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martedì 5 novembre 2024

Hanno preso Aldo, il capo della Stella Rossa

Mondovì (CN). Fonte: mapio.net

Arnera, capo di Stato Maggiore della I^ Brigata "Silvano Belgrano", a quel tempo ancora incorporata nella II^ Divisione "Felice Cascione", venne arrestato in Val Tanaro il 18 dicembre 1944 a seguito di un'involontaria delazione e fu fucilato a Mondovì (CN) il 27 dicembre 1944. A lui venne intitolata la IV^ Brigata della nuova Divisione "Silvio Bonfante".
Si presero contatti anche con le formazioni autonome di "Mauri".
Rocco Fava, La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste,  Anno Accademico 1998-1999

Domenico Arnera, nato a Savona il 25 aprile 1917, aiuto disegnatore, già sottufficiale di marina. Come molti savonesi di Villapiana, quartiere dove abita, aderisce al movimento della Resistenza. Agli inizi di luglio 1944 è tra gli organizzatori delle formazioni garibaldine liguri in Val Tanaro, comandante del Distaccamento "Bellina", dislocato a Fontane di Frabosa Soprana: è attivissimo nella raccolta di derrate alimentari, coperte ed abiti per i distaccamenti. A fine ottobre è Capo di Stato Maggiore della Brigata "Belgrano" della Divisione Garibaldi "Felice Cascione". È arrestato in Val Corsaglia il 18 dicembre 1944, a seguito di una involontaria delazione di un abitante del luogo che, vedendolo passare scortato da un tedesco armato, pare abbia commentato: "Hanno preso Aldo, il capo della Stella Rossa". In realtà Arnera, in compagnia di Fred Sutterline (disertore tedesco ancora in divisa, appena arruolatosi con i partigiani) è in viaggio verso l'ospedale di Mondovì per ricevere cure appropriate e debellare un'infezione. È condotto a Corsaglia, quindi a Mondovì Piazza e rinchiuso nelle carceri della Caserma Galliano. I tentativi dei comandi partigiani per uno scambio di prigionieri non danno l'esito sperato; Aldo viene fucilato il 27 dicembre 1944.
Decorato alla memoria di medaglia di bronzo al valor militare: "Durante un forte rastrellamento da parte del nemico, incurante del pericolo, sotto l'imperversare di un'intensa azione di fuoco, provvedeva ad occultare un ingente quantitativo di viveri evitando che cadesse in mani nemiche. Sebbene ferito, rimaneva ancora per cinque giorni al suo posto di lotta, finché sfinito di forze, veniva fatto prigioniero; sottoposto a torture e sevizie le sopportava fieramente destando l'ammirazione dello stesso avversario. Affrontava serenamente la morte senza svelare alcuna notizia". Val Corsaglia-Mondovì, 10-27 dicembre '44
Redazione, Arrivano i Partigiani - inserto 2. Le formazioni di montagna della I^ e della VI^ Zona Operativa Ligure che operavano nella provincia di Savona, I RESISTENTI, ANPI Savona, 2011

