abitanti meno colpiti verso coloro che avevano avuto tutto distrutto.
Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 1998 - 1999

Territorio di Triora (IM) - Fonte: Comune di Triora

I tedeschi non si fecero vedere fino al 22 ottobre 1943, quando in cerca di benzina e viveri giungeva a Triora il tenente tedesco Halberg, accompagnato da due fascisti, mentre altri armati del Reich stendevano campi minati e imbottivano di tritolo i ponti in Valle Argentina. II giorno dopo, il capitano tedesco Edgard faceva arrestare Eugenio Danovaro, ex ufficiale della GAF, ed il podestà Carlo Pesce. Danovaro era condotto a Bordighera ove subiva interrogatori in quanto presunto caporione di ribelli e probabili bande di disertori e sbandati. A tale riguardo, l'Edgard, con altri commilitoni, perlustrava a dorso di mulo le montagne circostanti il paese.
Più o meno in quel torno di tempo gli antifascisti locali d'antan avevano costituito il primo CLN Comunale, così formato: Adolfo Borelli, presidente (PCI); Egidio Antola, segretario (ind.); Mario Arnaldi (PSIUP), Giobatta Oddo (PCI) e Angelo Lanteri (PSIUP), membri. In seguito questo CLN varierà in parte nella composizione e nella rappresentanza, con l'uscita di Antola e Oddo e l'ingresso di Angelo Gazzano per il PCI e Luigi Lanteri per il PLI, mentre Adolfo Borelli rappresenterà il Pd'A e Angelo Lanteri la DC. Il CLN di Triora era in contatto con il CLN Circondariale di Sanremo.
Triora fu uno dei primi Comuni a costituire una Giunta Popolare cospirativa, composta: Antonio Asplanato sindaco, con Lorenzo Giordano, Giacomo Moraldo, Lorenzo Novella e Domenico Velli consiglieri. Carlo Pesce, ufficialmente podestà del Comune, al tempo stesso aveva rapporti con la Resistenza e con il comandante partigiano Vittorio Guglielmo (Vittò).
Nell'ambito della lotta di Liberazione è, altresì, doveroso ricordare il medico Giuseppe Bottari per il prezioso aiuto da lui dato alle forze partigiane.
Il primo ottobre 1944 Libero Briganti (Giulio), commissario della II Divisione d'assalto Garibaldi "F.Cascione", a Triora aveva convocato i rappresentanti delle Giunte cospirative di Badalucco, Montalto, Molini di Triora e Carpasio  per discutere alcuni problemi, tra cui la nomina di un rappresentante dei Partiti antifascisti in ciascun paese, la distribuzione dell'olio prodotto dai vari Comuni alla popolazione della vallata ed il suo prezzo, il prezzo della carne, del latte, delle patate, delle castagne, del grano, del carbone e così via, tenendo conto della poca capacità di acquisto degli abitanti dei paesi colpiti duramente dalle rappresaglie nemiche. La relazione scritta dal commissario Giulio termina nel modo seguente:" Dagli interventi dei rappresentanti dei sopraccitati Comuni risulterebbe che lo stato d'animo di tutta la popolazione della vallata è favorevole ai partigiani. Se il nostro Comando fosse in grado di disporre delle armi, potrebbe inquadrare rapidamente dai 200 ai 300 uomini. I contadini non oppongono nessuna difficoltà per la consegna temporanea ad esso dei loro muli...".
Alla data del 25 aprile 1945, sulla scorta della documentazione, la Giunta della Liberazione risultava così composta: Carlo Pesce sindaco, Adolfo Faraldi assessore anziano, Giobatta Oddo assessore supplente. Successivamente veniva nominato sindaco Giacomo Saldo, con Adolfo Faraldi assessore effettivo, Giacomo Moraldo e Giacomo Lanteri assessori supplenti.