Prima di proseguire con la storia di Elia accenno alla fine drammatica del suo carissimo compagno ed ex comandante "Aldo" Domenico Arnera. Di questa morte Elia ne sarà edotto quando a sua volta sarà arrestato e giungerà nella medesima stanza di reclusione. Ecco gli avvenimenti.
Il grande rastrellamento delle forze nazi fasciste iniziato il 7 dicembre 1944 ha portato alla morte molti partigiani dell'intendenza garibaldina ligure comandata dal tenente "Aldo". Sono stati fucilati: De Grossi, Regis, Grondona, Pastorelli, altri sono dispersi o sono in arresto. Il 17.12.1944 Domenico Arnera è affetto da un'infezione alla mano causata da una ferita prodotta dalla ventola di una macchina o da una catena della moto (l'incidente non è chiaro): si è ferito mentre la stava riparando. L'alta febbre gli pervade tutto il corpo, nonostante le cure prestate dal dottore partigiano Severino Travaglio, nato a Mondovì (CN) il 18.12.1918, con i medicinali di fortuna allora disponibili.
"Aldo" decide a questo punto di farsi ricoverare nell'ospedale di Mondovì. In tasca ha un permesso tedesco ed è accompagnato da un disertore tedesco ancora in divisa, Fred Sutterline, un alsaziano di Moulhouse, recentemente arruolato tra i partigiani (sequestrato a Mondovì - vedi lettera precedente di "Aldo").
"Aldo" ha passato la notte a Corsaglia nell'albergo Europa e si avvia verso l'ospedale di buon'ora. <31 Passa davanti alla trattoria di Corsagliola dove vi sono seduti il calzolaio Giovanni Viglietti, il panettiere Giovanni Prucca ed il suo garzone Volpe. Seduto ad un altro tavolo c'è il maresciallo degli Alpini del Cadore M. Massa. Scorgono il passaggio di "Aldo" accompagnato dal disertore tedesco armato ed il commento che echeggia dalla bocca del calzolaio è: "Hanno arrestato Aldo, il capo delle Stelle Rosse". Il maresciallo repubblichino intuisce, si precipita fuori dalla trattoria, li rincorre e li arresta.
Questa delazione forse involontaria o superficiale procura in seguito un processo partigiano al calzolaio Giovanni Viglietti che, nonostante i buoni rapporti di collaborazione con le forze resistenti, vede svolgersi un'accurata indagine sul fatto da parte garibaldina, effettuata dai comandante "Lello" Raffaello Nante, di Nicola, nato ad Imperia il 07.10.1924, valoroso capo partigiano sottoposto di "Fra Diavolo". <32 "Lello" ha aderito al movimento ribelle assieme al fratello "Libero", Libero Nante, nato a Imperia il 30.lO.1920, allora studente universitario in medicina, e alla sorella Angela Nante, nata nel 1929.
Il Viglietti è convocato a Fontane [Frazione di Frabosa Soprana (CN)] per il processo, viene accompagnato dal partigiano Francesco Bellotto, "Valleggia", nato a Teolo (PD) il 05.07.1925, ma Quilianese di adozione. <33  Dall'interrogatorio delle persone presenti e dal Viglietti stesso emergono delle dichiarazioni un po' discordi, forse un po' reticenti, ma "Lello" lo tratta con umanità, senza il rigore del tempo. Altri partigiani del Gruppo del Cap. Cosa testimoniano a favore del Viglietti: tra essi figurano il famoso gruppetto di Sardi, Giovanni Salis, Mauro Pisano, Agostino Schirra, Raffaele Mannai e i monregalesi Claudio Manfredi e Piero Basso. <34 E' fuor di dubbio che Arnera conoscesse il calzolaio con cui ha intrattenuto rapporti per l'acquisto di scarponi: l'esclamazione incriminata forse è dovuta alla sorpresa del passaggio. Dopo aver redatto diligentemente le dichiarazioni degli interrogati, la sentenza conclude il processo non toccando la vita ma solo il portafoglio. Sono ben duecentomila lire di multa comminate e regolarmente pagate dal Viglietti, come attesta la ricevuta (rintracciata nell'Istituto Storico della Resistenza di Imperia) controfirmata da Germano Tronville. E' una cifra notevole ma commisurata all'alto grado che rivestiva il ten. "Aldo". <35
Torno all'arresto di Arnera:
Domenico è condotto a Corsaglia, quindi a Mondovì Piazza e rinchiuso nelle carceri della Caserma Galliano; da una sua lettera fatta uscire fortunosamente dalla prigione dalla staffetta "Iuccia/Sonia", Rustichelli Martini Maria, nata a
Moline di Vicoforte Mondovi (CN) 10.11.1900, e "Matilde", Cuniberti Martini Margherita, nata a Vicoforte Mondovì (CN) 03.08.1903, ci ricorda la sua triste condizione di prigioniero "carico di pidocchi" e la drammaticità della sua detenzione. Spera di uscire vivo da quell'inferno ventilando uno scambio tra prigionieri partigiani/fascisti. Purtroppo per il tenente "Aldo" l'agognata libertà sarà solo un sogno: c'è la fretta di un nuovo bagno di sangue nel comando tedesco di Mondovì, dopo quello del 18.12.1944, dove sono stati giustiziati Domenico Penazzo, Giovanni Scotto, Giuseppe Regis "Placido", suo inseparabile compagno di banda, savonese di adozione, e Giovanni Audisio, una guardia campestre che, prigioniera dei partigiani, è arrestata nel rastrellamento dai tedeschi e accusata di essere un partigiano. Non viene creduta la sua fede fascista e deve soccombere al pari degli altri partigiani.
Ecco il testo della lettera di "Aldo" <36:
"all'interrogatorio ho detto di essere venuto nei partigiani il 12 Agosto circa, perché convinto dalla propaganda per la paura di essere portato sul fronte a combattere. Ho riferito che facevo soltanto il servizio di rifornimenti viveri, vestiario, ecc. Ho detto che mi ha accompagnato un tizio che non conosco verso i partigiani e sono sempre stato in magazzino. Le località in cui io sono stato sono: Ponti di Nava, Piaggia, Viozene, Fontane. Se è possibile comunicare al Curto della mia prigionia e far sì di avere un cambio, quindi se prendono dei prigionieri tenerli per me, oppure rivolgersi anche ad altre formazioni del Piemonte ed in caso prendano qualcuno tenerlo per il cambio con me. Io non ho parlato. Ho detto che a Mondovì ed in altre zone io non ho nessun collegamento. Mi occorre: sigarette, fazzoletto e quello che si può perché sono pieno di pidocchi. Saluti fraterni a tutti, Aldo".
Dopo circa dieci giorni dal suo arresto, mercoledì 27.12.1944, per il tenente e i suoi compagni di sventura, Luigi Borini, Francesco Leonardi, Alberto Tallone, RoccoVerdone è l'ultimo giorno di vita. Si salva una donna, "Mitzi", madre di quattro figlie, con il marito in guerra (così dice lei): condannata a morte e detenuta con gli uomini (cosa alquanto strana), è graziata e rilasciata all'ultimo minuto.
Viene comunicata l'esecuzione: di lì a poco tempo arriva il prete Don Vincenzo Sclavo, che raccoglie le ultime volontà dei condannati, i pochi oggetti personali da far pervenire ai famigliari ed amici <37. Dopo un sentimento di ribellione ad una morte così crudele che attanaglia tutti i reclusi, subentra la rassegnazione. Francesco Leonardi ha sperato fino all'ultimo nello scambio: dal mese di novembre c'è in piedi una trattativa, il suo nome compare in un documento tedesco (ne parlerò in seguito) con una lunga serie di persone.
Il 07.12.1944 sono ceduti 31 tedeschi catturati a Pogliola (CN) e liberati 90 ostaggi delle Nuove a Torino ma per lui nulla, nessuna liberazione, una crudeltà. "Mitzi", dopo aver salutato e baciato i condannati, sviene. Forse si è affezionata durante la prigionia a questi compagni, non regge vederli andare incontro alla morte. Borini, il più giovane, recrimina su questa sorte; solo un prigioniero già ferito e claudicante nella via Vasco che li porta alla fucilazione, si lamenta penosamente preso dallo sconforto. Gli altri condannati con le mani legate dietro la schiena ma con coraggio affrontano il plotone di esecuzione e i ghigni dei giustizieri comandati da un maggiore che non li fa fucilare tutti assieme, ma per incutere ancora più dolore e paura li uccide uno per volta. Arnera è il terzo, il suo ultimo pensiero per l'amata Minnie si ferma tra gli schizzi di sangue prodotti dalle raffiche dei mitra. Poi i corpi sono portati al cimitero con l'ausilio del comune che fornisce le casse di legno e l'opera pietosa di alcune donne del soccorso.
Il tenente "Aldo" è decorato con medaglia di bronzo.
Un'ultima annotazione da tenere a mente: "Aldo" muore due giorni prima dell'arresto di Elia Sola, che sarà imprigionato a sua volta nello stesso stanzone e con i medesimi compagni reclusi con "Aldo".
[NOTE]
32 Verbale all'Isrecim
33 Testimonianza orale di Francesco Bellotto
34 Verbale all'Isrecim
35 Documento originale in Isrecim
36 Lettera inviata ad Alfonso = Aldo Peirone, Isrecim
37 Diario scritto di Don Vincenzo Sclavo a Niella Tanaro