[...] Durante i giorni che vanno dal 3 al 6 luglio i tedeschi compiono su Triora il più duro e feroce rastrellamento di tutto il periodo della Resistenza: case incendiate o distrutte, rapine di tutti i generi, desolazione a non finire. Dall'11 ottobre al 10 novembre 1944 il paese rimaneva presidiato dai tedeschi che, prelevati una decina di ostaggi, li trattenevano a Dolceacqua per alcuni giorni.
Nel 1945, durante i due primi giorni di febbraio a Carmo Langan venivano catturati una decina di nemici, puniti poi severamente dal Tribunale della V Brigata partigiana. Il 14 successivo scontri con il nemico nelle zone di Bregalla, Gorda e Foresto. Purtroppo il 28 dello stesso febbraio un lancio alleato cadeva in mano ai tedeschi su Monte Vacché (Cima di Marta), mentre i partigiani nell'operazione perdevano quattro uomini.
Il 16 aprile 1945 il Comando tedesco, constatato il continuo aumento dell'attività partigiana, faceva affiggere dal podestà il seguente avviso: "Da oggi fino a nuovo ordine il coprifuoco è fissato dalle ore 8 di sera alle sette del mattino. Nessuno deve transitare per le campagne, per i boschi, e devono essere percorse solamente le strade principali. Sono considerate strade principali, oltre le carrozzabili, anche le mulattiere Molini Triora, Molini Andagna, Molini Corte, Triora Loreto Creppo Realdo Verdeggia, Triora Cetta Bregalla, Triora Goina..."
Una trentina di cittadini di Triora sono stati riconosciuti partigiani combattenti al termine del conflitto, quattordici caduti in combattimento
[...] Durante le tremende rappresaglie, fortuna volle che fossero relativamente pochi a Triora i civili uccisi dal nemico rispetto ai tremendi danni subiti dalle abitazioni e dalle campagne. Nondimeno tragica fu la fine di cinque inermi abitanti di quelle contrade. Ecco i loro nomi: Ernesto Arnaldi fu Antonio, Antonio Borelli fu Antonio, Francesco Lanteri fu Francesco, Giobatta Laura di Giovanni, Antonio Rebaudo fu Antonio. Dolorosi senz'altro anche i danni materiali subiti da una popolazione già abbastanza provata dai disagi e dalle ristrettezze del tempo di guerra. Dunque, riguardo ai danni all'abitato, contiamo ventisei case distrutte, quarantatré gravemente danneggiate, quarantotto danneggiate solo in parte. Quanto all'agricoltura, diciamo che sono stati incendiati una sessantina di casolari, una ventina di stalle e fienili, asportati tutti i veicoli a traino animale. Ingente la perdita di bestiame: sessantasette bovini, diciotto equini, duemila ovini razziati dal nemico. Si aggiungano quasi tremila quintali di fieno, centocinquanta di paglia, trenta di cereali, settanta di vino, trecento di patate. Infine, per quanto riguarda il commercio, risultarono incendiati, distrutti o saccheggiati ventitré negozi, magazzini e rivendite.
I militari reduci dall'internamento in Germania o nei Balcani furono ventiquattro (la maggior parte fatti prigionieri in zone di operazioni in Grecia, Albania, Iugoslavia, altri rastrellati nel Veneto). Tutti patirono le più atroci sofferenze a causa soprattutto del lavoro forzato, della fame e dei maltrattamenti subiti da parte dei tedeschi in qualità di I.M.I. (Internati Militari Italiani), sottratti alla protezione delle convenzioni internazionali sui  prigionieri di guerra.
Triora è da considerare uno dei paesi del Ponente ligure che più hanno dato alla lotta di Liberazione non solo per partecipazione di uomini, ma anche in termini di sofferenze e di privazioni.
Francesco Biga e Ferruccio Iebole (a cura di Vittorio Detassis), Storia della Resistenza Imperiese (I^ Zona Liguria) - vol. V, Ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2016