Ferruccio Iebole, Partigiani, Martiri Liguri, Piemontesi e Cacciatori degli Appennini, Edizione AeC - Mondovì, 2005, pp. 47-50 

domenica 10 aprile 2022

Natale a casa per due partigiani di Imperia

Imperia (Oneglia): Via Amendola

Riportando in breve una statistica, possiamo dire che, mentre nel periodo estivo la consistenza numerica della I^ brigata ammontava a circa settecento partigiani, essa si ridusse ad un centinaio nell'inverno; gli uomini rimasti erano suddivisi in una dozzina per ogni distaccamento. Ecco perché i tedeschi si limitavano a fare delle puntate: sapevano che i partigiani potevano opporre poca resistenza.
Fu in quel periodo, durante questa pericolosa situazione, che decisi di farmi tagliare i capelli in modo normale; se mi avessero catturato con quei capelli lunghi, sarei stato immediatamente fucilato; non  mi avrebbero nemmeno chiesto: «Tu partigiano?». Invece con i capelli normali forse (dato che fin che c'è vita c'è speranza) non mi avrebbero fucilato subito, probabilmente più tardi. Aggiungo ancora che possibilmente non mi sarei lasciato catturare vivo.
A metà dicembre 1944, su ordine del comando [n.d.r.: della I^ Brigata "Silvano Belgrano" della Divisione "Silvio Bonfante"], ci trasferimmo a monte dell'abitato di Diano San Pietro, in una località denominata "Besta" e anche lì ci trovammo bene: solidarietà da parte della popolazione, la quale ci forniva viveri e tutto quanto ci poteva servire.
Fu in quei giorni che io e Germano Belgrano pensammo di trascorrere il Natale con le nostre famiglie. Però Germano aveva i genitori sfollati che non avrebbero potuto ospitarci, mentre la mia casa era più grande. Con le staffette stabilimmo che alcuni giovani della SAP di Oneglia ci avrebbero fatto strada e dalla cima di Santa Lucia ci avrebbero accompagnato e scortato con discrezione sino alla mia casa sita nell'attuale via Amendola.
Alla cima di Santa Lucia incontrammo Vittorio Aliprandi che, per ragioni di salute, era ritornato a casa ma si dava da fare. Ci disse di stare attenti alle caserme di Santa Lucia perché sulla strada c'era un commissariato di polizia, e all'inizio di via Roma, nell'ex caserma dei carabinieri, c'erano dei tedeschi. Dunque, avevamo un sapista davanti e uno dietro che ci scortavano; essendo pratici del luogo avrebbero notato subito degli sconosciuti e ci avrebbero messo in guardia. Ad ogni modo io e Germano avevamo la pistola e, all'occorrenza, ci saremmo difesi.
Quando le cose debbono andare bene, vanno bene, però si possono prendere anche delle paure: infatti, giunti davanti al commissariato di polizia, il caso volle che dei ragazzini, giocando a palla, rompessero un vetro alla porta del commissariato stesso, dal quale uscirono immediatamente due agenti in borghese chiedendo ad alta voce chi fosse stato il colpevole. Io misi la mano sulla pistola pronto ad usarla, ma Germano se ne accorse e, più freddo di me, mi disse di stare fermo, di far finta di niente e di proseguire. Per fortuna si fece avanti un ragazzino il quale, parlando con i poliziotti, ammise di essere stato l'autore del misfatto. Nel frattempo noi ci eravamo allontanati.
Ma quando giungemmo davanti alla caserma dove erano alloggiati i tedeschi, all'inizio di via Roma, scorgemmo un soldato di guardia; quando ci vide, ci guardò intensamente come se scorgesse in noi qualche cosa di strano. Anche in questa occasione misi mano alla pislola senza estrarla trovando sospetto quello sguardo insistente. Anche in questo caso Germano mi invitò ad essere normale non facendo caso alla sentinella.
Quando giungemmo in vico Santa Elisabetta (a cinquanta metri dopo la caserma) infilammo di corsa la scala che conduceva a casa mia. Ivi trovai i miei genitori, mia nonna, una zia, una cuginetta e la mia sorellina di otto anni; seguirono molti abbracci festosi per me e per Germano.
Dopo i convenevoli non potevamo non parlare della nostra situazione, della guerra, di coloro che erano morti sia in montagna che sotto i bombardamenti, dei partigiani fucilati in città e di altri argomenti simili. Intanto ci preparammo  a cenare e la cosa ci allettò alquanto perché mia madre ci aveva preparato delle cose buone, compreso un buon risotto alla seppia, cose che oramai noi avevamo dimenticato.
Ad un certo momento, mentre stavamo per iniziare a mangiare, sentimmo bussare alla porta; siccome non doveva arrivare più nessuno, rimanemmo perplessi. Allora io e Germano, guardandoci in faccia con apprensione, passammo nella stanza accanto mentre mia zia chiedeva, senza aprire la porta, chi avesse bussato. Rispose una voce gutturale, inequivocabilmente tedesca: «Sono Hans, signora, sono venuto a vedere se mi ha aggiustato la giacca della divisa». Io e Germano questa volta avevamo messo veramente mano alle pistole, ma a quella voce ci sedemmo tranquillizzati in attesa che il tedesco se ne andasse. Infatti, ritirata la giacca, si scusò per il disturbo recato nell'ora di cena; forse si sarebbe fermato volentieri a fare quattro chiacchiere, come se fosse stato con i suoi familiari, ma mia madre e mia zia gli fecero presente che a tavola vi erano due piatti in più perché dovevano giungere altri due parenti, per cui il tedesco se ne andò e noi potemmo ritornare a mangiare. Salimmo poi a dormire in un lettone e sprofondammo in morbidi materassi di lana ai quali da molto tempo avevamo rinunciato. Il giorno successivo giunse il padre di Germano a trovarci, stette un paio d'ore con noi, ci ricordò piangendo l'altro suo figlio, Silvano, caduto il 19 giugno 1944 durante il rastrellamento di Pizzo d'Evigno. Aveva paura per Germano, ma questi lo rassicurò raccontandogli qualche storia, facendo presente che la guerra sarebbe finita presto.
Sandro Badellino, Mia memoria partigiana. Esperienze di vita e vicende di lotta per la libertà di un garibaldino imperiese (1944-1945), edizioni Amadeo, Imperia, 1998